N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

mediazione: oltre l’antico e il moderno

 

 

Maria Antonietta Foddai

Università di Sassari

 

 

«Un mois de mai viendra peut-être où, dans un grand éclat de rire, la paix étant enfin dans les cœurs, les hommes se demanderont : comment ai-je pu avoir si peur? Pour une chose si mesquine ? et ils auront un peu honte des leurs contentieux ridicules»

(Vladimir Jankélévitch, Le Je-ne sais-quoi et le Presque-rien)

 

 

 

Sommario: 1. Definire la mediazione. – 1.1. Mediazione e mediazioni. – 1.2. Mediazioni e conflitti. – 2. Mediazione e postmodernità. – 2.1. Il diritto ‘debole’. – 2.2. Oltre l’antico e il moderno. – 2.3. Nuove responsabilità. – 2.4. La grammatica dei sentimenti. – 3. Il mediatore figura postmoderna. – 3.1. Oltre la professione, oltre il ruolo

 

 

 

1. – Definire la mediazione

 

Perché la mediazione suscita perplessità e dubbi negli operatori del diritto e della giustizia?

Potremmo dire perché è uno strumento nuovo che solo da un decennio o poco più si affaccia timidamente alle soglie delle aule del diritto (almeno in Italia), possiamo anche aggiungere che si tratta di una tecnica non disciplinata in alcun modo dal diritto che si occupa tuttavia, almeno in parte, dei problemi tradizionalmente regolati da questo, diremo invece che le maggiori riserve sollevate nei giuristi non riguardano né la novità dello strumento, né la mancata disciplina giuridica della mediazione, ma le idee guida che portano all’affermazione delle tecniche di mediazione nella gestione della conflittualità sociale[1]. La prospettiva di una verità consensuale che si oppone alla verità processuale, di una responsabilità che non sfocia nella pena ma nella progettualità e condivisione delle scelte, l’assenza della figura giudicante, sostituita da una priva di autorità e potere che guida le persone verso la soluzione del conflitto, senza tuttavia imporne alcuna, richiama alla mente dei giuristi lo spettro della giustizia privata e dell’oblio di quelle garanzie su cui abbiamo edificato la nostra civiltà giuridica. In effetti, la mediazione, accanto al versante luminoso della valorizzazione della persona e delle sue risorse e potenzialità, ha anche una zona d’ombra in cui si annida il pericolo di forme paternalistiche di controllo sociale, esercitate senza le tutele e le responsabilità che la giustizia formale offre.

Perciò è utile riflettere attentamente sulla proposta avanzata dalla mediazione e sulle imprescindibili risorse del diritto, tenendo presente tuttavia che ciascuno di essi sembra rispondere a bisogni ed esigenze fondamentali della collettività: la mediazione realizza, nella pluralità di forme ed estensione, il fine che il diritto nella sua generalità sembra negare al singolo, recuperare quegli spazi decisionali che un’organizzazione sociale sempre più invasiva e giuridificata via via gli ha sottratto. Il diritto conserva la possibilità per ciascuno di tutele e garanzie che finora nessun sistema di regolazione sociale è riuscito a proporre con più efficacia e equilibrio. Si tratta dunque di approntare una strategia di compatibilità tra mediazione e diritto delimitando spazi e competenze, tenendo ferme le garanzie e le tutele giuridiche grazie alle quali ci possiamo ‘permettere il lusso della mediazione’, riducendo tuttavia quella colonizzazione dei mondi vitali che il diritto ha da tempo inaugurato.

Opporre la mediazione al diritto significa infatti ricadere nella logica conflittuale della quale stiamo tentando di liberarci; forse è utile considerarli come strumenti differenti - più che alternativi – che s’inseriscono a stadi e livelli diversi nella trama della conflittualità. Diciamo quindi che la mediazione non nasce e si definisce a contrario, rispetto al diritto e alle istituzioni del Welfare inadempiente, ma ha una sua precisa collocazione in quel confine che Carbonnier chiama non-diritto[2], che le assegna compiti e funzioni che inutilmente potremmo cercare tra le maglie del nostro ordinamento. Anche se ottiene risultati che realisticamente sono assimilabili e sovrapponibili a quelli del diritto, sia civile che penale, svolge una funzione diversa: ricostruire un tessuto sociale,  ricucire la rete sfilacciata delle relazioni urbane e riaprire canali di comunicazione interrotti. Caricarla di significati e compiti propri del diritto può risultare un’operazione politicamente sbagliata e giuridicamente pericolosa.

Per capire quale sia la natura e la funzione della mediazione dobbiamo guardare oltre l’orizzonte del diritto, alla crisi delle modalità di regolazione sociale delle quali il diritto, insieme ad altri strumenti, quali etica e politica, fa parte. Le pagine che seguono rispondono all’esigenza di definire la mediazione ampliando progressivamente il campo d’indagine: da quello più tecnico, che la contrappone al diritto, a quello più generale che ne delinea il contesto, la cornice di forme e principi da cui trae significato.

Adesso cominciamo dall’inizio, con un tentativo di definizione.

 

1.1. – Mediazione e mediazioni

 

Nella ormai cospicua letteratura sulla mediazione si è discusso a lungo della sua definizione e delle difficoltà a questa legate. Rigorosità e univocità sono infatti caratteri che mal si adattano alla mediazione e alla fluidità delle sue pratiche, per questo ne proponiamo una definizione a più voci.

Piuttosto che ridurla ai suoi elementi essenziali, che indichino la struttura necessaria di ogni possibile mediazione, ricorreremo al criterio opposto, quello della complessità, considerando i tanti aspetti che le mediazioni presentano e che non ogni mediazione contiene.

Il panorama delle teorie sulla mediazione è, in questo senso, molto fecondo. Si va infatti dalle teorie moniste, che sostengono con forza l’idea di una sola mediazione che si declina in tante forme, alle teorie pluraliste, che rifiutano l’operazione mistificatoria di una natura singolare della mediazione. Vi sono poi le teorie conflittualiste, che si basano sul conflitto, considerato come presupposto necessario per avviare un percorso di mediazione, e quelle più armoniciste che sostengono che la mediazione può e deve essere definita come una modalità autonoma che ripristina la comunicazione indipendentemente dal conflitto; vi sono ancora quelle che sostengono che con la mediazione le persone intraprendono un percorso esistenziale di cambiamento e quelle che invece si fermano rigorosamente alla considerazione degli interessi traducibili nel linguaggio dei diritti. Ne considereremo solo alcune, aggiungendo che non si tratta di scegliere una definizione piuttosto che un’altra, né di cercare quella ‘vera’, ma di riuscire a ricostruirne la complessità attraverso un confronto.

La prima differenza da considerare è quella tra concezioni moniste e pluraliste.

Vi è infatti chi ritiene che non si possa parlare della mediazione come di una modalità unica che mantiene la sua specificità nonostante venga applicata a campi radicalmente differenti [3]. Pisapia al riguardo sostiene che sia più corretto parlare di mediazioni piuttosto che di mediazione, spiegando che non si tratta soltanto di una pluralità di tecniche che si diversificano in base agli ambiti, ma che “la maggior parte delle forme di mediazione sono eterogenee le une alle altre per ambiti, oggetti, finalità, obiettivi e modalità operative”; se quindi può essere utile da un punto di vista semantico parlare di mediazione familiare, di lavoro, sociale, penale etc, tuttavia ciò è “fuorviante sul piano dei contenuti”[4]

Ciò che caratterizza la mediazione, dice Pisapia, sono piuttosto il suo oggetto e le sue finalità che, ad esempio, risultano radicalmente diverse nella mediazione scolastica e in quella familiare.

In realtà sembra sia proprio il fine della mediazione l’elemento accomunante tutte le sue pratiche; per Castelli questa possiede “una propria irriducibile caratterizzazione, indipendentemente dai soggetti coinvolti e dal campo entro cui venga applicata”[5]; le diverse forme della mediazione, invocate come prova del suo pluralismo, rappresentano all’opposto la ricchezza di uno strumento caratterizzato da un unico fine: “favorire la trasformazione delle reti delle relazioni sociali nella maniera meno traumatica possibile”[6]. Le rilevanti differenze esistenti tra le sue forme sono giustificate dai diversi ambiti di applicazione, che impongono tecniche differenti di intervento.

Anche Fisher e Ury, promotori dello Harvard’s Program on Negotiation e forse i maggiori divulgatori della mediazione negli Stati Uniti, sostengono che “ogni mediazione è differente, ma gli elementi di base non cambiano” [7].

Il problema riguarda piuttosto il ruolo del mediatore. Come fa notare Castelli non esistono  “mediatori per tutte le stagioni”[8], chi si occupa di mediazione in ambito familiare deve avere una preparazione tecnica adeguata radicalmente diversa da chi ad esempio lavora nell’ambito della mediazione sociale. Viene in mente il paragone con il ruolo dell’avvocato: sebbene la figura sia unica nel ruolo e nelle funzioni non possiamo pretendere che un bravo tributarista sia capace di portare avanti una causa di separazione legale altrettanto bene quanto farebbe un esperto familiarista, anche se non pensiamo di mettere in dubbio che entrambi si occupino di diritto civile.

Tornando alle diverse posizioni presenti nel dibattito sulla natura singolare o plurale della mediazione, è utile la distinzione tracciata da Bonafé-Schmitt tra attività di mediazione e istanze di mediazione[9].

Le prime vedono la mediazione come una tecnica di gestione dei conflitti che può essere (e di fatto viene) utilizzata in via accessoria da una pluralità di figure professionali che si occupano a diverso titolo del conflitto. Nel campo penale si può dire che polizia, magistrati e avvocati svolgono spesso attività di mediazione, senza tuttavia fare delle vere e proprie mediazioni. In questo caso le diverse attività hanno un significato differente dato dal contesto, dalla finalità e soprattutto dal ruolo di chi le svolge. E’ proprio la sovrapposizione dei ruoli che, generando confusione, annulla, come sottolinea Bonafé, “le specificità e le identità professionali”[10]. La chiara delimitazione dei ruoli è necessaria per definire sia i compiti di prevenzione della polizia che quelli di giudizio dei magistrati, così come quelli di assistenza degli avvocati, al fine di distinguerli nettamente da quelli del mediatore la cui indipendenza e preparazione specifica implicano diversi percorsi formativi. Perciò polizia, magistrati e avvocati potranno ricorrere alle tecniche di mediazione e assolvere il loro compito con uno spirito di mediazione, senza che alcuno di essi possa essere per questo definito un mediatore.

È proprio questa la condizione che distingue le mere attività dalle istanze di mediazione: queste definiscono una modalità autonoma di regolazione dei conflitti, che trova la sua specificità nella figura professionale del mediatore: “sono la qualità e la natura dell’intervento della terza persona a consentire di distinguere l’attività di mediazione dalle istanze di mediazione”[11]. Se quindi è possibile considerare una pluralità di attività di mediazione, che si svolgono in ambiti e con finalità differenti è altrettanto possibile parlare delle istanze che identificano la mediazione come una unica e specifica modalità di regolazione dei conflitti.

La conseguente definizione di Bonafé è che la mediazione è ”un processo, il più delle volte formale, attraverso il quale una terza persona neutrale tenta, attraverso l’organizzazione degli scambi tra le parti, di permettere a esse di confrontare i propri punti di vista e di cercare con il suo aiuto una soluzione al conflitto che li oppone”[12] .

