N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

Don Agustín de Castelví, “padre della patria” sarda o nobile-bandolero?(*)

 

 

Francesco Manconi

Università di Sassari

 

 

 

Dall’expediente n° 525 relativo a una prueba de caballeros del Consejo de Órdenes risulta che il 1° luglio del 1633 a don Agustín de Castelví, natural di Cagliari, viene fatta merced del hábito dell’ordine di Calatrava. Agustín è figlio di don Francisco de Castelví, marchese di Laconi e cavaliere di Santiago, e della nobildonna Francisca Lanza. I nonni paterni, entrambi cagliaritani, erano don Jaime de Castelví e doña Ana Aymerich; i nonni materni, il palermitano don Octavio Lanza principe de la Trabia e signore di Mussumeli e la catanese doña Juana Jueni y Ortega. È limpio de sangre, don Agustín, è «hijo dalgo assí de parte de su padre como de su madre al modo y fuero de España». Con queste prove, assunte dai testimoni designati dal Consiglio, il candidato può vestire l’hábito di Calatrava[1]. In quel momento egli è soltanto «un niño de siete años», designato a ricevere la merced per surrogare il fratello defunto don Luxorio. L’eccezionalità del caso comporta una consulta del Consiglio d’Aragona: ma in tempo di “inflazione degli onori” il verdetto non può che essere favorevole, anche perché la surroga viene caldeggiata da Francisco Vico, regente sardo nel Consiglio d’Aragona[2]. È un buon avvio di carriera per un segundón, appartenente a una casata prestigiosa ma priva, in Sardegna, di rendite adeguate al rango.

La famiglia Castelví risulta ben inserita nel sistema di patronazgo nell’ambito della Corona d’Aragona. In Sardegna emerge con la “terza ondata” dell’emigrazione nobiliare catalano-aragonese, ossia negli anni a cavallo fra Quattro e Cinquecento; occupa spazi economici vitali a partire dagli anni del regno dell’imperatore Carlo V, dedicandosi in qualche caso all’amministrazione degli estados sardi della grande feudalità catalano-valenziana (i feudi dei Carrós e gli stati di Oliva). Nella seconda metà del secolo XVI, ma soprattutto nel primo Seicento, consolida le proprie posizioni economiche e sociali seguendo i percorsi consueti di molte casate trapiantate nell’isola dai regni di terraferma: acquista feudi in via di dismissione, stipula matrimoni che assicurano più stretti intrecci parentali e permettono di rimpinguare esigui patrimoni, contende con interminabili pleitos il possesso di terre feudali ad altre case aristocratiche[3]. Sollecita infine favori e mercedes a corte nonché promozioni sociali in periferia, come ricompensa dei servizi prestati alla Monarchia nelle molte campagne di guerra e per lo spirito d’acquiscenza dimostrato sempre durante la celebrazione dei parlamenti. Insomma, quella dei Castelví è una storia che non si discosta dalle biografie familiari della nobiltà della provincia catalano-aragonese descritta da John H. Elliott[4].

Ma va anche detto che i Castelví insediati in Sardegna costituiscono una famiglia numerosa e assai ramificata. Gli effetti negativi che ne derivano per la conservazione accorpata del patrimonio e per il benessere economico dei singoli sono molti e finiscono per riverberarsi sulla compattezza familiare, sulla conservazione del prestigio sociale e sulla tenuta dell’influenza politica della casata. Quando si scorrono le loro genealogie[5] si percepisce che non tutti i Castelví hanno destini e prospettive sociali d’alto profilo. Alcuni rami della famiglia restano segregati nel villaggio, in una dimensione sociale così ristretta che non potranno trovare collegamenti col potere politico e quindi col favore reale. Un’esistenza confinata nella marginalità rurale oppure una mediocre sopravvivenza in città dipendente da modeste rendite fondiarie relegano costoro in un ruolo subalterno rispetto ai titulos della casa. Saranno per questo il tramite indispensabile fra i vertici della famiglia, i vassalli e la gente bandolera assoldata nei momenti di mobilitazione del grande bando dei Castelví.

Per lungo tempo risulterà molto evidente lo scarto fra il lignaggio dei Castelví e le disponibilità economiche della casa in Sardegna. L’affanno continuo per migliorare la condizione sociale, per conseguire gli agi e l’altrui considerazione che derivano dalla ricchezza, per accrescere le finanze familiari dei segundones e dei molti ecclesiastici della famiglia è all’origine della mancata linearità dei comportamenti dei Castelví. Sono costoro incostanti e mutevoli nei rapporti con la Monarchia e specialmente con coloro che all’ombra della Monarchia prosperano (come la casa d’Alagón, tradizionalmente filomonarchica) o che della Monarchia sono i rappresentanti istituzionali (il viceré e i suoi funzionari del consiglio reale). Fasi d’incondizionata fidelidad e di generoso servicio militare verso il re si alternano, sia al centro che in periferia, a momenti di contrasto col potere reale che sconfinano talvolta in episodi di ribellismo.

Prima d’affrontare la vicenda personale del nostro don Agustín è utile conoscere almeno sommariamente il contesto sociale e familiare in cui egli agisce. Nel 1616 Salvador de Castelví uccide proditoriamente, mentre dorme nel palazzo di Laconi, sua moglie Isabel Aymerich. Il delitto segue di alcuni giorni la morte violenta di un clérigo, un uomo di fiducia della nobildonna, eliminato ad archibugiate in campagna ad opera di banditi o di servi di don Salvador. Il viceré duca di Gandía e la Audiencia di Sardegna incriminano l’uxoricida e lo condannano alla pena del garrote; in pari tempo riconoscono come correi il padre don Jaime, primo marchese di Laconi, e il fratello don Pablo, visconte di Sanluri e procuratore reale del regno di Sardegna, ai quali comminano gli arresti domiciliari in attesa dell’inchiesta giudiziaria[6].

Immediatamente la famiglia fa quadrato intorno all’uxoricida creando una fitta rete di protezioni e di garbugli giuridici. Per sfuggire alla giustizia reale don Salvador si dà da fare perché il giudizio venga rimesso a giurisdizioni più compiacenti che gli assicurino le consuete impunità riservate ai nobili. Dopo aver rivendicato i meriti della sua casa verso la Monarchia, apre un contenzioso sul privilegio di foro che compete ai tre imputati come cavalieri di Santiago. È anche familiare del Santo Officio, don Salvador, e per un certo tempo sembra orientato a rivendicare la speciale giurisdizione ecclesiastica. La linea di difesa dei Castelví segue anche un’altra strada, che consiste nello screditare i giudici locali - il viceré Gandía e l’Udienza reale – e nel lamentare l’eccessivo rigore della condanna («como si fuera [don Salvador] el major facineroso del mundo – sostiene il marchese - afrentando a mi y a mis hijos y a toda mi casa que en este Reyno es tan antiga y que siempre se ha empleado en el Real servicio de Vuestra Magestad»[7]). Dal suo canto, don Pablo lamenta i pregiudizi arrecati alla sua autorità di procuratore reale e la violazione delle esenzioni giurisdizionali connesse all’ufficio perché - sostiene - «conviene que el procurador real sea, como es, inmediatamente sujeto a Vuestra Magestad»[8]. Ma c’è un’ultima copertura giuridica che i Castelví non trascurano: appena fuggito da Laconi, don Salvador sfrutta il diritto d’asilo rifugiandosi in un convento nei pressi di Cagliari.

Le rimostranze dei Castelví trovano facile accoglimento a Madrid. In forza di un vecchio capitolo di corte sardo, che impone l’obbligo di ratificare in Consiglio d’Aragona le sentenze pronunciate dalla reale Udienza contro i nobili, la causa giudiziaria finisce a Madrid dove è possibile rivendicare un nuovo processo davanti al compiacente Consejo de Órdenes. Non bastano il parere contrario del vicecancelliere d’Aragona né la fermezza del viceré Gandía nel riaffermare la competenza esclusiva della giurisdizione reale per neutralizzare le pressioni esercitate dagli imputati negli ambienti di corte[9]. Poco tempo dopo una junta mista di membri dei Consigli d’Aragona e degli Ordini militari delibera la competenza giurisdizionale del Consejo de Órdenes che a sua volta delega un suo giudice per celebrare il processo in Sardegna[10]. È così che poco dopo l’azione penale viene praticamente neutralizzata. Don Pablo, che vuole recuperare al più presto la pienezza dei suoi poteri di procuratore reale, ottiene a corte un ridimensionamento dell’imputazione di correità per sé e per il padre[11]. Anche l’uxoricida don Salvador, su cui pende sempre la condanna al garrote, finisce per trovare le scappatoie per conquistarsi l’impunità. Fugge dall’isola, si arruola prima nei tercios delle Fiandre e poi presta servizio militare in Lombardia e in Sicilia. Alla fine i meriti acquisiti al servizio del re legittimano la commutazione della pena capitale nel destierro, nell’esilio in uno dei regni della Corona. A favore del supplicante giuocano la precaria condizione economica, gli encomiabili servizi resi alla Monarchia, il perdono dei parenti delle sue vittime e, naturalmente, la «calidad de su casa». La supplica di don Salvador al Consiglio d’Aragona è del 22 aprile 1621: è il primo passo di un rapido procedimento di revisione giudiziaria che si conclude l’anno dopo. Su parere favorevole del viceré sardo conte de Erill, il perdono viene accordato da Madrid «por ser esta causa de honor»[12].

L’impunità, dunque, è assicurata[13]. La reintegrazione sociale del signore sardo sarebbe completa se egli non dovesse affrontare le difficoltà economiche che affliggono i cadetti di nobile famiglia che non dispongono di una propria casa solariega e che non trovano compensazioni materiali nella milizia. Per di più il fratello Francisco, divenuto secondo marchese di Laconi, gli nega quella modesta quota del patrimonio familiare che gli era stata donata dal padre. Cadono nel vuoto anche le reiterate richieste a Madrid di una carica pubblica (si tratta di modeste plazas di governo nelle città di Cagliari e Sassari o del comando della cavalleria del Capo di Sassari). Soltanto nel 1625, quando ormai questo cavaliere versa in «estrema necessidad», il Consiglio d’Aragona gli accorda una modesta pensione sulle rendite della Tesoreria reale di Sardegna[14]. Ci siamo dilungati sul caso di Salvador de Castelví perché rappresenta bene i comportamenti violenti di una certa nobiltà di provincia, favoriti dalla crisi dell’autorità reale nella periferia e sempre coperti da una giustizia oltremodo tollerante[15]. La sua tormentata vicenda personale dà anche la misura del peso determinante che le questioni patrimoniali finiscono per assumere nella vita della nobiltà di secondo rango.

Nel 1629 muore il secondo marchese di Laconi don Francisco. Lascia la vedova Francisca Lanza di Trabia e sei figli in minore età, fra cui il nostro don Agustín. Le risorse economiche della casa parrebbero di modesta entità se, come sostiene doña Francisca, «el estado es muy cargado de deudas, y no hay bienes libres siendo el marqués pobre»[16]. Tuttavia i fratelli del marchese defunto, don Salvador e don Pablo, pongono gli occhi sopra quell’esiguo patrimonio. Si adoperano per sottrarre alla madre la tutela dell’erede del titolo (il figlio minore Lussorio, destinato a morire di lì a poco) e concertano il matrimonio del giovane terzo marchese di Laconi con la figlia di don Pablo. La scoperta intenzione di controllare il mayorazgo dei Castelví mira non solo all’accorpamento del patrimonio nelle mani dei segundones della casa, ma anche a migliorare la condizione economica di don Pablo per consolidarne la posizione sociale e il possesso di cariche pubbliche. La causa giudiziaria fra i fratelli Castelví e Francisca Lanza, donna di forte carattere, «briosíssima» nel giudizio del viceré Vaiona, ha risvolti d’inaudita violenza verbale nelle sale del palazzo vicereale di Cagliari anche nei confronti dei giudici dell’Udienza e dello stesso viceré[17].

Nel 1634, dopo la morte di don Lussorio, la titolarità del marchesato di Laconi è oggetto di una nuova contesa fra don Salvador e il nuovo erede del titolo Juan de Castelví, fratello di Agustín. Mentre è in corso la causa davanti al Consiglio d’Aragona, Juan, in compagnia di bandoleros in armi, dà l’assalto alla casa dello zio per sottrargli una considerevole somma di denaro offerta dai vassalli per sostenere la causa a Madrid[18].

Ma la soluzione dei problemi finanziari in cui si dibattono don Salvador e don Pablo non può venire solo dal controllo del mayorazgo della casa. Una memoria presentata davanti al Consiglio d’Aragona evidenzia i forti indebitamenti personali del procuratore reale di Sardegna che sono la causa di una discutibile gestione del patrimonio reale[19]. È in forti ambasce economiche, don Pablo, ha una famiglia numerosa da sfamare e la carica pubblica e il possesso delle encontradas di Siligo e del Meilogu[20] non possono assicurargli un’esistenza adeguata al suo rango di alto funzionario del regno. Fare ricorso al re è per lui ineluttabile: chiede per sé il titolo di marchese (otterrà quello di marchese di Cea)[21] e indirizza i figli alle carriere militare ed ecclesiastica nella prospettiva di un futuro inserimento nella burocrazia reale. Ma non sono le sole istanze che don Pablo avanza a corte: chiede ancora mercedes di varia natura, fra cui la concessione di terre demaniali nei pressi di Cagliari (il salt di Soleminis) «para poder tener en ellas algun poco de ganado para la provisión de su Casa»[22], «la primera resulta de canonicato que vacare en el Reyno de Cerdeña para su hijo Jusepe»[23] ed infine, fra il 1626 e il 1629, la plaza di «coadjunto con la futura sucesión en el oficio de procurador real» per il primogenito Jaime Artal[24].

Il saldissimo legame di patronazgo assicura a questo ramo collaterale dei Castelví molti favori, ma obbliga talvolta il vecchio procuratore reale a qualche contropartita assai onerosa. Nel 1639 don Pablo finirà per indebitarsi fino al collo quando sarà obbligato ad assumere la carica di maestre de campo del tercio di fanteria che si leva in Sardegna nel quadro della unión de armas e che viene destinato nelle Fiandre sotto il comando del figlio don Jorge[25]. Per ricompensare i molti naturales sardi di sangue nobile che partecipano alla spedizione, don Pablo chiederà una ayuda de costa adeguata o, in alternativa, cinque cavalierati, cinque noblezas e un titolo di marchese[26]. Il sostegno finanziario al tercio di Sardegna tarderà a venire, ma le ricadute positive comunque non mancheranno per la casa Castelví. È da quel momento che don Jorge, paggio di Filippo IV fintanto che «se ciñó espada», viene destinato ad una carriera militare prestigiosa nei campi di battaglia di Fiandre e d’Italia come sargento mayor prima e come maestre de campo dopo. Finirà per conquistare la fiducia personale del sovrano, il quale gli attribuirà diversi incarichi di grande delicatezza[27]. È tanto il credito a corte di don Jorge che nel 1647 viene ventilata nel Consiglio d’Aragona la possibilità di concedergli la patente di governador de las armas del regno di Sardegna, col compito di coordinare la difesa militare in caso d’invasioni nemiche. La candidatura viene subito osteggiata dal vicecancelliere Cristobal Crespí de Valldaura (è il primo segnale dell’ostilità dell’aristocratico di Valencia verso i sardo-valenziani Castelví con i quali era imparentato[28]) e dal regente conte di Albatera, i quali ravvisano nella nuova carica una diminuzione delle funzioni istituzionali del viceré di Sardegna e un motivo «de encuentros y […] disensiones civiles entre los naturales»[29]. Poco dopo, nel 1648, quando muore Francisco Vico, don Jorge viene gratificato con la plaza di regente de capa y espada nel Consiglio d’Aragona[30]. La nomina solleva forti perplessità in Consiglio perché «l’administración de la justicia» del regno di Sardegna richiederebbe le competenze di un letrado, e non di un militare, e perché il candidato «no tiene vassallos algunos por ser hijo segundo en su casa». Ma don Jorge è persona «de mucha sangre, y gran soldado» e per lui si può fare un’eccezione[31].

La biografia del primogenito Jaime Artal de Castelví ha tratti comuni con quella del fratello don Jorge. Agli inizi, una carriera militare lunga, tormentata ma limpidamente commendevole: dopo aver servito il re per sette anni con una compagnia di fanteria nello stato di Milano, era stato trasferito nelle Fiandre e lì aveva prestato servizio per altri cinque anni; recatosi a corte per ottenere una ricompensa dal re, sulla via del ritorno in Sardegna era stato fatto prigioniero dai mori e condotto a Tunisi. Dopo quattro anni di prigionia ottiene la libertà al prezzo di 15 mila scudi d’argento[32]. Col ritorno nel regno di Sardegna, la successione al padre nel titolo marchionale gli apre la strada per la carica di procuratore reale in Sardegna. A dispetto delle difficoltà incontrate nella fase del consolidamento economico e politico, la casa collaterale dei Castelví finisce per costruirsi una posizione di grande prestigio e di sicurezza economica all’ombra della Corona. Col tempo sarà capace di conquistare spazi politici di primo piano, specialmente dopo la promozione di don Jorge a regente del Consiglio d’Aragona.

Tutto questo avviene – vale la pena di notarlo - al tempo della privanza del conte-duca di Olivares, quando le fortune della nobiltà provinciale dipendono più che mai dal favore reale. Per l’aristocrazia sarda l’adesione alla politica della Monarchia non conosce riserve né esitazioni. Per la pressante propaganda del regente Vico, principale interprete nell’isola della volontà del conte-duca, il sostegno all’unión de armas è pressoché illimitato. Le grande famiglie fanno a gara ad armare tercios per la guerra di Catalogna e ad inviare nei teatri della guerra consistenti quantità di viveri per l’approvvigionamento delle truppe castigliane. A muovere i nobili sardi è solo il valore di una fidelidad senza condizioni o sono determinanti le prospettive di ricompense materiali e di carriera? Sicuramente l’affannosa ricerca di migliori condizioni economiche è decisiva per orientarsi verso un vincolo tanto forte con la causa della Corona e per una dedizione politica assoluta che non può non destare sorpresa in famiglie d’origine catalana e aragonese.

