N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi
mediazione: oltre l’antico e il moderno
Università di Sassari
«Un mois de mai viendra peut-être où, dans un
grand éclat de rire, la paix étant enfin dans les cœurs, les hommes se
demanderont : comment ai-je pu avoir si peur? Pour une chose si
mesquine ? et ils auront un peu honte des leurs contentieux ridicules»
(Vladimir Jankélévitch, Le Je-ne
sais-quoi et le Presque-rien)
Sommario: 1. Definire la mediazione. – 1.1. Mediazione e mediazioni. – 1.2. Mediazioni e conflitti. – 2. Mediazione e postmodernità. – 2.1. Il diritto ‘debole’. – 2.2. Oltre
l’antico e il moderno. – 2.3. Nuove responsabilità.
– 2.4. La grammatica dei sentimenti. – 3. Il mediatore figura postmoderna. – 3.1. Oltre la professione, oltre il ruolo …
Perché la mediazione suscita perplessità
e dubbi negli operatori del diritto e della giustizia?
Potremmo dire perché è uno strumento
nuovo che solo da un decennio o poco più si affaccia timidamente alle soglie
delle aule del diritto (almeno in Italia), possiamo anche aggiungere che si
tratta di una tecnica non disciplinata in alcun modo dal diritto che si occupa
tuttavia, almeno in parte, dei problemi tradizionalmente regolati da questo,
diremo invece che le maggiori riserve sollevate nei giuristi non riguardano né
la novità dello strumento, né la mancata disciplina giuridica della mediazione,
ma le idee guida che portano all’affermazione delle tecniche di mediazione
nella gestione della conflittualità sociale[1].
La prospettiva di una verità consensuale che si oppone alla verità processuale,
di una responsabilità che non sfocia nella pena ma nella progettualità e
condivisione delle scelte, l’assenza della figura giudicante, sostituita da una
priva di autorità e potere che guida le persone verso la soluzione del
conflitto, senza tuttavia imporne alcuna, richiama alla mente dei giuristi lo
spettro della giustizia privata e dell’oblio di quelle garanzie su cui abbiamo
edificato la nostra civiltà giuridica. In effetti, la mediazione, accanto al
versante luminoso della valorizzazione della persona e delle sue risorse e
potenzialità, ha anche una zona d’ombra in cui si annida il pericolo di forme
paternalistiche di controllo sociale, esercitate senza le tutele e le
responsabilità che la giustizia formale offre.
Perciò è utile riflettere attentamente
sulla proposta avanzata dalla mediazione e sulle imprescindibili risorse del
diritto, tenendo presente tuttavia che ciascuno di essi sembra rispondere a
bisogni ed esigenze fondamentali della collettività: la mediazione realizza,
nella pluralità di forme ed estensione, il fine che il diritto nella sua
generalità sembra negare al singolo, recuperare quegli spazi decisionali che
un’organizzazione sociale sempre più invasiva e giuridificata via via gli ha
sottratto. Il diritto conserva la possibilità per ciascuno di tutele e garanzie
che finora nessun sistema di regolazione sociale è riuscito a proporre con più
efficacia e equilibrio. Si tratta dunque di approntare una strategia di
compatibilità tra mediazione e diritto delimitando spazi e competenze, tenendo
ferme le garanzie e le tutele giuridiche grazie alle quali ci possiamo
‘permettere il lusso della mediazione’, riducendo tuttavia quella
colonizzazione dei mondi vitali che il diritto ha da tempo inaugurato.
Opporre la mediazione al diritto
significa infatti ricadere nella logica conflittuale della quale stiamo
tentando di liberarci; forse è utile considerarli come strumenti differenti -
più che alternativi – che s’inseriscono a stadi e livelli diversi nella trama
della conflittualità. Diciamo quindi che la mediazione non nasce e si definisce
a contrario, rispetto al diritto e alle istituzioni del Welfare inadempiente,
ma ha una sua precisa collocazione in quel confine che Carbonnier chiama
non-diritto[2],
che le assegna compiti e funzioni che inutilmente potremmo cercare tra le
maglie del nostro ordinamento. Anche se ottiene risultati che realisticamente
sono assimilabili e sovrapponibili a quelli del diritto, sia civile che penale,
svolge una funzione diversa: ricostruire un tessuto sociale, ricucire la rete sfilacciata delle relazioni
urbane e riaprire canali di comunicazione interrotti. Caricarla di significati
e compiti propri del diritto può risultare un’operazione politicamente
sbagliata e giuridicamente pericolosa.