Il garante della libertà del processo di mediazione - e quindi della sua concreta possibilità - è unicamente il mediatore, che racchiude nella imparzialità e ‘incapacità decisionale’ il suo vero potere. Non a caso l’ultima frontiera di studi sulla mediazione affronta lo spinoso tema della preparazione e della caratterizzazione professionale dei mediatori.

Anche Pisapia accentua il ruolo del mediatore dicendo che la terzietà è l’unico elemento comune alle differenti pratiche di mediazione, tutte caratterizzate da una logica “ternaria, nella struttura e nei risultati”.[13] Se infatti la struttura ternaria del giudizio è comune sia alla mediazione sia alla giurisdizione, è proprio il carattere ternario del risultato che scardina la logica binaria del processo, riuscendo a contenere e superare le contrapposizioni. La prima condizione perché vi sia mediazione, dice Six, è proprio la presenza del terzo, in tal senso la parola mediazione è estremamente rigorosa, perché indica ciò che sta nel mezzo: il mediatore rappresenta la condizione del superamento delle reciproche posizioni[14].

Il risultato, che è frutto del complesso sistema di relazioni innescato dalla mediazione, non è dunque riconducibile esclusivamente alla somma degli interessi delle parti, né a maggior ragione a quelli della parte più forte e convincente, ma al cambiamento nella modalità di comunicazione favorito dal mediatore. Autorità e potere, che nell’accezione decisionista del termine gli sono estranei, gli derivano proprio dalla libera scelta delle persone che decidono di ricorrere a lui, conferendogli e riconoscendogli questo ruolo. È un riconoscimento che si rinnova a ogni mediazione e che può venir meno, come ben sa ogni mediatore esperto, in qualsiasi momento del processo.

È questo l’elemento che accentua Castelli quando definisce la mediazione “come un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto”, sono le parti a decidere di ricorrere alla mediazione e sono le parti che, aiutate dal mediatore, portano avanti il processo.

Obiettivo della mediazione non è risolvere un conflitto, giungere necessariamente ad una soluzione,[15] ma aiutare le persone a uscire da una condizione di blocco, dal vicolo cieco a cui sovente conduce un conflitto distruttivo: “La mediazione mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale” [16].

La mediazione rappresenta quindi uno strumento indispensabile per ricostruire la trama delle relazioni sociali, tanto da poter essere definita, insieme al conflitto, come una loro modalità costitutiva , prima ancora che una tecnica risolutiva dei conflitti.

 

1.2. – Mediazioni e conflitti

 

Quella tra mediazione e conflitto sembra essere una relazione necessaria: la maggior parte dei teorici sostiene che all’origine di un processo di mediazione vi sia sempre un conflitto, generalmente espresso in uno scontro di pretese;  l’intero discorso sulla mediazione viene così a svolgersi nell’ambito del fenomeno della conflittualità, e dei suoi possibili effetti distruttivi [17].

Ma non tutti sono d’accordo nell’assegnare questo ruolo determinante al conflitto. Jean-François Six sostiene infatti che esistono quattro tipi di mediazione, e tra questi solo due – la mediazione preventiva e quella curativa - sono destinati ad evitare lo scoppio di un conflitto o la sua degenerazione. Le altre due forme, definite come mediazione creatrice e rinnovatrice, hanno il fine di suscitare tra persone o gruppi legami che prima non esistevano o di migliorare quelli già esistenti ma deteriorati o divenuti indifferenti.[18] La natura relazionale della mediazione e la sua finalità, che consiste esclusivamente nello stabilire una comunicazione tra due o più persone, vengono sostenute anche da Guillaume-Hofnung che, seguendo l’impostazione di Six, ribadisce la natura autonoma della mediazione rispetto al conflitto: sarebbe estremamente riduttivo, dice, considerare la mediazione come una tecnica di gestione dei conflitti, il conflitto non fa parte della definizione globale della mediazione, sebbene quest’ultima possa contribuire alla soluzione o gestione dei conflitti [19].

Il legame accidentale che s’instaura tra mediazione e conflitto, se da un lato libera la mediazione da una natura esclusivamente tecnica e dal problema della definizione del conflitto e dei suoi caratteri, dall’altro ci suggerisce un’idea eccessivamente invasiva della mediazione, che dovrebbe affiancarci come strumento indispensabile nelle nostre relazioni sociali. L’idea che si debba ricorrere al mediatore ogni volta che si vuole allacciare o riannodare una relazione ci prospetta l’immagine di una insopportabile burocratizzazione dei rapporti sociali che sembra contraddire il vero scopo della mediazione stessa: porre le condizioni per la propria inutilità nel prossimo futuro.

Sembra allora più ragionevole riportare la mediazione nell’alveo del conflitto e dei problemi da questo generati. Tra le concezioni che considerano il conflitto alla base di ogni processo di mediazione si notano tuttavia importanti differenze, sia riguardo alla stessa nozione di conflitto, sia di conseguenza ai compiti della mediazione.

Nel pensiero di Jacqueline Morineau il conflitto è connotato da una forte componente psicologica, nasce dal nostro modo di percepire la realtà e affrontare i cambiamenti : è nel passaggio dall’ordine al disordine, dalla sicurezza confortante di una situazione nota allo smarrimento e confusione generati da una nuova che si crea il conflitto[20] . La violenza che sovente lo caratterizza nasce dalla sofferenza e dalla solitudine di due persone che non riescono più a comunicare. La mediazione rappresenta dunque il luogo in cui si accolgono il disordine e la violenza generati dal conflitto, in cui si libera la sofferenza che questo inevitabilmente porta con sé. Morineau la definisce come uno spazio protetto di parola, un luogo in cui circolano le emozioni e si ripercorrono le tappe del conflitto come quelle di un vissuto interiore[21]. Gli stessi mediatori rispondono a una forma di vocazione, spinti dal bisogno di superare il proprio conflitto interiore per poter incontrare il conflitto degli altri.

Il ruolo che viene assegnato alle emozioni e ai sentimenti delle persone ha un peso determinante nello svolgimento del processo di mediazione, che assume così un aspetto di crescita interiore e di percorso esistenziale offerto alle persone, il cui scontro rappresenta un’occasione per affrontare sé stessi prima ancora degli avversari.

Castelli all’opposto interpreta il conflitto in chiave sistemica da un punto di vista rigorosamente funzionale. Un utile approccio al problema della mediazione sarebbe infatti quello che separa la componente descrittiva e fattuale del conflitto da quella valutativa legata alla degenerazione dei suoi effetti. Considerato nel suo aspetto descrittivo-funzionale il conflitto esprime la necessità del cambiamento che ogni sistema vivente affronta: per questa ragione si presenta biologicamente necessario e fenomenicamente inevitabile. Visto nella sua veste funzionale, il conflitto ha dunque un aspetto positivo: è il fenomeno che segnala l’esigenza o la necessità di un cambiamento nella relazione fra le persone o i gruppi. La mediazione ha l’obiettivo di ridurne gli effetti negativi e riabilitarne la funzione: aiutare le parti a riconoscere la necessità del cambiamento e approntare le strategie necessarie per raggiungerlo[22].

Proprio perché i conflitti nascono dalla difficoltà delle persone di adeguarsi a un certo tipo di cambiamento, il mediatore per Castelli dovrebbe essere un “tecnico della gestione del mutamento” che aiuta le persone coinvolte ad uscire da una situazione di blocco, senza tuttavia dar spazio alle emozioni, o farsene carico in alcun modo. Egli dovrà tenere conto delle emozioni, ma al fine di “depotenziarle, di tenerle fuori dalla mediazione in maniera tale da condurre le attività in un clima quanto più possibile calmo e ragionevole”[23].

Mentre Morineau esplora l’aspetto soggettivo ed emotivo del conflitto, considerando che ogni cambiamento deve partire dal profondo perché possa rispondere a una scelta coerente e duratura, Castelli opta per un approccio il più possibile controllato, considerando il conflitto nella sua veste oggettiva e le persone coinvolte come capaci di scelte razionali, ponderate e meditate.[24]

Un'altra interpretazione ancora del conflitto viene dalla scuola di Harvard e in particolare da  Fisher e Ury  che, in una prospettiva utilitaristica, ricorrono al concetto di interesse considerato come il criterio fondamentale per comporre una disputa[25]. Il conflitto è il problema che nasce dall’abitudine a contrattare per posizioni, traducibili nel linguaggio del potere e dei diritti, piuttosto che per interessi rispecchianti la vera volontà delle persone. Gli interessi sono quei bisogni, desideri, preoccupazioni e paure che rimangono nascosti dietro le pretese di vittoria delle parti, il cui mancato riconoscimento spesso conduce a un risultato insoddisfacente, o al fallimento dell’accordo.[26] Alla base della negotiation sta l’idea che in un gran numero di casi le persone entrano in conflitto perché usano un linguaggio sbagliato, quello del potere conferito loro dal diritto o dal denaro, che impedisce una reale comunicazione. La comunicazione personale deve avvenire separando le persone dai problemi oggetto del contendere e focalizzando l’attenzione sugli interessi, al fine di giungere a un accordo soddisfacente e duraturo[27].

Le posizioni considerate presentano caratteri comuni, ma anche importanti differenze nel ruolo che assegnano al mediatore nella ripresa della comunicazione tra le parti e alla mediazione nel contesto sociale e istituzionale.

Il modello tratteggiato da Morineau privilegia la componente umanistica che la mediazione deve avere, volta alla pacificazione degli animi prima che al tessuto sociale[28]. Castelli assegna invece alla mediazione un ruolo essenziale come elemento che può concorrere alla stabilità del sistema sociale, aiutando le persone ad accettare i cambiamenti, anche traumatici, che fanno parte della vita, e garantendo un sistema di relazioni. Per questa via la mediazione assume un ruolo determinante nella ricostruzione del tessuto sociale offrendo un luogo di confronto e di possibile consenso[29]. Il modello utilitaristico elaborato dalla scuola di Harvard privilegia infine l’aspetto pragmatico ed economico della mediazione, concentrandosi sui concetti di interesse e costo, ampliati fino a ricomprendere oltre al tempo e al denaro, anche le energie emotive, i desideri e le opportunità [30].

Sebbene tutti gli autori presi in considerazione sostengano delle teorie moniste in cui la mediazione mantiene inalterati i principali caratteri nonostante venga utilizzata in ambiti molto diversi, sembra che alcune di esse si adeguino, meglio di altre, a determinate tipologie di conflitto. Quella di Harvard ad esempio sembra più adeguata alla gestione di conflitti in materia di lavoro e in ambito contrattuale, mentre il modello umanistico e sistemico sembrano adattarsi meglio all’ambito dei rapporti familiari e del diritto penale.

La varietà e il pluralismo della mediazione, che questi tre esempi teorici ci fanno intravedere, ne costituiscono il punto di forza e il principale elemento di differenziazione rispetto al sistema di aggiudicazione giuridica. L’idea, profondamente radicata nell’ideologia giuridica e sociale, dell’omogeneità e dell’unicità del diritto induce a diffidare dell’affidabilità e della legittimità di ogni altro strumento alternativo. Il fatto che siano possibili metodologie diverse, tutte egualmente legittime, conduce alla conclusione che siano prospettabili tante soluzioni differenti, ma egualmente accettabili e ‘probabilmente giuste’ di un conflitto.