Certo è che in questo tempo le promozioni sociali ed economiche tanto agognate crescono sensibilmente. I bilanci finanziari e il credito sociale delle case aristocratiche dipendono sempre di più dal patronazgo real. Quando nel 1642 Juan de Castelví, quarto marchese di Laconi e visconte di Sanluri, si presenta a Madrid come síndico del parlamento celebrato dal viceré Fabricio Doria per offrire il donativo di settantamila scudi votato dagli stamenti, il sovrano gli chiede subito di fare a sue spese la leva di un reggimento di cavalleria per la guerra di Catalogna. Un reggimento di settecento cavalieri diviso in dieci compagnie viene armato e trasferito sulla terraferma al comando del marchese. Gli ufficiali che lo comandano sono, oltre don Juan, il fratello minore Agustín e alcuni rampolli dell’aristocrazia sarda legata da vincoli di parentela o di clientela con i Castelví. Il reggimento si distingue nella presa di Monzón, acquisisce meriti sul campo di battaglia (lo stesso Agustín verrà fatto prigioniero dai francesi), sarà infine oggetto di riforma e di fusione con un reparto di soldati borgognoni.

Dal suo canto anche il marchese di Villasor Blasco de Alagón, il rivale dei Castelví, raccoglie le sollecitazioni di Madrid. Il nobile sardo più altolocato è maestre de campo del tercio di sardi che egli leva a sue spese nell’isola e conduce in Catalogna per sostenere la Monarchia asburgica «con otros muchos cavalleros que le hizieron compañia». Racconta il cronista Jorge Aleo che don Blasco «sirvió en aquellas guerras con la puntualidad y valor que semejantes cavalleros y señores atendiendo a la noblesa de su sangre y calidad de su persona suelen»[33].

La partecipazione all’unión de armas dei nobili sardi, le straordinarie contribuzioni in denaro, in grano, in vettovagliamenti garantite dal regno di Sardegna alla Corona nella guerra di Catalogna accrescono il credito di alcune case aristocratiche a Madrid e di conseguenza assicurano importanti mercedes personali[34]. La promozione sociale assicurata dal patronazgo real vede i Castelví beneficiari di prima fila fra la nobiltà sarda. Negli anni quaranta del Seicento la casa ha ormai assunto un ruolo preminente e forma assieme gli Aymerich, legati ai Castelví da vincoli di parentela e da affinità politiche, un formidabile gruppo di pressione.

È da quel momento che la casa può confrontarsi ad armi pari con la più prestigiosa casa rivale degli Alagón e può persino permettersi di uscire allo scoperto nel contrastare l’azione di governo dei viceré. Sulle prime la contrapposizione al potere monarchico è del tutto occasionale, ma consente di verificare quanto sia accresciuta l’influenza politica della casata. L’autoritarismo del viceré Moncada duca di Montalto, che nega a don Juan de Castelví l’autorizzazione ad usufruire d’una merced reale d’esportazione in franchigia di grano e di legumi, determina un conflitto assai aspro che coinvolge vari nobili del regno e lo stesso Consiglio d’Aragona. La vertenza è destinata a concludersi con uno smacco politico per il viceré[35].

Non v’è dubbio che l’episodio segna una significativa vittoria per il nobile Castelví e una pubblica legittimazione della sua posizione sociale preminente. Certo le difficoltà di rapporti del viceré Montalto con tutta la nobiltà sarda hanno anche altre cause più sostanziali, che vanno dalle questioni di preminenza del ruolo vicereale spesso denegate dalle grandi casate[36]; passano per i tentativi messi in atto dalla nobiltà cagliaritana d’imporre fuori del parlamento, in riunioni irrituali dello stamento militare, l’esclusività ai naturales degli oficios e dei benefici ecclesiastici[37]; giungono ad un’ostilità sorda ma palpabile di molti nobili quando la repressione del banditismo, voluta con molta energia dal viceré, tocca da vicino interessi signorili[38]. Il duca di Montalto non si limita a perseguire i malfattori e i ladri che commettono una quantità enorme di delitti, di omicidi e di furti nelle campagne, ma tenta di spezzare il perverso legame fra i banditi e coloro i quali nei villaggi accordano protezione e mantengono al loro servizio uomini armati pronti ad essere impiegati negli scontri fra fazioni rivali[39]. Una pagina nel memorial che il duca invia al re Filippo IV sulle cose di Sardegna rappresenta bene la situazione che egli trova nel regno di Sardegna quando vi giunge come viceré: «Ardía Zerdeña entonces – scrive Moncada al sovrano - en llamas de discordia, de ira, y de vengança, hallé los campos, las calles, todo el Reyno, Señor, hallé cubierto de sangre, los tribunales sin uso, corrida la Justicia, radicada la atrocidad con embejecida costumbre […] a los primeros pasos de mi ingreso reconoció serenidad en su tormentosa inquietud aquella fatigada república […] Los Magistrados abatidos ocuparon su dosel, las armas de fuego que es la pernicie de aquel Reyno tan del todo se extinguieron que no seguros con retirarlas en las clausuras, se supo que pusieron infinidad dellas por todo el tiempo de mi asistencia hasta en las mismas sepulturas. En este grado resplandeció la Justicia assí se immutó en breves días aquel lastimoso ultrage en que miseramente estaba constituida por la desorden de los tiempos, y malicia de los delinquentes, temiéronme de solo pareçerles, que me podían temer, y es assí que ningún Virrey ha vertido menos sangre que yo […]»[40].

C’è del vero nella rappresentazione della realtà sarda tracciata forse con eccessiva enfasi da Montalto. Ma è una verità parziale perché egli tace sul sostanziale fallimento del suo governo. L’effettivo potere che egli esercita sul territorio è quasi nullo per via dell’ostilità della classe dirigente “naturale” del regno. Per governare con successo non basta il sostegno della Audiencia e della burocrazia reale, ma occorre l’appoggio della nobiltà, delle oligarchie municipali e, prima di tutto, del regente provinciale nel Consiglio d’Aragona. Invece questa formidabile coalizione di forze, sicuramente orchestrata da Francisco Vico in questa fase storica, è profondamente ostile a Moncada. Le frizioni di questo viceré impolitico ed autoritario con i sudditi sardi sono quanto mai inopportune nella fase cruciale della unión de armas quando la Monarchia ha un estremo bisogno di collaboratori fedeli fra le rappresentanze provinciali del regno.

In un passo significativo della sua cronaca Jorge Aleo lamenta come i grandi meriti acquisiti in quegli anni dai principales sardi nel sostenere le guerre e le altre grandi necessità della Monarchia non abbiano trovato la giusta eco politica fuori dal regno sardo e siano stati trascurati dagli scrittori del tempo[41]. Vuole, Aleo, che l’adesione dei sardi alla causa politica della Monarchia sia ufficialmente riconosciuta e propagandata. La partecipazione dei sardi è corale e piena in occasione della guerra di Catalogna; e si rinnova poco dopo quando all’armada di don Juan de Austria impegnata nella repressione dei moti di Masaniello vengono assicurati consistenti aiuti alimentari, e quando partecipa – protagonisti alcuni nobili sardi, fra cui don Agustín de Castelví - alla repressione della rivolta di Palermo nel 1648[42].

Per alcune casate signorili sarde fedeltà e servizio al re sono valori assoluti, da praticare orgogliosamente in ogni circostanza. In realtà non è sempre così. Quando il rapporto di patronazgo fra il sovrano e le élites provinciali si incrina, specialmente quando si riducono i favori e le prebende e quando vengono lesi privilegi e prerogative nobiliari, sono gli stessi protagonisti dell’ausilio militare a mutare repentinamente il loro atteggiamento. Come vedremo, molti si faranno protagonisti della fronda parlamentare e della ribellione signorile che si identificherà proprio nella persona di don Agustín de Castelví.

È giunto il momento di disegnare la biografia del giovane rampollo della casa di Castelví. Nel 1649, quando torna a Cagliari reduce dalle guerre di Catalogna, Agustín ha ventiquattro anni e su di lui sono riposte le speranze di continuità della casa nobiliare perché suo fratello, il marchese don Juan, non ha eredi diretti. Per il giovane cavaliere di Calatrava il diritto a succedere nel titolo di marchese di Laconi è motivo di comportamenti orgogliosi ma anche fuori delle regole. I regentes del Consiglio d’Aragona, costretti a pronunciarsi in diverse consultas sulle sue malefatte, lo definiscono come «bullicioso y inquieto», tanto sedizioso e irrequieto da provocare il riaccendersi degli antichi contrasti fra le case di Castelví e di Villasor.

Negli ambienti dell’aristocrazia cagliaritana si vocifera che il pretesto per il rinfocolarsi della faida nobiliare sia un galanteo, una contesa galante per i favori di una nobildonna. La notte del venerdì santo del 1651 a Cagliari, mentre rincasa con la scorta, nella plazuela davanti alla cattedrale don Agustín è fatto oggetto di pistolettate e archibugiate esplose da pochi passi. Voci di piazza attribuiscono l’imboscata a sicari armati di don Blasco de Alagón, marchese di Villasor. I legami di parentela esistenti fra le due casate nobiliari per il matrimonio del marchese di Laconi don Juan con la sorella di don Blasco non bastano per sopire le antiche animosità prontamente riaccese. Il tentato omicidio di don Agustín, unico possibile erede del titolo marchionale, viene interpretato dai Castelví come un malevolo tentativo di determinare l’estinzione della casa. L’affronto, dunque, va ben oltre l’offesa alla persona e si configura come una minaccia all’intera casata da parte degli Alagón.

La faida cade in un momento politico assai delicato. Il principe Teodoro Trivulzio è in procinto di lasciare la carica di viceré di Sardegna e per consuetudine l’interinato del viceregno spetterebbe al governatore di Cagliari Bernardino Matias de Cervellón, cognato del marchese di Cea e aderente di primo piano alla fazione dei Castelví. In quei difficili frangenti è quanto mai pericoloso lasciare uno spazio politico così importante ai Castelví, rinunciando di fatto la Monarchia a tenere una posizione d’equidistanza fra i due bandos nobiliari.

Con accenti di forte preoccupazione il principe cardinal Trivulzio informa il Consiglio d’Aragona del montare dell’inimicizia fra le due fazioni: «no dándose por entendidas las partes, continuaron en lo exterior, como antes, pero empeçaron a caminar con gente, en particular Villasor, y con tanta publicidad que ya todo el lugar se alborotava, y era infalible que sucedería mayor mal por abraçar estas dos familias lo más del Reyno»[43]. Nei giorni seguenti il marchese di Villasor, presunto mandante dell’attentato, era uscito sulla piazza cagliaritana scortato da oltre trenta criados ostentando l’intenzione di resistere con le armi ad eventuali rappresaglie dei Castelví[44]. Come se non bastasse, il conflitto pare destinato ad assumere implicazioni politiche quando viene ventilata la possibilità che il nuovo viceré di Sardegna sia il conte di Oropesa. Il marchese di Laconi si affretta a mandare precisi segnali politici al Consiglio d’Aragona e ricusa di fatto la designazione, ritenuta inopportuna perché Oropesa, cugino del marchese di Villasor, è sgradito alla casa di Castelví[45].

La soluzione che pare più acconcia ad un uomo d’armi più che di chiesa qual’è Teodoro Trivulzio, abituato ad andare per le spicce con i banditi ma anche con i signori e gli ecclesiastici[46], è quella di confinare i due nobili nei rispettivi feudi di famiglia. L’allontanamento da Cagliari risolve i problemi dell’ordine pubblico nella capitale, ma aggrava la ribollente situazione nelle campagne. Nei suoi feudi don Blasco de Alagón raduna ed arma prontamente i suoi vassalli, fortifica la sua casa nel villaggio di Villasor. Dal suo canto don Agustín, d’intesa col fratello Juan e col cugino marchese di Cea, si dispone a fare altrettanto - ed anche di più - nelle terre del marchesato di Laconi e nella viscontea di Sanluri. Raduna più di cinquecento archibugieri, circonda Villasor e sfida Blasco de Alagón a duello o a scendere in battaglia campale[47]. In pari tempo i principali esponenti della nobiltà contigui ai Castelví (il governatore di Cagliari don Bernardino de Cervellón, i conti di Sedilo, di Montalvo, di Monteleon, Villamar, Mores, più altri nobili) mobilitano i loro vassalli contro la casa d’Alagón. Con la promessa d’esenzione dai tributi feudali per tre anni, viene messo assieme un piccolo esercito di contadini e di pastori (sono, al principio, circa mille e cinquecento) che, armati e indisciplinati, convergono da ogni parte dell’isola su Villasor, «atravesando el Reyno y executando varias insolencias en los panes y ganado»[48]. I seguaci armati dei due bandos nobiliari si aggregano in diversi contingenti, si mettono in marcia e prendono possesso, in nome dei Villasor e dei Laconi, dei luoghi che attraversano devastando i campi coltivati e decimando gli allevamenti[49]. Alla fine la fazione dei Castelví conterà circa tremila cavalieri, quella di Alagón un numero imprecisato, ma inferiore. Sono, in ogni caso, «muchíssimos», scrive allarmato il viceré Trivulzio al conte duca di Olivares, «todos dicen que de las cosas de Oristán acá no ha avido semejante alboroto»[50].

Quando il conflitto armato pare ormai inevitabile, Trivulzio impone la sua autorità ed ordina agli ufficiali reali a lui fedeli di trasferire sotto scorta a Cagliari il marchese di Villasor, che si trova in evidente minoranza di forze. Lo fa rinchiudere prima nella torre dell’Elefante e dopo gli commina gli arresti domiciliari. Resta in libertà, invece, don Agustín, che ne approfitta per far uccidere proditoriamente ad archibugiate in piena calle mayor don Francisco Malonda, un esponente notorio della fazione avversa. Il delitto viene commesso nei pressi del palazzo dei Castelví in pieno giorno e così palesemente che subito molti uomini armati si precipitano fuori della casa ed occupano minacciosi alcuni punti chiave della rocca del Castello onde favorire la fuga dei responsabili dalla città[51]. Con i sicari forestieri abbandona Cagliari anche don Agustín[52].

Atti di bandolerismo così gravi e patenti, commessi dai principali esponenti della nobiltà alla luce del sole nel Castello, sede ufficiale del potere reale, non sono più tollerabili. Costretto dal precipitare degli avvenimenti a rimanere a Cagliari per non cedere l’interim del viceregno ad un nobile locale, il cardinal Trivulzio, d’intesa con la reale Audiencia, passa a vie di fatto. «El excesso fue grande, - scrive a Madrid - mayormente por sus circunstancias, […] y para mayor decoro de la justicia se va prosiguiendo assí contra los principales como de los adherentes, que han conmovido el reyno, y les han asistido con tanta publicidad y escándalo»[53]. Per riassumere il controllo dell’ordine pubblico fa segregare il marchese di Laconi nella torre dell’Elefante e il marchese di Cea nella torre del Leone ed espelle da Cagliari tutti i forestieri privi di un regolare permesso di soggiorno rilasciato dal regente la cancillería. Dal suo canto il sovrano, informato direttamente degli avvenimenti sardi, dispone che i marchesi di Villasor, di Laconi e di Cea e don Félix Masons, primogenito del conte di Montalvo, si presentino immediatamente a corte, pena la dichiarazione d’infedeltà al re e la confisca dei beni. Invece don Agustín, per evitare l’arresto, aveva già lasciato prudentemente Cagliari per la Sicilia, dove si rifugia presso la famiglia materna dei principi Lanza di Trabia[54].

L’intervento della corte pare proprio provvidenziale. Quando i nobili sardi sono ormai in mare, il cardinal Trivulzio invia a Madrid una relazione molto preoccupata segnalando come i fatti di Villasor e di Cagliari abbiano posto seriamente in pericolo l’ordine pubblico del regno: «la comoción ha sido universal, y de calidad, para dar mucho cuydado, porque todo el Reyno estava alborotado, y dividido en estas dos parcialidades, a las quales acudían con escuadras formadas apellidando los nombres de Villasor e de Lacono, y alojándose en los lugares, y haciendo daño a los campos, y ganados, que en tanto número a Don Agustín se havían agregado cerca de tres mil cavallos con muchas personas particulares, y aunque conseguí el desmandar la jente, reconociéndose que esto no era bastante remedio para assegurar la quietud pública, y el consuelo de los vassallos, y particularmente de los habitantes de este Castillo y Ciudad, y que el servicio de Vuestra Magestad requería se estirpassen de raíz estos malos principios, de los quales cada hora nacían inconvenientes, y havían de llegar a poner en mayores contingencias, resolví con el parecer de estos Ministros remitir a los Reales pies de Vuestra Magestad los Marqueses de Villasor, Laconi, y Cea que tenía presos, por no haver en el Reyno modo de poderse assegurar dellos, y por ser las cabeças principales de quienes dependían los demás, teniéndose por cierto que en qualquier manera que ellos quedassen no podía assegurarse sossiego y quietud pública […] estimé dever tener atención de no hacer sin necessidad empeños públicos, ni experiencia destas fuerças quando me es dificultoso juntar cinquenta hombres para las guardias de las puertas»[55].

Col trasferimento coatto dei tre marchesi nei regni di terraferma l’onere di controllare i capi dei bandos nobiliari sardi ricade sulla corte ma, nel caso di Villasor, sul viceré arcivescovo di Valencia. Preoccupato per il considerevole numero di parenti ed amici dei Castelví che risiedono nel territorio soggetto alla sua giurisdizione, l’arcivescovo invita il Consiglio d’Aragona a consentire al marchese di Villasor di lasciare Valencia per Saragozza. I Castelví si sono già dimostrati ostili a Blasco de Alagón e, spade alla mano, sono venuti a diverbio con un loro consanguineo che non si era allienato sulle loro posizioni: «si estos principios no se atajan – scrive al Consiglio d’Aragona il viceré - desde luego volberán sin duda alguna a introducirse en Valencia los vandos que en Zerdeña se an sosegado»[56]. Intanto i marchesi di Laconi e di Cea “supplicano” da Toledo il re per essere trasferiti agli arresti domiciliari a Madrid in casa del regente don Jorge de Castelví[57]. Ma il concentramento dei facinorosi Castelví a corte non pare una soluzione conveniente: per il Consiglio d’Aragona è molto meglio destinare i tre marchesi alla prigionia in differenti castelli di Castiglia, lontano dalle regioni d’origine e dalle tentazioni di nuovi conflitti[58].

