N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi
Don Agustín de Castelví, “padre della patria”
sarda o nobile-bandolero?(*)
Università di Sassari
Dall’expediente n° 525 relativo a una prueba de caballeros del Consejo de Órdenes risulta che il 1°
luglio del
La famiglia Castelví risulta ben
inserita nel sistema di patronazgo nell’ambito
della Corona d’Aragona. In Sardegna emerge con la “terza ondata”
dell’emigrazione nobiliare catalano-aragonese, ossia negli anni a cavallo fra
Quattro e Cinquecento; occupa spazi economici vitali a partire dagli anni del
regno dell’imperatore Carlo V, dedicandosi in qualche caso all’amministrazione
degli estados sardi della grande
feudalità catalano-valenziana (i feudi dei Carrós e gli stati di Oliva). Nella
seconda metà del secolo XVI, ma soprattutto nel primo Seicento, consolida le
proprie posizioni economiche e sociali seguendo i percorsi consueti di molte
casate trapiantate nell’isola dai regni di terraferma: acquista feudi in via di
dismissione, stipula matrimoni che assicurano più stretti intrecci parentali e
permettono di rimpinguare esigui patrimoni, contende con interminabili pleitos il possesso di terre feudali ad
altre case aristocratiche[3].
Sollecita infine favori e mercedes a
corte nonché promozioni sociali in periferia, come ricompensa dei servizi
prestati alla Monarchia nelle molte campagne di guerra e per lo spirito
d’acquiscenza dimostrato sempre durante la celebrazione dei parlamenti.
Insomma, quella dei Castelví è una storia che non si discosta dalle biografie
familiari della nobiltà della provincia catalano-aragonese descritta da John H.
Elliott[4].
Ma va anche detto che i Castelví
insediati in Sardegna costituiscono una famiglia numerosa e assai ramificata.
Gli effetti negativi che ne derivano per la conservazione accorpata del
patrimonio e per il benessere economico dei singoli sono molti e finiscono per
riverberarsi sulla compattezza familiare, sulla conservazione del prestigio
sociale e sulla tenuta dell’influenza politica della casata. Quando si scorrono
le loro genealogie[5]
si percepisce che non tutti i Castelví hanno destini e prospettive sociali
d’alto profilo. Alcuni rami della famiglia restano segregati nel villaggio, in
una dimensione sociale così ristretta che non potranno trovare collegamenti col
potere politico e quindi col favore reale. Un’esistenza confinata nella
marginalità rurale oppure una mediocre sopravvivenza in città dipendente da
modeste rendite fondiarie relegano costoro in un ruolo subalterno rispetto ai titulos della casa. Saranno per questo
il tramite indispensabile fra i vertici della famiglia, i vassalli e la gente bandolera assoldata nei momenti di
mobilitazione del grande bando dei
Castelví.
Per lungo tempo risulterà molto
evidente lo scarto fra il lignaggio dei Castelví e le disponibilità economiche
della casa in Sardegna. L’affanno continuo per migliorare la condizione
sociale, per conseguire gli agi e l’altrui considerazione che derivano dalla
ricchezza, per accrescere le finanze familiari dei segundones e dei molti ecclesiastici della famiglia è all’origine
della mancata linearità dei comportamenti dei Castelví. Sono costoro incostanti
e mutevoli nei rapporti con
Prima d’affrontare la vicenda personale
del nostro don Agustín è utile conoscere almeno sommariamente il contesto
sociale e familiare in cui egli agisce. Nel 1616 Salvador de Castelví uccide
proditoriamente, mentre dorme nel palazzo di Laconi, sua moglie Isabel
Aymerich. Il delitto segue di alcuni giorni la morte violenta di un clérigo, un uomo di fiducia della
nobildonna, eliminato ad archibugiate in campagna ad opera di banditi o di
servi di don Salvador. Il viceré duca di Gandía e
Immediatamente la famiglia fa
quadrato intorno all’uxoricida creando una fitta rete di protezioni e di
garbugli giuridici. Per sfuggire alla giustizia reale don Salvador si dà da
fare perché il giudizio venga rimesso a giurisdizioni più compiacenti che gli
assicurino le consuete impunità riservate ai nobili. Dopo aver rivendicato i
meriti della sua casa verso
Le rimostranze dei Castelví
trovano facile accoglimento a Madrid. In forza di un vecchio capitolo di corte
sardo, che impone l’obbligo di ratificare in Consiglio d’Aragona le sentenze
pronunciate dalla reale Udienza contro i nobili, la causa giudiziaria finisce a
Madrid dove è possibile rivendicare un nuovo processo davanti al compiacente Consejo de Órdenes. Non bastano il parere contrario del vicecancelliere
d’Aragona né la fermezza del viceré Gandía nel riaffermare la competenza
esclusiva della giurisdizione reale per neutralizzare le pressioni esercitate
dagli imputati negli ambienti di corte[9].
Poco tempo dopo una junta mista di
membri dei Consigli d’Aragona e degli Ordini militari delibera la competenza
giurisdizionale del Consejo de Órdenes
che a sua volta delega un suo giudice per celebrare il processo in Sardegna[10].
È così che poco dopo l’azione penale viene praticamente neutralizzata. Don
Pablo, che vuole recuperare al più presto la pienezza dei suoi poteri di
procuratore reale, ottiene a corte un ridimensionamento dell’imputazione di
correità per sé e per il padre[11].
Anche l’uxoricida don Salvador, su cui pende sempre la condanna al garrote, finisce per trovare le
scappatoie per conquistarsi l’impunità. Fugge dall’isola, si arruola prima nei tercios delle Fiandre e poi presta
servizio militare in Lombardia e in Sicilia. Alla fine i meriti acquisiti al
servizio del re legittimano la commutazione della pena capitale nel destierro, nell’esilio in uno dei regni
della Corona. A favore del supplicante giuocano la precaria condizione
economica, gli encomiabili servizi resi alla Monarchia, il perdono dei parenti
delle sue vittime e, naturalmente, la «calidad de su casa». La supplica di don
Salvador al Consiglio d’Aragona è del 22 aprile 1621: è il primo passo di un
rapido procedimento di revisione giudiziaria che si conclude l’anno dopo. Su
parere favorevole del viceré sardo conte de Erill, il perdono viene accordato
da Madrid «por ser esta causa de honor»[12].
L’impunità, dunque, è assicurata[13].
La reintegrazione sociale del signore sardo sarebbe completa se egli non
dovesse affrontare le difficoltà economiche che affliggono i cadetti di nobile
famiglia che non dispongono di una propria casa
solariega e che non trovano compensazioni materiali nella milizia. Per di
più il fratello Francisco, divenuto secondo marchese di Laconi, gli nega quella
modesta quota del patrimonio familiare che gli era stata donata dal padre.
Cadono nel vuoto anche le reiterate richieste a Madrid di una carica pubblica
(si tratta di modeste plazas di
governo nelle città di Cagliari e Sassari o del comando della cavalleria del
Capo di Sassari). Soltanto nel 1625, quando ormai questo cavaliere versa in
«estrema necessidad», il Consiglio d’Aragona gli accorda una modesta pensione
sulle rendite della Tesoreria reale di Sardegna[14].
Ci siamo dilungati sul caso di Salvador de Castelví perché rappresenta bene i
comportamenti violenti di una certa nobiltà di provincia, favoriti dalla crisi
dell’autorità reale nella periferia e sempre coperti da una giustizia oltremodo
tollerante[15].
La sua tormentata vicenda personale dà anche la misura del peso determinante
che le questioni patrimoniali finiscono per assumere nella vita della nobiltà
di secondo rango.
Nel 1629 muore il secondo
marchese di Laconi don Francisco. Lascia la vedova Francisca Lanza di Trabia e
sei figli in minore età, fra cui il nostro don Agustín. Le risorse economiche della casa
parrebbero di modesta entità se, come sostiene doña Francisca, «el estado es
muy cargado de deudas, y no hay bienes libres siendo el marqués pobre»[16]. Tuttavia i fratelli del marchese defunto, don Salvador e don
Pablo, pongono gli occhi sopra quell’esiguo patrimonio. Si adoperano per
sottrarre alla madre la tutela dell’erede del titolo (il figlio minore Lussorio,
destinato a morire di lì a poco) e concertano il matrimonio del giovane terzo
marchese di Laconi con la figlia di don Pablo. La scoperta intenzione di
controllare il mayorazgo dei Castelví
mira non solo all’accorpamento del patrimonio nelle mani dei segundones della casa, ma anche a
migliorare la condizione economica di don Pablo per consolidarne la posizione
sociale e il possesso di cariche pubbliche. La causa giudiziaria fra i fratelli
Castelví e Francisca Lanza, donna di forte carattere, «briosíssima» nel
giudizio del viceré Vaiona, ha risvolti d’inaudita violenza verbale nelle sale
del palazzo vicereale di Cagliari anche nei confronti dei giudici dell’Udienza
e dello stesso viceré[17].
Nel 1634, dopo la morte di don
Lussorio, la titolarità del marchesato di Laconi è oggetto di una nuova contesa
fra don Salvador e il nuovo erede del titolo Juan de Castelví, fratello di
Agustín. Mentre è in corso la causa davanti al Consiglio d’Aragona, Juan, in
compagnia di bandoleros in armi, dà
l’assalto alla casa dello zio per sottrargli una considerevole somma di denaro
offerta dai vassalli per sostenere la causa a Madrid[18].
Ma la soluzione dei problemi
finanziari in cui si dibattono don Salvador e don Pablo non può venire solo dal
controllo del mayorazgo della casa.
Una memoria presentata davanti al Consiglio d’Aragona evidenzia i forti
indebitamenti personali del procuratore reale di Sardegna che sono la causa di
una discutibile gestione del patrimonio reale[19].
È in forti ambasce economiche, don Pablo, ha una famiglia numerosa da sfamare e
la carica pubblica e il possesso delle encontradas
di Siligo e del Meilogu[20]
non possono assicurargli un’esistenza adeguata al suo rango di alto funzionario
del regno. Fare ricorso al re è per lui ineluttabile: chiede per sé il titolo
di marchese (otterrà quello di marchese di Cea)[21]
e indirizza i figli alle carriere militare ed ecclesiastica nella prospettiva
di un futuro inserimento nella burocrazia reale. Ma non sono le sole istanze
che don Pablo avanza a corte: chiede ancora mercedes
di varia natura, fra cui la concessione di terre demaniali nei pressi di
Cagliari (il salt di Soleminis) «para
poder tener en ellas algun poco de ganado para la provisión de su Casa»[22],
«la primera resulta de canonicato que vacare en el Reyno de Cerdeña para su
hijo Jusepe»[23]
ed infine, fra il 1626 e il 1629, la plaza
di «coadjunto con la futura sucesión en el oficio de procurador real» per il
primogenito Jaime Artal[24].
Il saldissimo legame di patronazgo assicura a questo ramo
collaterale dei Castelví molti favori, ma obbliga talvolta il vecchio
procuratore reale a qualche contropartita assai onerosa. Nel 1639 don Pablo
finirà per indebitarsi fino al collo quando sarà obbligato ad assumere la
carica di maestre de campo del tercio di fanteria che si leva in Sardegna
nel quadro della unión de armas e che
viene destinato nelle Fiandre sotto il comando del figlio don Jorge[25].
Per ricompensare i molti naturales
sardi di sangue nobile che partecipano alla spedizione, don Pablo chiederà una ayuda de costa adeguata o, in
alternativa, cinque cavalierati, cinque noblezas
e un titolo di marchese[26].
Il sostegno finanziario al tercio di
Sardegna tarderà a venire, ma le ricadute positive comunque non mancheranno per
la casa Castelví. È da quel momento che don Jorge, paggio di Filippo IV
fintanto che «se ciñó espada», viene destinato ad una carriera militare
prestigiosa nei campi di battaglia di Fiandre e d’Italia come sargento mayor prima e come maestre de campo dopo. Finirà per
conquistare la fiducia personale del sovrano, il quale gli attribuirà diversi
incarichi di grande delicatezza[27].
È tanto il credito a corte di don Jorge che nel 1647 viene ventilata nel
Consiglio d’Aragona la possibilità di concedergli la patente di governador de las armas del regno di
Sardegna, col compito di coordinare la difesa militare in caso d’invasioni
nemiche. La candidatura viene subito osteggiata dal vicecancelliere Cristobal
Crespí de Valldaura (è il primo segnale dell’ostilità dell’aristocratico di
Valencia verso i sardo-valenziani Castelví con i quali era imparentato[28])
e dal regente conte di Albatera, i
quali ravvisano nella nuova carica una diminuzione delle funzioni istituzionali
del viceré di Sardegna e un motivo «de encuentros y […] disensiones civiles
entre los naturales»[29].
Poco dopo, nel 1648, quando muore Francisco Vico, don Jorge viene gratificato
con la plaza di regente de capa y espada nel Consiglio d’Aragona[30].
La nomina solleva forti perplessità in Consiglio perché «l’administración de la
justicia» del regno di Sardegna richiederebbe le competenze di un letrado, e non di un militare, e perché
il candidato «no tiene vassallos algunos por ser hijo segundo en su casa». Ma
don Jorge è persona «de mucha sangre, y gran soldado» e per lui si può fare
un’eccezione[31].
La biografia del primogenito Jaime
Artal de Castelví ha tratti comuni con quella del fratello don Jorge. Agli
inizi, una carriera militare lunga, tormentata ma limpidamente commendevole:
dopo aver servito il re per sette anni con una compagnia di fanteria nello
stato di Milano, era stato trasferito nelle Fiandre e lì aveva prestato
servizio per altri cinque anni; recatosi a corte per ottenere una ricompensa
dal re, sulla via del ritorno in Sardegna era stato fatto prigioniero dai mori
e condotto a Tunisi. Dopo quattro anni di prigionia ottiene la libertà al
prezzo di 15 mila scudi d’argento[32].
Col ritorno nel regno di Sardegna, la successione al padre nel titolo
marchionale gli apre la strada per la carica di procuratore reale in Sardegna.
A dispetto delle difficoltà incontrate nella fase del consolidamento economico
e politico, la casa collaterale dei Castelví finisce per costruirsi una
posizione di grande prestigio e di sicurezza economica all’ombra della Corona.
Col tempo sarà capace di conquistare spazi politici di primo piano, specialmente
dopo la promozione di don Jorge a regente
del Consiglio d’Aragona.
Tutto questo avviene – vale la
pena di notarlo - al tempo della privanza
del conte-duca di Olivares, quando le fortune della nobiltà provinciale
dipendono più che mai dal favore reale. Per l’aristocrazia sarda l’adesione
alla politica della Monarchia non conosce riserve né esitazioni. Per la
pressante propaganda del regente
Vico, principale interprete nell’isola della volontà del conte-duca, il
sostegno all’unión de armas è pressoché
illimitato. Le grande famiglie fanno a gara ad armare tercios per la guerra di Catalogna e ad inviare nei teatri della
guerra consistenti quantità di viveri per l’approvvigionamento delle truppe
castigliane. A muovere i nobili sardi è solo il valore di una fidelidad senza condizioni o sono
determinanti le prospettive di ricompense materiali e di carriera? Sicuramente
l’affannosa ricerca di migliori condizioni economiche è decisiva per orientarsi
verso un vincolo tanto forte con la causa della Corona e per una dedizione
politica assoluta che non può non destare sorpresa in famiglie d’origine
catalana e aragonese.