Ma allora, quante possibili concezioni del giusto possiamo elaborare per un unico conflitto? O dobbiamo invece rinunciare, come abbiamo visto, a parlare di giustizia nelle stanze della mediazione? Questo interrogativo ci introduce nel contesto culturale della mediazione, in quella cornice di idee e principi da cui questa trae origine e identità.

Se infatti, possiamo definire la mediazione come il risultato dell’incontro tra due o più persone che, con l’aiuto di un terzo imparziale, intendono cercare e trovare insieme la soluzione al conflitto che le divide, ci rendiamo conto che questa definizione è insufficiente a spiegare quell’insieme di problemi e interrogativi che ne accompagnano il dibattito.

 

 

2. – Mediazione e postmodernità

 

L’idea, che la mediazione sembra implicitamente sostenere, che siano possibili e legittime concezioni plurali del ‘giusto’, così come del ‘bene’, va contro uno dei principali cardini del paradigma giuridico della modernità: il principio dell’universalità della giustizia, monopolio di uno stato che ha formalizzato e unificato le giustizie dell’età premoderna facendole confluire in un modello unico[31].

Se risponde al progetto politico della modernità il controllo dell’amministrazione di una giustizia che dirime i conflitti e impone l’ordine stabilito dall’autorità sovrana, l’idea della vigenza di un insieme di principi giusti e riconoscibili universalmente, sui quali devono fondarsi i sistemi di diritto, soggiace alla concezione giusnaturalista che domina il panorama dell’età moderna. Compito della ragione umana è riconoscere i contenuti della giustizia e fare in modo che siano concretamente realizzati dal diritto.

La possibilità di conferire più significati, tanti quanti siano correttamente argomentabili, al termine giustizia, è estranea al progetto politico della modernità, perché elemento disgregante che oppone tanti ordini possibili all’unico ordine dello stato sovrano, ma è estranea anche al suo progetto filosofico che fonda sull’idea universale di ragione umana, eletta a criterio ordinante del mondo, i principi della convivenza. Leggiamo l’art. 1 del titolo preliminare al Code Napoleon, composto da Portalis, il grande giurista che contribuì in modo decisivo alla fortuna del codice: “ Il existe un droit universel et immuable, sources de tous les lois positives; il n’est que la raison naturelle en tant qu’elle gouverne tous les hommes”[32]. Universalità e fondamento sono le due condizioni di cui i moderni legislatori e filosofi vanno alla ricerca per stabilire regole e norme, morali e giuridiche, che garantiscano una convivenza ordinata e priva di conflitti. Anzi, è proprio la rimozione teorica dei conflitti la premessa da cui muovono le moderne teorie politiche che contrappongono a uno stato di natura governato da un conflitto potenzialmente distruttivo e senza regole, come nel caso di Hobbes[33], o dotato di regole, ma non di un organo che possa applicarle e dirimere le controversie, come in Locke[34], uno stato civile in cui l’ordine è garantito dal legislatore e sovrano.

Dal luogo e dal tempo in cui guardiamo a queste concezioni, la situazione sembra addirittura essersi ribaltata: il diritto, piuttosto che dirimere i conflitti e contribuire a costruire un ordine sociale, sembra rappresentare un elemento disgregante, fattore di conflittualità. Come scrive Alfonso Catania: “sembra evidente che nella realtà tardo-moderna si diffonda sempre più una situazione di poliarchia, di disseminazione delle pratiche ordinative, di policentrismo di fonti del diritto, (…). Ne consegue l’incrocio delle tensioni e dei progetti, degli orientamenti: una potente controfinalità rispetto all’originario orientamento all’ordine, per cui piuttosto che controllare e uniformare i comportamenti si amplifica la possibilità di conflitti indecidibili, di condotte centrifughe e disgreganti, suffragate e supportate dall’uso del diritto stesso (…) da parte dei consociati, individui o gruppi.”[35].

 

2.1. – Il diritto ‘debole’

 

Com’è stato possibile che il diritto, concepito come lo strumento che ‘cura’ e appiana i conflitti, sia divenuto esso stesso fattore che accentua e talvolta fomenta il fenomeno della conflittualità? Porre l’accento sull’uso che si fa del diritto, capace di produrre effetti ambivalenti, talvolta addirittura opposti ai fini per cui è stato progettato, prodotto e posto, richiama l’idea di un diritto pericolosamente ridotto a mera tecnica, ad una forma che sempre con maggiore difficoltà riesce ad aprirsi alla dimensione dei valori. La problematizzazione del fondamento – che la norma fondamentale di Kelsen ha mostrato come necessario e allo stesso tempo impossibile- e dell’universalità – ricondotta alla dimensione della positività con le dichiarazioni dei diritti- ha aperto la via a un diritto senza illusioni, o meglio, a un diritto che ha perso le illusioni che ne avevano accompagnato il nascere nell’età moderna: la possibilità di costruire un ordine universale e di governare la complessità sociale senza esserne soggiogato. Come scrive Bauman tentando di definire la categoria fluida della postmodernità: “Le illusioni di cui si parla si riducono alla credenza che il “caos” che caratterizza il mondo umano sia solo una condizione temporanea e modificabile, che verrà prima o poi rimpiazzata dal dominio ordinato e sistematico della ragione. La “verità” è che il “caos” rimarrà nonostante tutto ciò che potremo fare o sapere, e che i modesti ordini e “sistemi” che foggiamo nel mondo sono fragili, effimeri, e altrettanto arbitrari, e alla fine casuali, delle loro alternative”[36]. Accettare il disordine come elemento che caratterizza la convivenza umana, ridimensionare il ruolo del diritto riducendone l’inutile invasività – per esempio nell’ambito familiare - significa pensare un nuovo concetto di ordine, basato sulla negoziazione e sul consenso, sui reali bisogni sociali e individuali, più che sugli astratti disegni politici. L’ormai celebre immagine della mitezza del diritto, evocata da Zagrebelsky, si riferisce alla necessità  che più valori e modelli sociali possano coesistere: “La visione della politica che è sottintesa non è quella del rapporto di esclusione e sopraffazione (nel senso dell’amico-nemico hobbesiano e schmittiano) ma quella inclusiva dell’integrazione attraverso l’intreccio di valori e procedure comunicative, che è poi l’unica visione della politica non catastrofica possibile del nostro tempo.”[37]

Assistiamo infatti a un mutamento del paesaggio giuridico, in cui i solidi pilastri concettuali ereditati dall’illuminismo sono stati sostituiti dai fondali mobili della postmodernità; se vi è chi, come Luigi Ferrajoli, sostiene che un simile cambiamento s’inquadra nella naturale evoluzione del giuspositivismo moderno che porta a compimento le sue premesse[38], vi è anche chi afferma che il mutamento indica piuttosto una cesura, un rovesciamento delle premesse su cui si è costruito il moderno progetto di sovranità degli stati.

Maria Rosaria Ferrarese sostiene infatti che alla crisi del diritto, inteso come sistema nazionale di legislazione e di giurisdizione, corrisponde una prepotente affermazione dei diritti, intesi come “rights delle persone, ossia come dotazioni di carattere pre-politico o a-politico, in grado di resistere ai meccanismi maggioritari”[39]. La rinata vitalità dei diritti, che è indice di un grande cambiamento nell’area della giuridicità, è segnalata da alcuni fenomeni concettuali.

Il primo riguarda il contesto di nascita e di affermazione-riconoscimento dei diritti: si è passati da un piano nazionale ad uno transnazionale di rilevanza dei diritti. Non più e non solo patrimonio dello stato-nazione, questi sono entità che valicano i confini della territorialità per designare uno spazio di comunicazione e confronto globale favorito dalla estensione del mercato[40]. Da una concezione statica, legata alla territorialità, ci si avvia verso l’idea di mobilità dei diritti, intesi come utensili personali, di cui il soggetto postmoderno, figura nomade e itinerante, per scelta o per necessità, si può servire ovunque vada[41].

Il secondo cambiamento di prospettiva, già segnalato a suo tempo da Norberto Bobbio[42], consiste nell’accentuare l’aspetto promozionale e attivo dei diritti, contro quello, finora prevalente, normativo e sanzionatorio: l’arretrare del concetto di autorità conseguente alla crisi della sovranità statale spinge infatti a rileggere il significato di termini come dovere, obbligo, responsabilità e pena per iscriverli in un paradigma consensuale dei rapporti politici e istituzionali.

Allontanati da un’ottica strettamente giuspositivista e statalista, i ‘diritti’ intrattengono col ‘diritto’ una relazione ambigua: da un lato hanno bisogno di tutela e riconoscimenti, dall’altro vantano un’esistenza che prescinde da questi. Questa separazione tra la legge, concepita come regola del legislatore, e i diritti, intesi come pretese soggettive e da questa indipendenti, evidenzia una tensione tra due poli dell’esperienza giuridica, che fino ad alcuni decenni fa vivevano in un’indiscussa unità; la crisi della sovranità statale e delle sue attribuzioni ha scomposto l’immagine monolitica del diritto dello stato, ormai separato dai diritti della persona[43].Da qui deriva il loro vivere “sospesi tra la dimensione giuridica e quella etica. Non a caso, nota Ferrarese, solo per i diritti si pone la questione della “positivizzazione”, che non ha nessun senso riferita alla legge: la legge o è “positiva” o non è.”.[44] 

Il terzo fenomeno che segnala il mutamento di paradigma della giuridicità è la forte impronta soggettivista che i diritti vanno assumendo, sempre meno prodotti della legislazione statale e sempre più pertinenze dei soggetti; se infatti la categoria dei diritti è un’invenzione giusnaturalista che costruisce intorno all’individuo una zona di sicurezza e libertà, questi diritti trovano la loro giustificazione nella costruzione dello stato, organismo di legittimazione politica e orizzonte concettuale delle prerogative individuali. Venendo a mancare la dimensione nazionale come costitutiva dei diritti, anche la loro soggettività cambia radicalmente, individualizzandosi sempre più; è per questa ragione che i confini tra diritti e interessi individuali sembrano diventare sempre più labili.