È una prigionia scomoda ma di breve durata. Dopo qualche giorno, il diciotto d’agosto, per iniziativa di Jorge de Castelví, il principe di Squillace (suocero dello stesso Castelví) e la marchesa di Bayona (madre di Villasor) stipulano a Madrid un atto di concordia per conto dei tre marchesi e di don Agustín[59]. In nome della fedeltà al sovrano e di una disponibilità di servicio mai venute meno in nessuna circostanza, – essi sostengono - Cea, Villasor e Laconi chiedono la revoca degli arresti[60]. Vogliono rientrare in Sardegna, i tre marchesi. Ma il Consiglio d’Aragona è di diverso avviso: i processi a carico dei tre nobili sono ancora in corso davanti alla Audiencia di Sardegna e l’imminenza della celebrazione del parlamento sconsiglia il rientro nell’isola di personaggi pericolosi e politicamente inaffidabili, che assumerebbero per forza di cose un ruolo di primo piano nelle cortes. Come suggerisce il nuovo viceré Beltrán de Guevara, è opportuno che si proceda con prudenza, «que se camine despacio en la resolución final que se huviere de tomar en estos cavalleros»[61].

La decisione è quanto mai saggia perché le turbolenze della fazione dei Castelví non hanno fine. Allontanati i capi famiglia, sono i Castelví di secondo rango a farsi protagonisti di nuovi atti di resistenza all’autorità reale. Nelle more dell’arrivo del nuovo viceré dopo la partenza del principe Trivulzio, Madrid aveva escluso deliberatamente il governatore del Capo di Cagliari Bernardino Matías de Cervellón dalla carica di viceré interino e aveva designato il visitador don Pedro Martínez Rubio[62]. Era questi un prelato di sicura affidabilità che stava compiendo un’ispezione patrimoniale nel regno. Il giorno del giuramento del vescovo castigliano Cervellón si presenta nella cattedrale, accompagnato da don Josep de Castelví e da un gruppo di canonici del capitolo; con violenza rimuove fisicamente Martínez Rubio dal trono del viceré. Spalleggiato da un largo seguito di sostenitori tumultuanti, Cervellón, in virtù degli privilegi connessi alla carica di governatore di Cagliari, rivendica per sé la funzione interinale e si sostituisce a Martínez. L’atto del nobile cagliaritano e dei canonici seguaci del Castelví è un’aperta insubordinazione alla decisione del Consiglio d’Aragona. Solo il prudente comportamento del vescovo Martínez Rubio impedisce che in quel momento, nella chiesa, la situazione degeneri[63]. Ma se l’uomo di chiesa può essere conciliante, il Supremo d’Aragona non può tollerare il nuovo episodio di ribellismo dei signori cagliaritani. Quando il nuovo viceré Beltrán de Guevara giunge nel regno, porta con sé istruzioni segrete che dispongono il confino a Valencia dei cinque canonici capeggiati da Josep de Castelví e la prigione del governatore Cervellón nel castello di Mahón[64]. Insomma, la fazione dei Castelví, seppure con esponenti di secondo piano, non sa rinunciare a contrapporsi ai rappresentanti della Monarchia.

Nel mentre, dopo sei mesi di confino in Castiglia, i capi della famiglia continuano a “supplicare” il favore reale e a chiedere di essere ammessi a corte[65]. Ma a Madrid l’emarginazione resta quasi totale: ai due è fatto divieto di «entrar en Palacio, ni visitar ningún Ministro»; solo più tardi viene loro consentito di «ver a los juezes, sin andar en público por la villa»[66]. Il Consiglio d’Aragona è memore del suggerimento di Trivulzio di guardare a vista i due marchesi di Laconi e di Cea e di tenerli lontani da Cagliari in occasione del prosssimo parlamento. Ma quando l’improvvisa morte del viceré Guevara impone il rinvio d’un anno delle cortes di Sardegna, una benevola consulta del maggio 1652 stabilisce che «ha mudado la materia de estado, y cessado los motivos que obligaron a entretener los Marqueses de Laconi y Cea en España» e perciò si può «permitir a los dos que buelvan a sus casas, y que aquí se les diga que estando tan próximo el Parlamento ha resuelto Su Magestad que assistan en él, fiando de su zelo, y obligación que obrarán en su Real servicio como hasta aquí lo han hecho»[67]. È un bell’esempio, questa consulta, della logica di compromesso che sovente presiede i rapporti fra corona e ceti privilegiati. Punire i nobili che si sono resi protagonisti di comportamenti sediziosi e d’illegalità non comporta necessariamente la rinuncia al loro apporto in parlamento quando il re deve esigere il donativo. Ispiratore di questa linea è l’arcivescovo d’Oristano Pedro Vico[68], figlio di quel Francisco Vico che aveva eretto ad arte di governo la pratica di mediazione fra gli interessi del centro madrileno e quelli della periferia sarda e su di essa aveva costruito le sue grandi fortune politiche.

Dunque il Consiglio manda liberi i due marchesi della casa Castelví, mentre si riserva di decidere la sorte del marchese di Villasor. Come principale imputato dei torbidi sardi assieme a don Agustín, Blasco de Alagón avrebbe dovuto attendere in Castiglia la conclusione dell’istruttoria del processo in corso presso la Audiencia di Sardegna[69]. Ma don Blasco non se ne dà per inteso, perché la sua assenza dalla Sardegna comporta gravi pregiudizi economici per la sua casa[70]. Ma ancora di più bruciano i risentimenti morali. Il giovane ed orgoglioso aristocratico, gelosissimo dell’antica tradizione familiare di fedeltà alla Monarchia, vive la decisione del Consiglio d’Aragona come una paradossale ed ingiusta discriminazione. A quel punto Villasor abbandona la corte senza l’autorizzazione del re e se ne torna in Sardegna. Immediatamente Madrid lo fa ricercare per arrestarlo e tradurlo nuovamente in Spagna[71]. Ma ormai, sul finire del 1652, la peste infuria in molte encontradas della Sardegna ed è penetrata anche nei feudi di Villasor dove il marchese si è rifugiato. Dove non possono giungere gli ufficiali reali avanza agevolmente ed inesorabilmente il contagio. Blasco de Alagón sarà una delle prime vittime illustri della grande pestilenza[72].

Con la morte di don Blasco cessano le lotte di fazione. Non danno tregua, invece, i fatti di delinquenza comune, che conoscono un’impennata impressionante quando la peste sconvolge i precari assetti sociali ed economici delle campagne. In una relazione parziale sulla sua visita della Sardegna Martínez Rubio informa Madrid che «no dexaron de ofrecerse entre la nobleza y la plebe diferencias dificultosas de ajustar. Los delictos de homicidios enormes que se cometieron en el otro cabo [di Sassari] en este tiempo que estaba cerrado el comercio, y particularmente en el condado de Goceano se castigaron exemplarmente pagándolo con la vida quatro de ellos, y en la villa de Ósquiri otros cinco, con lo qual se pacificaron los complices»[73]. Sono, è chiaro, casi sporadici perché solitamente la giustizia del re è inesistente nei villaggi sardi dove, nel migliore dei casi, a dettare le regole è l’arbitrio di un solo signore o di un principale poderoso.

Spesso nel mondo rurale la vita quotidiana è scandita dagli scontri fra bande armate, dagli omicidi perpetrati da singoli o da cuadrillas, dai furti di bestiame, dalle rapine attuate addirittura entro gli abitati. L’epicentro del banditismo rurale è ancora il capo di Sassari, dove a metà Seicento «homicidis, robatoris, y altres graves delictes» si verificano senza tregua. Il popoloso e ricco paese di Nulvi e il vicino villaggio di Chiaramonti sono il teatro della faida che si combatte da lungo tempo fra due famiglie della piccola nobiltà locale, i Delitala e i Satta. Anche la popolazione è schierata in due fazioni che si scontrano di continuo con violenze e delitti d’ogni genere commessi in nome della casata nobiliare di riferimento[74].

Un caso a parte, poi, è il dilagare nell’isola dei coronados, dei tonsurati, che entrano nello stato ecclesiastico per godere del privilegio di foro. Il fenomeno s’inquadra nell’ampia casistica della delinquenza comune: con grande «escarmiento» della popolazione costoro commettono nei villaggi una gran numero di delitti contro le persone e le proprietà, trovando dopo comodo asilo nelle chiese campestri, e non solo[75].

È nel clima burrascoso degli ultimi tempi della grande pestilenza sarda (1656) che Agustín de Castelví ricompare in Sardegna. La morte senza eredi del fratello don Juan gli garantisce la successione al titolo di marchese di Laconi. Si presenta a Sassari, dove il contagio è ormai solo un terribile ricordo, perché lì risiedono la casa di Castelví e il viceré conte di Lemos che fra mille difficoltà sta portando a conclusione il parlamento[76].

Lemos ha un disperato bisogno del consenso della nobiltà per chiudere le cortes. Dal suo canto don Agustín non ha ancora risolto la sua complicata posizione giudiziaria e si trova ristretto nel palazzo di famiglia dopo una breve permanenza nelle carceri reali. Nasce a quel punto l’incontro degli interessi fra il viceré, Castelví ed i parlamentari suoi sostenitori. La richiesta formale dei tre bracci di “perdono” per i delitti commessi da Castelví prima della peste è accolta da Lemos con particolare benevolenza. Bisogna salvare la forma, però: concessi gli arresti domiciliari dietro pagamento di una cauzione di diecimila ducados, il viceré attiva le procedure per celebrare, nella veste di juez comisario reale per i cavalieri di hábito, il processo istruito nel 1651 a Cagliari contro don Agustín dalla Audiencia reale[77]. Ma il supremo tribunale sardo – in sintonia col Consiglio d’Aragona, ma soprattutto in aperto dissenso con Lemos – disconosce la competenza del viceré a giudicare il cavaliere di Calatrava perché il suo processo è stato avocato a corte ed è pendente davanti al Supremo d’Aragona[78].

Nelle more del conflitto giurisdizionale la notte del 7 agosto, nei pressi del palazzo dei Castelví, una ronda comandata dall’assessor criminal della Governación di Sassari s’imbatte in un gruppo di uomini armati e pretende d’effettuare il riconoscimento. Dopo aver pronunciato la consueta formula «téngase al Rey», la ronda reale viene fatta oggetto d’una scarica di fucileria. Restano feriti da una parte un ministro de justicia e un soldato; dall’altra, un uomo cade al suolo morto ed altri restano feriti. I protagonisti dello scambio d’archibugiate sono i criados di don Agustín, i quali si rifugiano prontamente all’interno del palazzo ed aprono il fuoco dalle finestre. Nella successiva perquisizione i soldati reali rinvengono don Agustín a letto e uno schiavo della marchesa vedova con ferite recenti d’armi da fuoco. Suo malgrado, il viceré è costretto ad intimare a don Agustín il confino nella villa di Tiesi o nel castello dell’Inquisizione. Ma il marchese di Laconi non se ne dà per inteso: disubbidisce all’ordine, adducendo il pretesto che il villaggio è infestato dalla malaria e che il castello sassarese è impraticabile, e cerca asilo nella casa professa della Compagnia di Gesù[79].

Il nuovo clamoroso episodio di «resistencia a la justicia» rende indifendibile la posizione giudiziaria del nuovo marchese di Laconi[80]. In un maldestro tentativo di difesa don Agustín scrive a Madrid, fornisce un’inverosimile versione dei fatti di Sassari e accusa paradossalmente il conte di Lemos di comportamenti scorretti a lui pregiudizievoli[81]. Ma il Consiglio d’Aragona ha problemi ben più importanti da risolvere: vuole che si chiuda finalmente il tormentato parlamento e il viceré Lemos, proprio nel momento in cui sta per lasciare il viceregno, pare in procinto di riuscirvi[82]. A quel punto non sono più necessari altri voti né appoggi qualificati nello stamento militare. Non v’è ragione, quindi, che Lemos ceda a nuovi compromessi. Così il Consiglio d’Aragona ordina ai giudici della Audiencia d’arrestare Laconi per il recente episodio di resistenza armata alle truppe reali, per l’antico delitto Malonda e per i ripetuti atti d’insubordinazione verso il viceré[83].

La severità dimostrata una volta tanto nei confronti dell’aristocratico sardo-siciliano va inquadrata nel clima di repressione dei reati comuni instaurato dopo la cessazione della pestilenza dal nuovo viceré marchese di Castel Rodrigo. Col ritorno alla normalità sociale il viceré è impegnato in una lotta senza quartiere contro il banditismo dilagante. La cronaca coeva di Aleo descrive diversi episodi di straordinaria portata per l’estensione territoriale e per la dimensione della pericolosità sociale. Aleo ne attribuisce la causa ad una misura inopportuna del viceré, cioè al disarmo indiscriminato dei sudditi sardi ed al sequestro di tutte le armi da fuoco rimaste in circolazione. Così, per rispetto e per paura delle sanzioni la gente rispettabile andava disarmata, mentre «los bandeados, facinorosos y ladrones - scrive l’Aleo - , perdido el temor y respeto a Dios y a la justicia, se atrevían a cometer todo género de maldades, hurtos, homicidios»[84]. Il lungo elenco degli episodi più clamorosi (dagli assalti alle abitazioni dei villaggi del Cagliaritano ad opera di cuadrillas di centinaia di uomini, fino alla resistenza armata d’interi villaggi contro i malfattori che li assediavano) dà la misura palpabile dell’ingovernabilità del mondo rurale: «con essa libertad handavan y discurrían los ladrones; y a cada passo se cometían atroces omicidios y latrocinios en poblado y fuera, con que nadie tenía segura su vida ni azienda»[85].

Allo stato attuale delle conoscenze storiografiche non è facile stabilire se fossero o no organici i collegamenti fra i nobili “inquieti” e il banditismo rurale. Certo le faide nobiliari di Nulvi, il confronto armato fra i bandos degli Alagón e dei Castelví e per ultimo la grande repressione nel nord Sardegna della congiura del marchese di Cea (ne parleremo dopo) sono esempi inequivocabili di una costante compromissione fra signori e banditi. Le condizioni strutturali delle campagne, caratterizzate dallo spopolamento, dalla rarefazione dell’habitat e dall’assenza del potere reale, fanno sì che il controllo sociale venga assunto per forza di cose da ristretti gruppi dominanti facilmente identificabili nei nobili di basso rango e nei principales dei villaggi. Nobili e cavalieri esercitano in molti casi un’influenza decisiva che porta i banditi ad assumere il ruolo di una sorta di milizia d’obbedienza signorile. Non è improprio parlare anche per la Sardegna di un bandito che diventa, per dirla con Xavier Torres, «partidari armat», fautore armato delle ostilità signorili, un bandito disciplinato ed inquadrato che partecipa alle lotte di fazione[86].

Si diceva prima della debolezza dell’autorità reale. Quanto essa mancasse di vigore, lo dimostra l’indulgenza nei confronti di don Agustín. Il suo caso giudiziario è destinato a ridimensionarsi perché a favore del nobile sardo-siciliano giocano le parentele a corte e i disegni politici di alcuni títulos sardi. «Como las personas de esta calidad – scriverà il viceré Ludovisi qualche tempo dopo - hazen tan difícil la averiguación no devió hallarse toda la prueva necesaria, lo qual junto con la piedad fue ocasión de que se fuese afloxando y contemporizando con él y salió de sus prisiones o arrestos con fianzas de representarse que en Castilla se llaman de la Haz»[87].

La libertà condizionale, l’investitura formale dei feudi ereditati dal fratello, il matrimonio con Juana Dexart e la nascita di tre figli lasciano sperare che «con la mudanza de estado y verse con sucesión se le avrían pasado los verdores». Così nel 1662 giunge il «perdón por los delictos anteriores» da parte del sovrano[88]. A quel tempo don Agustín ha 36 anni. L’età matura, la riabilitazione del re e l’assunzione di nuove responsabilità come capo della casata non modificano tuttavia i suoi «verdores», ossia le irriducibili attitudini alla violenza proprie di un giovane.

Nell’agosto del 1663, un anno dopo il perdono reale, un nuovo delitto, per certi aspetti più clamoroso dei precedenti, conferma i regentes del Consiglio d’Aragona nella convinzione che egli fosse veramente “incorreggibile”. Oggetto della violenza è stavolta un esponente di primo piano della stessa famiglia dei Castelví, quel Jaime Artal che per difendere il prestigio della famiglia e gli interessi di consorteria, si era schierato col nipote contro il bando degli Alagón durante i torbidi del 1651. Dopo aver subito le sanzioni reali con l’esilio temporaneo in Castiglia, don Jaime Artal aveva riacquistato tutto il suo prestigio ed aveva ripreso ad esercitare la funzione di procuratore reale di Sardegna. Ha ormai raggiunto un’età avanzata (56 anni) quando, nell’agosto del 1663, nella cattedrale di Cagliari subisce l’aggressione di suo nipote e cognato don Agustín. Dietro l’alterco, che ha come teatro prima l’interno della chiesa e dopo la piazza antistante, si celano intricati motivi d’interesse. Un debito parzialmente non onorato da don Agustín sulla dote di sua sorella, andata in moglie al procuratore reale, aveva determinato don Jaime Artal a porre l’embargo della Procurazione reale sull’esportazione di una partita di grano venduta da Agustín ai patrons di due barche francesi[89]. Il motivo del contendere è poca cosa, ma sufficiente per i due nobili per venire alle spade. Il più anziano marchese di Cea ha la peggio e resta ferito al volto.