Per capire quale sia la natura e la funzione
della mediazione dobbiamo guardare oltre l’orizzonte del diritto, alla crisi
delle modalità di regolazione sociale delle quali il diritto, insieme ad altri
strumenti, quali etica e politica, fa parte. Le pagine che seguono rispondono
all’esigenza di definire la mediazione ampliando progressivamente il campo
d’indagine: da quello più tecnico, che la contrappone al diritto, a quello più
generale che ne delinea il contesto, la cornice di forme e principi da cui trae
significato.
Adesso cominciamo dall’inizio, con un
tentativo di definizione.
Nella ormai cospicua letteratura sulla
mediazione si è discusso a lungo della sua definizione e delle difficoltà a
questa legate. Rigorosità e univocità sono infatti caratteri che mal si
adattano alla mediazione e alla fluidità delle sue pratiche, per questo ne
proponiamo una definizione a più voci.
Piuttosto che ridurla ai suoi elementi
essenziali, che indichino la struttura necessaria di ogni possibile mediazione,
ricorreremo al criterio opposto, quello della complessità, considerando i tanti
aspetti che le mediazioni presentano e che non ogni mediazione contiene.
Il panorama delle teorie sulla mediazione è, in questo senso, molto
fecondo. Si va infatti dalle teorie moniste, che sostengono con forza l’idea di
una sola mediazione che si declina in tante forme, alle teorie pluraliste, che
rifiutano l’operazione mistificatoria di una natura singolare della mediazione.
Vi sono poi le teorie conflittualiste, che si basano sul conflitto, considerato
come presupposto necessario per avviare un percorso di mediazione, e quelle più
armoniciste che sostengono che la mediazione può e deve essere definita come
una modalità autonoma che ripristina la comunicazione indipendentemente dal
conflitto; vi sono ancora quelle che sostengono che con la mediazione le
persone intraprendono un percorso esistenziale di cambiamento e quelle che
invece si fermano rigorosamente alla considerazione degli interessi traducibili
nel linguaggio dei diritti. Ne considereremo solo alcune, aggiungendo che non
si tratta di scegliere una definizione piuttosto che un’altra, né di cercare
quella ‘vera’, ma di riuscire a ricostruirne la complessità attraverso un
confronto.
La prima differenza da considerare è quella tra
concezioni moniste e pluraliste.
Vi è infatti chi ritiene che non si possa
parlare della mediazione come di una modalità unica che mantiene la sua
specificità nonostante venga applicata a campi radicalmente differenti [3].
Pisapia al riguardo sostiene che sia più corretto parlare di mediazioni
piuttosto che di mediazione, spiegando che non si tratta soltanto di una
pluralità di tecniche che si diversificano in base agli ambiti, ma che “la
maggior parte delle forme di mediazione sono eterogenee le une alle altre per ambiti,
oggetti, finalità, obiettivi e modalità operative”; se quindi può essere utile
da un punto di vista semantico parlare di mediazione familiare, di lavoro,
sociale, penale etc, tuttavia ciò è “fuorviante sul piano dei contenuti”[4]
Ciò che caratterizza la mediazione, dice
Pisapia, sono piuttosto il suo oggetto e le sue finalità che, ad esempio,
risultano radicalmente diverse nella mediazione scolastica e in quella
familiare.
In realtà sembra sia proprio il fine della
mediazione l’elemento accomunante tutte le sue pratiche; per Castelli questa
possiede “una propria irriducibile caratterizzazione, indipendentemente dai
soggetti coinvolti e dal campo entro cui venga applicata”[5];
le diverse forme della mediazione, invocate come prova del suo pluralismo, rappresentano
all’opposto la ricchezza di uno strumento caratterizzato da un unico fine:
“favorire la trasformazione delle reti delle relazioni sociali nella maniera
meno traumatica possibile”[6].
Le rilevanti differenze esistenti tra le sue forme sono giustificate dai
diversi ambiti di applicazione, che impongono tecniche differenti di
intervento.
Anche Fisher e Ury, promotori dello Harvard’s
Program on Negotiation e forse i maggiori divulgatori della mediazione negli
Stati Uniti, sostengono che “ogni mediazione è differente, ma gli elementi di
base non cambiano” [7].