Certo è che in questo tempo le
promozioni sociali ed economiche tanto agognate crescono sensibilmente. I
bilanci finanziari e il credito sociale delle case aristocratiche dipendono
sempre di più dal patronazgo real.
Quando nel 1642 Juan de Castelví, quarto marchese di Laconi e visconte di
Sanluri, si presenta a Madrid come síndico
del parlamento celebrato dal viceré Fabricio Doria per offrire il donativo di settantamila scudi votato
dagli stamenti, il sovrano gli chiede subito di fare a sue spese la leva di un
reggimento di cavalleria per la guerra di Catalogna. Un reggimento di
settecento cavalieri diviso in dieci compagnie viene armato e trasferito sulla
terraferma al comando del marchese. Gli ufficiali che lo comandano sono, oltre
don Juan, il fratello minore Agustín e alcuni rampolli dell’aristocrazia sarda
legata da vincoli di parentela o di clientela con i Castelví. Il reggimento si
distingue nella presa di Monzón, acquisisce meriti sul campo di battaglia (lo
stesso Agustín verrà fatto prigioniero dai francesi), sarà infine oggetto di
riforma e di fusione con un reparto di soldati borgognoni.
Dal suo canto anche il marchese di
Villasor Blasco de Alagón, il rivale dei Castelví, raccoglie le sollecitazioni
di Madrid. Il nobile sardo più altolocato è maestre
de campo del tercio di sardi che
egli leva a sue spese nell’isola e conduce in Catalogna per sostenere
La partecipazione all’unión de armas dei nobili sardi, le
straordinarie contribuzioni in denaro, in grano, in vettovagliamenti garantite
dal regno di Sardegna alla Corona nella guerra di Catalogna accrescono il
credito di alcune case aristocratiche a Madrid e di conseguenza assicurano
importanti mercedes personali[34].
La promozione sociale assicurata dal patronazgo
real vede i Castelví beneficiari di prima fila fra la nobiltà sarda. Negli
anni quaranta del Seicento la casa ha ormai assunto un ruolo preminente e forma
assieme gli Aymerich, legati ai Castelví da vincoli di parentela e da affinità
politiche, un formidabile gruppo di pressione.
È da quel momento che la casa può
confrontarsi ad armi pari con la più prestigiosa casa rivale degli Alagón e può
persino permettersi di uscire allo scoperto nel contrastare l’azione di governo
dei viceré. Sulle prime la contrapposizione al potere monarchico è del tutto
occasionale, ma consente di verificare quanto sia accresciuta l’influenza
politica della casata. L’autoritarismo del viceré Moncada duca di Montalto, che
nega a don Juan de Castelví l’autorizzazione ad usufruire d’una merced reale d’esportazione in
franchigia di grano e di legumi, determina un conflitto assai aspro che
coinvolge vari nobili del regno e lo stesso Consiglio d’Aragona. La vertenza è
destinata a concludersi con uno smacco politico per il viceré[35].
Non v’è dubbio che l’episodio
segna una significativa vittoria per il nobile Castelví e una pubblica
legittimazione della sua posizione sociale preminente. Certo le difficoltà di
rapporti del viceré Montalto con tutta la nobiltà sarda hanno anche altre cause
più sostanziali, che vanno dalle questioni di preminenza del ruolo vicereale
spesso denegate dalle grandi casate[36];
passano per i tentativi messi in atto dalla nobiltà cagliaritana d’imporre
fuori del parlamento, in riunioni irrituali dello stamento militare,
l’esclusività ai naturales degli oficios e dei benefici ecclesiastici[37];
giungono ad un’ostilità sorda ma palpabile di molti nobili quando la repressione
del banditismo, voluta con molta energia dal viceré, tocca da vicino interessi
signorili[38].
Il duca di Montalto non si limita a perseguire i malfattori e i ladri che
commettono una quantità enorme di delitti, di omicidi e di furti nelle
campagne, ma tenta di spezzare il perverso legame fra i banditi e coloro i
quali nei villaggi accordano protezione e mantengono al loro servizio uomini
armati pronti ad essere impiegati negli scontri fra fazioni rivali[39].
Una pagina nel memorial che il duca
invia al re Filippo IV sulle cose di Sardegna rappresenta bene la situazione
che egli trova nel regno di Sardegna quando vi giunge come viceré: «Ardía
Zerdeña entonces – scrive Moncada al sovrano - en llamas de discordia, de ira,
y de vengança, hallé los campos, las calles, todo el Reyno, Señor, hallé
cubierto de sangre, los tribunales sin uso, corrida
C’è del vero nella rappresentazione
della realtà sarda tracciata forse con eccessiva enfasi da Montalto. Ma è una
verità parziale perché egli tace sul sostanziale fallimento del suo governo.
L’effettivo potere che egli esercita sul territorio è quasi nullo per via
dell’ostilità della classe dirigente “naturale” del regno. Per governare con
successo non basta il sostegno della Audiencia
e della burocrazia reale, ma occorre l’appoggio della nobiltà, delle oligarchie
municipali e, prima di tutto, del regente
provinciale nel Consiglio d’Aragona. Invece questa formidabile coalizione di
forze, sicuramente orchestrata da Francisco Vico in questa fase storica, è
profondamente ostile a Moncada. Le frizioni di questo viceré impolitico ed
autoritario con i sudditi sardi sono quanto mai inopportune nella fase cruciale
della unión de armas quando
In un passo significativo della sua
cronaca Jorge Aleo lamenta come i grandi meriti acquisiti in quegli anni dai principales sardi nel sostenere le
guerre e le altre grandi necessità della Monarchia non abbiano trovato la
giusta eco politica fuori dal regno sardo e siano stati trascurati dagli
scrittori del tempo[41].
Vuole, Aleo, che l’adesione dei sardi alla causa politica della Monarchia sia
ufficialmente riconosciuta e propagandata. La partecipazione dei sardi è corale
e piena in occasione della guerra di Catalogna; e si rinnova poco dopo quando
all’armada di don Juan de Austria
impegnata nella repressione dei moti di Masaniello vengono assicurati
consistenti aiuti alimentari, e quando partecipa – protagonisti alcuni nobili
sardi, fra cui don Agustín de Castelví - alla repressione della rivolta di
Palermo nel 1648[42].
Per alcune casate signorili sarde
fedeltà e servizio al re sono valori assoluti, da praticare orgogliosamente in
ogni circostanza. In realtà non è sempre così. Quando il rapporto di patronazgo fra il sovrano e le élites provinciali si incrina,
specialmente quando si riducono i favori e le prebende e quando vengono lesi
privilegi e prerogative nobiliari, sono gli stessi protagonisti dell’ausilio
militare a mutare repentinamente il loro atteggiamento. Come vedremo, molti si
faranno protagonisti della fronda parlamentare e della ribellione signorile che
si identificherà proprio nella persona di don Agustín de Castelví.
È giunto il momento di disegnare la
biografia del giovane rampollo della casa di Castelví. Nel 1649, quando torna a
Cagliari reduce dalle guerre di Catalogna, Agustín ha ventiquattro anni e su di
lui sono riposte le speranze di continuità della casa nobiliare perché suo
fratello, il marchese don Juan, non ha eredi diretti. Per il giovane cavaliere
di Calatrava il diritto a succedere nel titolo di marchese di Laconi è motivo
di comportamenti orgogliosi ma anche fuori delle regole. I regentes del Consiglio d’Aragona, costretti a pronunciarsi in
diverse consultas sulle sue
malefatte, lo definiscono come «bullicioso y inquieto», tanto sedizioso e
irrequieto da provocare il riaccendersi degli antichi contrasti fra le case di
Castelví e di Villasor.
Negli ambienti dell’aristocrazia
cagliaritana si vocifera che il pretesto per il rinfocolarsi della faida
nobiliare sia un galanteo, una
contesa galante per i favori di una nobildonna. La notte del venerdì santo del
La faida cade in un momento
politico assai delicato. Il principe Teodoro Trivulzio è in procinto di
lasciare la carica di viceré di Sardegna e per consuetudine l’interinato del
viceregno spetterebbe al governatore di Cagliari Bernardino Matias de
Cervellón, cognato del marchese di Cea e aderente di primo piano alla fazione
dei Castelví. In quei difficili frangenti è quanto mai pericoloso lasciare uno
spazio politico così importante ai Castelví, rinunciando di fatto
Con
accenti di forte preoccupazione il principe cardinal Trivulzio informa il
Consiglio d’Aragona del montare dell’inimicizia fra le due fazioni: «no dándose
por entendidas las partes, continuaron en lo exterior, como antes, pero
empeçaron a caminar con gente, en particular Villasor, y con tanta publicidad
que ya todo el lugar se alborotava, y era infalible que sucedería mayor mal por
abraçar estas dos familias lo más del Reyno»[43]. Nei giorni seguenti il marchese di Villasor, presunto
mandante dell’attentato, era uscito sulla piazza cagliaritana scortato da oltre
trenta criados ostentando
l’intenzione di resistere con le armi ad eventuali rappresaglie dei Castelví[44].
Come se non bastasse, il conflitto pare destinato ad assumere implicazioni
politiche quando viene ventilata la possibilità che il nuovo viceré di Sardegna
sia il conte di Oropesa. Il marchese di Laconi si affretta a mandare precisi
segnali politici al Consiglio d’Aragona e ricusa di fatto la designazione,
ritenuta inopportuna perché Oropesa, cugino del marchese di Villasor, è
sgradito alla casa di Castelví[45].
La soluzione che pare più acconcia
ad un uomo d’armi più che di chiesa qual’è Teodoro Trivulzio, abituato ad
andare per le spicce con i banditi ma anche con i signori e gli ecclesiastici[46],
è quella di confinare i due nobili nei rispettivi feudi di famiglia.
L’allontanamento da Cagliari risolve i problemi dell’ordine pubblico nella
capitale, ma aggrava la ribollente situazione nelle campagne. Nei suoi feudi
don Blasco de Alagón raduna ed arma prontamente i suoi vassalli, fortifica la
sua casa nel villaggio di Villasor. Dal suo canto don Agustín, d’intesa col
fratello Juan e col cugino marchese di Cea, si dispone a fare altrettanto - ed
anche di più - nelle terre del marchesato di Laconi e nella viscontea di
Sanluri. Raduna più di cinquecento archibugieri, circonda Villasor e sfida
Blasco de Alagón a duello o a scendere in battaglia campale[47].
In pari tempo i principali esponenti della nobiltà contigui ai Castelví (il
governatore di Cagliari don Bernardino de Cervellón, i conti di Sedilo, di
Montalvo, di Monteleon, Villamar, Mores, più altri nobili) mobilitano i loro
vassalli contro la casa d’Alagón. Con la promessa d’esenzione dai tributi
feudali per tre anni, viene messo assieme un piccolo esercito di contadini e di
pastori (sono, al principio, circa mille e cinquecento) che, armati e
indisciplinati, convergono da ogni parte dell’isola su Villasor, «atravesando
el Reyno y executando varias insolencias en los panes y ganado»[48].
I seguaci armati dei due bandos
nobiliari si aggregano in diversi contingenti, si mettono in marcia e prendono
possesso, in nome dei Villasor e dei Laconi, dei luoghi che attraversano
devastando i campi coltivati e decimando gli allevamenti[49].
Alla fine la fazione dei Castelví conterà circa tremila cavalieri, quella di
Alagón un numero imprecisato, ma inferiore. Sono, in ogni caso, «muchíssimos»,
scrive allarmato il viceré Trivulzio al conte duca di Olivares, «todos dicen
que de las cosas de Oristán acá no ha avido semejante alboroto»[50].
Quando il conflitto armato pare
ormai inevitabile, Trivulzio impone la sua autorità ed ordina agli ufficiali
reali a lui fedeli di trasferire sotto scorta a Cagliari il marchese di
Villasor, che si trova in evidente minoranza di forze. Lo fa rinchiudere prima
nella torre dell’Elefante e dopo gli commina gli arresti domiciliari. Resta in
libertà, invece, don Agustín, che ne approfitta per far uccidere
proditoriamente ad archibugiate in piena calle
mayor don Francisco Malonda, un esponente notorio della fazione avversa. Il
delitto viene commesso nei pressi del palazzo dei Castelví in pieno giorno e
così palesemente che subito molti uomini armati si precipitano fuori della casa
ed occupano minacciosi alcuni punti chiave della rocca del Castello onde
favorire la fuga dei responsabili dalla città[51].
Con i sicari forestieri abbandona Cagliari anche don Agustín[52].
Atti di bandolerismo così gravi e patenti, commessi dai principali
esponenti della nobiltà alla luce del sole nel Castello, sede ufficiale del
potere reale, non sono più tollerabili. Costretto dal precipitare degli
avvenimenti a rimanere a Cagliari per non cedere l’interim del viceregno ad un
nobile locale, il cardinal Trivulzio, d’intesa con la reale Audiencia, passa a vie di fatto. «El excesso fue grande, -
scrive a Madrid - mayormente por sus circunstancias, […] y para mayor decoro de
la justicia se va prosiguiendo assí contra los principales como de los
adherentes, que han conmovido el reyno, y les han asistido con tanta publicidad
y escándalo»[53]. Per riassumere il controllo dell’ordine pubblico fa
segregare il marchese di Laconi nella torre dell’Elefante e il marchese di Cea
nella torre del Leone ed espelle da Cagliari tutti i forestieri privi di un
regolare permesso di soggiorno rilasciato dal regente la cancillería.
Dal suo canto il sovrano, informato direttamente degli avvenimenti sardi,
dispone che i marchesi di Villasor, di Laconi e di Cea e don Félix Masons,
primogenito del conte di Montalvo, si presentino immediatamente a corte, pena
la dichiarazione d’infedeltà al re e la confisca dei beni. Invece don Agustín,
per evitare l’arresto, aveva già lasciato prudentemente Cagliari per
L’intervento della corte pare
proprio provvidenziale. Quando i nobili sardi sono ormai in mare, il cardinal Trivulzio invia a
Madrid una relazione molto preoccupata segnalando come i fatti di Villasor e di
Cagliari abbiano posto seriamente in pericolo l’ordine pubblico del regno: «la
comoción ha sido universal, y de calidad, para dar mucho cuydado, porque todo
el Reyno estava alborotado, y dividido en estas dos parcialidades, a las quales
acudían con escuadras formadas apellidando los nombres de Villasor e de Lacono,
y alojándose en los lugares, y haciendo daño a los campos, y ganados, que en
tanto número a Don Agustín se havían agregado cerca de tres mil cavallos con
muchas personas particulares, y aunque conseguí el desmandar la jente,
reconociéndose que esto no era bastante remedio para assegurar la quietud
pública, y el consuelo de los vassallos, y particularmente de los habitantes de
este Castillo y Ciudad, y que el servicio de Vuestra Magestad requería se
estirpassen de raíz estos malos principios, de los quales cada hora nacían
inconvenientes, y havían de llegar a poner en mayores contingencias, resolví
con el parecer de estos Ministros remitir a los Reales pies de Vuestra Magestad
los Marqueses de Villasor, Laconi, y Cea que tenía presos, por no haver en el
Reyno modo de poderse assegurar dellos, y por ser las cabeças principales de
quienes dependían los demás, teniéndose por cierto que en qualquier manera que
ellos quedassen no podía assegurarse sossiego y quietud pública […] estimé
dever tener atención de no hacer sin necessidad empeños públicos, ni
experiencia destas fuerças quando me es dificultoso juntar cinquenta hombres
para las guardias de las puertas»[55].