L’aggressione al procuratore reale non può risolversi come una banale lite di famiglia perché si tratta di un’offesa portata ad un ministro del re. La misura è colma per il vicecancelliere Cristobal Crespí de Valldaura, sempre più contrariato dalle ripetute trasgressioni da bandolero di don Agustín. È di quel tempo una consulta del Consiglio d’Aragona che denuncia come «el Marqués de Lacony por diferentes delictos que havía cometido en el reyno de Cerdeña andaba los meses pasados en campaña con gente de armas, causando en él muchos alborotos»[90]. A quel punto il viceré principe di Piombino dispone l’arresto del marchese nella torre dell’Elefante, «paraque aquel Reyno entienda con el castigo de los delinquentes la veneración que se deve a la Justicia, respecto a sus Ministros, y observancia a los mandatos de los Virreyes»[91]. Dietro il principe Ludovisi si profila la volontà del vicecancelliere d’Aragona, che richiede la formale incriminazione perché «el natural del Marqués de Lacony es inquieto, y mueve con facilidad ocasiones de pendencias, y ésta de agora ha sido bien voluntaria y contiene excessos dignos de demostración, porque el officio de Procurador Real es de los primeros de aquel reyno y preside en las Juntas del Real patrimonio, y el Marqués de Cea que hoy le tiene es digno de mucho respecto por sus canas y persona, y por ser sujeto de virtud y muy puesto en razón»[92].

Nel Supremo d’Aragona non spira aria favorevole per don Agustín. Quando ne prende coscienza egli ricusa la giurisdizione reale e, nella sua qualità di cavaliere di Calatrava, rivendica la competenza del Consejo de Órdenes a conoscere la causa. Il conflitto giurisdizionale fra i due Consigli suscita a corte molti dubbi e perplessità, non fugati neppure dal risoluto vicecancelliere d’Aragona che rivendica il rispetto delle procedure ordinarie, onde evitare «el grave perjuicio y mal exemplar que de lo contrario resultaría»[93]. Le ragioni giuridiche dell’imputato vengono sostenute dall’arcivescovo di Cagliari Pedro Vico, personaggio che da qualche anno ha assunto un rilievo politico di primo piano nel regno di Sardegna[94]. A corte le istanze provenienti dalla provincia trovano facile accoglimento quando è in giuoco l’impunità dei nobili: Filippo IV prende atto del conflitto di competenza fra i due Consigli e decreta che la soluzione deve venire dai deliberati della madrilena Junta de competencias[95].

Ma il vicecancelliere d’Aragona non recede dalla posizione di severo censore delle violenze di Castelví: «todos estos precipicios – sostiene Crespí de Valldaura in Consiglio - acaban de mostrar la condición deste Cavallero, y su incorregibilidad, pues acumulando delitos a delitos, no quiere por jueces ni en Cerdeña al Virrey, ni en Madrid a los Consejeros de Aragón ni Órdenes, ni hacer otra cosa que formar en su casa un Tribunal de domésticos en que sea él la parte, y juez, y declare que él tiene razón, y que el Marqués de Cea ha faltado a las obligaciones de Cavallero rompiéndole la palabra; y usurpando con esto el de Lacony la jurisdición real y ecclesiástica, y ofendiendo a todas parece al Consejo que con sujetos desta calidad y costumbre de delinquir se havía de tomar expediente para que sean castigados, sin el rodeo de competencias porque se dé satisfación a la justicia pues a todos los ministros deve guiar a este fin el zelo de su administración»[96]. Crespí vorrebbe che la causa fosse affidata alla sala criminale della Audiencia di Sardegna per riaffermare il principio della preminenza della giustizia reale, l’unica imparziale nelle provincie. Suggerisce perciò al re Filippo IV di rivedere le sue decisioni, di respingere l’eccezione del privilegio di foro, di rimettere il giudizio ai giudici sardi[97]. Don Cristobal Crespí persisterà su questa linea di rigore anche dopo che la Junta de competencias avrà deciso d’attribuire la conoscenza della causa al Consejo de Órdenes[98].

Quando don Agustín si rende responsabile di nuovi reati commessi durante la prigionia (reati lievi, ma che denotano la protervia ostinata dell’imputato) Crespí auspica un severo «castigo» del marchese, «pues de no hacerlo se puede temer el daño que padecerá aquel Reyno»[99]. Sarà facile profeta il vicecancelliere d’Aragona.

Sulle ultime “inquietudini” del marchese di Laconi pesa la sua irrisolta posizione giudiziaria, ma pesano anche di più i forti dissapori familiari col cognato. Stavolta la causa del contrasto fra le due case (culminato nella rottura di don Jaime Artal con sua moglie Ana Maria de Castelví) esula dalla questione dell’embargo della saca di grano e riguarda il contratto matrimoniale fra Francisca Zatrillas, nipote del marchese di Laconi, e Agustín Brondo y Castelví, nipote del marchese di Cea. In virtù dei patti matrimoniali stipulati fra le due case, al Brondo veniva garantita la futura successione nell’ufficio di procuratore reale, mentre la giovane Francesca Zatrillas, figlia di primo letto di doña Ana Maria, portava in dote il ricco marchesato di Sietefuentes ereditato dal fratello don Josep. Sui beni di doña Francisca aveva messo gli occhi anche lo zio don Agustín. Il marchese di Laconi, rimasto vedovo, aveva fatto pressioni sulla sorella perché rompesse il contratto matrimoniale, in modo da consentirgli d’impalmare la giovane nipote. Il caso aveva assunto una rilevanza pubblica fuori del comune per l’importanza economica e politica della transazione fra le due casate. Della questione era stato investito persino il Consiglio d’Aragona, che aveva ordinato al viceré Ludovisi di condurre a palazzo la giovane nobildonna in modo che, sottratta alle pressioni dello zio Agustín, potesse esprimere liberamente la sua volontà[100]. La disputa fra i due marchesi, causata più da interessi patrimoniali che da ragioni affettive, si risolverà nel 1665 col matrimonio di don Agustín con la nipote Francisca Zatrillas, matrimonio che, secondo le fonti più accreditate, sarà all’origine del suo assassinio[101].

Ma torniamo al discusso processo che dopo più d’un anno si apre davanti al Consejo de Órdenes. Come spesso accade nel foro privilegiato, il giudizio è improntato alla massima indulgenza verso l’imputato e segue irrituali procedure abbreviate. Quasi subito presidente e oidores del Consiglio dispongono gli arresti domiciliari di don Agustín. Ma non basta: invece d’adottare la normale procedura di nomina di un cavaliere di Calatrava inviato da Madrid al fine d’istruire la causa, come comisario del Consiglio viene designato il maestro razionale di Sardegna don Saturnino Zatrillas[102]. Il passo successivo, per giungere alla definitiva liberazione di don Agustín, è breve. Ai primi di dicembre del 1664 la decisione di Madrid viene posta in esecuzione a Cagliari all’insaputa del viceré Ludovisi. Per quanto incredibile possa sembrare, a non rispettare le procedure giudiziarie è, per ultima, proprio la Audiencia di Sardegna. La tardiva reprimenda del sovrano nei confronti dei giudici cagliaritani, colpevoli d’aver mancato in «urbanidad y reverencia que se deve al Virrey»[103], non cambia la sostanza dei fatti che volgono ormai a tutto favore dell’imputato. L’esame di testimonianze compiacenti, proposte dallo stesso marchese di Laconi davanti al Consiglio degli Ordini militari, va avanti per quasi tutto il 1665. A quel punto il processo può dirsi formalmente concluso[104].

Non è da escludere che il mutato clima politico favorisca la riabilitazione sociale del marchese di Laconi. È alle viste la convocazione del parlamento e all’interno degli stamenti si stanno apprestando gli schieramenti. Un gruppo molto agguerrito, attestato su una linea rivendicativa la più ampia possibile, si aggrega intorno al procuratore reale Jaime Artal de Castelví ed all’arcivescovo Pedro Vico, l’orchestratore delle rivendicazioni nel precedente parlamento. Sono costoro ad individuare inopinatamente il loro campione proprio nel marchese di Laconi. In principio la scelta è dovuta al caso perché la casa di Laconi deve surrogare come “prima voce” dello stamento militare le più antiche case di Quirra e d’Alagón impedite a ricoprire l’incarico (i Quirra perché da tempo assenti dal regno, gli Alagón per la minore età del nuovo marchese don Artal).

Nei mesi che precedono la morte di Filippo IV il nuovo viceré marchese di Camarasa riceve le consuete istruzioni circa la conduzione del dibattito nelle cortes. Gli viene raccomandato soprattutto il rispetto formale delle procedure che non devono fuoruscire dai binari della consolidata tradizione parlamentare. Gli affanni finanziari della Monarchia e le difficoltà politiche che si prospettano all’orizzonte sardo impongono trattative rapide, che portino a votare in tempi brevi un donativo almeno pari a quello votato nei burrascosi giorni della peste, senza concedere contropartite importanti in benefici e prebende. Dispongono, le istruzioni, che non si introducano innovazioni di sorta nel rapporto pattizio, puntando all’obiettivo di strappare nuovi impegni fiscali, dato che i sardi non avevano onorato i pagamenti precedenti a cui si erano obbligati nei parlamenti del 1631, 1642 e 1656[105]. Filippo IV pone precisi limiti alla delega al viceré e lo esorta a non andare oltre vaghe promesse verbali di future mercedes e di plazas nei regni della Corona d’Aragona. L’unica novità concreta rispetto al passato potrebbe consistere nella promessa di convertire in encomiendas dell’ordine di Montesa i quattro priorati esistenti nell’isola, per concederli a caballeros naturales che avessero maturato meriti nelle guerre della Monarchia o avessero servito sulle galere[106].

Offerte così inconsistenti denotano le risapute difficoltà economiche della Monarchia ed evidenziano come i flussi di prebende e di benefici verso la periferia vadano sensibilmente scemando. Come avviene da tempo nelle provincie, anche in Sardegna l’assottigliarsi del patronazgo real genera sentimenti d’insoddisfazione e di frustrazione sempre più diffusi. Le aspettative corali e quasi incontenibili dei ceti privilegiati si scontrano con la rigidità degli organi di governo, o per meglio dire, con l’impossibilità delle finanze di fare fronte alle crescenti richieste dei nobili e dei burocrati delle periferie dell’impero[107].

Madrid, insomma, è sulla difensiva: vuole decisioni sbrigative da parte del regno di Sardegna, da adottare in un parlamento che sia il più breve possibile. Per questo consiglia al viceré di cautelarsi appartando dal dibattito parlamentare i «naturales inquietos, y que por malicia o por dolo puedan turbar con sus votos la quietud pública, y embarazar mi servicio»[108]. È necessario, insomma, manipolare gli accreditamenti parlamentari per eliminare gli oppositori più fastidiosi e per porre limiti ai disentimientos e alle rivendicazioni di plazas e di oficios per i naturales del regno.

Ma i tempi non sono più quelli degli Austria “maggiori”. Il confronto fra corona e ceti privilegiati in parlamento ha assunto da qualche decennio un vigore dialettico senza precedenti, in controtendenza rispetto ad altri regni della Corona d’Aragona[109]. È quella la sede più appropriata per scaricare le tensioni e manifestare le frustrazioni di cui si diceva prima. La singolare vitalità dell’istituto parlamentare nel Seicento discende dalla maturazione nelle università spagnole ed italiane di un ceto amministrativo locale idoneo a ricoprire gli uffici civili ed ecclesiastici e dalla consapevolezza della nobiltà titolata - e non solo di quella – di poter vantare presso la Monarchia meriti spesso misconosciuti. Crediti morali e bisogni materiali sono all’origine del diffuso rivendicazionismo del regno, di cui è protagonista occulto anche un nuovo ceto espressione delle professioni liberali e mercantili, privo d’identità istituzionale ma inserito nelle strutture parlamentari attraverso gli altri ceti rappresentativi.

Le crescenti difficoltà finanziarie della Corona, causate dagli enormi costi delle guerre, avevano comportato anche nel regno di Sardegna una pressione economica e fiscale che non aveva riguardato tanto le contribuzioni in danaro dei pecheros (invero assai modeste rispetto a quelle dei regni di terraferma) quanto le forniture di derrate alimentari; avevano determinato anche vistose restrizioni delle mercedes, delle pensioni e degli uffici concessi alle élites locali ed un taglio radicale di quelle consuete licenze d’esportazione di grano esenti da tasse che consentivano un provvidenziale riequilibrio dei bilanci delle case nobiliari. Se a queste ristrettezze si aggiungono il ridimensionamento delle funzioni giurisdizionali dei baroni, la maggiore presenza (o invadenza, a seconda del punto di vista) negli affari pubblici della burocrazia reale, l’accresciuto peso della borghesia mercantile nell’economia del regno, si comprende come il malcontento dei ceti privilegiati lievitasse fino al limite della rottura del patto di fedeltà con la Monarchia[110].

Il parlamento celebrato durante la pestilenza era stato un’occasione di verifica dei mutamenti sociali intervenuti ed aveva segnato una svolta significativa nel rapporto contrattuale fra re e sudditi sardi. Il tentativo d’imporre non come súplica ma come condición (ossia come clausola determinante per il pagamento del donativo al re) la richiesta dell’esclusività delle cariche ecclesiastiche, civili e militari per i naturales del regno era stata la novità dirompente voluta dagli stamenti. Una procedura parlamentare così cogente non aveva precedenti né analogie nella Corona d’Aragona. Non poteva trovare accoglimento neppure per la sua sostanza politica fortemente innovativa e contraria al principio del controllo politico del regno da parte di fiduciari della Monarchia (viceré, regente, fiscales, arcivescovi) selezionati negli altri regni. Dunque la concessione di tutte le plazas ai sardi non era passata perché la Corona aveva ritenuto indispensabile riservarsi la facoltà da assegnare caso per caso, con criteri di discrezionalità, una certa quota di uffici. In realtà il rigetto della domanda dell’esclusività della cariche era ormai solo una questione di principio o, se si vuole, un debole atto di resistenza contrattuale. Un lento e quasi impercettibile processo d’erosione degli impieghi ai forestieri aveva fatto sì che l’apparato burocratico del regno fosse ormai quasi del tutto occupato da sardi o da naturalizzati[111].

Le istruzioni al viceré Camarasa paiono un tentativo mediocre di fare un passo indietro rispetto alle concessioni del parlamento Lemos. Quando si apre il parlamento il regno di Sardegna vive un momento di estrema debolezza economica dovuta agli enormi disagi determinati dalle catastrofi naturali e finanziarie (prime fra tutte, la peste e la falsificazione della moneta di vellón). Ormai, a soffrire gli insulti della povertà e del disordine sociale, non sono soltanto gli strati inferiori della popolazione sarda ma anche le sfere medio-alte della società. Ma non si tratta solo di prostrazione economica. Alla metà del secolo le capacità di controllo sociale del mondo delle campagne da parte di un potere reale sempre più debole sono ridotte ai minimi termini. Per questo il fenomeno della delinquenza comune ha assunto una dimensione impressionante[112].

Non sorprende che in una situazione di disagio sociale così pronunciata alla celebrazione del parlamento si attribuisca un’importanza politica senza eguali e l’istituzione divenga il luogo privilegiato del confronto fra il centro madrileno e la periferia sarda. Per la forte spinta di categorie intermedie (ecclesiastici, letrados, mercanti nobilitati, ecc.) le rivendicazioni dei naturales assumono una valenza politica di prima importanza. Anche la fazione nobiliare meno presente sulla scena politica e più propensa ad atteggiamenti d’istintivo ribellismo si fa coinvolgere in questa battaglia rivendicativa che finirà per assumere i connotati della fronda parlamentare.

Viene fatto di chiedersi se il dissenso aristocratico scaturisca semplicemente dall’insoddisfazione per le disfunzioni della Monarchia asburgica e per il cattivo funzionamento del patronazgo real o se rappresenti una scelta politica più matura che prende a modello altre realtà provinciali in aperto dissenso col potere di Madrid. L’accantonamento della tradizionale linea di fedeltà (una fidelidad alternata a momenti d’impulsiva insubordinazione) è in contraddizione con le intenzioni manifestate nello stesso periodo, intorno al 1668, in alcuni memoriali presentati per rivendicare la concessione delle plazas del regno ai naturales sardi. In quei documenti, che cito di seconda mano, si esalta una fedeltà dei connazionali che non ha eguali nelle altre nazioni: «Aviendo sido tan prolixo el yugo de las imposiciones y contribuciones que han ocasionado los trabajos de la monarquía, no ha havido parte en ella que no haya manifestado sentimientos, ya traiciones en Catalanes y Portugueses, ya motines y conmociones en otras provincias. Sola Sardeña ha sido la constante y la que rendidamente ha servido con las cantidades que son notorias al mundo […] sin llegar a pactar y condicionar sus servicios con las mercedes, como otras [provincias] han hecho, sino absolutamente (obra de puro amor honesto y casto) »[113].

Dunque le secessioni catalane e portoghesi non paiono costituire un modello da imitare per i sardi: anzi, da respingere recisamente, come era stato fatto circa trent’anni prima combattendo in Catalogna a fianco dei castigliani e delle forze lealiste. L’«incomparabile» fedeltà dei sardi, autocelebrata senza titubanze né riserve, è una carta di credito forte che si vorrebbe spendere senza patteggiamenti, rinunciando persino al pattismo parlamentare. Non è dato sapere se i documenti siano espressione di una parte o di tutta la classe dirigente del regno, se rivelino le posizioni politiche della fazione filomonarchica oppure se siano l’esito di tatticismi posti in essere nella fase preliminare del parlamento da coloro che poi si riveleranno dei pattisti intransigenti. Tuttavia una profferta di fedeltà così smaccata parrebbe opera di circoli rigorosamente lealisti che tentano di riproporre scelte sempre più impopolari in seno ai ceti parlamentari. È indubbio che in questi anni anche i nobili hanno molte ragioni per non allinearsi supinamente alle posizioni lealiste, tanto più che il loro malcontento si salda ad obiettivi politici proposti dalle forze più vive e dinamiche del regno.