Il problema riguarda piuttosto il ruolo del
mediatore. Come fa notare Castelli non esistono
“mediatori per tutte le stagioni”[8],
chi si occupa di mediazione in ambito familiare deve avere una preparazione
tecnica adeguata radicalmente diversa da chi ad esempio lavora nell’ambito
della mediazione sociale. Viene in mente il paragone con il ruolo
dell’avvocato: sebbene la figura sia unica nel ruolo e nelle funzioni non
possiamo pretendere che un bravo tributarista sia capace di portare avanti una
causa di separazione legale altrettanto bene quanto farebbe un esperto
familiarista, anche se non pensiamo di mettere in dubbio che entrambi si
occupino di diritto civile.
Tornando alle diverse posizioni presenti nel
dibattito sulla natura singolare o plurale della mediazione, è utile la
distinzione tracciata da Bonafé-Schmitt tra attività di mediazione e istanze di
mediazione[9].
Le prime vedono la mediazione come una tecnica
di gestione dei conflitti che può essere (e di fatto viene) utilizzata in via
accessoria da una pluralità di figure professionali che si occupano a diverso
titolo del conflitto. Nel campo penale si può dire che polizia, magistrati e
avvocati svolgono spesso attività di mediazione, senza tuttavia fare delle vere
e proprie mediazioni. In questo caso le diverse attività hanno un significato
differente dato dal contesto, dalla finalità e soprattutto dal ruolo di chi le
svolge. E’ proprio la sovrapposizione dei ruoli che, generando confusione, annulla,
come sottolinea Bonafé, “le specificità e le identità professionali”[10].
La chiara delimitazione dei ruoli è necessaria per definire sia i compiti di
prevenzione della polizia che quelli di giudizio dei magistrati, così come
quelli di assistenza degli avvocati, al fine di distinguerli nettamente da
quelli del mediatore la cui indipendenza e preparazione specifica implicano
diversi percorsi formativi. Perciò polizia, magistrati e avvocati potranno
ricorrere alle tecniche di mediazione e assolvere il loro compito con uno
spirito di mediazione, senza che alcuno di essi possa essere per questo
definito un mediatore.
È proprio questa la condizione che distingue le
mere attività dalle istanze di mediazione: queste definiscono una modalità
autonoma di regolazione dei conflitti, che trova la sua specificità nella
figura professionale del mediatore: “sono la qualità e la natura
dell’intervento della terza persona a consentire di distinguere l’attività di
mediazione dalle istanze di mediazione”[11].
Se quindi è possibile considerare una pluralità di attività di mediazione, che
si svolgono in ambiti e con finalità differenti è altrettanto possibile parlare
delle istanze che identificano la mediazione come una unica e specifica
modalità di regolazione dei conflitti.
La conseguente definizione di Bonafé è che la
mediazione è ”un processo, il più delle volte formale, attraverso il quale una
terza persona neutrale tenta, attraverso l’organizzazione degli scambi tra le
parti, di permettere a esse di confrontare i propri punti di vista e di cercare
con il suo aiuto una soluzione al conflitto che li oppone”[12]
.
Il garante della libertà del processo di mediazione - e quindi
della sua concreta possibilità - è unicamente il mediatore, che racchiude nella
imparzialità e ‘incapacità decisionale’ il suo vero potere. Non a caso l’ultima
frontiera di studi sulla mediazione affronta lo spinoso tema della preparazione
e della caratterizzazione professionale dei mediatori.
Anche Pisapia accentua il ruolo del mediatore dicendo che la
terzietà è l’unico elemento comune alle differenti pratiche di mediazione,
tutte caratterizzate da una logica “ternaria, nella struttura e nei risultati”.[13]
Se infatti la struttura ternaria del giudizio è comune sia alla mediazione sia
alla giurisdizione, è proprio il carattere ternario del risultato che scardina
la logica binaria del processo, riuscendo a contenere e superare le
contrapposizioni. La prima condizione perché vi sia mediazione, dice Six, è
proprio la presenza del terzo, in tal senso la parola mediazione è estremamente
rigorosa, perché indica ciò che sta nel mezzo: il mediatore rappresenta la
condizione del superamento delle reciproche posizioni[14].
Il risultato, che è frutto del complesso
sistema di relazioni innescato dalla mediazione, non è dunque riconducibile
esclusivamente alla somma degli interessi delle parti, né a maggior ragione a
quelli della parte più forte e convincente, ma al cambiamento nella modalità di
comunicazione favorito dal mediatore. Autorità e potere, che nell’accezione
decisionista del termine gli sono estranei, gli derivano proprio dalla libera
scelta delle persone che decidono di ricorrere a lui, conferendogli e
riconoscendogli questo ruolo. È un riconoscimento che si rinnova a ogni
mediazione e che può venir meno, come ben sa ogni mediatore esperto, in
qualsiasi momento del processo.