Alla proliferazione di diritti, provenienti da fonti diverse e con una gerarchia tutta da costruire[45], non corrisponde tuttavia una loro maggiore certezza ed esigibilità. Il paesaggio mobile dei diritti contemporanei non si identifica dunque con un catalogo chiaro e definito una volta per tutte, ma genera continui cambiamenti e aggiustamenti che si traducono in una serie di domande antagoniste, di conflitti, derivati dall’affermazione di identità e culture plurali. Il naturale sbocco di questa conflittualità extra ordinem, è la giurisdizione, anch’essa rivisitata in una prospettiva globalizzatrice. Se infatti la giurisdizione ha rappresentato sempre un luogo privilegiato di incontro tra le persone e il diritto, tra i ‘diritti’ e il ‘diritto’, alla proliferazione incoerente dei diritti corrisponde in epoca contemporanea una corrispondente proliferazione di organi, pubblici e privati, nazionali, e sovranazionali, giudiziari e extragiudiziari che si fanno carico dei conflitti.[46]

È in questo contesto che la mediazione nasce e trova i suoi significati. In tal senso possiamo dire che si tratta di un’invenzione della società contemporanea[47], sebbene la sua logica informale e triadica la avvicini ad altre pratiche di gestione delle liti[48], alternative al diritto, le cui tracce si rinvengono in numerose culture[49]. È infatti condivisa dai più l’idea che la mediazione sia uno strumento che affonda le sue radici in una tradizione millenaria presente nelle nostre società [50]. Anche l’antropologia ha messo in evidenza una sorta di logica trasversale dell’informalismo che abbraccia le culture più diverse e eclissa l’idea che il diritto giurisdizionale sia l’unico efficace strumento di gestione della conflittualità sociale. Come sottolinea Mark Umbreit enunciando i principi della mediazione umanistica, si tratta di credenze e valori condivisi da un ampio ventaglio di culture che concepiscono il processo di pacificazione come un percorso spirituale, che antepone l’importanza della relazione e del dialogo a una rapida ed efficiente soluzione del conflitto[51]. Sebbene sia possibile riscontrare significative somiglianze tra mediazione e sistemi tradizionali di composizione delle liti utilizzati nelle più svariate parti del pianeta, sarebbe tuttavia un errore pensare alla mediazione come espressione di un pensiero antico, e come una loro derivazione in versione contemporanea.

 

2.2. – Oltre l’antico e il moderno

 

La mediazione è un frutto maturo della crisi  del diritto e delle altre forme di esperienza pratica che attraversa l’ultimo scorcio dell’età moderna; esprime l’esigenza di un cambiamento di paradigma, della ricerca di nuovi principi e idee che ci consentano di affrontare in modo efficace i rapidi mutamenti della società contemporanea. È vero, si tratta di uno strumento informale che rifugge i rigidi schemi del diritto, e questo lo avvicina ad alcuni ambiti culturali premoderni, ma, come dice Boaventura de Sousa Santos, “dopo quasi due secoli di formalizzazione e di statalizzazione, il nuovo informalismo e il nuovo spirito di cittadinanza non potevano mancare di essere differenti dall’informalismo e dallo spirito di cittadinanza premoderni”[52]. Nel senso che le idee di cui la giustizia informale si fa portatrice fin dagli anni settanta sono, questa volta sì, una diretta filiazione del sistema di giustizia statale e del paradigma culturale moderno; in tal senso formalismo e informalismo sono figli dello stesso sistema di pensiero, della stessa struttura di valori e idee che governano l’età moderna. Per questo de Sousa Santos sostiene che, come le oscillazioni del pendolo, l’informalismo tende a formalizzarsi, così come i sistemi di giustizia giuridica tendono a produrre periodicamente pratiche informali[53].

Non è guardando alla logica formale o informale di composizione dei conflitti – o almeno non solo - che riusciremo a cogliere i principi veicolati dalla mediazione e i caratteri che ne fanno uno strumento del tutto omogeneo ai bisogni e alle esigenze della società contemporanea. È necessario rivolgersi al contesto di idee e principi nuovi che attraversano il mondo del diritto e dell’etica, della politica e dell’economia per capire che la mediazione è solo uno strumento, efficace e attivo, del cambiamento in atto. Essa presenta caratteri che la distanziano sia dall’universo di pensiero antico che da quello moderno e la situano in quella dimensione atemporale definita postmoderna. Post non nel senso di cronologico, ma di superamento critico dell’immagine del mondo rappresentata e costruita dall’età moderna[54].Il postmoderno non è infatti una categoria definibile attraverso strumenti temporali, sebbene convenzionali, ma convive col moderno, perché rappresenta un modo critico di guardare all’età moderna e al suo progetto, quello della costruzione di un ordine umano  universale attraverso il diritto e sulla base di un’epistemologia unificata dalla scienza[55].

La mediazione non ricalca una struttura di pensiero “antica”[56] perché con l’antichità non condivide un elemento essenziale: un orizzonte etico unitario, come quello che fondava il senso di appartenenza alla polis, garantito dal logos, la trama razionale che governava l’universo. Non è pensabile in un orizzonte di pensiero antico l’idea di un ordine negoziato al di fuori di un principio di autorità rappresentato dalle norme della comunità, così come non è pensabile la libera scelta individuale. Diciamo pure che non è pensabile l’uomo-individuo, concepito come ente autonomo, separato dai suoi ruoli e dotato della capacità di scegliere liberamente[57]. Molte delle pratiche citate come progenitrici della nostra mediazione si inseriscono in un contesto comunitario, costituito da un insieme di credenze, valori e stili di vita condivisi. Ma non solo, sono il frutto dell’ evoluzione di forme di vita associata dettata da precise condizioni storiche, geografiche, nascono cioè con un’identità, una storia e un luogo di provenienza. La stessa tipologia di conflitto che viene affidato nelle mani del saggio o della figura investita dell’ autorità necessaria a mediare la lite non è disgregante rispetto al tessuto comunitario, ma fisiologica in una rete di relazioni garantita da strumenti molto più potenti del diritto o dei sistemi di pacificazione ad esso alternativi.

La mediazione no. Il suo luogo di lavoro è una società, non una comunità; le sue basi operative sono il pluralismo dei valori, la presenza di sistemi di vita diversi e alternativi; il suo fine è riaprire canali di comunicazione interrotti, ricostruire legami sociali spezzati o compromessi. La sua vera scommessa è l’accettazione della diversità, della differenza, del dissenso e del disordine da questo generati. Il suo obiettivo più ambizioso non consiste nel proporre nuovi valori, ma nel mettere in comunicazione quelli di cui ciascuno di noi è portatore.

Il principio della comunicazione che regge l’intera struttura della mediazione è l’elemento che la distanzia dal paradigma del moderno e ne costituisce il superamento. L’idea che i valori che orientano le nostre scelte possano essere argomentati, discussi e riveduti criticamente nelle loro gerarchie va contro la prospettiva di un codice etico universale, così come scardina un sistema di diritto che in alcuni ambiti viene percepito dai suoi destinatari come impositivo e autoritario.

Come rileva Castelli “la pratica della mediazione, con le sue irrinunciabili premesse di libertà, di libera assunzione di responsabilità da parte dei soggetti coinvolti, di completa indipendenza dalle pratiche già regolamentate rappresenta qualcosa di completamente sconosciuto alle culture “tradizionali” e del tutto “rivoluzionario”[58]. Aggiungiamo, anche rispetto alle idee su cui si sono formati i nostri ordinamenti giuridici.

Libertà, autonomia e responsabilità sono termini che nella mediazione assumono nuove sfumature e significati legati alla crisi della sovranità statale e del principio d’autorità che attraversa la nostra società. Il loro referente non è più (o almeno non solo) l’individuo da tutelare e intorno al quale costruire una sfera di diritti e garanzie, ma è un soggetto che intende partecipare attivamente al processo di costruzione delle garanzie e delle tutele[59]. Questo riappropriarsi della libertà di gestire i conflitti che lo vedono coinvolto, esprime l’esigenza di autonomia, attraverso la costruzione di micro-ordini negoziati localmente che si contrappongono all’ordine imposto dal diritto dello Stato.

 

2.3. – Nuove responsabilità

 

Ma è nell’idea di responsabilità che cogliamo la portata innovativa della mediazione e la grande distanza che la separa dai principi del diritto: si tratta infatti di una responsabilità liberamente assunta dalle persone, non attribuita dall’esterno, come accade nel diritto. Con la sua attenzione alla singolarità delle persone coinvolte nel conflitto, col rilievo che assegna alle emozioni oltre che alla volontà razionale dell’individuo, col deciso rifiuto del potere decisionale del terzo e infine con l’allontanamento dall’idea funzionale della pena e della sanzione, la mediazione propone un’idea di responsabilità molto differente rispetto a quella che troviamo nel linguaggio e nella prassi del diritto.

In primo luogo, il dovere di rispondere delle proprie azioni non è funzionale all’irrogazione della sanzione; non ha significato né ragione l’inflizione di una pena nella gestione del conflitto, ha ragione e significato il riconoscimento, da parte dell’autore dell’azione lesiva o dannosa, del proprio agire, il dovere di spiegarne le ragioni, la volontà chiara di superare e rimediare - se e quanto è possibile - a ciò che ha fatto. Nel caso di un conflitto orizzontale, dove torti e ragioni si intrecciano fino a non essere più attribuibili con utilità all’una o all’altra parte, la responsabilità opera attraverso il riconoscimento da parte di ciascuno della volontà di cambiamento del sistema di relazioni conflittuali  che è ormai divenuto, o rischia di esserlo, distruttivo per entrambi. In questo caso la responsabilità si traduce nell’assumere un impegno condiviso e risponderne per il futuro.

In secondo luogo la responsabilità, intesa come impegno assunto verso un’altra persona e la collettività, assume un aspetto progettuale che manca totalmente al riconoscimento di responsabilità giuridica. Nel diritto, come sappiamo, la responsabilità viene stabilita con un giudizio rivolto al passato, che accerta i fatti e nel caso infligge una pena; in questo  modo la responsabilità viene ascritta al soggetto che, come diceva Croce, viene “fatto responsabile”[60].

Nella responsabilità tratteggiata dalla mediazione la prospettiva del futuro assume un importante rilievo: l’impegno che ciascuna parte liberamente assume di rispondere verso l’altro delle proprie azioni riguarda quelle future, segnate dagli obiettivi che le parti hanno comunemente stabilito e dal cambiamento nel sistema di relazioni.[61]

Potremmo dire che la mediazione pone l’accento sull’idea che la responsabilità, oltre che un giudizio, è un processo che si svolge e sviluppa in un vasto sistema di relazioni[62].

Collocare il soggetto e la sua responsabilità in un ambito sociale comunicativo significa considerarne due aspetti fondamentali, finora trascurati dal diritto: un’assunzione di responsabilità individuale e una forma di riconoscimento di responsabilità sociale e collettiva che si alimentano reciprocamente[63]. Questo tentativo di riattivare il circuito delle responsabilità individuali e sistemiche, impedito da una concezione individualistica e atomistica delle dinamiche sociali, è l’aspetto che sgancia l’oggetto mediazione da una dimensione privatistica per mostrarcelo nella sua rilevanza pubblica e sociale, come canale e filtro che mette in comunicazione le esigenze private con gli interessi di rilevanza pubblica.

Ma vi è un aspetto ulteriore di questo processo che forse non è stato ancora sufficientemente sottolineato. Riguarda la densità morale implicata nell’esercizio della decisione comune, della comunicazione delle ragioni, e nella condivisione delle conseguenze future di questa decisione, in una parola nella responsabilità.

Quando ci si riferisce alla mediazione generalmente si parla di un’assunzione comune di responsabilità come il risultato, l’esito di un lungo e difficoltoso percorso tra le persone coinvolte, ma questo non basta a cogliere interamente il significato dell’essere responsabili. Responsabilità è prima e oltre che punto di arrivo della mediazione, un punto di partenza, un potenziale necessario senza il quale la mediazione non può avere esito. La mediazione scommette davvero sulla capacità morale delle persone, sul talento della responsabilità assegnato a ciascuno, sull’abilità di negoziare l’arte e gli usi del vivere insieme.Occorre chiarire che quest’arte del negoziare progetti di vita comune non è basata sul calcolo delle conseguenze, sebbene questo venga attentamente considerato come ulteriore criterio decisionale, ma sulla capacità di ascoltare l’altro e di aprirsi alle sue ragioni, sul potere della comprensione e talvolta, spesso, del perdono; parola inusuale nel nostro corredo semantico, ma che nella mediazione sfoggia potenzialità enormi.