Col trasferimento coatto dei tre
marchesi nei regni di terraferma l’onere di controllare i capi dei bandos nobiliari sardi ricade sulla
corte ma, nel caso di Villasor, sul viceré arcivescovo di Valencia. Preoccupato
per il considerevole numero di parenti ed amici dei Castelví che risiedono nel
territorio soggetto alla sua giurisdizione, l’arcivescovo invita il Consiglio
d’Aragona a consentire al marchese di Villasor di lasciare Valencia per
Saragozza. I Castelví si sono già dimostrati ostili a Blasco de Alagón e, spade
alla mano, sono venuti a diverbio con un loro consanguineo che non si era
allienato sulle loro posizioni: «si estos principios no se atajan – scrive al
Consiglio d’Aragona il viceré - desde luego volberán sin duda alguna a
introducirse en Valencia los vandos que en Zerdeña se an sosegado»[56].
Intanto i marchesi di Laconi e di Cea “supplicano” da Toledo il re per essere
trasferiti agli arresti domiciliari a Madrid in casa del regente don Jorge de Castelví[57].
Ma il concentramento dei facinorosi Castelví a corte non pare una soluzione
conveniente: per il Consiglio d’Aragona è molto meglio destinare i tre marchesi
alla prigionia in differenti castelli di Castiglia, lontano dalle regioni
d’origine e dalle tentazioni di nuovi conflitti[58].
È una prigionia scomoda ma di breve
durata. Dopo qualche giorno, il diciotto d’agosto, per iniziativa di Jorge de
Castelví, il principe di Squillace (suocero dello stesso Castelví) e la
marchesa di Bayona (madre di Villasor) stipulano a Madrid un atto di concordia per conto dei tre marchesi e
di don Agustín[59].
In nome della fedeltà al sovrano e di una disponibilità di servicio mai venute meno in nessuna circostanza, – essi sostengono
- Cea, Villasor e Laconi chiedono la revoca degli arresti[60].
Vogliono rientrare in Sardegna, i tre marchesi. Ma il Consiglio d’Aragona è di
diverso avviso: i processi a carico dei tre nobili sono ancora in corso davanti
alla Audiencia di Sardegna e
l’imminenza della celebrazione del parlamento sconsiglia il rientro nell’isola
di personaggi pericolosi e politicamente inaffidabili, che assumerebbero per
forza di cose un ruolo di primo piano nelle cortes.
Come suggerisce il nuovo viceré Beltrán de Guevara, è opportuno che si proceda
con prudenza, «que se camine despacio en la resolución final que se huviere de
tomar en estos cavalleros»[61].
La decisione è quanto mai saggia
perché le turbolenze della fazione dei Castelví non hanno fine. Allontanati i
capi famiglia, sono i Castelví di secondo rango a farsi protagonisti di nuovi
atti di resistenza all’autorità reale. Nelle more dell’arrivo del nuovo viceré
dopo la partenza del principe Trivulzio, Madrid aveva escluso deliberatamente
il governatore del Capo di Cagliari Bernardino Matías de Cervellón dalla carica
di viceré interino e aveva designato il visitador
don Pedro Martínez Rubio[62].
Era questi un prelato di sicura affidabilità che stava compiendo un’ispezione
patrimoniale nel regno. Il giorno del giuramento del vescovo castigliano
Cervellón si presenta nella cattedrale, accompagnato da don Josep de Castelví e
da un gruppo di canonici del capitolo; con violenza rimuove fisicamente
Martínez Rubio dal trono del viceré. Spalleggiato da un largo seguito di
sostenitori tumultuanti, Cervellón, in virtù degli privilegi connessi alla
carica di governatore di Cagliari, rivendica per sé la funzione interinale e si
sostituisce a Martínez. L’atto del nobile cagliaritano e dei canonici seguaci
del Castelví è un’aperta insubordinazione alla decisione del Consiglio
d’Aragona. Solo il prudente comportamento del vescovo Martínez Rubio impedisce
che in quel momento, nella chiesa, la situazione degeneri[63].
Ma se l’uomo di chiesa può essere conciliante, il Supremo d’Aragona non può
tollerare il nuovo episodio di ribellismo dei signori cagliaritani. Quando il
nuovo viceré Beltrán de Guevara giunge nel regno, porta con sé istruzioni
segrete che dispongono il confino a Valencia dei cinque canonici capeggiati da
Josep de Castelví e la prigione del governatore Cervellón nel castello di Mahón[64].
Insomma, la fazione dei Castelví, seppure con esponenti di secondo piano, non
sa rinunciare a contrapporsi ai rappresentanti della Monarchia.
Nel mentre, dopo sei mesi di
confino in Castiglia, i capi della famiglia continuano a “supplicare” il favore
reale e a chiedere di essere ammessi a corte[65].
Ma a Madrid l’emarginazione resta quasi totale: ai due è fatto divieto di
«entrar en Palacio, ni visitar ningún Ministro»; solo più tardi viene loro
consentito di «ver a los juezes, sin andar en público por la villa»[66].
Il Consiglio d’Aragona è memore del suggerimento di Trivulzio di guardare a
vista i due marchesi di Laconi e di Cea e di tenerli lontani da Cagliari in
occasione del prosssimo parlamento. Ma quando l’improvvisa morte del viceré Guevara impone il
rinvio d’un anno delle cortes di
Sardegna, una benevola consulta del
maggio 1652 stabilisce che «ha mudado la materia de estado, y cessado los
motivos que obligaron a entretener los Marqueses de Laconi y Cea en España» e
perciò si può «permitir a los dos que buelvan a sus casas, y que aquí se les
diga que estando tan próximo el Parlamento ha resuelto Su Magestad que assistan
en él, fiando de su zelo, y obligación que obrarán en su Real servicio como
hasta aquí lo han hecho»[67]. È un bell’esempio, questa consulta, della logica di compromesso che sovente presiede i
rapporti fra corona e ceti privilegiati. Punire i nobili che si sono resi
protagonisti di comportamenti sediziosi e d’illegalità non comporta
necessariamente la rinuncia al loro apporto in parlamento quando il re deve
esigere il donativo. Ispiratore di
questa linea è l’arcivescovo d’Oristano Pedro Vico[68],
figlio di quel Francisco Vico che aveva eretto ad arte di governo la pratica di
mediazione fra gli interessi del centro madrileno e quelli della periferia
sarda e su di essa aveva costruito le sue grandi fortune politiche.
Dunque il Consiglio manda liberi i
due marchesi della casa Castelví, mentre si riserva di decidere la sorte del
marchese di Villasor. Come principale imputato dei torbidi sardi assieme a don
Agustín, Blasco de Alagón avrebbe dovuto attendere in Castiglia la conclusione
dell’istruttoria del processo in corso presso
Con la morte di don Blasco cessano
le lotte di fazione. Non danno tregua, invece, i fatti di delinquenza comune,
che conoscono un’impennata impressionante quando la peste sconvolge i precari
assetti sociali ed economici delle campagne. In una relazione parziale sulla sua visita della Sardegna Martínez Rubio
informa Madrid che «no dexaron de ofrecerse entre la nobleza y la plebe
diferencias dificultosas de ajustar. Los delictos de homicidios enormes que se
cometieron en el otro cabo [di Sassari]
en este tiempo que estaba cerrado el comercio, y particularmente en el condado
de Goceano se castigaron exemplarmente pagándolo con la vida quatro de ellos, y
en la villa de Ósquiri otros cinco, con lo qual se pacificaron los complices»[73]. Sono, è chiaro, casi sporadici perché solitamente la
giustizia del re è inesistente nei villaggi sardi dove, nel migliore dei casi,
a dettare le regole è l’arbitrio di un solo signore o di un principale poderoso.
Spesso nel mondo rurale la vita
quotidiana è scandita dagli scontri fra bande armate, dagli omicidi perpetrati
da singoli o da cuadrillas, dai furti
di bestiame, dalle rapine attuate addirittura entro gli abitati. L’epicentro
del banditismo rurale è ancora il capo di Sassari, dove a metà Seicento
«homicidis, robatoris, y altres graves delictes» si verificano senza tregua. Il
popoloso e ricco paese di Nulvi e il vicino villaggio di Chiaramonti sono il
teatro della faida che si combatte da lungo tempo fra due famiglie della
piccola nobiltà locale, i Delitala e i Satta. Anche la popolazione è schierata
in due fazioni che si scontrano di continuo con violenze e delitti d’ogni
genere commessi in nome della casata nobiliare di riferimento[74].
Un caso a parte, poi, è il dilagare
nell’isola dei coronados, dei
tonsurati, che entrano nello stato ecclesiastico per godere del privilegio di
foro. Il fenomeno s’inquadra nell’ampia casistica della delinquenza comune: con
grande «escarmiento» della popolazione costoro commettono nei villaggi una gran
numero di delitti contro le persone e le proprietà, trovando dopo comodo asilo
nelle chiese campestri, e non solo[75].
È nel clima burrascoso degli ultimi
tempi della grande pestilenza sarda (1656) che Agustín de Castelví ricompare in
Sardegna. La morte senza eredi del fratello don Juan gli garantisce la
successione al titolo di marchese di Laconi. Si presenta a Sassari, dove il
contagio è ormai solo un terribile ricordo, perché lì risiedono la casa di
Castelví e il viceré conte di Lemos che fra mille difficoltà sta portando a
conclusione il parlamento[76].
Lemos ha un disperato bisogno del
consenso della nobiltà per chiudere le cortes.
Dal suo canto don Agustín non ha ancora risolto la sua complicata posizione
giudiziaria e si trova ristretto nel palazzo di famiglia dopo una breve
permanenza nelle carceri reali. Nasce a quel punto l’incontro degli interessi
fra il viceré, Castelví ed i parlamentari suoi sostenitori. La richiesta
formale dei tre bracci di “perdono” per i delitti commessi da Castelví prima
della peste è accolta da Lemos con particolare benevolenza. Bisogna salvare la
forma, però: concessi gli arresti domiciliari dietro pagamento di una cauzione
di diecimila ducados, il viceré attiva le procedure per
celebrare, nella veste di juez comisario
reale per i cavalieri di hábito, il
processo istruito nel
Nelle more del conflitto
giurisdizionale la notte del 7 agosto, nei pressi del palazzo dei Castelví, una
ronda comandata dall’assessor criminal
della Governación di Sassari
s’imbatte in un gruppo di uomini armati e pretende d’effettuare il
riconoscimento. Dopo aver pronunciato la consueta formula «téngase al Rey», la ronda reale viene fatta oggetto d’una scarica
di fucileria. Restano feriti da una parte un ministro de justicia e un soldato; dall’altra, un uomo cade al
suolo morto ed altri restano feriti. I protagonisti dello scambio
d’archibugiate sono i criados di don
Agustín, i quali si rifugiano prontamente all’interno del palazzo ed aprono il
fuoco dalle finestre. Nella successiva perquisizione i soldati reali rinvengono
don Agustín a letto e uno schiavo della marchesa vedova con ferite recenti
d’armi da fuoco. Suo malgrado, il viceré è costretto ad intimare a don Agustín
il confino nella villa di Tiesi o nel
castello dell’Inquisizione. Ma il marchese di Laconi non se ne dà per inteso:
disubbidisce all’ordine, adducendo il pretesto che il villaggio è infestato
dalla malaria e che il castello sassarese è impraticabile, e cerca asilo nella
casa professa della Compagnia di Gesù[79].
Il nuovo clamoroso episodio di «resistencia
a la justicia» rende indifendibile la posizione giudiziaria del nuovo marchese
di Laconi[80].
In un maldestro tentativo di difesa don Agustín scrive a Madrid, fornisce
un’inverosimile versione dei fatti di Sassari e accusa paradossalmente il conte
di Lemos di comportamenti scorretti a lui pregiudizievoli[81].
Ma il Consiglio d’Aragona ha problemi ben più importanti da risolvere: vuole
che si chiuda finalmente il tormentato parlamento e il viceré Lemos, proprio
nel momento in cui sta per lasciare il viceregno, pare in procinto di riuscirvi[82].
A quel punto non sono più necessari altri voti né appoggi qualificati nello
stamento militare. Non v’è ragione, quindi, che Lemos ceda a nuovi compromessi.
Così il Consiglio d’Aragona ordina ai giudici della Audiencia d’arrestare Laconi per il recente episodio di resistenza
armata alle truppe reali, per l’antico delitto Malonda e per i ripetuti atti
d’insubordinazione verso il viceré[83].
La severità dimostrata una volta
tanto nei confronti dell’aristocratico sardo-siciliano va inquadrata nel clima
di repressione dei reati comuni instaurato dopo la cessazione della pestilenza
dal nuovo viceré marchese di Castel Rodrigo. Col ritorno alla normalità sociale
il viceré è impegnato in una lotta senza quartiere contro il banditismo
dilagante. La cronaca coeva di Aleo descrive diversi episodi di straordinaria
portata per l’estensione territoriale e per la dimensione della pericolosità
sociale. Aleo ne attribuisce la causa ad una misura inopportuna del viceré,
cioè al disarmo indiscriminato dei sudditi sardi ed al sequestro di tutte le
armi da fuoco rimaste in circolazione. Così, per rispetto e per paura delle
sanzioni la gente rispettabile andava disarmata, mentre «los bandeados,
facinorosos y ladrones - scrive l’Aleo - , perdido el temor y respeto a Dios y
a la justicia, se atrevían a cometer todo género de maldades, hurtos,
homicidios»[84].
Il lungo elenco degli episodi più clamorosi (dagli assalti alle abitazioni dei
villaggi del Cagliaritano ad opera di cuadrillas
di centinaia di uomini, fino alla resistenza armata d’interi villaggi contro i
malfattori che li assediavano) dà la misura palpabile dell’ingovernabilità del
mondo rurale: «con essa libertad handavan y discurrían los ladrones; y a cada
passo se cometían atroces omicidios y latrocinios en poblado y fuera, con que
nadie tenía segura su vida ni azienda»[85].
Allo stato attuale delle conoscenze
storiografiche non è facile stabilire se fossero o no organici i collegamenti
fra i nobili “inquieti” e il banditismo rurale. Certo le faide nobiliari di
Nulvi, il confronto armato fra i bandos
degli Alagón e dei Castelví e per ultimo la grande repressione nel nord
Sardegna della congiura del marchese di Cea (ne parleremo dopo) sono esempi
inequivocabili di una costante compromissione fra signori e banditi. Le
condizioni strutturali delle campagne, caratterizzate dallo spopolamento, dalla
rarefazione dell’habitat e dall’assenza del potere reale, fanno sì che il
controllo sociale venga assunto per forza di cose da ristretti gruppi dominanti
facilmente identificabili nei nobili di basso rango e nei principales dei villaggi. Nobili e cavalieri esercitano in molti
casi un’influenza decisiva che porta i banditi ad assumere il ruolo di una
sorta di milizia d’obbedienza signorile. Non è improprio parlare anche per
Si diceva prima della debolezza dell’autorità
reale. Quanto essa mancasse di vigore, lo dimostra l’indulgenza nei confronti
di don Agustín. Il suo caso giudiziario è destinato a ridimensionarsi perché a
favore del nobile sardo-siciliano giocano le parentele a corte e i disegni
politici di alcuni títulos sardi. «Como las personas de esta
calidad – scriverà il viceré Ludovisi qualche tempo dopo - hazen tan difícil la
averiguación no devió hallarse toda la prueva necesaria, lo qual junto con la
piedad fue ocasión de que se fuese afloxando y contemporizando con él y salió
de sus prisiones o arrestos con fianzas de representarse que en Castilla se
llaman de la Haz»[87].