In seno alla nobiltà restano, dunque, forti contraddizioni interne ed inimicizie insuperabili. Tuttavia, per quanto ferocemente divisa, quella dei nobili è una classe temibile per il prestigio intrinseco che detiene e per la forza che le deriva dall’obbedienza della gente dei villaggi. Il prestigio politico di don Agustín de Castelví ha più o meno la stessa origine: per la rete inestricabile di obbligazioni tessuta fra signori, vassalli e banditi il suo bando fa leva su vaste complicità nei territori infeudati del Logudoro e dei Campidani. La sua ascesa come título di prima grandezza è favorita più che altro dal momentaneo sbandamento del bando avverso dopo la morte di Blasco de Alagón.

Tuttavia la maturazione politica del marchese di Laconi – se di maturazione politica si può parlare – avviene principalmente per merito di due acuti ed esperti suggeritori come il marchese di Cea e l’arcivescovo di Cagliari Pedro Vico. Sono costoro ad esercitare realmente la leadership frondista. Come si è detto, il figlio del defunto regente d’Aragona era stato il protagonista delle trattative parlamentari col conte di Lemos, lucrando grande prestigio politico ed eccezionali mercedes personali come la promozione, lui sardo, alla carica arcivescovile di Cagliari tradizionalmente assegnata ai forestieri. In occasione delle cortes del 1656 Vico aveva tenuto un atteggiamento ambiguo ed altalenante rispetto alla linea del viceré, d’opposizione e di fiancheggiamento ad un tempo. Dieci anni dopo spera di rinnovare quei successi. Come “prima voce” dello stamento ecclesiastico intende riproporsi come elemento di mediazione, anche se stavolta appare più scoperta la sua posizione di suggeritore della fazione “nazionale”. Dunque il figlio di Francisco Vico, del fiduciario sardo del conte duca di Olivares, si fa promotore ed interprete di una fronda politica verso la declinante Monarchia ispanica.

Le fazioni tradizionali si adeguano ai tempi, si convertono in aggregazioni più ampie e coinvolgono parte delle gerarchie ecclesiastiche e nobiliari, oligarchie urbane orientate verso il cambiamento, intellettuali e burocrati che aspirano ad acquisire uffici e spazi politici nuovi. Tutti assieme, costoro portano alla ribalta parlamentare interessi particolari - di ceto, di famiglia o di consorteria – ma sfruttano l’opportunità di presentarli come interessi generali del regno. La coesione che i protagonisti del dissenso trovano nell’imminenza del parlamento è il risultato di diverse circostanze favorevoli, quali l’assunzione della carica di “prima voce” dello stamento militare da parte di don Agustín, la presenza a corte di sostenitori influenti come il regente don Jorge de Castelví e l’abate Mateo Frasso e, non ultima, la reazione ai propositi della Monarchia d’emarginare gli oppositori parlamentari.

In verità i redattori delle istruzioni di Filippo IV non avevano visto male quando avevano pensato d’allontanare dal parlamento i nobili facinorosi ed inaffidabili. Già nelle fasi preliminari del parlamento don Agustín, consapevole degli incerti equilibri esistenti nel braccio militare, percorre i suoi feudi e quelli dei suoi sodali per rastrellare deleghe fra amici e parenti[114]. Conquistare la maggioranza dei voti nel suo stamento significa legittimare il ruolo di principale oppositore del viceré, un ruolo che don Agustín porta avanti con grande tenacia. Una linea rivendicativa intransigente, la sua, che intende subordinare la concessione del donativo all’accoglimento delle richieste avanzate in forma di condición e non di súplica. Si tratta di strappare l’assenso preventivo della Corona a concedere un consistente pacchetto di richieste, concertate dai vertici degli stamenti. Quelle richieste toccano la sfera politica, economica e giudiziaria e mirano nel complesso ad accrescere il peso economico e sociale dei “naturales” nel regno.

Non è difficile intravvedere nella riproposizione di temi e procedure già presenti nel parlamento Lemos il disegno del partito dell’arcivescovo Vico e dei marchesi di Laconi e di Cea di mettere d’accordo tutte le componenti del dissenso parlamentare: la piccola e media nobiltà ed i ceti emergenti laici ed ecclesiastici, intorno alla solita rivendicazione dell’esclusività degli uffici del regno e della riserva dei benefici ecclesiastici; le case feudali ed i vertici parlamentari, intorno al ridimensionamento giurisdizionale della Audiencia ed al controllo politico sull’operato dell’amministrazione reale esercitato secondo il modello catalano e aragonese.

Ma il vicecancelliere d’Aragona Crespí de Valldaura (Camarasa appare come un semplice esecutore) non è disposto a transigere, anche perché il partito filomonarchico sta recuperando voti e riacquista credito e voce nelle riunioni dello stamento militare. La risposta di Madrid che la linea sostenuta da Laconi e da Vico va contro «el estilo que siempre havía havido en esta materia” non lascia spiragli alla trattativa: con “los cavos y pretensiones que havían introduzido los brazos, y querían introduzir, se dificultaba la forma en que se havían de admitir sus instancias si por condición del servicio o por súplicas a parte; y aunque las últimas Cortes, que celebró el Conde de Lemos en aquel Reyno, se puso todo por condición se havía advertido que no se deviera haver tolerado pues es un modo y estilo nuevo, y contrario a lo que en todas las Cortes o Parlamentos antecedentes se ha hecho, y en las demás Cortes de los Reynos de la Corona»[115].

Il confronto tende a radicalizzarsi quando la parte del braccio militare che fa riferimento a Laconi e quella del braccio ecclesiastico controllata da Vico frappongono ostacoli d’ogni genere all’autorità reale. I greuges (o quejas) documentano una tenace resistenza che alimenta una forte conflittualità parlamentare[116]. La proposizione d’ogni sorta di disentimientos, di rivendicazioni di fueros e contrafueros avviene ufficialmente a tutela degli interessi generali del regno, ma dietro si celano interessi personali, di gruppi e di comunità, come dimostrano – ad esempio - i gravami in materia giudiziaria che scaturiscono dalle storie personali di Agustín de Castelví e di altri nobili che hanno avuto a che fare con la giustizia. Il tutto va a formare un ampio contenzioso parlamentare che scaturisce non da una visione unitaria dei problemi del regno, ma si configura come la sommatoria di richieste frammentate che rispecchiano esigenze particolaristiche e che non approdano mai a proposte legislative comuni[117].

Quando ormai il parlamento si trascina senza sbocchi da un anno e mezzo con grande disappunto di Madrid, nel giugno del 1667 viene deciso d’inviare a corte il marchese di Laconi. Il síndico degli stamenti è munito di un’ampia delega per trovare un «ajuste de las condiciones y súplicas con que se hacía el servicio» che porti alla conclusione del parlamento. Come controparte il viceré manda il dottor Lupercio Antonio de Molina, fiscal della Audiencia di Sardegna. La delega generica, invece di favorire, ostacola «el ajuste» perché a don Agustín manca la duttilità per condurre le trattative in maniera possibilista e rendere flessibili e modificabili le richieste presentate dal regno. Solleva nuove difficoltà per la concessione del donativo di 70.000 scudi, coinvolge nell’attitudine intransigente la sua fazione a Cagliari, fa fallire persino la mediazione del suo congiunto Jorge de Castelví. Finalmente l’ultimatum del vicecancelliere d’Aragona porta Laconi a più miti consigli e l’ampio pacchetto di pretese (17 condiciones e 29 súplicas) che aveva presentato viene ridotto a quattro punti essenziali.

La prima richiesta è la conferma di tutti i privilegi, «usados y no usados” (sia quelli vigenti sia quelli caduti in desuetudine o mai applicati), che erano stati concessi al regno in passato. Sul rispetto di quei privilegi da parte dell’amministrazione reale, poi, le tre prime “voci” degli stamenti, collegialmente o come singoli, avrebbero esercitato un controllo di merito riproponendo così la figura dei giudici conservatori. La richiesta viene accolta, con l’eccezione della vigenza dei privilegi desueti e del costante controllo formale dei rappresentanti degli stamenti sugli atti della burocrazia reale

La seconda richiesta - la principale, o almeno la più sentita - riguarda l’esclusività degli uffici: «que se concediessen al Reyno – chiede Laconi - todos los oficios assí eclesiasticos como seculares y que se diessen a naturales y no a naturalizados sin ninguna excepción ni de obispados arzobispados ni de ningun otro, y que no corriese el donativo hasta que se estuviesen ocupados los naturales en los que tienen los forasteros». Nella risposta il Supremo d’Aragona fa alcune aperture nella concessione degli uffici, ma non ammette il principio dell’esclusività ai sardi: «por su naturaleza – replica il Consiglio – no combiene se goviernen las Islas por sus propios naturales en todo; pues aunque sean de gran confianza y de grandes obligaciones pueden con el tiempo descaezer […] muerto un Virrey como ha sucedido aora viene a quedar en su mano (si tienen todos los puestos) el arbitrio de su libertad y de admitir a los enemigos de su Principe u de perseverar en la fidelidad a que están obligados, y nunca combiene que se dexen las Provincias a este arbitrio y peligro». Quanto sia inopportuno delegare tutto il potere ai naturales è Crespí a sottolinearlo, portando ad esempio negativo proprio l’arcivescovo di Cagliari Pedro Vico il quale, sfruttando la sua posizione, era la principale fonte delle difficoltà incontrate nella celebrazione delle cortes[118].

La terza richiesta riguarda la soppressione della “sala criminale” della Audiencia. La risposta di Crespí è altrettanto categorica: poiché «querían los Varones no tener sobre si la Sala criminal para poder usar con más libertad de su jurisdición en los vassallos […] conservar esta sala no puede dexar de ser muy importante a la administración de la justicia pues se experimenta assí en todos los Reynos». Il problema della preminenza reale osteggiata dai particolarismi locali è ancora vivissimo nel rapporto fra centro e periferia sarda e la richiesta di ridimensionare la giurisdizione reale tende più a difendere interessi signorili che a promuovere il buon funzionamento della giustizia.

Il quarto punto concerne la richiesta delle città di concessione della saca de porción (ossia l’autorizzazione per città, nobili, produttori e comunità d’esportare in franchigia dal regno il grano immagazzinato per un anno) anche quando quel grano non appartenga alla quota dell’encierro. Si tratta, in pratica, di garantire la totale libertà d’esportazione dei grani, stravolgendo gli antichi meccanismi economici e produttivi. La richiesta, francamente eversiva per gli assetti economici faticosamente consolidati nei secoli, avrebbe privato le finanze reali della principale e quasi unica fonte d’introito oltre il donativo parlamentare; avrebbe invece assicurato alle città ed ai privati esportatori proventi ben più pingui del servicio offerto nelle cortes. Per una Hacienda reale al collasso una richiesta talmente massimalistica, presentata da un regno che per di più è un mediocre contribuente e un pessimo pagatore dei donativi concessi, può suonare quasi certamente come una provocazione.

Quattro domande, quelle di don Agustín, subito ridimensionate se non drasticamente denegate dal vicecancelliere d’Aragona[119]. La missione si conclude bruscamente, tanto che viene meno persino il rispetto dell’etichetta di corte: «hize el memorial – scrive don Agustín ai suoi a Cagliari - […] e le puse en manos de la Reyna nuestra Señora y de todos sus ministros, no é tenido suerte de poder alcanzar cosa ninguna, pues hasta poner las armas del Reyno a la puerta, que se aze con los embiados de las Ciudades de la Corona, a mi no me lo an querido conceder»[120].

Dopo il sostanziale fallimento della trattativa madrilena Crespí dispone alla fine di novembre del 1667 che il contenzioso ritorni a Cagliari davanti agli stamenti. Il viceré dovrebbe esperire – in assenza di Laconi, che resta a corte - un nuovo tentativo di conciliazione per concludere le cortes alle stesse condizioni raggiunte dal conte di Lemos dieci anni prima. L’intransigenza di Madrid scaturisce sì dal massimalismo di Laconi, ma anche dalla percezione che gli equilibri parlamentari in Sardegna volgono a favore della fazione filomonarchica dei Villasor. L’intesa fra il viceré, la vedova Villasor e suo figlio il principe di Piombino aveva spostato un certo numero di voti, ritenuti sufficienti per far passare l’abilitazione del diciottenne marchese di Villasor. A quel punto costui recupera il ruolo di “prima voce” dello stamento militare e può fare pressioni sui parlamentari assenteisti per revocare le procure al marchese di Laconi.

Quando la maggioranza dello stamento militare si orienta a favore di Villasor e va maturando il convincimento che siano ancora possibili la concessione del servicio e la regolare chiusura delle cortes, la lotta fra i due bandos si trasferisce fuori del parlamento: «los que se confesavan parciales [de Laconi] havían començado ya a introducir gente de las villas y amenaçar a los que havían votado en favor de la habilitación de Villasor e de lo que el Virrey deseava»[121]. Ovviamente i movimenti minacciosi dei bandos armati non possono non riflettersi sulla formazione della volontà dei parlamentari: «el modo con que se portan es hacerse cada uno caudillo del número de votos que puede juntar a su facción, los quales de tal manera le sigan que sin otro examen estén a su libre disposición y no vienen a votar por proprio parecer sino por el antojo de quien se haze cabeza»[122].

A quel punto Madrid ha sempre più fretta di concludere, anche perché agli inizi del 1668 il ritorno in Sardegna del marchese di Laconi rilancia le quotazioni dell’opposizione[123]. Il viaggio di don Agustín via terra, attraverso l’isola, è una vera e propria dimostrazione di forza o, se si vuole, è un atto di palese intimidazione. «El Marqués desembarcó en Puerto Torres - racconta l’Aleo –, y de Sáçer se vino por tierra a Cáller, donde entró con un acompañamiento de cavallería, todos vasallos suyos, tan grande y numerosa que jamás ningun otro señor havía entrado en Cáller con tanta ostentación y grandeza»[124].

Nelle successive sedute parlamentari Laconi e Vico tentano d’ostacolare la concessione del servicio. Concertano vari pretesti per rinviare le decisioni finali; adducono la necessità di trovare preventivamente una soluzione legislativa al disordine monetario che affligge l’economia sarda; sconfessano i nobili abilitati per linea femminile cercando di ribaltare la maggioranza nello stamento militare[125]. I conflitti nobiliari incombenti e la tattica dilatoria degli oppositori convincono Madrid (e quindi Camarasa) che bisogna rompere gli indugi e richiedere in via ultimativa il donativo senza condiciones. La mossa del viceré è forse determinata dal convincimento che le trattative non consentono di raggiungere una posizione mediana quando si ha a che fare con personaggi tanto risoluti quanto inaffidabili: «la buelta aquí del Marqués – scrive Camarasa a Crespí - a ocasionado abrebiar en esta resoluzión, porque la mayor parte de los estamentos la tenían ya tomada de no benir en azer el servicio sin condiziones»[126]. Quando la maggioranza dei voti si dichiara contraria al dictat di Camarasa il parlamento viene sciolto[127]. Il rimedio risulterà peggiore del male: «disueltas las cortes quedaron más enconados los ánimos de una y otra parte, la que promovía el Real servicio por ver desvanecidas las esperanzas de que se consiguiesse como lo deseava su zelo y empeño de superar las contradiciones opuestas por los parciales del Marqués de Laconi, y éstos considerando malogradas sus disposiciones y perdida la oportunidad de obtener lo que pretendían»[128].

Il 20 giugno del 1668, mentre rientra a casa nottetempo, don Agustín de Castelví viene assassinato da sicari prezzolati. In città la morte violenta d’un così importante personaggio, “prima voce” dello stamento militare, suscita un’enorme impressione per la fama del signore poderoso e per il ruolo di primo piano della sua casata nella società sarda. Il vasto cordoglio viene amplificato ad arte dalla cerchia clientelare del defunto. Manipolando un’opinione pubblica sconcertata, la consorteria dei Castelví convince molti cagliaritani che l’assassinio sia ispirato dal viceré e che si debba collegare con la burrascosa cancellazione delle cortes.

Anche la vicenda umana di don Agustín viene strumentalizzata nei giorni seguenti, fino all’esaltazione di una sua presunta dedizione, in parlamento, alla causa del riscatto dei connazionali sardi, specialmente dei poveri. Nella plateale azione propagandistica, mirata a trarre vantaggio politico dal delitto, si distinguono i nobili cagliaritani vicini a Laconi (il marchese di Cea, il conte di Montalvo, i marchesi di Albis e di Monteleon, il conte di Villamar e suo fratello don Silvestre Aymerich che si rivelerà più tardi essere il vero mandante dell’assassinio). L’intenzione è quella di dare il massimo risalto alla morte del capo per suscitare allarme a corte e cordoglio a Cagliari, per alimentare sentimenti di paura e d’insicurezza nella popolazione, per trarne insomma ogni possibile vantaggio politico.

È così che diviene di dominio pubblico – a Madrid, come nell’isola – la voce che il bando di Laconi e il vasto seguito dei suoi fiancheggiatori non siano alieni dal muovere il popolo alla sedizione per vendicare la morte del marchese («el deseo y mala intención de algunos fue que tomasse el pueblo a su cargo la venganza de la muerte del de Lacony, insinuando la havía padecido por defender el Reyno dándole título de Redemptor dél»)[129].

Il piano segreto sarebbe quello d’assassinare il viceré, ritenuto il responsabile della morte di don Agustín, e di provocare una sommossa a Cagliari, in modo da precostituire il clima favorevole per un confronto radicale col potere regio. A coordinare la consorteria avversa al viceré è il solito arcivescovo di Cagliari. Dopo essersi invano proposto al vicecancelliere d’Aragona come mediatore fra le due posizioni parlamentari nell’intento di ripetere l’esperienza del 1656 col conte di Lemos[130], Pedro Vico raccoglie le voci di dissenso, sotterraneamente rinfocola ed amplifica i sentimenti popolari di rimpianto del marchese assassinato. «Un caso tan atroz – scrive Pedro Vico alla regina madre – por la calidad de la persona y circumstancias del delicto que ha puesto a toda la nobleza, pueblos y Reyno en bivas llamas de discordias y turbaciones por haverse hecho la causa popular y común tomando cada uno en particular por proprio el agravio»[131]. «La muerte del Marqués de Lacony – aggiungono alcuni amministratori pubblici - y la aflición y dolor universal que ocasionó en los coraçones de todos tiranía tan grande y también de ver todos los días y noches hombres armados con carabinas y pistolas amenazando las vidas, y las personas de suposición y títulos arrinconados por el evidente peligro»[132].