 

2.4. – La grammatica dei sentimenti

 

Quest’aspetto è reso evidente dal ruolo che in misura differente a seconda dei modelli, ma presente in ciascuno di essi, è assegnato alla sfera dell’affettività che racchiude emozioni, desideri e paure, tutto quel ventaglio di ‘modi di essere’ bandito nel processo giuridico, ispirato da una concezione che identifica l’emozionalità come un terreno inaffidabile e scivoloso sul quale non è possibile edificare nulla. In realtà la mediazione non fa altro che riconoscere che le scelte delle persone, e quindi le decisioni e le azioni che ne derivano, solo in parte sono assoggettabili al calcolo razionale dell’utilità e del profitto; ma invece di interpretare l’aspetto definito ‘irrazionale’ come una zona d’ombra, insondabile e per alcuni versi inesplicabile, affida alle emozioni, insieme alla facoltà di calcolo dell’utilità, il compito di veicolare la verità, di mostrare l’interesse delle persone e di costruire una possibile pacificazione o accordo. La mediazione sembra dire che la grammatica delle passioni e dei desideri è portatrice di senso, è comunicabile e coniugabile col linguaggio della logica razionale, dell’utile e degli interessi.

Questo processo di valorizzazione delle emozioni, degli affetti, in una parola del sentire umano, interpretato come la base su cui edificare, e, insieme allo strumento razionale, giustificare, i nostri valori[64], non è da interpretare come un fenomeno isolato, ma può essere inserito in un lento processo di ridefinizione dell’immagine della soggettività e del suo contesto. Reintrodurre nel linguaggio dei valori e delle scelte l’esperienza degli affetti e delle emozioni risponde infatti al tentativo di ricomporre l’immagine di un io diviso, costruito sulla dicotomia cartesiana di qualità pensante e qualità corporea [65].

La qualità razionale che diviene ragione soggettiva si afferma nel pensiero moderno come l’unico elemento idoneo a costruire e ordinare la realtà; tutti gli aspetti che definiscono l’identità personale, la sottraggono all’omologazione della ragione e all’indistinto mondo di eguali della nuova logica giuridica, che possiamo riassumere nella pascaliana raison du coeur, vengono esclusi dal corredo conoscitivo dell’età moderna in cui, parafrasando Barcellona, la fantasia diventa ipotesi da verificare, la natura un campo aperto alla osservazione e alla manipolazione e l’esperienza esperimento[66].

Il pensiero binario della modernità, che si costituisce sulle dicotomie tracciando una linea netta di confine tra categorie di opposti[67], opera una scissione tra il logos e il pathos, la capacità di conoscere producendo concetti astratti e quella di sentire, percepire, esperire la realtà soggettiva corporea, emotiva dell’io. Questa scissione è efficacemente rappresentata nel panorama contemporaneo dal contrasto tra la ragione funzionale ed efficientista dell’organizzazione sociale, che attraverso la tecnologia e la scienza sembra poter risolvere i problemi dell’umanità, e il dilagare violento e fuori da ogni controllo normativo del conflitto ad ogni livello, da quello etnico e religioso a quello rionale e scolastico.

Accettando il conflitto come risultante di ragioni e passioni la mediazione adotta il principio della completezza riferito alla soggettività e alla sua espressione. Prendendo in prestito una distinzione di Erikson diremo che completezza e totalità possono essere considerate due categorie esplicative della soggettività: “Come Gestalt, dunque, “completezza” mette l’accento su una mutualità sana, organica, progressiva tra funzioni e parti diversificate di un intero, i cui confini sono aperti e fluttuanti. Al contrario “totalità” evoca una Gestalt il cui accento è posto su un confine assoluto; data una certa configurazione arbitraria, niente di ciò che è situato all’interno dev’essere lasciato all’esterno, niente di ciò che deve trovarsi all’esterno può essere tollerato all’interno”[68]. Mentre la totalità corrisponde alla versione dell’individuo, ente razionale dotato di diritti che tracciano un rigido confine tra sé e gli altri, la completezza indica sia l’accoglimento di un’identità plurale, composta da più voci e linguaggi, dal versante di luce della razionalità e chiarezza e da quello d’ombra dei sentimenti inespressi, sia un’identità contestuale, fatta di relazioni, ambienti sociali, luoghi d’origine e di memoria.

Il superamento critico della visione razionalista dell’io allontana ancora una volta la mediazione dal solco sia della tradizione che della modernità per accostarla al mutamento di paradigma in atto nella cultura contemporanea, così ottimisticamente presentato dalle parole di Bauman: “Il postmoderno (…) reca il “reincanto” del mondo dopo il costante e strenuo, benché alla fine vano, tentativo moderno di dis-incantarlo,(…). La sfiducia nei confronti della spontaneità umana, delle tensioni, degli impulsi e delle inclinazioni che resistono alla previsione e alla giustificazione razionale, è stata pressoché rimpiazzata dalla sfiducia nella ragione fredda e calcolatrice. È stata restituita dignità alle emozioni e legittimità alle simpatie e alle lealtà “inesplicabili”, o meglio, irrazionali, che non possono esprimersi in termini di utilità e finalità”[69].

La figura enigmatica del mediatore, melange complesso e vago di talenti naturali, conoscenze e esperienza, esprime e condensa i caratteri che fanno della mediazione un possibile rimedio dei nostri tempi.

 

 

3. Il mediatore, figura postmoderna

 

È stato definito il terzo istruito[70], perché portatore di un sapere nuovo, capace di coniugare conoscenze tecniche estremamente raffinate e un corredo di valori etici, inteso a sua volta come un bagaglio conoscitivo di cui la modernità ha perso la memoria. La ricomposizione di cultura umanistica e scientifica, che dovrebbe orientare la formazione del mediatore ideale, unita a una serie di qualità personali, tratteggiano una metodologia e una formazione del tutto nuova in una figura professionale. È per questa ragione che il mito del mediatore, inteso come una figura che ‘da sempre’ esiste nelle culture tradizionali, dotata di esperienza e saggezza, s’infrange ancora una volta sullo scoglio della complessità culturale contemporanea.

Cominciamo a distinguere innanzitutto il concetto di autorità, o meglio autorevolezza, necessario a delinearne la figura. Il mediatore, tuttora esistente e operante nel solco della tradizione in numerose società, tra cui ad esempio quella sarda, si vale di un’autorità che gli viene conferita dall’intera comunità in quanto egli è portatore e interprete della tradizione -su connottu in lingua sarda – che si riassume in una rappresentazione condivisa della realtà e delle regole del vivere insieme[71].

In Barbagia[72], ad esempio, sono presenti e resistono con successo forme di mediazione, caratterizzate dalla figura del terzo neutrale, liberamente scelto dalle parti, che non impone una decisione né soluzioni, ma facilita la comunicazione tra i litiganti. Tuttavia dobbiamo rilevare che la composizione e l’accordo, nonché il linguaggio della mediazione, s’inseriscono in una trama di valori accettati e condivisi dalle parti; i valori della comunità di cui queste fanno parte. Per queste ragioni non potrebbe mai verificarsi  una mediazione di questo tipo tra un barbaricino e un senegalese che discutono ad esempio delle condizioni di una vendita, perché l’altro è escluso da quel contesto di vita che consente di ricomporre la trama sfilacciata delle relazioni tra ‘uguali’.

Viene a mancare uno degli elementi che segna profondamente la mediazione: il riconoscimento della differenza, dell’altro, diverso in quanto veicolo di credenze e principi diversi.

L’autorità di cui il mediatore contemporaneo deve essere provvisto non è iscritta in un contesto istituzionale, ma è guadagnata volta per volta, sulla base di una chiara serietà professionale che i litiganti gli riconoscono e che, allo stesso modo, possono negargli in qualsiasi momento della mediazione. Questo sarebbe impossibile in un contesto tradizionale: rifiutare il mediatore, una volta scelto, significherebbe respingere con lui le regole della comunità, autoescludersi dalla vita comune.[73] La credibilità del mediatore contemporaneo deriva quindi esclusivamente da quanto egli riesce a mostrare della capacità di svolgere il suo lavoro, al pari di un qualsiasi bravo professionista. Ma è proprio qui, nella definizione di quella capacità, del corredo degli utensili del mediatore, che notiamo la novità e la difficoltà di questo ruolo. Nel nostro mondo il mediatore dovrebbe fare più o meno solo il mediatore e la sua affidabilità gli deriva dall’essere un bravo mediatore, non un bravo medico, avvocato o sacerdote; nei luoghi tuttora esistenti della memoria in cui la mediazione resiste si diventa mediatori perché è stata dimostrata una certa saggezza, prudenza e moderazione in altri ruoli e ambiti. Non esiste la figura professionale del mediatore, ma è legata piuttosto a un’etica pubblica in cui mediare è un onore e un dovere; allora le regole di questa mediazione antica non derivano da un addestramento tecnico, ma dal bagaglio culturale naturalmente appreso, dalla formazione comunitaria ricevuta, e da una notevole dose di buon senso e disponibilità all’ascolto. Non così per il ‘nuovo’ mediatore che deve avere un addestramento tecnico e conoscitivo che va oltre il semplice buon senso, termine che nel nostro contesto culturale ha ormai perso quella densità di significato che conserva in ambito tradizionale.

Il secondo elemento che allontana la figura del mediatore contemporaneo dal rassicurante alveo della tradizione risiede infatti nella  sua preparazione e formazione, costruita su un metodo - ancora da perfezionare - articolato in teoria, tecnica e pratica che si vale di strumenti di indubbia scientificità, che poco hanno a che fare con la tradizione.

“Si riconosce sempre più spesso, sottolinea Lisa Parkinson,  che le abilità di gestione del conflitto richiedono molto più che buona volontà, buon senso e qualche parola di rabbonimento detta qua e là (…) La conciliazione deve sviluppare una base teorica sua specifica: non dovrebbe essere soltanto un minestrone di servizio sociale dal quale pescare idee e metodi alla rinfusa per poi ingoiarli così come sono”[74]. Parkinson mette l’accento sul problema più rilevante della mediazione: la messa a punto di un corpo coerente di teoria e principi che coordini una pluralità di griglie teoriche che, un po’ disordinatamente, affollano il campo dei percorsi formativi alla mediazione. Tra queste quella probabilmente più rilevante, soprattutto nel campo familiare e penale minorile, è fornita dalla psicologia e dalla psicoterapia. Sebbene numerosi autori traccino una netta linea di confine tra l’approccio psicoterapeutico e quello della mediazione[75], adducendo validi argomenti relativi all’obiettivo delle due pratiche, al metodo e ai soggetti, vi sono alcuni tipi di mediazione che sono una diretta derivazione di scuole psicanalitiche, con un setting di regole che nascono dal contesto epistemologico della psicoterapia [76].