La libertà condizionale,
l’investitura formale dei feudi ereditati dal fratello, il matrimonio con Juana
Dexart e la nascita di tre figli lasciano sperare che «con la mudanza de estado
y verse con sucesión se le avrían pasado los verdores». Così nel 1662 giunge il
«perdón por los delictos anteriores» da parte del sovrano[88].
A quel tempo don Agustín ha 36 anni. L’età matura, la riabilitazione del re e
l’assunzione di nuove responsabilità come capo della casata non modificano
tuttavia i suoi «verdores», ossia le irriducibili attitudini alla violenza
proprie di un giovane.
Nell’agosto del 1663, un anno dopo
il perdono reale, un nuovo delitto, per certi aspetti più clamoroso dei
precedenti, conferma i regentes del
Consiglio d’Aragona nella convinzione che egli fosse veramente
“incorreggibile”. Oggetto della violenza è stavolta un esponente di primo piano
della stessa famiglia dei Castelví, quel Jaime Artal che per difendere il
prestigio della famiglia e gli interessi di consorteria, si era schierato col
nipote contro il bando degli Alagón
durante i torbidi del 1651. Dopo aver subito le sanzioni reali con l’esilio
temporaneo in Castiglia, don Jaime Artal aveva riacquistato tutto il suo
prestigio ed aveva ripreso ad esercitare la funzione di procuratore reale di
Sardegna. Ha ormai raggiunto un’età avanzata (56 anni) quando, nell’agosto del
1663, nella cattedrale di Cagliari subisce l’aggressione di suo nipote e
cognato don Agustín. Dietro l’alterco, che ha come teatro prima l’interno della
chiesa e dopo la piazza antistante, si celano intricati motivi d’interesse. Un
debito parzialmente non onorato da don Agustín sulla dote di sua sorella, andata
in moglie al procuratore reale, aveva determinato don Jaime Artal a porre
l’embargo della Procurazione reale sull’esportazione di una partita di grano
venduta da Agustín ai patrons di due
barche francesi[89].
Il motivo del contendere è poca cosa, ma sufficiente per i due nobili per
venire alle spade. Il più anziano marchese di Cea ha la peggio e resta ferito
al volto.
L’aggressione al procuratore reale
non può risolversi come una banale lite di famiglia perché si tratta di
un’offesa portata ad un ministro del re. La misura è colma per il
vicecancelliere Cristobal Crespí de Valldaura, sempre più contrariato dalle
ripetute trasgressioni da bandolero
di don Agustín. È
di quel tempo una consulta del
Consiglio d’Aragona che denuncia come «el Marqués de Lacony por diferentes
delictos que havía cometido en el reyno de Cerdeña andaba los meses pasados en
campaña con gente de armas, causando en él muchos alborotos»[90]. A quel punto il viceré
principe di Piombino dispone l’arresto del marchese nella torre dell’Elefante,
«paraque aquel Reyno entienda con el castigo de los delinquentes la veneración
que se deve a
Nel Supremo d’Aragona non spira
aria favorevole per don Agustín. Quando ne prende coscienza egli ricusa la
giurisdizione reale e, nella sua qualità di cavaliere di Calatrava, rivendica
la competenza del Consejo de Órdenes
a conoscere la causa. Il conflitto giurisdizionale fra i due Consigli suscita a
corte molti dubbi e perplessità, non fugati neppure dal risoluto
vicecancelliere d’Aragona che rivendica il rispetto delle procedure ordinarie,
onde evitare «el grave perjuicio y mal exemplar que de lo contrario resultaría»[93].
Le ragioni giuridiche dell’imputato vengono sostenute dall’arcivescovo di
Cagliari Pedro Vico, personaggio che da qualche anno ha assunto un rilievo
politico di primo piano nel regno di Sardegna[94].
A corte le istanze provenienti dalla provincia trovano facile accoglimento
quando è in giuoco l’impunità dei nobili: Filippo IV prende atto del conflitto
di competenza fra i due Consigli e decreta che la soluzione deve venire dai
deliberati della madrilena Junta de
competencias[95].
Ma il
vicecancelliere d’Aragona non recede dalla posizione di severo censore delle
violenze di Castelví: «todos estos precipicios – sostiene Crespí de Valldaura
in Consiglio - acaban de mostrar la condición deste Cavallero, y su
incorregibilidad, pues acumulando delitos a delitos, no quiere por jueces ni en
Cerdeña al Virrey, ni en Madrid a los Consejeros de Aragón ni Órdenes, ni hacer
otra cosa que formar en su casa un Tribunal de domésticos en que sea él la
parte, y juez, y declare que él tiene razón, y que el Marqués de Cea ha faltado
a las obligaciones de Cavallero rompiéndole la palabra; y usurpando con esto el
de Lacony la jurisdición real y ecclesiástica, y ofendiendo a todas parece al
Consejo que con sujetos desta calidad y costumbre de delinquir se havía de
tomar expediente para que sean castigados, sin el rodeo de competencias porque
se dé satisfación a la justicia pues a todos los ministros deve guiar a este
fin el zelo de su administración»[96]. Crespí vorrebbe che la causa fosse affidata alla sala
criminale della Audiencia di Sardegna
per riaffermare il principio della preminenza della giustizia reale, l’unica
imparziale nelle provincie. Suggerisce perciò al re Filippo IV di rivedere le
sue decisioni, di respingere l’eccezione del privilegio di foro, di rimettere
il giudizio ai giudici sardi[97].
Don Cristobal Crespí persisterà su questa linea di rigore anche dopo che
Quando don Agustín si rende responsabile
di nuovi reati commessi durante la prigionia (reati lievi, ma che denotano la
protervia ostinata dell’imputato) Crespí auspica un severo «castigo» del
marchese, «pues de no hacerlo se puede temer el daño que padecerá aquel Reyno»[99].
Sarà facile profeta il vicecancelliere d’Aragona.
Sulle ultime “inquietudini” del
marchese di Laconi pesa la sua irrisolta posizione giudiziaria, ma pesano anche
di più i forti dissapori familiari col cognato. Stavolta la causa del contrasto
fra le due case (culminato nella rottura di don Jaime Artal con sua moglie Ana
Maria de Castelví) esula dalla questione dell’embargo della saca di grano e riguarda il contratto
matrimoniale fra Francisca Zatrillas, nipote del marchese di Laconi, e Agustín
Brondo y Castelví, nipote del marchese di Cea. In virtù dei patti matrimoniali
stipulati fra le due case, al Brondo veniva garantita la futura successione
nell’ufficio di procuratore reale, mentre la giovane Francesca Zatrillas,
figlia di primo letto di doña Ana Maria, portava in dote il ricco marchesato di
Sietefuentes ereditato dal fratello don Josep. Sui beni di doña Francisca aveva
messo gli occhi anche lo zio don Agustín. Il marchese di Laconi, rimasto
vedovo, aveva fatto pressioni sulla sorella perché rompesse il contratto matrimoniale,
in modo da consentirgli d’impalmare la giovane nipote. Il caso aveva assunto
una rilevanza pubblica fuori del comune per l’importanza economica e politica
della transazione fra le due casate. Della questione era stato investito
persino il Consiglio d’Aragona, che aveva ordinato al viceré Ludovisi di
condurre a palazzo la giovane nobildonna in modo che, sottratta alle pressioni
dello zio Agustín, potesse esprimere liberamente la sua volontà[100].
La disputa fra i due marchesi, causata più da interessi patrimoniali che da
ragioni affettive, si risolverà nel 1665 col matrimonio di don Agustín con la
nipote Francisca Zatrillas, matrimonio che, secondo le fonti più accreditate,
sarà all’origine del suo assassinio[101].
Ma torniamo al discusso processo
che dopo più d’un anno si apre davanti al Consejo
de Órdenes. Come spesso accade nel foro privilegiato, il giudizio è
improntato alla massima indulgenza verso l’imputato e segue irrituali procedure
abbreviate. Quasi subito presidente e oidores
del Consiglio dispongono gli arresti domiciliari di don Agustín. Ma non basta:
invece d’adottare la normale procedura di nomina di un cavaliere di Calatrava
inviato da Madrid al fine d’istruire la causa, come comisario del Consiglio viene designato il maestro razionale di
Sardegna don Saturnino Zatrillas[102].
Il passo successivo, per giungere alla definitiva liberazione di don Agustín, è
breve. Ai primi di dicembre del 1664 la decisione di Madrid viene posta in
esecuzione a Cagliari all’insaputa del viceré Ludovisi. Per quanto incredibile
possa sembrare, a non rispettare le procedure giudiziarie è, per ultima,
proprio
Non è da escludere che il mutato
clima politico favorisca la riabilitazione sociale del marchese di Laconi. È
alle viste la convocazione del parlamento e all’interno degli stamenti si
stanno apprestando gli schieramenti. Un gruppo molto agguerrito, attestato su
una linea rivendicativa la più ampia possibile, si aggrega intorno al
procuratore reale Jaime Artal de Castelví ed all’arcivescovo Pedro Vico,
l’orchestratore delle rivendicazioni nel precedente parlamento. Sono costoro ad
individuare inopinatamente il loro campione proprio nel marchese di Laconi. In
principio la scelta è dovuta al caso perché la casa di Laconi deve surrogare
come “prima voce” dello stamento militare le più antiche case di Quirra e d’Alagón
impedite a ricoprire l’incarico (i Quirra perché da tempo assenti dal regno,
gli Alagón per la minore età del nuovo marchese don Artal).
Nei mesi che precedono la morte di
Filippo IV il nuovo viceré marchese di Camarasa riceve le consuete istruzioni
circa la conduzione del dibattito nelle cortes.
Gli viene raccomandato soprattutto il rispetto formale delle procedure che non
devono fuoruscire dai binari della consolidata tradizione parlamentare. Gli
affanni finanziari della Monarchia e le difficoltà politiche che si prospettano
all’orizzonte sardo impongono trattative rapide, che portino a votare in tempi
brevi un donativo almeno pari a
quello votato nei burrascosi giorni della peste, senza concedere contropartite
importanti in benefici e prebende. Dispongono, le istruzioni, che non si
introducano innovazioni di sorta nel rapporto pattizio, puntando all’obiettivo
di strappare nuovi impegni fiscali, dato che i sardi non avevano onorato i
pagamenti precedenti a cui si erano obbligati nei parlamenti del 1631, 1642 e
1656[105].
Filippo IV pone precisi limiti alla delega al viceré e lo esorta a non andare
oltre vaghe promesse verbali di future mercedes
e di plazas nei regni della Corona
d’Aragona. L’unica novità concreta rispetto al passato potrebbe consistere
nella promessa di convertire in encomiendas
dell’ordine di Montesa i quattro priorati esistenti nell’isola, per concederli
a caballeros naturales che avessero
maturato meriti nelle guerre della Monarchia o avessero servito sulle galere[106].
Offerte così inconsistenti denotano
le risapute difficoltà economiche della Monarchia ed evidenziano come i flussi
di prebende e di benefici verso la periferia vadano sensibilmente scemando.
Come avviene da tempo nelle provincie, anche in Sardegna l’assottigliarsi del patronazgo real genera sentimenti
d’insoddisfazione e di frustrazione sempre più diffusi. Le aspettative corali e
quasi incontenibili dei ceti privilegiati si scontrano con la rigidità degli
organi di governo, o per meglio dire, con l’impossibilità delle finanze di fare
fronte alle crescenti richieste dei nobili e dei burocrati delle periferie
dell’impero[107].
Madrid, insomma, è sulla difensiva:
vuole decisioni sbrigative da parte del regno di Sardegna, da adottare in un
parlamento che sia il più breve possibile. Per questo consiglia al viceré di
cautelarsi appartando dal dibattito parlamentare i «naturales inquietos, y que
por malicia o por dolo puedan turbar con sus votos la quietud pública, y
embarazar mi servicio»[108].
È necessario, insomma, manipolare gli accreditamenti parlamentari per eliminare
gli oppositori più fastidiosi e per porre limiti ai disentimientos e alle rivendicazioni di plazas e di oficios per i
naturales del regno.
Ma i tempi non sono più quelli degli Austria “maggiori”. Il
confronto fra corona e ceti privilegiati in parlamento ha assunto da qualche
decennio un vigore dialettico senza precedenti, in controtendenza rispetto ad
altri regni della Corona d’Aragona[109].
È quella la sede più appropriata per scaricare le tensioni e manifestare le
frustrazioni di cui si diceva prima. La singolare vitalità dell’istituto
parlamentare nel Seicento discende dalla maturazione nelle università spagnole
ed italiane di un ceto amministrativo locale idoneo a ricoprire gli uffici
civili ed ecclesiastici e dalla consapevolezza della nobiltà titolata - e non
solo di quella – di poter vantare presso
Le crescenti difficoltà finanziarie della Corona, causate
dagli enormi costi delle guerre, avevano comportato anche nel regno di Sardegna
una pressione economica e fiscale che non aveva riguardato tanto le
contribuzioni in danaro dei pecheros
(invero assai modeste rispetto a quelle dei regni di terraferma) quanto le
forniture di derrate alimentari; avevano determinato anche vistose restrizioni
delle mercedes, delle pensioni e
degli uffici concessi alle élites
locali ed un taglio radicale di quelle consuete licenze d’esportazione di grano
esenti da tasse che consentivano un provvidenziale riequilibrio dei bilanci
delle case nobiliari. Se a queste ristrettezze si aggiungono il
ridimensionamento delle funzioni giurisdizionali dei baroni, la maggiore
presenza (o invadenza, a seconda del punto di vista) negli affari pubblici
della burocrazia reale, l’accresciuto peso della borghesia mercantile
nell’economia del regno, si comprende come il malcontento dei ceti privilegiati
lievitasse fino al limite della rottura del patto di fedeltà con la Monarchia[110].
Il parlamento celebrato durante la
pestilenza era stato un’occasione di verifica dei mutamenti sociali intervenuti
ed aveva segnato una svolta significativa nel rapporto contrattuale fra re e
sudditi sardi. Il tentativo d’imporre non come súplica ma come condición
(ossia come clausola determinante per il pagamento del donativo al re) la richiesta dell’esclusività delle cariche
ecclesiastiche, civili e militari per i naturales
del regno era stata la novità dirompente voluta dagli stamenti. Una procedura
parlamentare così cogente non aveva precedenti né analogie nella Corona
d’Aragona. Non poteva trovare accoglimento neppure per la sua sostanza politica
fortemente innovativa e contraria al principio del controllo politico del regno
da parte di fiduciari della Monarchia (viceré, regente, fiscales, arcivescovi)
selezionati negli altri regni. Dunque la concessione di tutte le plazas ai sardi non era passata perché
Le istruzioni al viceré Camarasa
paiono un tentativo mediocre di fare un passo indietro rispetto alle
concessioni del parlamento Lemos. Quando si apre il parlamento il regno di
Sardegna vive un momento di estrema debolezza economica dovuta agli enormi
disagi determinati dalle catastrofi naturali e finanziarie (prime fra tutte, la
peste e la falsificazione della moneta di vellón).