Per alimentare il mito di don Agustín “padre della patria” pare sufficiente convincere l’opinione pubblica che egli sia caduto vittima dell’autoritarismo del viceré nella sua veste di capo dell’opposizione antigovernativa in parlamento. Ecco allora delinearsi nell’immaginario popolare la nobile figura di un signore, Castelví, sollecito protettore delle popolazioni sarde, contrapposto ad un viceré, Camarasa, responsabile delle decisioni avverse ai sardi assunte nelle cortes e mandante dell’omicidio del marchese di Laconi. Ma si tratta dell’immaginario popolare o di quello dell’arcivescovo Vico e dei sodali di Castelví? Nelle sue complicate orditure antigovernative, è sempre Vico a soffiare sul fuoco, a cimentarsi in calunniose insinuazioni contro funzionari pubblici vicini al viceré («háblase con publicidad y con mucho dolor mío que los executores desta atrocidad han sido el Abogado fiscal don Antonio de Molina y don Gaspar Niño sobrino del Regente»[133]), ad accreditare il bando Castelví come parte lesa, costretta sulla difensiva dall’aggressione sempre più esplicita e violenta del potere vicereale che protegge la fazione avversa dei Villasor: «viéndose aora nuebamente más indefensas las Casas ofendidas – sostiene Vico - con los mandatos penales que se les han puesto y el desembarazo con que se tolera en otras casas las esquadras de gente acreditan la voz común de que está armado todo el poder y autoridad del govierno para ofender, con que cada día se van enconando los ánimos y se puede temer no pasen a grandes arrojos pues de menores principios se han visto más horribles fines»[134].

Il disegno di Vico, frutto di un’artificiosa mescolanza di simulazione e di mezze verità, è rivolto a far precipitare nella capitale la situazione dell’ordine pubblico nella speranza che la popolazione insorga contro il viceré spagnolo e il suo entourage di corte. Ormai la congiura dei nobili legati alla casa Castelví pare matura e non può che puntare alla vendetta, alla soppressione fisica del viceré responsabile morale della morte di don Agustín.

È possibile che l’arcivescovo Vico e i nobili congiurati nutrano il segreto proposito di provocare un moto popolare sull’onda lunga delle sollevazioni antispagnole di Portogallo, Catalogna e Napoli? È possibile. Acclamare in morte come «redemptor y restaurador de la Patria» don Agustín de Castelví, un nobile dedito più all’esercizio delle armi che alle questioni di governo, che si era distinto prima delle cortes soltanto per ripetuti atti di violenza e per una serie impressionante di reati comuni, non è che un espediente retorico per costruire una figura simbolica intorno alla quale accomunare tutti i sardi in un’ideale causa “nazionale”. Un grande título del regno di Sardegna, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente: questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica.

Una pagina del nostro cronista Jorge Aleo (che sappiamo partigiano del vescovo Vico e che per questo sarà esiliato durante la successiva grande repressione del viceré Tutavila) rappresenta a meraviglia l’idea che del marchese di Laconi si era fatta la gente della sua fazione: «Havía sido este Señor hombre de resolución y que siempre se havía hecho respectar. Y con su buen modo, cortesía, y corespondencia se havía grangeado el amor y voluntad de la nobleza y gente popular de todo el Reyno; y assí no es creíble el susto y sentimiento general que ocasionó su muerte. […] Admirávanse todos que siendo el Marqués uno de los mayores señores del Reyno y tan temido y respectado se huviessen atrevido a intentarle la muerte y executarla juntamente. Y mucho más se admiravan que siendo hombre tan prudente y entendido, y en tanta ostentación, que quando salía de día de su casa con la compañia y assistencia grande de criados, pages y lacayos llenava media calle, se huviesse fiado a salir de noche, y a desohora, solo»[135].

Della breve e convulsa campagna “patriottica” occorre sottolineare, però, un aspetto singolare. La propaganda del bando Laconi, tutta giuocata sulla mozione degli affetti per il grande signore caduto, si indirizza contro il viceré ma non contro la Corona. Anche in questo caso, in una situazione che potrebbe dirsi “pre-rivoluzionaria”, pare rispettata l’antica regola di fedeltà dei buoni sudditi, i quali rivolgono la protesta contro il rappresentante del re ma non contro il re, invocando anzi il sovrano stesso come giudice severo ed imparziale.

L’elogio delle virtù civili del nobile assassinato e i propositi di vendicarlo sulla piazza guadagnano qualche consenso nelle sfere medio-alte della società cagliaritana. Ma le adesioni non vanno oltre. Il disegno dei congiurati ha il corto respiro degli ideali elitari non condivisi dalle masse. Mobilitare strati più larghi della popolazione, coinvolgere fasce sociali totalmente estranee agli accadimenti parlamentari ed ignare dell’azione politica di Laconi si rivelano difficoltà insormontabili. Il tentativo populistico di presentare don Agustín come «padre del Pueblo» o «amparador de los pobres» – ricavo queste espressioni da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto - nell’intento di sollecitare risentimenti antigovernativi (contro Camarasa) e antispagnoli (contro i funzionari che occupano le plazas che potrebbero andare ai sardi) è destinato a naufragare per l’indifferenza del popolo minuto e per l’adesione scontata alla causa monarchica di un’ampia quota, certamente maggioritaria, della nobiltà e della burocrazia del regno.

V’è da dire, tuttavia, che sulle prime i propositi sediziosi sembrano destinati a qualche successo. Il marchese di Cea potrà scrivere qualche tempo dopo – forse esagerando la portata dei fatti - che «el día de su entierro [di Castelví], por el sentimiento universal de haver sido síndico deste Reyno en Cortes, hubo próxima disposición de un motín»[136].

Per muovere a commozione il popolo i principali congiurati avevano immaginato una cerimonia notturna, d’esasperato gusto barocco e di forte impatto scenografico, nel convincimento che l’entierro di notte avrebbe impressionato maggiormente la folla. Propendono poi per un corteo funebre che percorre in pieno giorno le strette ed affollate strade del castello di Cagliari, in modo che il cadavere sia mostrato scoperto, con le ferite alla vista, per glorificare il “martirio” di don Agustín[137]. Per la cerimonia funebre giungono da ogni parte dell’isola, minacciosi e disposti alla vendetta, mille o forse millecinquecento armati, chiamati dal bando Laconi e pronti ad offrire i loro servizi. Anche in morte, dunque, don Agustín è capace di mobilitare masse considerevoli di vassalli legati alla sua casa.

Viene fatto di chiedersi se costoro si mobilitano per obbligo verso i propri signori territoriali o se hanno effettivamente coscienza della parole d’ordine dei seguaci di Castelví. Non v’è dubbio che a muovere la gente dei villaggi sia essenzialmente la fedeltà al signore feudale (la fedeltà familistica e di servizio), né più e né meno di quanto era avvenuto, con obiettivi politici del tutto opposti, in occasione del reclutamento dei tercios per le repressioni castigliane in Catalogna e a Napoli. Li muove lo stesso obbligo di fedeltà che aveva portato qualche anno prima alla mobilitazione dei due grandi bandos che si erano affrontati nelle pianure campidanesi nel nome degli Alagón e dei Castelví. Uomini “di fatti”, dunque, soltanto uomini “di fatti”, pronti a difendere qualsiasi causa signorile, in nome dei valori morali dell’appartenza e del prestigio che deriva dalla forza delle armi e dallo spirito di corpo, ed anche per il bisogno d’assicurarsi la sopravvivenza materiale al servizio d’un ricco padrone.

Durante la congiura, culminata nell’assassinio del marchese di Camarasa , e dopo, nella successiva fase dei torbidi capeggiati dal marchese di Cea, sia lacayos di case nobiliari che bandoleros disponibili a militare sotto qualunque bandiera vengono impiegati come forza intimidatrice e come massa di manovra pronta ad entrare in azione alla bisogna. Con finalità del tutto opposte anche il viceré Tutavila duca di San Germán farà ricorso alle bande del nord Sardegna per punire il delitto di lesa maestà (tale è considerato l’omicidio del vicario del re), per reprimere la congiura e per sconfiggere sul campo il marchese di Cea. In certi frangenti l’apporto dei banditi si fa irrinunciabile per tutte le cause, per sostenere le ribellioni nobiliari ma anche per affiancare il viceré e le truppe reali in una durissima operazione di polizia che mira a ristabilire l’ordine costituito nella provincia sarda[138].

Resta da chiedersi se nell’assassinio del viceré possa ravvisarsi una scintilla insurrezionale, l’avvio di una sollevazione popolare; oppure se si tratti - più modestamente - di un regolamento di conti fra fazioni nobiliari (è questa la tesi che, a cose fatte, tenterà d’accreditare a Madrid Jorge de Castelví per tentare d’uscire indenne dalla repressione)[139]. La risposta può venire da alcuni documenti che chiariscono quale è l’atteggiamento di una parte maggioritaria della società sarda che prende le distanze dai congiurati e si affretta a rinnovare la professione di fedeltà alla Monarchia. Primo documento: dopo l’assassinio del viceré la Audiencia assume il controllo dell’ordine pubblico e prudentemente, non disponendo di soldati, recluta armati nelle villas. Ma deve fare subito marcia indietro, perché «muchos títulos y cavalleros acudieron a la Real Audiencia a ofrecer sus personas, haziendas y vassallos en servicio de Vuestra Magestad y assistencia de la Justicia»[140]. Così pure i síndicos degli appendicios cagliaritani (ossia il nerbo della borghesia e del popolino della capitale) fanno professione d’assoluta lealtà alla Corona[141]. In un clima politico mutato, dichiaratamente lealista, persino l’arcivescovo di Cagliari volta gabbana e «desea y procura hacer de su parte los officios possibles por la paz y quietud deste dicho Reyno»[142].

Siamo al 26 di luglio del 1668, ad appena dieci giorni dal delitto Camarasa. I nobili congiurati sono ancora trincerati con i loro scherani nel convento di San Francesco ed in procinto d’abbandonare Cagliari per il nord dell’isola e già vi è chi (come Vico) cerca di ricucire le relazioni col potere reale. Ma la situazione dell’ordine pubblico è talmente compromessa che la Corona avverte la necessità di un’esemplare azione repressiva che cancelli qualunque ipotesi di sollevazione nel regno[143].

Se la vendetta contro il viceré Manuel de los Cobos non è una semplice faida nobiliare, la sua eliminazione fisica potrebbe configurarsi - più realisticamente - come l’estremo tentativo dei congiurati di recuperare il potere contrattuale perduto dopo la chiusura del parlamento, di forzare la mano alla corte per riaprire i giuochi politici fra il centro e la periferia e spingere così a fondo sul terreno delle rivendicazioni “autonomistiche”. Ma un confronto così aspro ed ardito, radicalmente diverso dalla consueta dialettica parlamentare già tollerata con fastidio in Consiglio d’Aragona da Crespí, non pare praticabile da forze politiche sicuramente minoritarie. L’atto d’infedeltà compiuto con il delitto Camarasa sancisce la definitiva sconfitta della fazione raccolta sotto l’ideale bandiera di don Agustín de Castelví; la maggioranza lealista si ricompatta e svanisce così l’occasione di profittare del momento d’estrema debolezza politica della Monarchia.

Ma le ragioni del fallimento della ribellione vengono da più lontano. Vi concorrono varie cause. La prima è la natura “meticcia” della nobiltà sarda. Le origini ispaniche dei più ed i loro forti legami parentali con famiglie valenziane, catalane, aragonesi, ed in ultimo anche castigliane, avevano fortificato più lo spirito familistico che quello “nazionale”. Al tempo stesso la disponibilità dei nobili sardi a servire in ogni luogo dove la Monarchia li chiama alimenta una cultura cosmopolita ed “imperiale” (vedi, ad esempio, le biografie di Jorge e di Jaime Artal de Castelví[144]) ed un’attitudine al rapporto di patronazgo real che mortificano ogni possibile sentimento aurorale d’identità “nazionale” e “autonomistica”. La seconda ragione, ancor più decisiva, è l’isolamento in cui si conduce nelle aule parlamentari la battaglia rivendicazionistica degli stamenti. Strettamente collegata con la seconda è la terza ragione, ossia la persistenza di una pratica verticistica di tutela delle “libertà” costituzionali intese come privilegi particolari dei ceti egemoni, una pratica per di più frammentata che esclude aperture ad interessi e ad obiettivi più generali nel regno.

Le oligarchie provinciali, insomma, non paiono in grado di fare il salto di qualità per assumere un ruolo dirigente autonomo, come era forse nei disegni politici di quegli uomini “nuovi” come sono certamente il prelato Vico e i letrados Matteo e Gavino Frasso i quali, spinti da esigenze di rinnovamento sociale ed economico oltre che da ambizioni personali, paiono orientati durante il parlamento verso un più avanzato rivendicazionismo regionale.

V’è dunque un equivoco di fondo all’origine di questa mancata “rivoluzione”. È l’alleanza fra gruppi emergenti socialmente compositi, che affacciano proposte di rinnovamento tutte ancora da definire, e un’aristocrazia refrattaria al nuovo anche se predisposta ad una sediziosità alternata a repentini ritorni di fedeltà monarchica. Un nobile come Agustín de Castelví è pronto a contrapporsi al potere reale, non ha remore a rendersi protagonista di conflitti e di atti episodici d’altezzosa ribellione; ma è incapace d’andare oltre, di rappresentare interessi più generali. Non è in grado, don Agustín, (e come lui tutti i nobili congiurati - il marchese di Cea, il conte di Villamar, il marchese di Sedilo -, al pari dei loro avversari del bando Alagón) di tagliare l’antico cordone ombelicale del patronazgo real, d’attenuare il rapporto di dipendenza dalla Monarchia, che - per quanto decrepita, o forse, proprio perché decrepita – è ancora la fonte esclusiva dei privilegi, del prestigio sociale, delle prebende, delle mercedes modeste ma indispensabili per la sopravvivenza di economie familiari sempre pericolanti. Una nobiltà periferica, dunque, divisa fra resistenza e collaborazione con una Monarchia che è la garanzia del loro irrinunciabile primato sociale.

Cito una lettera esemplare indirizzata al viceré di Sardegna dieci giorni prima del delitto Camarasa. Il Consiglio d’Aragona gli notifica che il procuratore reale don Jaime Artal de Castelví ha presentato un memorial in cui segnala la scadenza della sua merced reale di seimila scudi per sei anni (mille ogni anno) e chiede in pari tempo un aumento della pensione fino a duemila scudi annuali per tutta la vita. Cristobal Crespí manifesta «admiración», stupore, per una tale súplica perché sul procuratore reale di Sardegna gravano sospetti di furto commessi da suoi criados; ma specialmente perché si hanno certezze incontrovertibili sulla sua slealtà verso la Corona, quando in parlamento aveva sistematicamente concertato con l’arcivescovo Vico, controparte del viceré, misure contrarie ai deliberati assunti nel Consiglio reale di Sardegna[145]. Ma si sarebbe stupito ancor di più, il vicecancelliere d’Aragona, se avesse potuto prevedere che di lì a qualche giorno don Jaime Artal si sarebbe trovato a capeggiare la congiura che avrebbe portato a morte il viceré di Sardegna. Dunque un ufficiale reale di primo rango, obbligato alla fedeltà, si schiera contro la Corona a favore degli interessi particolaristici del suo ceto e della sua casa, dopo aver sollecitato l’ennesima merced a corte.

È la dimostrazione che il rapporto fra il centro politico e le élites provinciali è materia magmatica, difficile da decifrare, che si modifica continuamente: le profferte di servizio e gli atti di fedeltà si alternano ai momenti di sedizione espliciti, a cui seguono sovente nuove ricomposizioni tanto improvvise quanto disinvolte.

Altrettanto significativi sono i tentativi di ricomposizione dell’arcivescovo Vico e del regente del Consiglio d’Aragona Jorge de Castelví. L’uno a Cagliari e l’altro a corte erano stati i reali protagonisti della resistenza parlamentare e della contrapposizione alla Corona. Quando il caso Castelví si sgonfia ed emerge la verità sulle motivazioni del delitto, una verità invero poco lusinghiera nella biografia di un «padre della patria»[146], costoro compiono vari tentativi di conciliazione. Addirittura Jorge de Castelví tenta di proporre un’improbabile sanatoria presentando i due delitti come il risultato di una faida personale fra i due marchesi[147]. In una serie di “memoriali” al re, che sarebbe troppo lungo illustrare qui, personaggi di primo e secondo piano della mancata “revolución” cercano di recuperare ruolo politico, posizione sociale, favore reale riproponendo in pieno l’antico rapporto di patronazgo che li lega alla Monarchia.

Ma di fronte ad un delitto capitale di lesa maestà, la Monarchia (nella persona di un severo militare come il duca di San Germán) non rinuncia ad usare il pugno di ferro con i nobili felloni. Le istruzioni ricevute, d’altronde, parlano chiaro: «tan gran maldad [l’assassinio del viceré] no ha de hallar clemencia ni en mi piedad, todavía se considera que no haviéndose perpetrado este delito con tumulto popular, sino con prevención de cierto número de gente y que el pueblo ahunque fue provocado no se mescló en tan enorme y detestable resolución, parece que ahora se podrá esperar que no obrará cosa que pueda turbar la obediencia que por su naturaleza deven profesarme»[148].