Tuttavia anche i modelli che prendono esplicitamente le distanze dalla psicoterapia e dalla psicologia, attingono a piene mani al loro sapere, ormai entrato necessariamente a far parte del corredo conoscitivo di ogni professionista in relazioni umane. Diciamo pure che il mediatore che non ha una buona conoscenza di alcuni meccanismi psicologici e che ignora del tutto le dinamiche che s’innescano in terapia ha scarse probabilità di mantenersi con la sua professione. Non solo, aggiungiamo che il mediatore che non abbia fatto almeno un po’ di autoanalisi, o di approfondita riflessione critica ed esistenziale, in modo da individuare le sue vulnerabilità affettive e le eventuali difficoltà relazionali che possono rendere difficile il controllo di una situazione, non può pensare di ‘scoprirle’ in mediazione. È per questo che il confine che separa mediazione e psicoterapia rimane spesso nebuloso, raffigurabile più che come una linea, come uno spazio in ombra in cui nuovi saperi nascono dalla contaminazione di discipline note.

Castelli, uno dei più netti sostenitori delle differenze tra mediazione e psicoterapia, dopo averle opportunamente distinte[77], le riaccosta, riconoscendo che vi sono delle “somiglianze nelle tecniche utilizzate”, e che, sebbene non abbia un esplicito obiettivo di cura, la mediazione può avere “risvolti terapeutici”. Anche nel modello di Morineau l’originalità della mediazione viene rivendicata con forza come la costruzione di uno spazio protetto di accoglimento del disordine e della sofferenza delle persone senza ricorrere ad alcuno strumento tratto dalla psicoterapia: “Per incontrare il disordine i mediatori non dispongono né del lettino dello psicanalista né delle forze ordinanti del sistema giudiziario”[78], dice Morineau, tuttavia, aggiungiamo, essi devono attingere alle loro energie morali e affettive più profonde – oltre a un robusto bagaglio tecnico-conoscitivo- per inserirsi efficacemente nella trama dell’altrui conflittualità senza esserne fagocitati. Per far questo devono costruirsi un ‘luogo’ da cui guardare al conflitto, che li renda capaci di reggere gli scossoni affettivi e di partecipare al circolo emotivo che s’instaura nelle stanze della mediazione senza tuttavia perdersi in esso.

E’ difficile non pensare agli ineludibili risvolti terapeutici, anche se non codificati, che questo modello presenta. Morineau, infatti precisa che la vera motivazione del mediatore è quella di incontrare il proprio conflitto interiore, prima che quello delle persone che intende aiutare: la vera vocazione è insomma quella di curare sé stesso, prima che gli altri. Per questo la formazione del mediatore è essenzialmente ricostruzione di una mappa interiore e sentiero esistenziale, che tanto somiglia al percorso dell’analista che deve prima sottoporre sé stesso all’analisi, e attraversare le sue paludi interiori, per poter curare gli altri[79]. Come sottolinea Daniela Antonucci, accostare mediazione e intervento psicologico è un’operazione che comporta “seri rischi di generalizzazione”[80], perché sia le mediazioni che le psicoterapie sono molto diversificate e se in alcuni casi presentano numerosi punti di contatto, in altri si differenziano radicalmente; tuttavia è indubbio che nella formazione del mediatore vi sia una robusta trama di conoscenze psicologiche che emergono anche negli accorgimenti tecnici che egli apprende per facilitare la comunicazione[81]. In realtà il corredo del mediatore è formato da una serie di strumenti eterogenei che danno conto di una irriducibile complessità della mediazione, professione in bilico tra virtù, tecnica e profitto.

Quest’ultimo termine evoca il grande assente nei discorsi sulla mediazione: il mercato, a cui più o meno tutti i centri di mediazione necessariamente guardano.

Quello del mediatore non è infatti, almeno non solo, un ruolo, ma è una professione, per la quale si richiede addestramento, una buona preparazione culturale, un sapere teorico, un lungo tirocinio, e un conseguente profitto che deriva dall’esercizio di quest’attività. La prospettiva economica immette il mediatore in un panorama radicalmente mutato rispetto a quello di una cultura tradizionale in cui non esiste la professionalizzazione del ruolo del pacificatore. È questo il terzo argomento che conferma l’ipotesi della nascita di una figura del tutto nuova nel paesaggio culturale contemporaneo che mantiene con il mediatore ereditato dalla tradizione forse un unico elemento comune: il suo agire fuori dalle maglie del diritto.

Leggiamo i consigli che John Haynes e Isabella Buzzi, autori di corsi di formazione alla mediazione familiare, scrivono sul loro manuale: “Anche i migliori prodotti hanno bisogno di un marketing attento e la mediazione familiare non fa eccezione a questa regola. Un mediatore competente deve creare un flusso continuo di clienti e questo capitolo suggerisce come convincere i clienti a rivolgersi a voi”[82], seguono infatti le descrizioni estremamente dettagliate dei passi che i mediatori che si affacciano sul mercato devono compiere per promuovere la loro immagine e procurarsi i clienti. Tra le abilità –assai numerose- del mediatore vi è dunque anche quella di un’oculata gestione della propria immagine professionale e di una buona capacità manageriale.

Si potrebbe obiettare che numerose esperienze di mediazione, come quelle avviate in Italia presso il Tribunale per i minorenni di Milano[83], o di Bari, tanto per citarne alcune, sono state portate avanti con finanziamenti pubblici, e che tra le numerose proposte di modelli gestionali delle strutture di mediazione, vi sono quelli misti, che vedono associazioni private in parte sostenute dalle amministrazioni locali che hanno tutto l’interesse a incoraggiare queste forme di gestione dei conflitti sociali.

Se queste soluzioni da un lato possono sottrarre i mediatori al richiamo delle sirene del mercato, evitando le distorsioni legate alla ricerca del profitto, dall’altro rischiano di trasformarli in burocrati della pace sociale, colonizzati dallo spirito statalista e normativista che affligge le nostre istituzioni. Libero professionista del nuovo mercato della pace o pubblico dipendente al servizio del bene comune, il mediatore si identifica comunque in un ruolo professionale, come tale diviso tra vocazione, addestramento e mercato.

 

3.1. – Oltre la professione, oltre il ruolo…

 

Oltre che persone che svolgono un ruolo professionale , e quindi soggette alle lusinghe del mercato, a una rigorosa deontologia e a un duro addestramento, i mediatori devono essere uomini e donne di principi, provvisti di facoltà morali che vanno adeguatamente esercitate.

Questo è un punto cruciale che stacca il ruolo del mediatore dal paesaggio indistinto e omologato delle professioni: se infatti la tecnica e il profitto sono due elementi che inseriscono a pieno titolo questa figura  nel contesto professionale contemporaneo, la virtù è quel carattere che segnala un curioso distacco dall’oggi e apre una nuova prospettiva, nuova e antica allo stesso tempo, nell’orizzonte della mediazione.

Sembra infatti che non si possa fare il mediatore, senza essere, prima di tutto, un mediatore. Ciò che colpisce delle numerose descrizioni del lavoro del mediatore è che spesso si traducono in meticolosi ritratti del mediatore e delle sue doti. Sembra che l’insieme dei suoi compiti si risolva principalmente in un dover essere più che in un dover fare, anzi, il suo operare sembra il naturale sviluppo del suo modo di essere, sebbene adeguatamente modulato dall’esperienza.

Jean-François Six , che dedica una particolare attenzione a questa figura, ne enumera le attitudini: il senso di realtà, il distacco, il dono di ubiquità intellettuale (che traduciamo col più domestico sapersi ‘mettere nei panni degli altri’), il senso della gerarchia dei valori, l’ottimismo ragionato, la flessibilità e l’adattabilità, l’umiltà, la creatività, la pazienza, l’autorità e il carattere, la salute fisica e mentale[84]. La sua formazione è infatti, soprattutto, ricostruzione interiore che gli chiede di mettere ordine nei suoi valori e avere ben chiari principi e dubbi, insomma sembra che il mediatore debba possedere una grande lucidità morale, oltre che intellettuale, per poter costruire quella terzietà che rende unico il suo ruolo.

Tuttavia il lungo e puntuale elenco dei talenti che egli, almeno in parte, deve possedere, invece che definire nella sua specificità il ruolo, finisce per produrre il risultato opposto, quello di annullarne i confini per immetterlo nell’indistinto della morale comune, costruendo un modello ideale che non facilita l’apprendimento, ma crea una inutile distanza tra la realtà dei mediatori e la retorica del mediatore.

Potremmo dire, con Castelli, che descrivere il mediatore ideale equivale a ritrarre l’uomo e la donna perfetti, nel senso che qualunque persona che voglia essere ‘vera’ deve anche saper ascoltare gli altri, prendere parte ai loro conflitti con spirito ottimista e collaborativo, caricarsi un po’ i loro fardelli senza farsi schiacciare dal peso, aiutare le persone a riallacciare legami e riprendere relazioni, come credo ognuno di noi abbia provato almeno una volta a fare[85]. Ma allora ci chiediamo, cos’è che distingue il mediatore dalla persona che, spinta da un genuino interesse per gli altri, cerca di aiutarli a superare i loro conflitti? Per capire davvero cosa il mediatore fa è necessario andare oltre il lungo e puntuale elenco dei suoi talenti e concentrare l’attenzione sul processo che egli innesca in mediazione. Egli infatti fa qualcosa -di molto diverso da una buona azione- che possiamo vedere solo se usciamo dalla stanza della mediazione e ci poniamo in un altro luogo di osservazione: quello dell’organizzazione sociale.

In questo contesto il lavoro del mediatore si rivela nella sua veste istituzionale attraverso la costruzione di un ordine nelle relazioni sociali che si affianca e in parte si sovrappone a quello stabilito dalla giurisdizione. Il suo obiettivo è lavorare a un progetto comune di parziale ristrutturazione dei rapporti e degli equilibri sociali secondo una modalità che definiremo progettuale.

La progettualità va oltre il mero consenso perché implica un impegno, uno sforzo di ricostruzione e riflessione critica che talvolta manca nell’espressione del consenso. Dare il proprio consenso talvolta infatti assume il significato di adeguamento passivo ad una situazione, come quando accettiamo una proposta che ci trova d’accordo anche se non siamo noi a formularla; progettare invece significa partecipare attivamente alla pianificazione e alla costruzione di un accordo che implica necessariamente il nostro consenso, ma critico e attivo. Le persone che si rivolgono al mediatore sono invitate a costruire al di fuori degli usuali schemi formali, e quindi creativamente, le loro relazioni future, sono parte attiva di un progetto del quale sono co-responsabili e che vivranno nel tempo secondo le loro scelte e decisioni. Ma non sono solo le persone in conflitto a elaborare il progetto, sono almeno in tre a farlo.