Ormai, a soffrire gli insulti della povertà e del disordine sociale, non sono
soltanto gli strati inferiori della popolazione sarda ma anche le sfere
medio-alte della società. Ma non si tratta solo di prostrazione economica. Alla
metà del secolo le capacità di controllo sociale del mondo delle campagne da
parte di un potere reale sempre più debole sono ridotte ai minimi termini. Per
questo il fenomeno della delinquenza comune ha assunto una dimensione
impressionante[112].
Non sorprende che in una situazione
di disagio sociale così pronunciata alla celebrazione del parlamento si
attribuisca un’importanza politica senza eguali e l’istituzione divenga il
luogo privilegiato del confronto fra il centro madrileno e la periferia sarda.
Per la forte spinta di categorie intermedie (ecclesiastici, letrados, mercanti nobilitati, ecc.) le
rivendicazioni dei naturales assumono
una valenza politica di prima importanza. Anche la fazione nobiliare meno
presente sulla scena politica e più propensa ad atteggiamenti d’istintivo
ribellismo si fa coinvolgere in questa battaglia rivendicativa che finirà per
assumere i connotati della fronda parlamentare.
Viene fatto di chiedersi se il
dissenso aristocratico scaturisca semplicemente dall’insoddisfazione per le
disfunzioni della Monarchia asburgica e per il cattivo funzionamento del patronazgo real o se rappresenti una
scelta politica più matura che prende a modello altre realtà provinciali in
aperto dissenso col potere di Madrid. L’accantonamento della tradizionale linea
di fedeltà (una fidelidad alternata a
momenti d’impulsiva insubordinazione) è in contraddizione con le intenzioni
manifestate nello stesso periodo, intorno al
Dunque le secessioni catalane e
portoghesi non paiono costituire un modello da imitare per i sardi: anzi, da
respingere recisamente, come era stato fatto circa trent’anni prima combattendo
in Catalogna a fianco dei castigliani e delle forze lealiste. L’«incomparabile»
fedeltà dei sardi, autocelebrata senza titubanze né riserve, è una carta di
credito forte che si vorrebbe spendere senza patteggiamenti, rinunciando
persino al pattismo parlamentare. Non è dato sapere se i documenti siano
espressione di una parte o di tutta la classe dirigente del regno, se rivelino
le posizioni politiche della fazione filomonarchica oppure se siano l’esito di
tatticismi posti in essere nella fase preliminare del parlamento da coloro che
poi si riveleranno dei pattisti intransigenti. Tuttavia una profferta di
fedeltà così smaccata parrebbe opera di circoli rigorosamente lealisti che
tentano di riproporre scelte sempre più impopolari in seno ai ceti
parlamentari. È indubbio che in
questi anni anche i nobili hanno molte ragioni per non allinearsi supinamente
alle posizioni lealiste, tanto più che il loro malcontento si salda ad obiettivi
politici proposti dalle forze più vive e dinamiche del regno.
In seno alla nobiltà restano,
dunque, forti contraddizioni interne ed inimicizie insuperabili. Tuttavia, per
quanto ferocemente divisa, quella dei nobili è una classe temibile per il
prestigio intrinseco che detiene e per la forza che le deriva dall’obbedienza
della gente dei villaggi. Il prestigio politico di don Agustín de Castelví ha
più o meno la stessa origine: per la rete inestricabile di obbligazioni tessuta
fra signori, vassalli e banditi il suo bando
fa leva su vaste complicità nei territori infeudati del Logudoro e dei
Campidani. La sua ascesa come título di
prima grandezza è favorita più che altro dal momentaneo sbandamento del bando avverso dopo la morte di Blasco de
Alagón.
Tuttavia la maturazione politica
del marchese di Laconi – se di maturazione politica si può parlare – avviene
principalmente per merito di due acuti ed esperti suggeritori come il marchese
di Cea e l’arcivescovo di Cagliari Pedro Vico. Sono costoro ad esercitare
realmente la leadership frondista.
Come si è detto, il figlio del defunto regente
d’Aragona era stato il protagonista delle trattative parlamentari col conte di
Lemos, lucrando grande prestigio politico ed eccezionali mercedes personali come la promozione, lui sardo, alla carica
arcivescovile di Cagliari tradizionalmente assegnata ai forestieri. In
occasione delle cortes del 1656 Vico
aveva tenuto un atteggiamento ambiguo ed altalenante rispetto alla linea del
viceré, d’opposizione e di fiancheggiamento ad un tempo. Dieci anni dopo spera
di rinnovare quei successi. Come “prima voce” dello stamento ecclesiastico
intende riproporsi come elemento di mediazione, anche se stavolta appare più
scoperta la sua posizione di suggeritore della fazione “nazionale”. Dunque il
figlio di Francisco Vico, del fiduciario sardo del conte duca di Olivares, si
fa promotore ed interprete di una fronda politica verso la declinante Monarchia
ispanica.
Le fazioni tradizionali si adeguano
ai tempi, si convertono in aggregazioni più ampie e coinvolgono parte delle
gerarchie ecclesiastiche e nobiliari, oligarchie urbane orientate verso il
cambiamento, intellettuali e burocrati che aspirano ad acquisire uffici e spazi
politici nuovi. Tutti assieme, costoro portano alla ribalta parlamentare
interessi particolari - di ceto, di famiglia o di consorteria – ma sfruttano
l’opportunità di presentarli come interessi generali del regno. La coesione che
i protagonisti del dissenso trovano nell’imminenza del parlamento è il
risultato di diverse circostanze favorevoli, quali l’assunzione della carica di
“prima voce” dello stamento militare da parte di don Agustín, la presenza a
corte di sostenitori influenti come il regente
don Jorge de Castelví e l’abate Mateo Frasso e, non ultima, la reazione ai propositi
della Monarchia d’emarginare gli oppositori parlamentari.
In verità i redattori delle
istruzioni di Filippo IV non avevano visto male quando avevano pensato
d’allontanare dal parlamento i nobili facinorosi ed inaffidabili. Già nelle
fasi preliminari del parlamento don Agustín, consapevole degli incerti
equilibri esistenti nel braccio militare, percorre i suoi feudi e quelli dei
suoi sodali per rastrellare deleghe fra amici e parenti[114].
Conquistare la maggioranza dei voti nel suo stamento significa legittimare il
ruolo di principale oppositore del viceré, un ruolo che don Agustín porta
avanti con grande tenacia. Una linea rivendicativa intransigente, la sua, che
intende subordinare la concessione del donativo
all’accoglimento delle richieste avanzate in forma di condición e non di súplica.
Si tratta di strappare l’assenso preventivo della Corona a concedere un
consistente pacchetto di richieste, concertate dai vertici degli stamenti.
Quelle richieste toccano la sfera politica, economica e giudiziaria e mirano
nel complesso ad accrescere il peso economico e sociale dei “naturales” nel
regno.
Non è difficile intravvedere nella
riproposizione di temi e procedure già presenti nel parlamento Lemos il disegno
del partito dell’arcivescovo Vico e dei marchesi di Laconi e di Cea di mettere
d’accordo tutte le componenti del dissenso parlamentare: la piccola e media
nobiltà ed i ceti emergenti laici ed ecclesiastici, intorno alla solita
rivendicazione dell’esclusività degli uffici del regno e della riserva dei benefici
ecclesiastici; le case feudali ed i vertici parlamentari, intorno al
ridimensionamento giurisdizionale della Audiencia
ed al controllo politico sull’operato dell’amministrazione reale esercitato
secondo il modello catalano e aragonese.
Ma il vicecancelliere d’Aragona
Crespí de Valldaura (Camarasa appare come un semplice esecutore) non è disposto
a transigere, anche perché il partito filomonarchico sta recuperando voti e
riacquista credito e voce nelle riunioni dello stamento militare. La risposta di Madrid che la
linea sostenuta da Laconi e da Vico va contro «el estilo que siempre havía
havido en esta materia” non lascia spiragli alla trattativa: con “los cavos y
pretensiones que havían introduzido los brazos, y querían introduzir, se dificultaba
la forma en que se havían de admitir sus instancias si por condición del
servicio o por súplicas a parte; y aunque las últimas Cortes, que celebró el
Conde de Lemos en aquel Reyno, se puso todo por condición se havía advertido
que no se deviera haver tolerado pues es un modo y estilo nuevo, y contrario a
lo que en todas las Cortes o Parlamentos antecedentes se ha hecho, y en las
demás Cortes de los Reynos de la Corona»[115].
Il confronto tende a radicalizzarsi
quando la parte del braccio militare che fa riferimento a Laconi e quella del
braccio ecclesiastico controllata da Vico frappongono ostacoli d’ogni genere
all’autorità reale. I greuges (o quejas) documentano una tenace
resistenza che alimenta una forte conflittualità parlamentare[116].
La proposizione d’ogni sorta di disentimientos,
di rivendicazioni di fueros e contrafueros avviene ufficialmente a tutela degli interessi
generali del regno, ma dietro si celano interessi personali, di gruppi e di
comunità, come dimostrano – ad esempio - i gravami in materia giudiziaria che
scaturiscono dalle storie personali di Agustín de Castelví e di altri nobili
che hanno avuto a che fare con la giustizia. Il tutto va a formare un ampio
contenzioso parlamentare che scaturisce non da una visione unitaria dei problemi
del regno, ma si configura come la sommatoria di richieste frammentate che
rispecchiano esigenze particolaristiche e che non approdano mai a proposte
legislative comuni[117].
Quando ormai il parlamento si
trascina senza sbocchi da un anno e mezzo con grande disappunto di Madrid, nel
giugno del 1667 viene deciso d’inviare a corte il marchese di Laconi. Il síndico degli stamenti è munito di
un’ampia delega per trovare un «ajuste de las condiciones y súplicas con que se
hacía el servicio» che porti alla conclusione del parlamento. Come controparte
il viceré manda il dottor Lupercio Antonio de Molina, fiscal della Audiencia di
Sardegna. La delega generica, invece di favorire, ostacola «el ajuste» perché a
don Agustín manca la duttilità per condurre le trattative in maniera
possibilista e rendere flessibili e modificabili le richieste presentate dal
regno. Solleva nuove difficoltà per la concessione del donativo di 70.000 scudi, coinvolge nell’attitudine intransigente
la sua fazione a Cagliari, fa fallire persino la mediazione del suo congiunto
Jorge de Castelví. Finalmente l’ultimatum del vicecancelliere d’Aragona porta
Laconi a più miti consigli e l’ampio pacchetto di pretese (17 condiciones e 29 súplicas) che aveva presentato viene ridotto a quattro punti
essenziali.
La prima richiesta è la conferma di
tutti i privilegi, «usados y no usados” (sia quelli vigenti sia quelli caduti
in desuetudine o mai applicati), che erano stati concessi al regno in passato.
Sul rispetto di quei privilegi da parte dell’amministrazione reale, poi, le tre
prime “voci” degli stamenti, collegialmente o come singoli, avrebbero
esercitato un controllo di merito riproponendo così la figura dei giudici
conservatori. La richiesta viene accolta, con l’eccezione della vigenza dei
privilegi desueti e del costante controllo formale dei rappresentanti degli
stamenti sugli atti della burocrazia reale
La
seconda richiesta - la principale, o almeno la più sentita - riguarda
l’esclusività degli uffici: «que se concediessen al Reyno – chiede Laconi - todos
los oficios assí eclesiasticos como seculares y que se diessen a naturales y no
a naturalizados sin ninguna excepción ni de obispados arzobispados ni de ningun
otro, y que no corriese el donativo hasta que se estuviesen ocupados los
naturales en los que tienen los forasteros». Nella risposta il Supremo
d’Aragona fa alcune aperture nella concessione degli uffici, ma non ammette il
principio dell’esclusività ai sardi: «por su naturaleza – replica il Consiglio
– no combiene se goviernen las Islas por sus propios naturales en todo; pues
aunque sean de gran confianza y de grandes obligaciones pueden con el tiempo
descaezer […] muerto un Virrey como ha sucedido aora viene a quedar en su mano
(si tienen todos los puestos) el arbitrio de su libertad y de admitir a los
enemigos de su Principe u de perseverar en la fidelidad a que están obligados,
y nunca combiene que se dexen las Provincias a este arbitrio y peligro». Quanto sia inopportuno delegare tutto il potere ai naturales è Crespí a sottolinearlo,
portando ad esempio negativo proprio l’arcivescovo di Cagliari Pedro Vico il
quale, sfruttando la sua posizione, era la principale fonte delle difficoltà
incontrate nella celebrazione delle cortes[118].
La terza richiesta riguarda la
soppressione della “sala criminale” della Audiencia.
La risposta di
Crespí è altrettanto categorica: poiché «querían los Varones no tener sobre si
Il quarto punto concerne la
richiesta delle città di concessione della saca
de porción (ossia l’autorizzazione per città, nobili, produttori e comunità
d’esportare in franchigia dal regno il grano immagazzinato per un anno) anche
quando quel grano non appartenga alla quota dell’encierro. Si tratta, in pratica, di garantire la totale libertà
d’esportazione dei grani, stravolgendo gli antichi meccanismi economici e
produttivi. La richiesta, francamente eversiva per gli assetti economici
faticosamente consolidati nei secoli, avrebbe privato le finanze reali della
principale e quasi unica fonte d’introito oltre il donativo parlamentare; avrebbe invece assicurato alle città ed ai
privati esportatori proventi ben più pingui del servicio offerto nelle cortes.
Per una Hacienda reale al collasso
una richiesta talmente massimalistica, presentata da un regno che per di più è
un mediocre contribuente e un pessimo pagatore dei donativi concessi, può suonare quasi certamente come una
provocazione.
Quattro domande, quelle di don
Agustín, subito ridimensionate se non drasticamente denegate dal
vicecancelliere d’Aragona[119].
La missione si
conclude bruscamente, tanto che viene meno persino il rispetto dell’etichetta
di corte: «hize el memorial – scrive don Agustín ai suoi a Cagliari - […] e le
puse en manos de
Dopo il sostanziale fallimento
della trattativa madrilena Crespí dispone alla fine di novembre del 1667 che il
contenzioso ritorni a Cagliari davanti agli stamenti. Il viceré dovrebbe
esperire – in assenza di Laconi, che resta a corte - un nuovo tentativo di
conciliazione per concludere le cortes
alle stesse condizioni raggiunte dal conte di Lemos dieci anni prima. L’intransigenza
di Madrid scaturisce sì dal massimalismo di Laconi, ma anche dalla percezione
che gli equilibri parlamentari in Sardegna volgono a favore della fazione
filomonarchica dei Villasor. L’intesa fra il viceré, la vedova Villasor e suo
figlio il principe di Piombino aveva spostato un certo numero di voti, ritenuti
sufficienti per far passare l’abilitazione del diciottenne marchese di
Villasor. A quel punto costui recupera il ruolo di “prima voce” dello stamento
militare e può fare pressioni sui parlamentari assenteisti per revocare le
procure al marchese di Laconi.
Quando la maggioranza dello
stamento militare si orienta a favore di Villasor e va maturando il
convincimento che siano ancora possibili la concessione del servicio e la regolare chiusura delle cortes, la lotta fra i due bandos si trasferisce fuori del
parlamento: «los que se confesavan parciales [de Laconi] havían començado ya a
introducir gente de las villas y amenaçar a los que havían votado en favor de
la habilitación de Villasor e de lo que el Virrey deseava»[121].