Il rapporto di patronazgo e la fidelidad dei sardi sono salvi. Il Consiglio d’Aragona ritiene che finalmente si possa ricucire il rapporto con la periferia sarda. Ma il rude viceré castigliano non dimostra un’analoga sensibilità politica e auspica, per colpire le élites nobiliari e burocratiche, una cancellazione dell’antico patto fra Monarchia e le periferie politiche. Nel momento culminante della repressione Tutavila manifesterà con estrema risolutezza la sua visione assolutistica che non tiene conto delle “libertà” costituzionali: «La conservación del Reyno – scrive a Madrid nel settembre del 1670 – es lo primero a que se deve mirar, porque a no quitar de rayz esta gente quedará este Reyno siempre expuesto a un buelco de dado, y estas zenizas jamás se apagarán sino es quitándolas de todo punto, y por haverse tenido piedad y contemporizándose en estas cosas han succedido gravísimos daños en todos los Reynos, y en esta Monarchía de Su Magestad (que Dios guarde) se han experimentado tan grandes desdichas y ynfortunios como se padecen, y buena experiencia se tiene con Portugal, y por todas raçones se deven proveer en propriedad todos los puestos que ocupan los delinquentes porque el no haverlo hecho assí les ha ynfundido mayor ánimo esparciendo que por haver sido justificadas sus acciones y tener tanta mano en el Reyno no se han resuelto a proveer los Puestos, y en todo caso combiene que se les quite toda esperança a ellos, y a sus parientes que no deven levantar cabeza en este Reyno por no haverse contentado con lo que han hecho por lo passado»[149].

La distinzione fra la nobiltà turbolenta ed infida – una minoranza - e gli altri sardi, sudditi leali della Monarchia, è ricorrente nelle carte degli archivi del Consiglio d’Aragona. In una lettera del 28 marzo 1669 al viceré di Napoli il duca Tutavila di San Germán sostiene che «la mayor parte del Reyno son muy fieles vasallos de Su Magestad, no obstante, como han sembrado que la muerte del Marqués de Camarasa fue por haver echo matar al Marqués de Laconi por defensor de la Patria, esto a muchos se le ha impreso en el corazón y apoian su audacia y maldad por este título; otros no se atreven a hablar porque temen a esta gente vandolera que les quite las vidas y haciendas y otros no se mueben hasta veer el exito de las cosas»[150].

La distinzione fra sudditi fedeli e minoranze ribelli («gente bandolera», per il viceré) è politicamente strumentale, ma è certamente più vicina al vero della versione storiografica liberal-nazionale data nell’Ottocento dal poligrafo sardo Vittorio Angius. Costui amplifica in chiave antispagnola e filosabauda il ruolo politico di don Agustín, suscitatore della partecipazione corale dei sardi alle rivendicazioni dei ceti parlamentari dell’isola. Scrive Angius: «sentivano anche i plebei nella esclusione de’ compaesani dalle grandi cariche quanto da quei governanti fossero vilipesi come inetti od indegni i molti uomini distinti che si conoscevano nella patria. Ne’ quali pensieri fermentando più che mai i mali umori, si disponeano gli animi a fatti gravi»[151].

L’analisi di Angius rispecchia in maniera molto semplificata la tendenza ottocentesca a leggere le rivolte dell’Europa moderna in chiave nazionalistica. Tuttavia il rifiuto di quelle forzature non deve fare velo al fatto che nelle ribellioni secentesche si delinea un’aurorale coscienza comunitaria che prelude ad un’evoluzione in senso “nazionale”. È ovvio che si tratta di qualcosa di molto diverso dal sentimento nazionale ottocentesco. Lo stesso termine “patria”, che ricorre con insolita frequenza nei documenti qui utilizzati, ha nel Seicento tutt’altro significato e va riferito più alla città o alla provincia natale che all’intera nazione[152], benché la parola sia usata talvolta in un’accezione più ampia (come nel caso del Principato di Catalogna)[153]. Insomma la parola “patria” presenta un largo margine d’indeterminatezza, di ambivalenza e – se si vuole – di ambiguità semantica[154].

Va detto anche che la frammentazione della società del tempo è un formidabile freno allo sviluppo di una coscienza comunitaria. «Lo spirito di fazione – ha scritto John H. Elliott – tendeva ad affossare il sentimento di una comune identità, già incrinato dagli antagonismi sociali e dalle rivalità di categoria»[155]. Su questo terreno, delle rivalità di categoria o di fazione, non maturano né la difesa corale di principi costituzionali né la tutela d’interessi generali: ciò non toglie che talvolta la lotta politica in sede parlamentare faccia propri questi argomenti, quale espediente di una casta di privilegiati per tutelare interessi particolari o privati.

 

 

 

 



 

(*) Relazione presentata nel Convegno internazionale di studi storici: «Banditismi mediterranei. Secoli XVI-XVII» (Fordongianus-Samugheo, 4-5 ottobre 2002). Il testo è destinato agli Atti del Convegno, in corso di pubblicazione a cura di Bruno Anatra (Università di Cagliari), Francesco Manconi (Università di Sassari) e Xavier Torres Sans (Universitat de Girona).

 

[1] Archivo HistÓrico Nacional (d’ora in poi AHN), Órdenes Militares, Calatrava, Pruebas de Caballeros, exp. n° 525. Una sintesi della prueba in A. Javierre Mur, Caballeros sardos en la Orden militar de Calatrava, in Studi storici e giuridici in onore di Antonio Era, Padova 1963, pp. 187-188.

 

[2] Archivo de la Corona de Aragón, Consejo de Aragón (d’ora in poi ACA, CdA), leg. 1094, consulta del 1° febbraio 1633.

 

[3] Proprio il pleito portato davanti al Consiglio d’Aragona per il possesso della baronia di Giave e Cossoine (una causa che vale cinquantamila ducati) è uno dei motivi principali dell’inimicizia fra le case di Alagón e di Castelví, inimicizia destinata a durare nel tempo e ad assumere toni di particolare asprezza alla metà del Seicento (ACA, CdA, leg. 1170, il viceré Erill al Consiglio d’Aragona, 10 luglio 1621; leg. 1156, istanza di Blasco de Alagón al Consiglio d’Aragona per la definizione della causa, s.d. [ma 1652]). Un’altra causa era stata intentata dagli Alagón contro il fisco e contro i Castelví per l’eredità dei feudi dell’encontrada del Barigadu appartenuti ai Cardona (F. Floris, Feudi e feudatari in Sardegna, Cagliari 1996, vol. II, p. 525). La situazione di conflittualità giudiziaria presenta forti analogie con quella della Catalogna descritta da Eva Serra (Pagesos y senyors a la Catalunya del segle XVII. Baronia de Sentmenat 1590-1729, Barcelona 1988) e da Xavier Torres Sans (Els bandolers (s. XVI-XVII), Vic 1991, p. 81).

 

[4] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes. Un estudio sobre la decadencia de España (1598-1640), Madrid 1977, pp. 62-69.

 

[5] Cfr. la Tavola genealogica dei Castelví visconti di Sanluri marchesi di Laconi e baroni di Ploaghe, in D. Scano, Donna Francesca di Zatrillas marchesa di Laconi e di Sietefuentes, in Archivio storico sardo, vol. XXIII (a. 1941-1945), Cagliari 1946.

 

[6] ACA, CdA, leg. 1221, il conte de Cullar Juan Bautista Cetrillas al Consiglio d’Aragona, 20 aprile 1616.

 

[7] ACA, CdA, leg. 1221, il marchese di Laconi Jaime de Castelví al Consiglio d’Aragona, 22 aprile 1616.

 

[8] ACA, CdA, leg. 1221, il procuratore reale Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona, 20 aprile 1616

 

[9] ACA, CdA, leg. 1089, consulta del Consiglio d’Aragona del 12 agosto 1616.

 

[10] ACA, CdA, leg. 1090, dalla corte al vicecancelliere d’Aragona, 15 maggio 1616; nomina dei giudici dei Consigli d’Aragona e de Órdenes, 31 luglio 1616; deliberazione della junta mista del 14 febbraio 1617.

 

[11] ACA, CdA, leg. 1223, istanze di Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona del 2 giugno e 3 novembre 1617.

 

[12] ACA, CdA, leg. 1227, suppliche di Salvador de Castelví del 22 aprile 1621, del 7 marzo e 25 ottobre 1622; parere del viceré Erill del 22 aprile 1622.

 

[13] In generale, sull’impunità dei nobili si veda A. Domínguez Ortiz, La sociedad española en el siglo XVII, vol. I, Granada 19922, pp. 282-283.

 

[14] ACA, CdA, leg. 1228, petizione di Salvador de Castelví del 29 gennaio 1623; leg. 1230, petizioni del 30 marzo e 14 settembre 1624, 3 dicembre 1625.

 

[15] Accenni alla tolleranza giudiziaria verso i nobili in J.A. Maravall, Potere, onore, élites nella Spagna del Secolo d’oro, Bologna 1984, p. 256.

 

[16] ACA, CdA, leg. 1180, la marchesa di Laconi Francisca Lanza al re, 13 agosto 1630.

 

[17] ACA, CdA, leg. 1180, il viceré marchese di Vaiona al Consiglio d’Aragona, 29 dicembre 1630.

 

[18] ACA, CdA, leg. 1236, Salvador de Castelví al Consiglio d’Aragona, 31 gennaio 1634; leg. 1156, consulta del Consiglio d’ Aragona, 18 gennaio 1635; J. Aleo, Storia cronologica e veridica dell’Isola e Regno di Sardegna dall’anno 1637 all’anno 1672, a cura di F. Manconi, Nuoro 1998, p. 29 nota 31.

 

[19] ACA, CdA, leg. 1238, Memoria de los cargos y empeño que tiene la Casa de don Pablo de Castellví y lo que tiene de hazienda, s.l. e s.d.

 

[20] J. Aleo, Storia cronologica cit., p. 80.

 

[21] ACA, CdA, leg. 1237, súplica di Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona, 20 luglio 1639.

 

[22] ACA, CdA, leg. 1229, Pablo de Castelví al vicecancelliere d’Aragona, 18 febbraio 1622.

 

[23] ACA, CdA, leg. 1237, súplica di Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona, 20 luglio 1639.

 

[24] ACA, CdA, leg. 1231, Pablo de Castelví al vicecancelliere d’Aragona, 14 dicembre 1626; Certificación de la Secretaría de Registro de mercedes, de las que ha recivido don Pablo de Castelví Procurador Real de Cerdeña, 6 novembre 1626; leg. 1238, Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona, 14 gennaio 1639.

 

[25] Sull’impegno finanziario e personale richiesto ai nobili da Olivares, cfr. A. Domínguez Ortiz, La sociedad española cit., p. 228 ss. Sull’adesione volontaria dei sardi alla unión de armas, cfr. J.H. Elliott, El conde-duque de Olivares. El político en una época de decadencia, Barcelona 1990, p. 278.

 

[26] ACA, CdA, leg. 1237, súplica di Pablo de Castelví al Consiglio d’Aragona, 3 ottobre 1639.

 

[27] J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 81-84.

 

[28] La figlia di Crespí era andata in sposa al marchese di Villacidro e Palmas don Felix Brondo y Castelví. Alla morte di don Felix, fra la vedova e il cognato Antonio Brondo si era aperta una lite per la successione conclusa d’autorità in nome del re (sicuramente su ordine del Consiglio d’Aragona) dal viceré Camarasa che aveva preso possesso dei feudi per conto della vedova Crespí (J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 256-257).

 

[29] ACA, CdA, leg. 1098, consulta del Consiglio d’Aragona del 16 febbraio 1647.

 

[30] ACA, CdA, leg. 1098, Plaza de Regente Provincial de Cerdeña en el Consejo, s.d. (ma 1655).

 

[31] ACA, CdA, leg. 1098, consulta del Consiglio d’Aragona del 12 marzo 1649.

 

[32] ACA, CdA, leg. 1238, Jaime Artal de Castelví al Consiglio d’Aragona, 14 gennaio 1639.

 

[33] J. Aleo, Historia cronológica y verdadera de todos los sucesos y casos particulares sucedidos en la Isla y Reyno de Sardeña del año 1637 al año 1672, ms. della Biblioteca comunale di Cagliari, Libreria Sanjust, fol. 104.

 

[34] Il notevole impegno finanziario profuso dal marchese Castelví comporta la concessione di un’importante merced, consistente in esportazioni in franchigia dal regno di Sardegna di grano e legumi (ACA, CdA, leg. 1241, il marchese di Laconi Juan de Castelví al Consiglio d’Aragona, consultas del 9 gennaio e 14 marzo 1644).

 

[35] ACA, CdA, leg. 1135, documenti vari dal febbraio 1646 al maggio 1647. Il contrasto porta ad un forte irrigidimento dei rapporti: Castelví tenta di mobilitare la nobiltà contro il sopruso del viceré e Montalto risponde comminando gli arresti domiciliari al marchese di Laconi (cfr. specialmente ACA, CdA, leg. 1135, il duca di Montalto al re, 30 agosto 1646). Il contrasto finirà per risolversi a favore di Laconi per l’intervento del Consiglio d’Aragona (ossia del regente sardo Francisco Vico, protettore del marchese di Laconi) che dispone la sua liberazione e la restituzione dei beni sequestrati (ACA, CdA, leg. 1135, decreto reale del 12 dicembre 1646; AHN; Consejos suprimidos, lib. 2566, il re al duca di Montalto, 12 dicembre 1646 e 30 marzo 1647).

 

[36] AHN, Consejos suprimidos, lib. 2566, il re al viceré di Sardegna, al marchese di Villasor e al marchese di Laconi, 24 aprile, 16 e 28 febbraio 1646

 

[37] AHN, Consejos suprimidos, lib.2565, Al Virrey de Cerdeña sobre que los Títulos y militares de Cáller se han juntado a campaña tañida y que lo mismo intentan los Jurados para que ninguno que no sea natural tenga officio ni beneficio ecclesiástico, 23 ottobre 1643.

 

[38] «S’impegnò [il viceré] nel perseguire i ladri e i banditi che sono di solito molti, specialmente nel Capo di Sassari e Gallura dove si appoggiano ai più potenti e ricchi abitanti di quei villaggi» (J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 109-110).

 

[39] I Castelví, per esempio, non sono alieni dal servirsi di bandoleros per risolvere i loro contrasti personali: lo aveva fatto don Juan nei contrasti familiari per la successione al titolo marchionale, lo fa frequentemente don Agustín e lo faranno i suoi sodali durante la crisi politica seguita al suo assassinio.

 

[40] Biblioteca Nacional Madrid (d’ora in poi BNM), ms. 12621, Memorial al Rey del duque de Montalto, fols. 17-18.

 

[41] J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 104-105.

 

[42] J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 128; P. Tola, Castelví (Agostino di), in Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, ad vocem; B. Anatra, Castelví Agostino, in Dizionario biografico degli Italiani, ad vocem.

 

[43] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Teodoro Trivulzio al Consiglio d’Aragona, 10 aprile 1651.

 

[44] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Cea al Consiglio d’Aragona, 27 maggio 1651.

 

[45] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Laconi al Consiglio d’Aragona, 14 aprile 1651.

 

[46] Sulla repressione del banditismo e della falsificazione delle monete di vellón al tempo del viceregno di Trivulzio cfr. F. Manconi, Il disordine monetario di metà Seicento, in Il grano del Re. Uomini e sussistenze nella Sardegna d’antico regime, Sassari 1992, pp. 103-105.

 

[47] ACA, CdA, leg. 1137, cartello di sfida di Agustín de Castelví e risposta di Blasco de Alagón in data 18 aprile 1651

 

[48] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Villasor al Consiglio d’Aragona, 26 aprile 1651. Una descrizione degli avvenimenti sostanzialmente corretta, anche se orientata a favore dei Castelví, è in J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 144-152.

 

[49] ACA, CdA, leg. 1137, consulta del Consiglio d’Aragona, 30 maggio 1651.

 

[50] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Teodoro Trivulzio al Consiglio d’Aragona, 27 aprile 1651. Gli avvenimenti bellici («las cosas») d’Oristano a cui fa riferimento il viceré riguardano la contesa per il dominio di quel marchesato fra Leonardo d’Alagón e il viceré Carrós d’Arborea, contesa che segnerà nell’ultimo scorcio del Quattrocento la fine dell’anarchia feudale e l’affermazione della preminenza reale sotto Ferdinando il Cattolico.

 

[51] Blasco de Alagón sosterrà che la scorta che accompagnava Castelví in occasione dell’omicidio Malonda era di circa centocinquanta uomini (ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Villasor al vicecancelliere d’Aragona, 24 maggio 1651).

 

[52] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Trivulzio e la reale Audiencia al Consiglio d’Aragona, 8 maggio 1651.

 

[53] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Trivulzio al Consiglio d’Aragona, 30 aprile 1651.

 

[54] ACA, CdA, leg. 1137, decreti vicereali del 4 e 6 maggio 1651; consulta del Consiglio d’Aragona, 17 maggio 1651; J. Aleo, Storia cronologica cit., p. 151.

 

[55] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré Teodoro Trivulzio a Filippo IV, 8 maggio 1651.

 

[56] ACA, CdA, leg. 1137, il viceré arcivescovo di Valencia al Consiglio d’Aragona, 30 maggio 1651.

 

[57] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Cea a Filippo IV, 27 maggio 1651.

 

[58] AHN, Consejos suprimidos, lib.2567, Filippo IV al viceré cardinal Trvulzio, 15 giugno 1651.

 

[59] ACA, CdA, leg. 1137, atto di concordia firmato a Madrid da Francisco de Borja, Claudio Pimentel e Jorge de Castelví, 18 agosto 1651.

 

[60] ACA, CdA, leg. 1137, il marchese di Cea a Filippo IV, 31 agosto 1651; i marchesi di Villasor e di Laconi a Filippo IV, 2 settembre 1651.

 

[61] ACA, CdA, leg. 1137, consultas del Consiglio d’Aragona in data 11 e 18 ottobre 1651; AHN, Consejos suprimidos, lib.2568, Filippo IV al viceré Guevara, 7 novembre 1651.

 

[62] J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 158-160.

 

[63] J. Aleo, Storia cronologica cit., p. 160; F. Manconi, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma 1994, p. 234.

 

[64] ACA, CdA, leg. 1137, consulta del Consiglio d’Aragona del 16 novembre 1651.