È per questa ragione che l’idea, ampiamente accreditata, della neutralità, terzietà e alterità del mediatore, va un po’ ridimensionata: egli è parte integrante del progetto relazionale avviato in mediazione, non è solo colui che assiste e sorregge la volontà delle parti dopo aver loro indicato i canali di comunicazione. Anche l’immagine del catalizzatore, tanto efficace e diffusa per indicare la forza e la neutralità del personaggio[86], è in qualche modo fuorviante, perché se l’elemento che produce la catalisi rimane immutato dopo la reazione che scatena, lo stesso non può dirsi del mediatore che in quanto parte del processo ne subisce il mutamento così come le persone coinvolte.  Il circuito comunicativo comprende tutte le persone che costruiscono la mediazione e partecipano attivamente ad essa, ciascuna secondo le proprie competenze; potremmo dire che il ruolo del mediatore diventa più chiaro in una prospettiva ecologica della mediazione che vede al centro del processo non tanto e non solo il problema oggetto del conflitto, ma l’insieme delle relazioni fra tutti i partecipanti. Il sistema rappresentato dalla mediazione è infatti complesso perché composto dalla somma delle parti più l’insieme delle relazioni tra queste. È forse per questa ragione che appare così difficile circoscrivere il ruolo del mediatore, parte del sistema relazionale che egli stesso avvia, e allo stesso tempo figura che arretra sullo sfondo via via che le persone assumono il peso delle loro decisioni. Questa sua particolare competenza relazionale genera una figura curiosamente complessa che intreccia la competenza tecnica, necessaria a dipanare la matassa dei quesiti giuridici, economici e psicologici cui deve rispondere, a un corredo di doti umane, indispensabile per costruire una rete di relazioni basata sulla fiducia, la chiarezza, la coerenza e la responsabilità.

 



 

[1] Jean Faget sostiene che la pluralità dei modelli di mediazione penale, che riguarda i differenti significati assegnati al termine médiation, le pratiche relative, e infine gli obiettivi, suscitano in Francia la diffidenza dei giuristi che “vi vedono una minaccia potenziale contro il loro monopolio nel campo giuridico”, Le cadre juridique et etique de la médiation pénale, in R. Cario (sous la direction de), La médiation pénale, Paris, L’Harmattan,1997, p. 37 (trad. mia).

 

[2] “Le non-droit, s’il faut en donner une première approximation, est l’absence du droit dans un certain nombre de rapports humains où le droit aurait eu vocation théorique à être présent. » Carbonnier precisa che non si tratta di uno spazio vuoto in cui vi è una totale assenza di norme, ma di un ambito in cui la loro pressione si allenta: “Quand nous parlerons de non-droit, il sera donc loisible d’entendre, non pas le vide absolu de droit, mais une baisse plus ou moins considerable de la pression juridique. La relativité ainsi introduite peut dissiper les tourments philosophiques que susciterait le concept d’un pur néant.», Flexible droit, Paris, L.G.D.J ., 1995, p.24.

 

[3] Così J. Leblois-Happe che parla della varietà dei tipi di mediazione penale: “Il serait d’ailleurs plus exacte de parler des médiations plutot que de la médiation, le singulier donnant à l’institution une apparence d’unité que dément l’étude des faits”, La médiation pénale comme mode de réponse à la petite delinquance: état des lieux et perspectives, in Rev, Sc. Crim.,n. 3, 1994, pp.524-536 ; la citazione è a p. 527.; in ambito civilistico A. Uzqueda è categorica nell’affermare la pluralità delle mediazioni, Seminario sulle tecniche di formazione alla mediazione, Univ. di Sassari, 25-26 maggio 2001.

 

[4] G. Pisapia, La scommessa della mediazione, in G. Pisapia e D. Antonucci (a cura di),La sfida della mediazione, Padova, Cedam, 1997, p.7.

 

[5] S. Castelli, La mediazione, Milano, R. Cortina, 1996, p.4.

 

[6] Ivi, p.98.

 

[7] “Every negotiation is different, but the basic elements do not change. Principled negotiation can be used whether there is one issue or several; two parties or many; whether there is a prescribed ritual, as in collective bargaining, or an impromptu free-for-all, as in talking with hijackers.(…) principled negotiation is an all-purpose strategy.”, Getting to yes, New York,  Pengouin Books, 1991 (2nd.ed.), p. XIX.

 

[8] La mediazione, cit., p. 4.

 

[9] J.P. Bonafé-Schmitt, Una, tante mediazioni dei conflitti, in La sfida della mediazione, cit., pp.21-49.

 

[10] Ivi, p.36

 

[11] Ibidem.

 

[12] Ibidem.

 

[13] G. Pisapia, La scommessa della mediazione, cit., p. 8.

 

[14] J.F.Six, Le temps des médiateurs, Paris, Ed. du Seuil, 1990, p. 165-166.

 

[15] A differenza di quanto suggerisce la definizione di J.Haynes : “La mediazione è un processo di negoziazione in cui una terza persona aiuta i partecipanti a una disputa a risolverla. L’accordo risolve il problema con una soluzione mutuamente accettabile ed è strutturato in modo da aiutare a mantenere la continuità della relazione delle persone coinvolte”, in J.M. Haynes – I.Buzzi, Introduzione alla mediazione familiare, Milano, Giuffrè, 1996, p.49.

 

[16] S. Castelli, op. cit., p.5.

 

[17] Così Fisher-Ury, op. cit.; J.Haynes,- Buzzi, Introduzione alla mediazione familiare, cit.,p.49 ss.; J. P. Bonafé-schmitt, Una, tante mediazioni dei conflitti, cit., G. Cosi, La responsabilità del giurista, Torino, Giappichelli, 1998; Castelli, La mediazione, cit., p.7; C. Mazzucato, L’universale necessario della pacificazione, in Logos dell’essere, logos della norma, a cura di L. Lombardi Vallauri, Bari, Ed, Adriatica, 1999;G. Gulotta - G.Santi, Dal conflitto al consenso, Milano, Giuffrè, 1988, p.41 ss

 

[18] J.F. Six, Le temps des médiateurs, cit., p.164 ss.

 

[19] M. Guillaume-Hofnung, La médiation, Paris, PUF, 1995, p.76 ss.

 

[20] J. Morineau, Lo spirito della mediazione, Milano, F. Angeli, 2000, p. 40.

 

[21] Ivi, p. 53 ss.; Cfr. anche M Umbreit, What is Humanistic Mediation?, www.restorativejustice.org, il quale definisce la mediazione umanistica come un dialogo guidato piuttosto che un processo guidato di risoluzione dei conflitti: “The focus of mediator’s work is upon the creation of a safe, if not sacred, place to foster direct dialogue among the parties about the emotional and material impact of the conflict”, p.1.

 

[22] Sull’interpretazione del cambiamento in chiave psicologica cfr. P. Watzlawick; J. H. Weakland; R. Fisch, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Roma , Astrolabio, 1974.

 

[23] La mediazione, cit., p.22.

 

[24] Sui differenti tipi di ragionamento che ricorrono nel processo decisionale e sulla razionalità delle scelte cfr. J. R. Cohen, Reasoning along Different Lines: Some Varied Roles of Rationality in Negotiation and Conflict Resolution, in Harvard Negotiation Law Review, 1998, vol.3, pp. 111-122.

 

[25] R. Fisher e W. Ury, Getting to Yes, cit.

 

[26] “Interests are needs, desires, concerns, fears – the things one cares about or wants. They underlie people’s positions – the tangible items they say they want.” ,W.L.Ury, J.M. Brett, S.B., Goldberg, Getting Diputes Resolved, San Francisco, Jossey-Bass Publishers, 1988, p.5.

 

[27] I quattro criteri che compongono il metodo suggerito da Fisher e Ury sono: separare le persone dai problemi; concentrarsi sugli interessi, non sulle posizioni; inventare soluzioni reciprocamente vantaggiose; insistere per usare parametri obiettivi, Getting to yes, cit. 

 

[28] Per la definizione del modello umanistico cfr. M. Umbreit, The Handbook of Victim Offender Mediation, San Francisco, Jossey-Bass Publishers, 2001, Part One.

 

[29] Cfr. G. Pisapia, La scommessa della mediazione, in La sfida della mediazione, cit., in questo senso si veda A. Ceretti, Mediazione: una ricognizione filosofica, in L. Picotti (a cura di), La mediazione nel sistema penale minorile, Padova, Cedam,  1998, p.32 ss.

 

[30] Anche J. Haynes e I. Buzzi  seguono l’impostazione utilitaristica della Scuola di Harvard; nella loro citata Introduzione alla mediazione familiare, (Cap. 6) assumono, come metodo comportamentale della negotiation, quello teorizzato da Fisher e Ury in Getting to Yes.

[31] Cfr. D.Garland, Pena e società moderna, Milano, Il Saggiatore, 1999, p.235 ss.

 

[32] Cit. in M. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Milano, Ed. Comunità, 1966, p.115; Cfr.  inoltre G. Solari, Individualismo e diritto privato, Torino, Giappichelli, 1959, p. 171 ss. ; G. Tarello, Le ideologie della codificazione nel sec. XVIII, Genova, A.C.I.G., 1974.

 

[33] T. Hobbes, De Cive, a cura di T. Magri, Roma, Ed. Riuniti, 1988, cap.V.

 

[34] J. Locke, Il trattato sul governo, a cura di L. Formigari, Roma, Ed. Riuniti, 1984. part. § 19; 20.

 

[35]A. Catania, Purezza del diritto e politicità delle decisioni, in Nuove frontiere del diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Bari, Dedalo, 2001, p.27. si veda inoltre, nello stesso volume, il saggio di R. Bodei, Illimitatezza dei desideri ed erosione delle norme, p. 59 ss.

 

[36] Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 38-39.

 

[37] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, p.11-12.

 

[38] Ferrajoli sostiene che si sta verificando un secondo mutamento di paradigma del diritto, generato dalla crisi della sovranità esterna come della sovranità interna degli stati nazionali e degli organismi internazionali, ma “si tratta di un mutamento di paradigma che si produce all’interno del paradigma giuspositivistico, non già quale suo indebolimento, ma quale suo completamento”,La crisi della sovranità e il ruolo della filosofia politica, in Nuove frontiere del diritto, cit, p.153; si veda inoltre Id., La sovranità nel mondo moderno: nascita e crisi dello stato nazionale, Roma, Laterza, 1997.

 

[39] M. R. Ferrarese, Il linguaggio transnazionale dei diritti, in Riv. Di Diritto Costituzionale, 2000, pp. 74- 108, la citazione è a p.74.

 

[40] Come precisa Ferrarese “transnazionale non equivale a internazionale; quest’ultimo termine evoca territorialità e confini, secondo la logica propria degli stati nazionali.”Il suo riferimento non è ai confini e alla certezza, ma è all’attraversamento dei confini ed all’incertezza. Lo spazio transnazionale è quello spazio mobile e cangiante disegnato e ridisegnato in continuazione dai soggetti che lo percorrono specialmente con le loro comunicazioni: comunicazioni sociali, giuridiche, politiche, economiche ecc.”, Ivi, p. 93.

 

[41] Per Bauman il vagabondo e il turista sono una valida metafora per gli uomini che vivono nella condizione postmoderna, Sfide dell’etica, cit., p.244 ss., si veda inoltre Id. La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 1999.

 

[42] Dalla struttura alla funzione, Milano, Ed. Comunità, 1977.

 

[43] Cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., p. 57 ss.

 

[44] Il linguaggio transnazionale dei diritti, cit., p. 79. Sull’argomento cfr. inoltre F. Viola, Dalla natura ai diritti, Roma, Laterza, 1997.

 

[45] Cfr. A. Ruggeri, Fonti e norme nell’ordinamento e nell’esperienza costituzionale, Torino, Giappichelli, 2002.

 

[46] Cfr. M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2000.

 

[47] Per usare le parole di Castelli, op. cit.,p.3

 

[48] “La conciliazione e la mediazione hanno una lunga storia in molte culture: molte società di tutto il mondo hanno infatti sviluppato metodi pacifici per risolvere le dispute tra i singoli, le famiglie o i gruppi tribali, avvalendosi di una terza parte neutrale che aiuta i contendenti a negoziare soluzioni accettabili per entrambi” così L. Parkinson, Separazione, divorzio e mediazione familiare, Trento, Erickson, 1995, p.94.