Ovviamente i
movimenti minacciosi dei bandos
armati non possono non riflettersi sulla formazione della volontà dei
parlamentari: «el modo con que se portan es hacerse cada uno caudillo del
número de votos que puede juntar a su facción, los quales de tal manera le
sigan que sin otro examen estén a su libre disposición y no vienen a votar por
proprio parecer sino por el antojo de quien se haze cabeza»[122].
A quel punto Madrid ha sempre più
fretta di concludere, anche perché agli inizi del 1668 il ritorno in Sardegna
del marchese di Laconi rilancia le quotazioni dell’opposizione[123].
Il viaggio di don Agustín via terra, attraverso l’isola, è una vera e propria
dimostrazione di forza o, se si vuole, è un atto di palese intimidazione. «El Marqués desembarcó en
Puerto Torres - racconta l’Aleo –, y de Sáçer se vino por tierra a Cáller,
donde entró con un acompañamiento de cavallería, todos vasallos suyos, tan
grande y numerosa que jamás ningun otro señor havía entrado en Cáller con tanta
ostentación y grandeza»[124].
Nelle successive sedute
parlamentari Laconi e Vico tentano d’ostacolare la concessione del servicio. Concertano vari pretesti per
rinviare le decisioni finali; adducono la necessità di trovare preventivamente
una soluzione legislativa al disordine monetario che affligge l’economia sarda;
sconfessano i nobili abilitati per linea femminile cercando di ribaltare la
maggioranza nello stamento militare[125].
I conflitti nobiliari incombenti e la tattica dilatoria degli oppositori
convincono Madrid (e quindi Camarasa) che bisogna rompere gli indugi e
richiedere in via ultimativa il donativo
senza condiciones. La mossa del
viceré è forse determinata dal convincimento che le trattative non consentono
di raggiungere una posizione mediana quando si ha a che fare con personaggi
tanto risoluti quanto inaffidabili: «la buelta aquí del Marqués – scrive
Camarasa a Crespí - a ocasionado abrebiar en esta resoluzión, porque la mayor
parte de los estamentos la tenían ya tomada de no benir en azer el servicio sin
condiziones»[126].
Quando la maggioranza dei voti si dichiara contraria al dictat di Camarasa il
parlamento viene sciolto[127].
Il rimedio
risulterà peggiore del male: «disueltas las cortes quedaron más enconados los
ánimos de una y otra parte, la que promovía el Real servicio por ver
desvanecidas las esperanzas de que se consiguiesse como lo deseava su zelo y
empeño de superar las contradiciones opuestas por los parciales del Marqués de
Laconi, y éstos considerando malogradas sus disposiciones y perdida la
oportunidad de obtener lo que pretendían»[128].
Il 20 giugno del 1668, mentre
rientra a casa nottetempo, don Agustín de Castelví viene assassinato da sicari
prezzolati. In città la morte violenta d’un così importante personaggio, “prima
voce” dello stamento militare, suscita un’enorme impressione per la fama del
signore poderoso e per il ruolo di
primo piano della sua casata nella società sarda. Il vasto cordoglio viene
amplificato ad arte dalla cerchia clientelare del defunto. Manipolando
un’opinione pubblica sconcertata, la consorteria dei Castelví convince molti
cagliaritani che l’assassinio sia ispirato dal viceré e che si debba collegare
con la burrascosa cancellazione delle cortes.
Anche la vicenda umana di don Agustín
viene strumentalizzata nei giorni seguenti, fino all’esaltazione di una sua
presunta dedizione, in parlamento, alla causa del riscatto dei connazionali
sardi, specialmente dei poveri. Nella plateale azione propagandistica, mirata a
trarre vantaggio politico dal delitto, si distinguono i nobili cagliaritani
vicini a Laconi (il marchese di Cea, il conte di Montalvo, i marchesi di Albis
e di Monteleon, il conte di Villamar e suo fratello don Silvestre Aymerich che
si rivelerà più tardi essere il vero mandante dell’assassinio). L’intenzione è
quella di dare il massimo risalto alla morte del capo per suscitare allarme a
corte e cordoglio a Cagliari, per alimentare sentimenti di paura e
d’insicurezza nella popolazione, per trarne insomma ogni possibile vantaggio
politico.
È così che diviene di dominio
pubblico – a Madrid, come nell’isola – la voce che il bando di Laconi e il vasto seguito dei suoi fiancheggiatori non
siano alieni dal muovere il popolo alla sedizione per vendicare la morte del
marchese («el deseo y mala intención de algunos fue que tomasse el pueblo a su
cargo la venganza de la muerte del de Lacony, insinuando la havía padecido por
defender el Reyno dándole título de Redemptor dél»)[129].
Il piano segreto sarebbe quello
d’assassinare il viceré, ritenuto il responsabile della morte di don Agustín, e
di provocare una sommossa a Cagliari, in modo da precostituire il clima
favorevole per un confronto radicale col potere regio. A coordinare la
consorteria avversa al viceré è il solito arcivescovo di Cagliari. Dopo essersi
invano proposto al vicecancelliere d’Aragona come mediatore fra le due
posizioni parlamentari nell’intento di ripetere l’esperienza del 1656 col conte
di Lemos[130],
Pedro Vico raccoglie le voci di dissenso, sotterraneamente rinfocola ed
amplifica i sentimenti popolari di rimpianto del marchese assassinato. «Un caso tan atroz – scrive
Pedro Vico alla regina madre – por la calidad de la persona y circumstancias
del delicto que ha puesto a toda la nobleza, pueblos y Reyno en bivas llamas de
discordias y turbaciones por haverse hecho la causa popular y común tomando
cada uno en particular por proprio el agravio»[131]. «La muerte del Marqués de
Lacony – aggiungono alcuni amministratori pubblici - y la aflición y dolor
universal que ocasionó en los coraçones de todos tiranía tan grande y también
de ver todos los días y noches hombres armados con carabinas y pistolas
amenazando las vidas, y las personas de suposición y títulos arrinconados por
el evidente peligro»[132].
Per alimentare il mito di don Agustín
“padre della patria” pare sufficiente convincere l’opinione pubblica che egli
sia caduto vittima dell’autoritarismo del viceré nella sua veste di capo
dell’opposizione antigovernativa in parlamento. Ecco allora delinearsi
nell’immaginario popolare la nobile figura di un signore, Castelví, sollecito
protettore delle popolazioni sarde, contrapposto ad un viceré, Camarasa,
responsabile delle decisioni avverse ai sardi assunte nelle cortes e mandante dell’omicidio del
marchese di Laconi. Ma si tratta dell’immaginario popolare o di quello
dell’arcivescovo Vico e dei sodali di Castelví? Nelle sue complicate orditure
antigovernative, è sempre Vico a soffiare sul fuoco, a cimentarsi in calunniose
insinuazioni contro funzionari pubblici vicini al viceré («háblase con
publicidad y con mucho dolor mío que los executores desta atrocidad han sido el
Abogado fiscal don Antonio de Molina y don Gaspar Niño sobrino del Regente»[133]), ad accreditare il bando Castelví come parte lesa,
costretta sulla difensiva dall’aggressione sempre più esplicita e violenta del
potere vicereale che protegge la fazione avversa dei Villasor: «viéndose aora
nuebamente más indefensas las Casas ofendidas – sostiene Vico - con los
mandatos penales que se les han puesto y el desembarazo con que se tolera en
otras casas las esquadras de gente acreditan la voz común de que está armado
todo el poder y autoridad del govierno para ofender, con que cada día se van
enconando los ánimos y se puede temer no pasen a grandes arrojos pues de
menores principios se han visto más horribles fines»[134].
Il disegno di Vico, frutto di
un’artificiosa mescolanza di simulazione e di mezze verità, è rivolto a far
precipitare nella capitale la situazione dell’ordine pubblico nella speranza
che la popolazione insorga contro il viceré spagnolo e il suo entourage di corte. Ormai la congiura
dei nobili legati alla casa Castelví pare matura e non può che puntare alla
vendetta, alla soppressione fisica del viceré responsabile morale della morte
di don Agustín.
È possibile che l’arcivescovo Vico
e i nobili congiurati nutrano il segreto proposito di provocare un moto
popolare sull’onda lunga delle sollevazioni antispagnole di Portogallo,
Catalogna e Napoli? È possibile. Acclamare in morte come «redemptor y
restaurador de
Una pagina del nostro cronista
Jorge Aleo (che sappiamo partigiano del vescovo Vico e che per questo sarà
esiliato durante la successiva grande repressione del viceré Tutavila)
rappresenta a meraviglia l’idea che del marchese di Laconi si era fatta la
gente della sua fazione: «Havía sido este Señor hombre de resolución y que
siempre se havía hecho respectar. Y con su buen modo, cortesía, y corespondencia se havía
grangeado el amor y voluntad de la nobleza y gente popular de todo el Reyno; y
assí no es creíble el susto y sentimiento general que ocasionó su muerte. […]
Admirávanse todos que siendo el Marqués uno de los mayores señores del Reyno y
tan temido y respectado se huviessen atrevido a intentarle la muerte y
executarla juntamente. Y mucho más se admiravan que siendo hombre tan prudente
y entendido, y en tanta ostentación, que quando salía de día de su casa con la
compañia y assistencia grande de criados, pages y lacayos llenava media calle,
se huviesse fiado a salir de noche, y a desohora, solo»[135].
Della breve e convulsa campagna
“patriottica” occorre sottolineare, però, un aspetto singolare. La propaganda
del bando Laconi, tutta giuocata
sulla mozione degli affetti per il grande signore caduto, si indirizza contro
il viceré ma non contro
L’elogio delle virtù civili del
nobile assassinato e i propositi di vendicarlo sulla piazza guadagnano qualche
consenso nelle sfere medio-alte della società cagliaritana. Ma le adesioni non
vanno oltre. Il disegno dei congiurati ha il corto respiro degli ideali elitari
non condivisi dalle masse. Mobilitare strati più larghi della popolazione,
coinvolgere fasce sociali totalmente estranee agli accadimenti parlamentari ed
ignare dell’azione politica di Laconi si rivelano difficoltà insormontabili. Il
tentativo populistico di presentare don Agustín come «padre del Pueblo» o
«amparador de los pobres» – ricavo queste espressioni da alcuni documenti dei
giorni seguenti il delitto - nell’intento di sollecitare risentimenti
antigovernativi (contro Camarasa) e antispagnoli (contro i funzionari che
occupano le plazas che potrebbero
andare ai sardi) è destinato a naufragare per l’indifferenza del popolo minuto
e per l’adesione scontata alla causa monarchica di un’ampia quota, certamente
maggioritaria, della nobiltà e della burocrazia del regno.
V’è da dire, tuttavia, che sulle
prime i propositi sediziosi sembrano destinati a qualche successo. Il marchese
di Cea potrà scrivere qualche tempo dopo – forse esagerando la portata dei
fatti - che «el día de su entierro [di Castelví], por el sentimiento universal
de haver sido síndico deste Reyno en Cortes, hubo próxima disposición de un
motín»[136].
Per muovere a commozione il popolo
i principali congiurati avevano immaginato una cerimonia notturna, d’esasperato
gusto barocco e di forte impatto scenografico, nel convincimento che l’entierro di notte avrebbe impressionato
maggiormente la folla. Propendono poi per un corteo funebre che percorre in
pieno giorno le strette ed affollate strade del castello di Cagliari, in modo
che il cadavere sia mostrato scoperto, con le ferite alla vista, per
glorificare il “martirio” di don Agustín[137].
Per la cerimonia funebre giungono da ogni parte dell’isola, minacciosi e
disposti alla vendetta, mille o forse millecinquecento armati, chiamati dal bando Laconi e pronti ad offrire i loro
servizi. Anche in morte, dunque, don Agustín è capace di mobilitare masse
considerevoli di vassalli legati alla sua casa.
Viene fatto di chiedersi se costoro
si mobilitano per obbligo verso i propri signori territoriali o se hanno
effettivamente coscienza della parole d’ordine dei seguaci di Castelví. Non v’è
dubbio che a muovere la gente dei villaggi sia essenzialmente la fedeltà al
signore feudale (la fedeltà familistica e di servizio), né più e né meno di
quanto era avvenuto, con obiettivi politici del tutto opposti, in occasione del
reclutamento dei tercios per le
repressioni castigliane in Catalogna e a Napoli. Li muove lo stesso obbligo di
fedeltà che aveva portato qualche anno prima alla mobilitazione dei due grandi bandos che si erano affrontati nelle
pianure campidanesi nel nome degli Alagón e dei Castelví. Uomini “di fatti”,
dunque, soltanto uomini “di fatti”, pronti a difendere qualsiasi causa
signorile, in nome dei valori morali dell’appartenza e del prestigio che deriva
dalla forza delle armi e dallo spirito di corpo, ed anche per il bisogno
d’assicurarsi la sopravvivenza materiale al servizio d’un ricco padrone.
Durante la congiura, culminata
nell’assassinio del marchese di Camarasa , e dopo, nella successiva fase dei
torbidi capeggiati dal marchese di Cea, sia lacayos
di case nobiliari che bandoleros disponibili a militare sotto
qualunque bandiera vengono impiegati come forza intimidatrice e come massa di
manovra pronta ad entrare in azione alla bisogna. Con finalità del tutto
opposte anche il viceré Tutavila duca di San Germán farà ricorso alle bande del
nord Sardegna per punire il delitto di lesa maestà (tale è considerato
l’omicidio del vicario del re), per reprimere la congiura e per sconfiggere sul
campo il marchese di Cea. In certi frangenti l’apporto dei banditi si fa
irrinunciabile per tutte le cause, per sostenere le ribellioni nobiliari ma
anche per affiancare il viceré e le truppe reali in una durissima operazione di
polizia che mira a ristabilire l’ordine costituito nella provincia sarda[138].
Resta da chiedersi se
nell’assassinio del viceré possa ravvisarsi una scintilla insurrezionale,
l’avvio di una sollevazione popolare; oppure se si tratti - più modestamente -
di un regolamento di conti fra fazioni nobiliari (è questa la tesi che, a cose
fatte, tenterà d’accreditare a Madrid Jorge de Castelví per tentare d’uscire
indenne dalla repressione)[139].
La risposta può venire da alcuni documenti che chiariscono quale è
l’atteggiamento di una parte maggioritaria della società sarda che prende le
distanze dai congiurati e si affretta a rinnovare la professione di fedeltà
alla Monarchia. Primo documento: dopo l’assassinio del viceré
Siamo al 26 di luglio del 1668, ad
appena dieci giorni dal delitto Camarasa. I nobili congiurati sono ancora
trincerati con i loro scherani nel convento di San Francesco ed in procinto
d’abbandonare Cagliari per il nord dell’isola e già vi è chi (come Vico) cerca
di ricucire le relazioni col potere reale. Ma la situazione dell’ordine
pubblico è talmente compromessa che
Se la vendetta contro il viceré
Manuel de los Cobos non è una semplice faida nobiliare, la sua eliminazione
fisica potrebbe configurarsi - più realisticamente - come l’estremo tentativo
dei congiurati di recuperare il potere contrattuale perduto dopo la chiusura
del parlamento, di forzare la mano alla corte per riaprire i giuochi politici
fra il centro e la periferia e spingere così a fondo sul terreno delle
rivendicazioni “autonomistiche”. Ma un confronto così aspro ed ardito,
radicalmente diverso dalla consueta dialettica parlamentare già tollerata con
fastidio in Consiglio d’Aragona da Crespí, non pare praticabile da forze
politiche sicuramente minoritarie. L’atto d’infedeltà compiuto con il delitto
Camarasa sancisce la definitiva sconfitta della fazione raccolta sotto l’ideale
bandiera di don Agustín de Castelví; la maggioranza lealista si ricompatta e
svanisce così l’occasione di profittare del momento d’estrema debolezza
politica della Monarchia.