 

[65] ACA, CdA, leg. 1137, consulta del Consiglio d’Aragona del 1 dicembre 1651. Il Consiglio consente ai due marchesi di Laconi e di Cea di trasferirsi a Madrid, ma confina il primo in casa del principe di Squillace e il secondo presso don Jorge de Castelví.

 

[66] ACA, CdA, leg. 1137, dichiarazione del Consiglio d’Aragona, 12 maggio 1652.

 

[67] ACA, CdA, leg. 1137, consultas del Consiglio d’Aragona del 4 maggio e 12 giugno 1652.

 

[68] ACA, CdA, leg. 1197, Pedro Vico al Consiglio d’Aragona, 6 giugno 1652.

 

[69] ACA, CdA, leg. 1137, consultas del Consiglio d’Aragona del 4 maggio e 12 giugno 1652.

 

[70] Tanto per fare un esempio, pende davanti alla Audiencia sarda un procedimento giudiziario conseguente alla sommossa dei suoi vassalli della villa di San Basilio nel 1650. Il conflitto fra il marchese e i vassalli era insorto per la pretesa dell’ufficiale feudale di San Basilio di riscuotere un tributo sul raccolto del grano da cui i primi erano esentati in virtù d’un capitulo de gracia stipulato col marchese. Le proteste portate a Cagliari dai contadini erano degenerate in un conflitto armato quando alcuni di loro erano stati arrestati e il comisario di Villasor si era recato a San Basilio con 150 uomini in armi con propositi repressivi. La resistenza degli abitanti aveva provocato l’intervento diretto del marchese, che si era presentato nel feudo con 1300 cavalieri armati costringendo i vassalli a lasciare le case e fuggire nei boschi. Come ultima misura aveva sequestrato loro i terreni in concessione. Quando don Blasco viene esiliato dall’isola, il ricorso dei vassalli è ancora pendente davanti alla Audiencia di Sardegna (AHN, Consejos suprimidos, lib.2568, Filippo IV al viceré Guevara, 21 luglio 1651).

 

[71] AHN, Consejos suprimidos, lib.2568, Filippo IV al governatore di Sardegna, 20 luglio, 31 agosto e 9 ottobre 1652.

 

[72] F. Manconi, Castigo de Dios cit., p. 29; J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 151-152.

 

[73] ACA, CdA, leg. 1200, relazione parziale della visita di Pedro Martínez Rubio, 29 marzo 1655.

 

[74] Biblioteca Nacional de Catalunya, Sumario de todas las cartas de Su Magestad que contiene este libro, escritas al Illustrisimo Señor D. Pedro Martínez Rubio, durante la visita general que hizo en el Reyno de Cerdeña el año 1649 hasta el 1665, da Filippo IV a Pedro Martínez Rubio, 4 agosto 1652.

 

[75] ACA, CdA, leg. 1361, il viceré Lemos al re, 6 ottobre 1656. Si veda anche R. Turtas, La riforma tridentina nelle diocesi di Ampurias e Civita, in Studi in onore di Pietro Meloni, Sassari 1988, pp. 245-246.

 

[76] F. Manconi, Castigo de Dios cit., p. 239-278.

 

[77] ACA, CdA, leg. 1201, il viceré Lemos alla Audiencia di Sardegna, 20 luglio 1656.

 

[78] ACA, CdA, leg. 1201, carteggio fra il viceré Lemos e la Audiencia in data 9 e 20 luglio, 1 agosto 1656; leg. 1201, il viceré Lemos al Consiglio d’Aragona, 15 agosto 1656.

 

[79] ACA, CdA, leg. 1201, il viceré Lemos al Consiglio d’Aragona, 31 agosto 1656.

 

[80] ACA, CdA, leg. 1201, consulta del Consiglio d’Aragona, 24 ottobre 1656.

 

[81] ACA, CdA, leg. 1201, Agustín de Castelví al Consiglio d’Aragona, 30 agosto 1656.

 

[82] F. Manconi, Castigo de Dios cit., pp. 272-273.

 

[83] AHN, Consejos suprimidos, libro 2569, Filippo IV alla Audiencia di Sardegna, 7 novembre 1656; Archivio di Stato di Cagliari (d’ora in poi ASC), Reale Udienza, Miscellanea, b. 67/1, carta reale del 7 novembre 1656.

 

[84] J. Aleo, Historia cronológica y verdadera cit., fol. 222v.

 

[85] Ibidem, fol. 223r.

 

[86] Cfr. gli studi fondamentali di X. Torres Sans, Els bandolers cit.; Id., Nyerros i cadells: bàndols i bandolerisme a la Cataluunya moderna (1590-1640), Barcelona 1993.

 

[87] ACA, CdA, leg. 1136, consulta del Consiglio d’Aragona, s.d. [ma agosto 1663].

 

[88] Ibidem.

 

[89] La questione della lite patrimoniale è descritta in un memoriale di Jaime Artal de Castelví (ACA, CdA, leg. 1136, il marchese di Cea al Consiglio d’Aragona, s.d. [ma 24 agosto 1663]). Un altro memoriale che confuta il precedente viene inoltrato dal carcere da Agustín de Castelví (ACA, CdA, leg. 1136, il marchese di Laconi al Consiglio d’Aragona, 29 agosto 1663).

 

[90] ACA, CdA, leg. 1136, consulta del Consiglio d’Aragona, 6 ottobre 1663.

 

[91] ACA, CdA, leg. 1136, il viceré Nicola Ludovisi al Consiglio d’Aragona, 29 agosto 1663.

 

[92] ACA, CdA, leg. 1136, consulta del Consiglio d’Aragona, 6 ottobre 1663.

 

[93] ACA, CdA, leg. 1136, consulta del Consiglio d’Aragona, 19 ottobre 1663.

 

[94] ACA, CdA, leg. 1136, il viceré Ludovisi al vicecancelliere d’Aragona Crespí de Valldaura, 8 dicembre 1663.

 

[95] AHN, Consejos suprimidos, libro 2571, Filippo IV al viceré principe di Piombino, 18 novembre 1663.

 

[96] ACA, CdA, leg. 1136, consulta del Consiglio d’Aragona, 21 febbraio 1664.

 

[97] Ibidem.

 

[98] AHN, Órdenes Militares, Calatrava, Archivo Judicial, n° 45804, provvisione di Filippo IV che ordina al viceré e alla Audiencia di Sardegna di rimettere alla Junta de competencias le carte del processo Castelví-Cea, 23 gennaio 1664; ACA, CdA, leg. 1136, Filippo IV al vicecancelliere del Consiglio d’Aragona, 13 marzo 1664.

 

[99] ACA, CdA, leg. 1136, consultas del Consiglio d’Aragona, 21 febbraio, 25 e 29 maggio 1664.

 

[100] AHN, Consejos suprimidos, libro 2571, Filippo IV al viceré principe di Piombino, 5 aprile 1664; ACA, CdA, leg. 1136, consulta del Consiglio d’Aragona, 17 giugno 1664.

 

[101] D. Scano, Donna Francesca di Zatrillas cit., p. 178 ss.

 

[102] AHN, Órdenes Militares, Calatrava, Archivo Judicial, n° 45804, provvedimento del Consejo de Órdenes, 6 ottobre 1664.

 

[103] AHN, Consejos suprimidos, libro 2571, Filippo IV al viceré marchese di Camarasa, 19 agosto 1665.

 

[104] AHN, Órdenes Militares, Calatrava, Archivo Judicial, n° 45804, atti giudiziari vari del Consejo de Órdenes, 19 novembre 1665.

 

[105] F. Manconi, Castigo de Dios cit., pp. 241-242.

 

[106] BNM, ms. 197005, Instrucción de Felipe IV al Marqués de Camarasa, Lugartiniente y Capitán General del Reino de Cerdeña, de lo que había de observar para la buena dirección y conclusión del Parlamento que S.M. mandó celebrar en su nombre en aquel Reino, 30 maggio 1665.

 

[107] Sono evidenti le analogie fra il caso sardo e quello catalano descritto da J.H. Elliott, Un’aristocrazia locale: la classe dirigente catalana nei secoli XVI e XVII, in La Spagna e il suo mondo (1500-1700), Torino 1996, pp. 131-132; cfr. anche X. Torres Sans, Els bandoolers cit., pp. 106-107.

 

[108] BNM, ms. 197005, Instrucción de Felipe IV al Marqués de Camarasa cit.

 

[109] E. Belenguer Cebrià, La Corona de Aragón en la época de Felipe II, Valladolid 1986, pp. 22-23; Id., La Corona de Aragón en la monarquía hispánica. Del apogeo del siglo XV a la crisis del XVII, Barcelona 2001, p. 319 ss. (specialmente pp. 353-356).

 

[110] F. Manconi, La Sardegna barocca, paradigma della decadenza spagnola, introduzione a J. Aleo, Storia cronologica cit., pp. 11-42.

 

[111] F. Manconi, Castigo de Dios cit., pp. 248-251.

 

[112] In una relazione al Consiglio d’Aragona riguardante gli avvenimenti del parlamento Camarasa la situazione generale dell’ordine pubblico è così descritta: «Se hallava el Reyno en peor estado infecto con gran número de vandidos que urtavan y matavan todos los días en poblado y fuera dél sin que viese ningún castigo y que como no les perseguía la justicia andavan con mano armada tropas de a veinte hombres y más en dichas ciudades y villas de dicho Reyno como Sáçer Castillo Aragonés y otras donde ivan a cinquenta y ochenta hombres de esquadra sin que la justicia hiciesse la menor demostración en orden al remedio, lo qual obligava aquellos naturales a desamparar sus aziendas de cuyo prozedido podían solo servir a Su Magestad, que solo en los cavos de Sáçer y Lugudor después del govierno del Marqués de Castel Rodrigo havían muerto más de quatrocientos hombres de arcabuzazos» (ACA, C.d.A., leg. 1134, Relación de los suzessos de Zerdeña desde el principio de las Cortes que zelebró el Marqués de Camarasa hasta su muerte. Y la de los que cooperaron en ella, juntamente con un resumen de los cargos que resultan de los prozesos contra los culpados).

 

[113] Traggo la citazione del documento, conservato nella British Library (Add. 13.997, fols. 463-465), da X. Gil Pujol, Una cultura cortesana provincial. Patria, comunicación y lenguaje en la Monarquía Hispánica de los Austrias, in Monarquía, imperio y pueblos en la España moderna, coord. P. Fernández Albaladejo, Alicante, 1997, p. 255.

 

[114] AHN, Consejos suprimidos, libro 2572, Relación de las Cortes hasta que el Marqués de Lacony hubo de venir a Madrid, fol. 239.

 

[115] AHN, Consejos suprimidos, libro 2572, Relación de las Cortes cit., fols. 239v-240r. In verità deroghe alle normali procedure si verificano a più riprese nei parlamenti sardi: per esempio, nel parlamento Cardona del 1543 la riparazione dei greuges era stata posposta alla concessione del servicio per venire incontro alle urgenti necessità finanziarie dell’imperatore (F. Manconi, Il governo del regno di Sardegna al tempo dell’imperatore Carlo V, Sassari 2002, p. 80).

 

[116] ACA, C.d.A., leg. 1134, Relación de los suzessos de Zerdeña cit.

 

[117] Il particolarismo parlamentare che si ravvisa nel caso della Sardegna presenta analogie col caso catalano descritto da Ricardo García Cárcel, La revolución catalana: problemas historiográficos, in Rebelión y Resistencia en el Mundo Hispánico del siglo XVII, eds. Werner Thomas – Bart De Groof, Leuven, 1992, pp. 126-130. Per un’analisi ravvicinata del dibattito del parlamento Camarasa si rinvia alle relazioni inedite appena citate, agli atti parlamentari ancora inediti, nonché agli studi di A. Llorente, Cortes y sublevación en Cerdeña, bajo la dominación española, in «Revista de España», a. I, 1868, pp. 270-275; B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia, Torino 2001, pp. 435 ss.

 

[118] L’argomento è ripreso nella Relación de los suzessos de Zerdeña del 1667 quando si dice che «las dificultades que se havían esperimentado en las Cortes procedían principalmente de ser el Arzobispo de Caller natural y el obispo de Ales también» (ACA, C.d.A., leg. 1134, Relación de los suzessos de Zerdeña cit.).

 

[119] La sintesi delle trattative Crespí-Laconi è tratta da ACA, C.d.A., leg. 1134, Relación de los suzessos de Zerdeña cit.; AHN, Consejos suprimidos, libro 2572, Relación de las conferencias con el Marqués de Laconi y como se reduxo a quatro puntos su pretensión, fols. 244v-249r.

 

[120] ACA, C.d.A., leg. 1210, Copia de una de las cartas que desde esta Corte envió al Marqués de Lacony a sus confidentes de Cerdeña, 3 dicembre 1667.

 

[121] AHN, Consejos suprimidos, libro 2572, Relación de lo que pasó haviendo llegado don Francisco Cao camarada del Marqués de Lacony y un criado del mismo Marqués, fols. 254v.

 

[122] Ibidem, fol. 257r.

 

[123] ACA, C.d.A., leg. 1210, dal regente la Cancillería di Sardegna a Crespí de Valldaura, 10 marzo 1668.

 

[124] J. Aleo, Historia cronológica y verdadera cit., fol. 239.

 

[125] ACA, C.d.A., leg. 1210, la marchesa di Villasor a Crespí de Valldaura, 6 aprile 1668; il vescovo di Ales al Consiglio d’Aragona, 15 giugno 1668.

 

[126] ACA, C.d.A., leg. 1132, Camarasa a Crespí de Valldaura, 20 giugno 1668

 

[127] ACA, C.d.A., leg. 1210, dal principe di Piombino a Crespí de Valldaura, 26 marzo 1668.

 

[128] ACA, C.d.A., leg. 1134, Relación de los suzessos de Zerdeña cit.

 

[129] AHN, Consejos suprimidos, libro 2572, Relación de las Cortes cit., fol. 262v.

 

[130] ACA, C.d.A., leg. 1210, da Vico al Consiglio d’Aragona, 4 giugno 1668.

 

[131] ACA, C.d.A., leg. 1210, da Vico a Mariana de Austria, 30 giugno 1668.

 

[132] ACA, C.d.A., leg. 1132, consulta del Consiglio d’Aragona di novembre 1668.

 

[133] ACA, C.d.A., leg. 1210, da Vico a Mariana de Austria, 30 giugno 1668.

 

[134] Ibidem.

 

[135] J. Aleo, Historia cronológica y verdadera cit., fols. 246v-247r.

 

[136] ACA, CdA, leg. 1210, il marchese di Cea al Consiglio d’Aragona, 31 luglio 1668.

 

[137] A. Llorente, Cortes y sublevación en Cerdeña cit., pp. 284-287. Una descrizione anonima dei funerali e dei torbidi nei giorni seguenti la morte di Laconi è in ACA, CdA, leg. 1134, Sobre la muerte del marqués de Lacony, s.d.

 

[138] Significativo è il tentativo compiuto dal delegato vicereale Simón Soro e dal regidor Juan de Claveria di catturare il marchese di Cea e i suoi accoliti riparati in Gallura: «como allí no es posible el poderse hacer presa alguna sino es con los mesmos de la Gallura», Simón cerca d’attirare dalla parte della giustizia i protettori dei fuggiaschi, che sono i nobili di Tempio e di Calangianus fiancheggiati dai banditi galluresi (ACA, CdA, leg. 1210, il giudice Simón Soro al viceré Tutavila, 17 marzo 1670).

 

[139] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia cit., p. 439

 

[140] ACA, CdA, leg. 1132, dalla Real Audiencia al Consiglio d’Aragona, 26 luglio 1668.

 

[141] ACA, CdA, leg. 1132, Los síndicos de los tres arrabales de la Ciudad de Cáller a Su Magestad, 31 luglio 1668.

 

[142] ACA, CdA, leg. 1132, dalla Real Audiencia al Consiglio d’Aragona, 26 luglio 1668.

 

[143] Al riguardo si rinvia a ACA, CdA, leg. 1132, Instrucción para el Duque de S. Germán quando fue a Serdeña hecha de orden de Su Magestad y emendada de mano del Señor Vicecanciller.

 

[144] B. Anatra, Castelví Giorgio e Castelví Iacopo Artaldo, in Dizionario biografico degli Italiani, ad vocem.

 

[145] AHN, Consejos suprimidos, libro 2572, Mariana de Austria a Camarasa, 7 luglio 1668, fol. 211r.

 

[146] Il nuovo processo riaperto dal viceré di San Germán per i delitti dei due marchesi porrà fine alle mormorazioni sul delitto Castelví e sancirà che i mandanti di quell’assassinio erano la giovane moglie Francesca Zatrillas e il suo amante Silvestre Aymerich (J. Aleo, Storia cronologica cit., p. 299; D. Scano, Donna Francesca di Zatrillas cit., p. 178 ss).

 

[147] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia cit., p. 439.

 

[148] ACA, CdA, leg. 1132, Instrucción para el Duque de S. Germán cit.

 

[149] ACA, CdA, leg. 1210, il duca di San Germán al Consiglio d’Aragona, 17 settembre 1670.

 

[150] ACA, CdA, leg. 1132, copia de carta del Duque de San Germán escripta al Virrey de Nápoles. 28 de marzo 1669.

 

[151] G. Angius, Memorie de’ Parlamenti generali o Corti del Regno di Sardegna, in G. Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, vol. XVIII quater, Torino 1856, p. 789.

 

[152] F. Chabod, L’idea di nazione, Bari 1972, p. 181.

 

[153] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes cit., pp. 42-43; X. Torres Sans, Dinastismo y patriotismo en la Cataluña de la guerra de los segadores: el testimonio de un zurrador barcelonés, in Monarquía, imperio y pueblos cit., pp. 417-420.

 

[154] R. García Cárcel, Felipe II y Cataluña, Valladolid 1997, pp. 32-36.

 

[155] J.H. Elliott, Rivoluzione e continuità in Europa nella prima età moderna, in La Spagna e il suo mondo cit., p. 156.