 

[49] “Sebbene la logica di applicazione della mediazione sia esistita da sempre in tutte le culture del mondo, l’istituzionalizzazione di essa si è diffusa ampiamente soprattutto tra gli anni ’70 e ‘80”, così C. Sirignano e M. Corsi, La mediazione familiare, Milano, Vita e Pensiero, 1999, p.25.

 

[50] Come dice Morineau, op. cit., p.61: “la mediazione riprende un approccio vecchio quanto il mondo. Il confronto con l’evento doloroso, ingiusto, è l’ostacolo che dev’essere incontrato affinché esso possa essere superato”; la mediazione viene intesa come un rito attraverso cui accettare la sofferenza e produrre il cambiamento che questa esige. L’autrice si richiama al pensiero della Grecia classica che attraverso la tragedia offriva una forma rituale di espressione alla sofferenza permettendole di diventare patrimonio dell’intera comunità. Sul punto si veda anche L. Faconnet, L’avenir de la médiation pénale?, In R. Cario, La Médiation pénale, cit., p. 157.

 

[51] “These beliefs and values are not subject to empirical testing. They derive from a variety of sources and are shared across a range of cultures”, così M. Umbreit, The Handbook of Victim Offender Mediation, cit., p.4.

 

[52] B. de Sousa Santos, Stato e diritto nella transizione post-moderna. Per un nuovo senso comune giuridico, in Sociologia del diritto,n.3 1990, pp.5-34, la citazione è a p.17.

 

[53] “ I meccanismi informali tendono a formalizzarsi; il senso comune giuridico che serve loro di supporto tende a professionalizzarsi attraverso azioni di formazione dei mediatori e di molte altre forme, le parti, che detengono la titolarità della rappresentanza dei loro interessi, vanno a poco a poco affidando tale rappresentanza ad altri, con maggiore esperienza e più ampia conoscenza dei modi di funzionamento del tribunale. Con questi e altri processi, la giustizia informale riproduce, se non le forme, quanto meno la logica delle forme della giustizia formale. Insomma, anziché dicotomia, duplicazione”, ivi, p.21. si veda inoltre, dello stesso autore, Law and Community: the Changing Nature of State Power in Late Capitalism, in R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, New York, Academic Press, 1982, vol. I.

 

[54] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna : rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1979.

 

[55] La relazione tra concezione lineare del tempo e progresso dell’umanità che ha segnato l’età moderna viene scardinata attraverso il concetto di postmodernità. Questa viene intesa come il superamento di un insieme di rappresentazioni e  di credenze ottenuto sviluppando fino in fondo le premesse della modernità. Non si tratta quindi di annunciare un nuovo inizio, ma piuttosto di considerare l’inadeguatezza delle premesse di una stagione dell’umanità, decretandone la fine. Come chiarisce Bauman: “post non nel senso cronologico, non nel senso di una rimozione e ricollocazione della modernità, di un inizio che può coincidere solo con la fine o il dissolversi della modernità, di un ritorno impossibile dal punto di vista moderno), ma in quanto implica che gli sforzi assiduamente compiuti dalla modernità sono stati fuorviati, compiuti su pretese infondate e destinati, presto o tardi, a seguire il loro corso” , Le sfide dell’etica, cit., p. 16.

 

[56] Col termine antico non si vuole indicare un criterio cronologico, ma un orizzonte di idee e principi che si presentano alternativi e per alcuni versi opposti a quelli presenti nel paradigma del moderno. Cfr. L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981, p. 242 ss.

 

[57]Sulla distinzione tra il concetto dell’io nell’età moderna e l’io nella società eroica Cfr. A. Mac Intyre, Dopo la virtù, Milano, Feltrinelli, 1988, p.148 ss. ; Cfr. inoltre L. Dumont, Saggi sull’individualismo, Milano, Adelphi, 1993.

 

[58] S. Castelli, op. cit., p.2.

 

[59] Come rileva P. Barcellona, nell’età contemporanea “La libertà stessa (…) rimanda sempre più all’idea di potere, inteso come possibilità di stare nel mondo e gestirlo, potenza pratica di partecipazione autoaffermazione.”, Il declino dello stato, Bari, Ed. Dedalo, 1998, p.214.

 

[60] B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1945, p. 126.

 

[61] La responsabilità che si traduce in un giudizio sulle azioni viene definita retrospective responsibility, a differenza di quella implicata dalla mediazione – che mostra significative affinità con la responsabilità per ruolo – definita prospective responsibility; così M.S. Moore, Law and Psychiatry. Rethinking the Relationship, Cambridge, Cambridge Un. Press, 1984, p. 50. Sul concetto di responsabilità giuridica cfr. H.L.A. Hart, Responsabilità e pena, Milano, Ed. Comunità, 1981; si veda inoltre, per una  distinzione tra responsabilità giuridica, morale e politica, U. Scarpelli, Riflessioni sulla responsabilità politica, in La responsabilità politica. Diritto e tempo, a cura di R. Orecchia, Milano, Giuffrè, 1982.

 

[62] Cfr. sul punto G. De Leo, Psicologia della responsabilità, Roma-Bari, Laterza, 1996, p4 ss.

 

[63] Cfr.T. Pitch, Responsabilità limitate, Milano, Feltrinelli, 1990.

 

[64] Delegittimare o “mettere tra parentesi” gli impulsi e i sentimenti morali per poi cercare di riedificare l’edificio dell’etica a partire da ragionamenti accuratamente mondati dalle sfumature emotive e sciolti da ogni legame con l’intimità umana  non manipolata, equivale a dire (…) che se noi solo potessimo levar di mezzo i muri, vedremmo meglio che cosa regge il soffitto.”,così Z. Bauman, Le sfide dell’etica, cit., p.41.

 

[65] Sulla rimozione della sfera emozionale degli individui dall’ambito della conoscenza operata dal filone vincente del pensiero moderno cfr. H.E. Richter, Pensieri di potenza e nuova etica, in Nuova civiltà delle macchine, 1992 n.1, pp.26-31.

 

[66] P. Barcellona, che dedica una lunga riflessione a questo inesorabile lavoro di esproprio operato dal pensiero razionalista, così conclude: “A partire dal formalismo del cogito, dunque, tutta l’esperienza moderna può essere letta come un immane tentativo di nullificare le pulsioni libidico-affettive, le differenze fra gli individui, la cultura e le forme di vita, e contestualmente di negare il “rapporto di filiazione” e la catena delle generazioni”, Il declino dello stato, cit., p.295.

 

[67] Sulle dicotomie della modernità B. De Sousa Santos,  Stato e diritto nella transizione post-moderna. per un nuovo senso comune giuridico, cit.

 

[68] Il brano è riportato da L. Dumont, Saggi sull’individualismo, cit., p.284.

 

[69] Z. Bauman, op. cit., p. 39.

 

[70] L’espressione è di M. Serres, Le tiers-instruit, Paris, Ed. Bourin, 1991, cit. In S. Castelli, La mediazione, cit., p. 95.

 

[71] Cfr. A. Pigliaru, che ha analizzato il sistema etico della comunità barbaricina, ricostruendo regole di vita comune, usanze e tradizioni, giungendo a concludere che l’insieme delle consuetudini barbaricine può essere definito come un ordinamento giuridico, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, in Id. Il banditismo in Sardegna, Milano, Giuffré, 1975.

 

[72] La regione geografica centro-orientale della Sardegna che, grazie alla sua posizione e ai suoi abitanti, ha conservato  e custodisce gelosamente numerose e antiche  tradizioni scomparse dal resto dell’isola; come la definisce Pigliaru: “la “zona” geografica e morale delle ultime resistenze autoctone alle varie invasioni e dominazioni della storia sarda, e per questo i suoi costumi sono tra quelli più caratteristici della Sardegna, i suoi dialetti più fedeli all’origine neolatina, la sua “cultura” popolare  la più organica e quella altresì elaborata su basi più autonome”, op. cit., p. 7 nota 1.

 

[73] Cfr. M. Douglas, che cita il caso degli Sherpa del Nepal, “nei cui villaggi ogni membro sollecita deliberatamente gli altri affinchè risolvano pacificamente i loro dissidi. Essi cercano di ridurre la loro rivalità. Possono contare su procedure di riconciliazione forti, informali. Se queste falliscono, uno dei litiganti lascerà il villaggio”. In questo caso il rifiuto della pacificazione secondo le regole della comunità implica l’autoesclusione dalla stessa. Douglas nota che manca del tutto il meccanismo di attribuzione della colpa, tipico della struttura sociale occidentale, Rischio e pericolo, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 34

 

[74] Occore precisare che L. Parkinson si riferisce espressamente alla mediazione familiare, ma ritengo che l’esigenza sia estendibile ad ogni tipo di mediazione, Separazione, divorzio e mediazione familiare, cit., p.93.

 

[75] Si veda il lavoro di D. Antonucci, a cui rinvio per la bibliografia sull’argomento, Mediazione e intervento psicologico, in La sfida della mediazione, cit.

 

[76] M. Umbreit, ad esempio, delineando i caratteri del modello di mediazione umanistica si richiama alla teoria, elaborata da Virginia Satir nel contesto della terapia familiare, che sottolinea la  ‘presenza’ del terapista, necessaria per instaurare una autentica relazione umana: “Although Satir developed her concepts of making contact and congruence in the context of family therapy, her material is relevant to a humanistic model of mediation.”, The Handbook of Victim Offender Mediation, cit., p. 12.

 

[77] “Ma nessun mediatore che miri a risultare attendibile, neppure nei suoi momenti peggiori si sognerebbe di mirare a modificare la personalità dei propri clienti”, La mediazione, cit., p.21, le citazioni successive sono alla p.23.

 

[78] Lo spirito della mediazione, cit., p. 57.

 

[79] Cfr. il breve saggio autobiografico di C. Musatti, Uno psicoanalista fuori dalle regole, Bari-Roma, Laterza 1997, in cui egli descrive il suo difficile percorso formativo in una disciplina che era ancora agli inizi, e che è tutt’oggi in via di definizione, soprattutto in riferimento alla formazione professionale degli psicoterapeuti, il cui albo, in Italia, è di recente istituzione. Per una preliminare definizione e differenziazione delle psicoterapie, rivolta ai non addetti ai lavori, si veda A. Vitolo, Le psicoterapie, Milano, Il Saggiatore-Flammarion, 1997.

 

[80] D. Antonucci, Mediazione e intervento psicologico, cit., p.59.

 

[81] Cfr. M. Umbreit, Handbook of Victim Offender Mediation, cit., p.48 ss.

 

[82] J. M. Haynes e I. Buzzi, Introduzione alla mediazione familiare, cit., p.323.

 

[83] Cfr. A. Ceretti, Progetto per un Ufficio di Mediazione Penale presso il Tribunale per i Minorenni di Milano,in La sfida della mediazione, cit.

 

[84] Le temps des médiateurs, cit., p. 207 ss.

 

[85] S. Castelli, La mediazione, cit., p. 89.

 

[86] Cfr. J. F. Six, op. cit., p 179 ss.