Ma le ragioni del fallimento della ribellione
vengono da più lontano. Vi concorrono varie cause. La prima è la natura
“meticcia” della nobiltà sarda. Le origini ispaniche dei più ed i loro forti
legami parentali con famiglie valenziane, catalane, aragonesi, ed in ultimo
anche castigliane, avevano fortificato più lo spirito familistico che quello
“nazionale”. Al tempo stesso la disponibilità dei nobili sardi a servire in
ogni luogo dove
Le oligarchie provinciali, insomma,
non paiono in grado di fare il salto di qualità per assumere un ruolo dirigente
autonomo, come era forse nei disegni politici di quegli uomini “nuovi” come
sono certamente il prelato Vico e i letrados
Matteo e Gavino Frasso i quali, spinti da esigenze di rinnovamento sociale ed
economico oltre che da ambizioni personali, paiono orientati durante il parlamento
verso un più avanzato rivendicazionismo regionale.
V’è dunque un equivoco di fondo
all’origine di questa mancata “rivoluzione”. È l’alleanza fra gruppi emergenti
socialmente compositi, che affacciano proposte di rinnovamento tutte ancora da
definire, e un’aristocrazia refrattaria al nuovo anche se predisposta ad una
sediziosità alternata a repentini ritorni di fedeltà monarchica. Un nobile come
Agustín de Castelví è pronto a contrapporsi al potere reale, non ha remore a
rendersi protagonista di conflitti e di atti episodici d’altezzosa ribellione;
ma è incapace d’andare oltre, di rappresentare interessi più generali. Non è in
grado, don Agustín, (e come lui tutti i nobili congiurati - il marchese di Cea,
il conte di Villamar, il marchese di Sedilo -, al pari dei loro avversari del bando Alagón) di tagliare l’antico
cordone ombelicale del patronazgo real,
d’attenuare il rapporto di dipendenza dalla Monarchia, che - per quanto
decrepita, o forse, proprio perché decrepita – è ancora la fonte esclusiva dei
privilegi, del prestigio sociale, delle prebende, delle mercedes modeste ma indispensabili per la sopravvivenza di economie
familiari sempre pericolanti. Una nobiltà periferica, dunque, divisa fra
resistenza e collaborazione con una Monarchia che è la garanzia del loro
irrinunciabile primato sociale.
Cito una lettera esemplare
indirizzata al viceré di Sardegna dieci giorni prima del delitto Camarasa. Il
Consiglio d’Aragona gli notifica che il procuratore reale don Jaime Artal de
Castelví ha presentato un memorial in
cui segnala la scadenza della sua merced
reale di seimila scudi per sei anni (mille ogni anno) e chiede in pari tempo un
aumento della pensione fino a duemila scudi annuali per tutta la vita. Cristobal
Crespí manifesta «admiración», stupore, per una tale súplica perché sul procuratore reale di Sardegna gravano sospetti
di furto commessi da suoi criados; ma
specialmente perché si hanno certezze incontrovertibili sulla sua slealtà verso
È
la dimostrazione che il rapporto fra il centro politico e le élites provinciali è materia magmatica,
difficile da decifrare, che si modifica continuamente: le profferte di servizio
e gli atti di fedeltà si alternano ai momenti di sedizione espliciti, a cui
seguono sovente nuove ricomposizioni tanto improvvise quanto disinvolte.
Altrettanto significativi sono i
tentativi di ricomposizione dell’arcivescovo Vico e del regente del Consiglio d’Aragona Jorge de Castelví. L’uno a Cagliari
e l’altro a corte erano stati i reali protagonisti della resistenza
parlamentare e della contrapposizione alla Corona. Quando il caso Castelví si
sgonfia ed emerge la verità sulle motivazioni del delitto, una verità invero
poco lusinghiera nella biografia di un «padre della patria»[146],
costoro compiono vari tentativi di conciliazione. Addirittura Jorge de Castelví
tenta di proporre un’improbabile sanatoria presentando i due delitti come il
risultato di una faida personale fra i due marchesi[147].
In una serie di “memoriali” al re, che sarebbe troppo lungo illustrare qui,
personaggi di primo e secondo piano della mancata “revolución” cercano di
recuperare ruolo politico, posizione sociale, favore reale riproponendo in
pieno l’antico rapporto di patronazgo
che li lega alla Monarchia.
Ma
di fronte ad un delitto capitale di lesa maestà,
Il rapporto di patronazgo e la fidelidad dei sardi sono salvi. Il Consiglio d’Aragona ritiene che
finalmente si possa ricucire il rapporto con la periferia sarda. Ma il rude
viceré castigliano non dimostra un’analoga sensibilità politica e auspica, per
colpire le élites nobiliari e
burocratiche, una cancellazione dell’antico patto fra Monarchia e le periferie
politiche. Nel
momento culminante della repressione Tutavila manifesterà con estrema
risolutezza la sua visione assolutistica che non tiene conto delle “libertà”
costituzionali: «La conservación del Reyno – scrive a Madrid nel settembre del
1670 – es lo primero a que se deve mirar, porque a no quitar de rayz esta gente
quedará este Reyno siempre expuesto a un buelco de dado, y estas zenizas jamás
se apagarán sino es quitándolas de todo punto, y por haverse tenido piedad y
contemporizándose en estas cosas han succedido gravísimos daños en todos los
Reynos, y en esta Monarchía de Su Magestad (que Dios guarde) se han
experimentado tan grandes desdichas y ynfortunios como se padecen, y buena
experiencia se tiene con Portugal, y por todas raçones se deven proveer en
propriedad todos los puestos que ocupan los delinquentes porque el no haverlo
hecho assí les ha ynfundido mayor ánimo esparciendo que por haver sido
justificadas sus acciones y tener tanta mano en el Reyno no se han resuelto a
proveer los Puestos, y en todo caso combiene que se les quite toda esperança a
ellos, y a sus parientes que no deven levantar cabeza en este Reyno por no
haverse contentado con lo que han hecho por lo passado»[149].
La distinzione
fra la nobiltà turbolenta ed infida – una minoranza - e gli altri sardi,
sudditi leali della Monarchia, è ricorrente nelle carte degli archivi del
Consiglio d’Aragona. In una lettera del 28 marzo 1669 al viceré di Napoli il duca Tutavila di
San Germán sostiene che «la mayor parte del Reyno son muy fieles vasallos de Su
Magestad, no obstante, como han sembrado que la muerte del Marqués de Camarasa
fue por haver echo matar al Marqués de Laconi por defensor de
La distinzione
fra sudditi fedeli e minoranze ribelli («gente bandolera», per il viceré) è
politicamente strumentale, ma è certamente più vicina al vero della versione
storiografica liberal-nazionale data nell’Ottocento dal poligrafo sardo
Vittorio Angius. Costui amplifica in chiave antispagnola e filosabauda il ruolo
politico di don Agustín, suscitatore della partecipazione corale dei sardi alle
rivendicazioni dei ceti parlamentari dell’isola. Scrive Angius: «sentivano anche
i plebei nella esclusione de’ compaesani dalle grandi cariche quanto da quei
governanti fossero vilipesi come inetti od indegni i molti uomini distinti che
si conoscevano nella patria. Ne’ quali pensieri fermentando più che mai i mali
umori, si disponeano gli animi a fatti gravi»[151].
L’analisi di Angius rispecchia in
maniera molto semplificata la tendenza ottocentesca a leggere le rivolte
dell’Europa moderna in chiave nazionalistica. Tuttavia il rifiuto di quelle
forzature non deve fare velo al fatto che nelle ribellioni secentesche si
delinea un’aurorale coscienza comunitaria che prelude ad un’evoluzione in senso
“nazionale”. È ovvio che si tratta di qualcosa di molto diverso dal sentimento
nazionale ottocentesco. Lo stesso termine “patria”, che ricorre con insolita
frequenza nei documenti qui utilizzati, ha nel Seicento tutt’altro significato
e va riferito più alla città o alla provincia natale che all’intera nazione[152],
benché la parola sia usata talvolta in un’accezione più ampia (come nel caso
del Principato di Catalogna)[153].
Insomma la parola “patria” presenta un largo margine d’indeterminatezza, di
ambivalenza e – se si vuole – di ambiguità semantica[154].
Va
detto anche che la frammentazione della società del tempo è un formidabile
freno allo sviluppo di una coscienza comunitaria. «Lo spirito di fazione – ha
scritto John H. Elliott – tendeva ad affossare il sentimento di una comune
identità, già incrinato dagli antagonismi sociali e dalle rivalità di
categoria»[155].
Su questo terreno, delle rivalità di categoria o di fazione, non maturano né la
difesa corale di principi costituzionali né la tutela d’interessi generali: ciò
non toglie che talvolta la lotta politica in sede parlamentare faccia propri
questi argomenti, quale espediente di una casta di privilegiati per tutelare
interessi particolari o privati.
(*) Relazione presentata nel Convegno internazionale di
studi storici: «Banditismi mediterranei. Secoli XVI-XVII»
(Fordongianus-Samugheo, 4-5 ottobre 2002). Il testo è destinato agli Atti del
Convegno, in corso di pubblicazione a cura di Bruno
Anatra (Università di Cagliari), Francesco Manconi (Università di Sassari) e Xavier Torres Sans (Universitat de Girona).
[1] Archivo HistÓrico Nacional (d’ora in poi AHN), Órdenes
Militares, Calatrava, Pruebas de Caballeros, exp. n° 525. Una sintesi della prueba in A. Javierre Mur, Caballeros
sardos en
[2] Archivo de
[3] Proprio il pleito portato davanti al Consiglio
d’Aragona per il possesso della baronia di Giave e Cossoine (una causa che vale
cinquantamila ducati) è uno dei motivi principali dell’inimicizia fra le case
di Alagón e di Castelví, inimicizia destinata a durare nel tempo e ad assumere
toni di particolare asprezza alla metà del Seicento (ACA, CdA, leg. 1170, il viceré Erill al Consiglio d’Aragona, 10 luglio
1621; leg. 1156, istanza di Blasco de Alagón al Consiglio d’Aragona per la
definizione della causa, s.d. [ma 1652]). Un’altra causa era stata intentata
dagli Alagón contro il fisco e contro i Castelví per l’eredità dei feudi dell’encontrada del Barigadu appartenuti ai
Cardona (F. Floris, Feudi e feudatari in Sardegna, Cagliari
1996, vol. II, p. 525). La situazione di conflittualità giudiziaria presenta
forti analogie con quella della Catalogna descritta da Eva Serra (Pagesos y
senyors a
[4] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes. Un
estudio sobre la decadencia de España (1598-1640), Madrid 1977, pp. 62-69.
[5] Cfr.
[6] ACA, CdA, leg. 1221, il conte de Cullar Juan
Bautista Cetrillas al Consiglio d’Aragona, 20 aprile 1616.
[7] ACA, CdA, leg. 1221, il marchese di Laconi Jaime
de Castelví al Consiglio d’Aragona, 22 aprile 1616.
[8] ACA, CdA, leg. 1221, il procuratore reale
Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona, 20 aprile 1616
[10] ACA, CdA, leg. 1090, dalla corte al
vicecancelliere d’Aragona, 15 maggio 1616; nomina dei giudici dei Consigli
d’Aragona e de Órdenes, 31 luglio
1616; deliberazione della junta mista
del 14 febbraio 1617.
[11] ACA, CdA, leg. 1223, istanze di Pablo de
Castelví al Consiglio d’Aragona del 2 giugno e 3 novembre 1617.
[12] ACA, CdA, leg. 1227, suppliche di Salvador de
Castelví del 22 aprile 1621, del 7 marzo e 25 ottobre 1622; parere del viceré
Erill del 22 aprile 1622.
[13] In generale,
sull’impunità dei nobili si veda A.
Domínguez Ortiz, La sociedad
española en el siglo XVII, vol. I, Granada 19922, pp. 282-283.
[14] ACA, CdA, leg. 1228, petizione di Salvador de
Castelví del 29 gennaio 1623; leg. 1230, petizioni del 30 marzo e 14 settembre
1624, 3 dicembre 1625.
[15] Accenni alla
tolleranza giudiziaria verso i nobili in J.A.
Maravall, Potere, onore, élites
nella Spagna del Secolo d’oro, Bologna 1984, p. 256.
[18] ACA, CdA, leg. 1236, Salvador de Castelví al
Consiglio d’Aragona, 31 gennaio 1634; leg. 1156, consulta del Consiglio d’ Aragona, 18 gennaio 1635; J. Aleo, Storia cronologica e veridica
dell’Isola e Regno di Sardegna dall’anno 1637 all’anno
[19] ACA, CdA, leg. 1238, Memoria de los cargos y empeño que tiene
[24] ACA, CdA, leg. 1231, Pablo de
Castelví al vicecancelliere d’Aragona, 14 dicembre 1626; Certificación de
[25] Sull’impegno
finanziario e personale richiesto ai nobili da Olivares, cfr. A. Domínguez Ortiz, La sociedad española cit., p. 228 ss. Sull’adesione volontaria dei sardi alla unión
de armas, cfr. J.H. Elliott, El conde-duque de Olivares. El político en una época de decadencia,
Barcelona 1990, p. 278.
[28] La figlia di
Crespí era andata in sposa al marchese di Villacidro e Palmas don Felix Brondo
y Castelví. Alla morte di don Felix, fra la vedova e il cognato Antonio Brondo
si era aperta una lite per la successione conclusa d’autorità in nome del re
(sicuramente su ordine del Consiglio d’Aragona) dal viceré Camarasa che aveva
preso possesso dei feudi per conto della vedova Crespí (J. Aleo, Storia
cronologica cit., pp. 256-257).
[33] J. Aleo, Historia cronológica y
verdadera de todos los sucesos y casos particulares sucedidos en
[34] Il notevole
impegno finanziario profuso dal marchese Castelví comporta la concessione di
un’importante merced, consistente in
esportazioni in franchigia dal regno di Sardegna di grano e legumi (ACA, CdA, leg. 1241, il marchese di Laconi
Juan de Castelví al Consiglio d’Aragona, consultas
del 9 gennaio e 14 marzo 1644).
[35] ACA, CdA, leg. 1135, documenti vari dal
febbraio 1646 al maggio 1647. Il contrasto porta ad un forte irrigidimento dei rapporti:
Castelví tenta di mobilitare la nobiltà contro il sopruso del viceré e Montalto
risponde comminando gli arresti domiciliari al marchese di Laconi (cfr.
specialmente ACA, CdA, leg. 1135, il
duca di Montalto al re, 30 agosto 1646). Il contrasto finirà per risolversi a
favore di Laconi per l’intervento del Consiglio d’Aragona (ossia del regente sardo Francisco Vico, protettore
del marchese di Laconi) che dispone la sua liberazione e la restituzione dei
beni sequestrati (ACA, CdA, leg.
1135, decreto
reale del 12 dicembre 1646; AHN; Consejos
suprimidos, lib. 2566, il re al duca di Montalto, 12 dicembre 1646 e 30
marzo 1647).
[36] AHN, Consejos suprimidos, lib. 2566, il re al
viceré di Sardegna, al marchese di Villasor e al marchese di Laconi, 24 aprile,
16 e 28 febbraio 1646
[37] AHN, Consejos suprimidos,
lib.2565, Al Virrey de Cerdeña sobre que
los Títulos y militares de Cáller se han juntado a campaña tañida y que lo
mismo intentan los Jurados para que ninguno que no sea natural tenga officio ni
beneficio ecclesiástico, 23 ottobre 1643.
[38] «S’impegnò [il
viceré] nel perseguire i ladri e i banditi che sono di solito molti,
specialmente nel Capo di Sassari e Gallura dove si appoggiano ai più potenti e
ricchi abitanti di quei villaggi» (J.
Aleo, Storia cronologica cit.,
pp. 109-110).
[39] I Castelví, per
esempio, non sono alieni dal servirsi di bandoleros
per risolvere i loro contrasti personali: lo aveva fatto don Juan nei contrasti
familiari per la successione al titolo marchionale, lo fa frequentemente don
Agustín e lo faranno i suoi sodali durante la crisi politica seguita al suo
assassinio.
[40] Biblioteca Nacional Madrid (d’ora in
poi BNM), ms. 12621, Memorial al Rey del
duque de Montalto, fols. 17-18.
[42] J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 128; P.
Tola, Castelví (Agostino di), in Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, ad vocem; B. Anatra, Castelví Agostino, in
Dizionario biografico degli Italiani,
ad vocem.
[46] Sulla repressione
del banditismo e della falsificazione delle monete di vellón al tempo del viceregno di Trivulzio cfr. F. Manconi, Il disordine monetario di metà Seicento, in Il grano del Re. Uomini e sussistenze nella Sardegna d’antico regime,
Sassari 1992, pp. 103-105.
[47] ACA, CdA, leg. 1137, cartello di sfida di
Agustín de Castelví e risposta di Blasco de Alagón in data 18 aprile 1651
[48] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Villasor
al Consiglio d’Aragona, 26 aprile 1651. Una descrizione degli avvenimenti
sostanzialmente corretta, anche se orientata a favore dei Castelví, è in J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 144-152.
[50] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Teodoro
Trivulzio al Consiglio d’Aragona, 27 aprile 1651. Gli avvenimenti bellici («las
cosas») d’Oristano a cui fa riferimento il viceré riguardano la contesa per il dominio
di quel marchesato fra Leonardo d’Alagón e il viceré Carrós d’Arborea, contesa
che segnerà nell’ultimo scorcio del Quattrocento la fine dell’anarchia feudale
e l’affermazione della preminenza reale sotto Ferdinando il Cattolico.
[51] Blasco de Alagón
sosterrà che la scorta che accompagnava Castelví in occasione dell’omicidio
Malonda era di circa centocinquanta uomini (ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Villasor al vicecancelliere
d’Aragona, 24 maggio 1651).
[52] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Trivulzio e la
reale Audiencia al Consiglio
d’Aragona, 8 maggio 1651.
[54] ACA, CdA, leg. 1137, decreti vicereali del 4
e 6 maggio 1651; consulta del
Consiglio d’Aragona, 17 maggio 1651; J.
Aleo, Storia cronologica cit.,
p. 151.
[59] ACA, CdA, leg. 1137, atto di concordia firmato a Madrid da Francisco
de Borja, Claudio Pimentel e Jorge de Castelví, 18 agosto 1651.
[60] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Cea a
Filippo IV, 31 agosto 1651; i marchesi di Villasor e di Laconi a Filippo IV, 2
settembre 1651.
[61] ACA, CdA, leg. 1137, consultas del Consiglio d’Aragona in data 11 e 18 ottobre 1651;
AHN, Consejos suprimidos, lib.2568,
Filippo IV al viceré Guevara, 7 novembre 1651.
[63] J. Aleo, Storia cronologica cit., p. 160; F.
Manconi, Castigo de Dios. La grande
peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma 1994, p. 234.
[65] ACA, CdA, leg. 1137, consulta del Consiglio d’Aragona del 1 dicembre 1651. Il Consiglio consente
ai due marchesi di Laconi e di Cea di trasferirsi a Madrid, ma confina il primo
in casa del principe di Squillace e il secondo presso don Jorge de Castelví.
[70] Tanto per fare un
esempio, pende davanti alla Audiencia
sarda un procedimento giudiziario
conseguente alla sommossa dei suoi vassalli della villa di San Basilio nel 1650. Il conflitto fra il marchese e i
vassalli era insorto per la pretesa dell’ufficiale feudale di San Basilio di
riscuotere un tributo sul raccolto del grano da cui i primi erano esentati in
virtù d’un capitulo de gracia
stipulato col marchese. Le proteste portate a Cagliari dai contadini erano
degenerate in un conflitto armato quando alcuni di loro erano stati arrestati e
il comisario di Villasor si era
recato a San Basilio con 150 uomini in armi con propositi repressivi. La
resistenza degli abitanti aveva provocato l’intervento diretto del marchese,
che si era presentato nel feudo con 1300 cavalieri armati costringendo i
vassalli a lasciare le case e fuggire nei boschi. Come ultima misura aveva
sequestrato loro i terreni in concessione. Quando don Blasco viene esiliato
dall’isola, il ricorso dei vassalli è ancora pendente davanti alla Audiencia di Sardegna (AHN, Consejos suprimidos, lib.2568, Filippo
IV al viceré Guevara, 21 luglio 1651).
[71] AHN, Consejos suprimidos, lib.2568, Filippo
IV al governatore di Sardegna, 20 luglio, 31 agosto e 9 ottobre 1652.
[74] Biblioteca Nacional de
Catalunya, Sumario
de todas las cartas de Su Magestad que contiene este libro, escritas al
Illustrisimo Señor D. Pedro Martínez Rubio, durante la visita general que hizo
en el Reyno de Cerdeña el año 1649 hasta el 1665, da Filippo IV a Pedro
Martínez Rubio, 4 agosto 1652.
[75] ACA, CdA, leg. 1361, il viceré Lemos al re, 6
ottobre 1656. Si veda anche R. Turtas, La
riforma tridentina nelle diocesi di Ampurias e Civita, in Studi in onore di Pietro Meloni, Sassari
1988, pp. 245-246.
[78] ACA, CdA, leg. 1201, carteggio fra il viceré
Lemos e
[83] AHN, Consejos suprimidos, libro 2569, Filippo
IV alla Audiencia di Sardegna, 7
novembre 1656; Archivio di Stato di
Cagliari (d’ora in poi ASC), Reale
Udienza, Miscellanea, b. 67/1, carta reale del 7 novembre 1656.
[86] Cfr. gli studi
fondamentali di X. Torres Sans, Els bandolers cit.; Id., Nyerros i cadells: bàndols i bandolerisme a
[89] La questione
della lite patrimoniale è descritta in un memoriale di Jaime Artal de Castelví
(ACA, CdA, leg. 1136, il marchese di
Cea al Consiglio d’Aragona, s.d. [ma 24 agosto 1663]). Un altro memoriale che
confuta il precedente viene inoltrato dal carcere da Agustín de Castelví (ACA, CdA, leg. 1136, il marchese di Laconi al
Consiglio d’Aragona, 29 agosto 1663).
[94] ACA, CdA, leg. 1136, il viceré Ludovisi al
vicecancelliere d’Aragona Crespí de Valldaura, 8 dicembre 1663.
[95] AHN, Consejos suprimidos, libro 2571, Filippo
IV al viceré principe di Piombino, 18 novembre 1663.
[98] AHN, Órdenes Militares, Calatrava, Archivo
Judicial, n° 45804, provvisione di Filippo IV che ordina al viceré e alla Audiencia di Sardegna di rimettere alla Junta de competencias le carte del
processo Castelví-Cea, 23 gennaio 1664; ACA, CdA, leg. 1136, Filippo IV al vicecancelliere del Consiglio
d’Aragona, 13 marzo 1664.
[100] AHN, Consejos suprimidos, libro 2571, Filippo
IV al viceré principe di Piombino, 5 aprile 1664; ACA, CdA, leg. 1136, consulta del
Consiglio d’Aragona, 17 giugno 1664.
[102] AHN, Órdenes Militares, Calatrava,
Archivo Judicial, n° 45804, provvedimento del Consejo de Órdenes, 6 ottobre 1664.
[103] AHN, Consejos suprimidos, libro
2571, Filippo IV al viceré marchese di Camarasa, 19 agosto 1665.
[104] AHN, Órdenes Militares, Calatrava, Archivo
Judicial, n° 45804, atti giudiziari vari del Consejo de Órdenes, 19 novembre 1665.
[106] BNM, ms. 197005, Instrucción de
Felipe IV al Marqués de Camarasa, Lugartiniente y Capitán General del Reino de
Cerdeña, de lo que había de observar para la buena dirección y conclusión del
Parlamento que S.M. mandó celebrar en su nombre en aquel Reino, 30 maggio
1665.
[107] Sono evidenti le
analogie fra il caso sardo e quello catalano descritto da J.H. Elliott, Un’aristocrazia locale: la classe dirigente catalana nei secoli XVI e
XVII, in
[109] E. Belenguer Cebrià,
[110] F. Manconi,
[112] In una relazione al Consiglio d’Aragona riguardante gli avvenimenti del
parlamento Camarasa la situazione generale dell’ordine pubblico è così
descritta: «Se hallava el Reyno en peor estado infecto con gran número de
vandidos que urtavan y matavan todos los días en poblado y fuera dél sin que
viese ningún castigo y que como no les perseguía la justicia andavan con mano
armada tropas de a veinte hombres y más en dichas ciudades y villas de dicho
Reyno como Sáçer Castillo Aragonés y otras donde ivan a cinquenta y ochenta
hombres de esquadra sin que la justicia hiciesse la menor demostración en orden
al remedio, lo qual obligava aquellos naturales a desamparar sus aziendas de
cuyo prozedido podían solo servir a Su Magestad, que solo en los cavos de Sáçer
y Lugudor después del govierno del Marqués de Castel Rodrigo havían muerto más
de quatrocientos hombres de arcabuzazos» (ACA, C.d.A., leg. 1134, Relación de los suzessos de Zerdeña desde el
principio de las Cortes que zelebró el Marqués de Camarasa hasta su muerte. Y
la de los que cooperaron en ella, juntamente con un resumen de los cargos que
resultan de los prozesos contra los culpados).
[113] Traggo la
citazione del documento, conservato nella British
Library (Add. 13.997, fols. 463-465), da X. Gil Pujol, Una cultura cortesana
provincial. Patria, comunicación y lenguaje en
[114] AHN, Consejos suprimidos, libro
2572, Relación de las Cortes hasta que el
Marqués de Lacony hubo de venir a Madrid, fol. 239.
[115] AHN, Consejos suprimidos, libro
2572, Relación de las Cortes cit.,
fols. 239v-240r.
In verità deroghe alle normali procedure si verificano a più riprese nei
parlamenti sardi: per esempio, nel parlamento Cardona del 1543 la riparazione
dei greuges era stata posposta alla
concessione del servicio per venire
incontro alle urgenti necessità finanziarie dell’imperatore (F. Manconi, Il governo del regno di Sardegna al tempo dell’imperatore Carlo V,
Sassari 2002, p. 80).
[117] Il particolarismo parlamentare che si ravvisa nel caso della Sardegna
presenta analogie col caso catalano descritto da Ricardo García Cárcel, La
revolución catalana: problemas historiográficos, in Rebelión y Resistencia en el Mundo Hispánico del siglo XVII, eds. Werner Thomas –
Bart De Groof, Leuven, 1992, pp. 126-130. Per un’analisi ravvicinata del
dibattito del parlamento Camarasa si rinvia alle relazioni inedite appena
citate, agli atti parlamentari ancora inediti, nonché agli studi di A. Llorente, Cortes y sublevación en Cerdeña, bajo la dominación española, in
«Revista de España», a. I, 1868, pp. 270-275; B.
Anatra,
[118] L’argomento è ripreso nella Relación
de los suzessos de Zerdeña del 1667 quando si dice che «las dificultades
que se havían esperimentado en las Cortes procedían principalmente de ser el
Arzobispo de Caller natural y el obispo de Ales también» (ACA, C.d.A., leg.
1134, Relación de los suzessos de Zerdeña
cit.).
[119] La sintesi delle trattative Crespí-Laconi è tratta da ACA, C.d.A., leg.
1134, Relación de los suzessos de Zerdeña
cit.; AHN, Consejos suprimidos,
libro 2572, Relación de las conferencias
con el Marqués de Laconi y como se reduxo a quatro puntos su pretensión,
fols. 244v-249r.
[120] ACA, C.d.A., leg. 1210, Copia de una
de las cartas que desde esta Corte envió al Marqués de Lacony a sus confidentes
de Cerdeña, 3 dicembre 1667.
[121] AHN, Consejos suprimidos, libro
2572, Relación de lo que pasó haviendo
llegado don Francisco Cao camarada del Marqués de Lacony y un criado del mismo
Marqués, fols. 254v.
[123] ACA, C.d.A., leg. 1210, dal regente
[125] ACA, C.d.A., leg.
1210, la marchesa di Villasor a Crespí de Valldaura, 6 aprile 1668; il vescovo
di Ales al Consiglio d’Aragona, 15 giugno 1668.
[137] A. Llorente, Cortes y sublevación en Cerdeña
cit., pp. 284-287. Una descrizione anonima dei funerali e dei torbidi nei
giorni seguenti la morte di Laconi è in ACA, CdA, leg. 1134, Sobre la
muerte del marqués de Lacony, s.d.
[138] Significativo è
il tentativo compiuto dal delegato vicereale Simón Soro e dal regidor Juan de Claveria di catturare il
marchese di Cea e i suoi accoliti riparati in Gallura: «como allí no es posible
el poderse hacer presa alguna sino es con los mesmos de
[141] ACA, CdA, leg. 1132, Los síndicos de los tres arrabales de
[143] Al riguardo si rinvia a ACA, CdA,
leg. 1132, Instrucción para el Duque de
S. Germán quando fue a Serdeña hecha de orden de Su Magestad y emendada de mano
del Señor Vicecanciller.
[144] B. Anatra, Castelví Giorgio e Castelví
Iacopo Artaldo, in Dizionario
biografico degli Italiani, ad vocem.
[145] AHN, Consejos suprimidos, libro
2572, Mariana de Austria a Camarasa, 7 luglio 1668, fol. 211r.
[146] Il nuovo processo
riaperto dal viceré di San Germán per i delitti dei due marchesi porrà fine
alle mormorazioni sul delitto Castelví e sancirà che i mandanti di
quell’assassinio erano la giovane moglie Francesca Zatrillas e il suo amante
Silvestre Aymerich (J. Aleo, Storia cronologica cit., p. 299; D. Scano, Donna Francesca di Zatrillas cit., p. 178 ss).
[150] ACA, CdA, leg. 1132, copia de carta del Duque de San Germán
escripta al Virrey de Nápoles. 28 de marzo 1669.
[151] G. Angius, Memorie de’ Parlamenti generali o Corti del Regno di Sardegna, in G. Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di
S.M. il Re di Sardegna, vol. XVIII quater, Torino 1856, p. 789.
[153] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes cit., pp.
42-43; X. Torres Sans, Dinastismo y patriotismo en