È questo l’elemento che accentua Castelli
quando definisce la mediazione “come un processo attraverso il quale due o più
parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli
effetti indesiderabili di un grave conflitto”, sono le parti a decidere di
ricorrere alla mediazione e sono le parti che, aiutate dal mediatore, portano
avanti il processo.
Obiettivo della mediazione non è risolvere un conflitto, giungere
necessariamente ad una soluzione,[15]
ma aiutare le persone a uscire da una condizione di blocco, dal vicolo cieco a
cui sovente conduce un conflitto distruttivo: “La mediazione mira a ristabilire
il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione
di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile
soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una
volta che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio
e di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità
decisionale” [16].
La mediazione rappresenta quindi uno strumento indispensabile per
ricostruire la trama delle relazioni sociali, tanto da poter essere definita, insieme
al conflitto, come una loro modalità costitutiva , prima ancora che una tecnica
risolutiva dei conflitti.
Quella tra mediazione e conflitto sembra essere
una relazione necessaria: la maggior parte dei teorici sostiene che all’origine
di un processo di mediazione vi sia sempre un conflitto, generalmente espresso
in uno scontro di pretese; l’intero
discorso sulla mediazione viene così a svolgersi nell’ambito del fenomeno della
conflittualità, e dei suoi possibili effetti distruttivi [17].
Ma non tutti sono d’accordo nell’assegnare
questo ruolo determinante al conflitto. Jean-François Six sostiene infatti che
esistono quattro tipi di mediazione, e tra questi solo due – la mediazione
preventiva e quella curativa - sono destinati ad evitare lo scoppio di un
conflitto o la sua degenerazione. Le altre due forme, definite come mediazione
creatrice e rinnovatrice, hanno il fine di suscitare tra persone o gruppi
legami che prima non esistevano o di migliorare quelli già esistenti ma
deteriorati o divenuti indifferenti.[18]
La natura relazionale della mediazione e la sua finalità, che consiste
esclusivamente nello stabilire una comunicazione tra due o più persone, vengono
sostenute anche da Guillaume-Hofnung che, seguendo l’impostazione di Six,
ribadisce la natura autonoma della mediazione rispetto al conflitto: sarebbe
estremamente riduttivo, dice, considerare la mediazione come una tecnica di
gestione dei conflitti, il conflitto non fa parte della definizione globale
della mediazione, sebbene quest’ultima possa contribuire alla soluzione o
gestione dei conflitti [19].
Il legame accidentale che s’instaura tra
mediazione e conflitto, se da un lato libera la mediazione da una natura esclusivamente
tecnica e dal problema della definizione del conflitto e dei suoi caratteri,
dall’altro ci suggerisce un’idea eccessivamente invasiva della mediazione, che
dovrebbe affiancarci come strumento indispensabile nelle nostre relazioni
sociali. L’idea che si debba ricorrere al mediatore ogni volta che si vuole
allacciare o riannodare una relazione ci prospetta l’immagine di una
insopportabile burocratizzazione dei rapporti sociali che sembra contraddire il
vero scopo della mediazione stessa: porre le condizioni per la propria
inutilità nel prossimo futuro.
Sembra allora più ragionevole riportare la
mediazione nell’alveo del conflitto e dei problemi da questo generati. Tra le
concezioni che considerano il conflitto alla base di ogni processo di mediazione
si notano tuttavia importanti differenze, sia riguardo alla stessa nozione di
conflitto, sia di conseguenza ai compiti della mediazione.
Nel pensiero di Jacqueline Morineau il
conflitto è connotato da una forte componente psicologica, nasce dal nostro
modo di percepire la realtà e affrontare i cambiamenti : è nel passaggio
dall’ordine al disordine, dalla sicurezza confortante di una situazione nota
allo smarrimento e confusione generati da una nuova che si crea il conflitto[20]
. La violenza che sovente lo caratterizza nasce dalla sofferenza e dalla
solitudine di due persone che non riescono più a comunicare. La mediazione
rappresenta dunque il luogo in cui si accolgono il disordine e la violenza
generati dal conflitto, in cui si libera la sofferenza che questo
inevitabilmente porta con sé. Morineau la definisce come uno spazio protetto di
parola, un luogo in cui circolano le emozioni e si ripercorrono le tappe del
conflitto come quelle di un vissuto interiore[21].
Gli stessi mediatori rispondono a una forma di vocazione, spinti dal bisogno di
superare il proprio conflitto interiore per poter incontrare il conflitto degli
altri.
Il ruolo che viene assegnato alle emozioni e ai
sentimenti delle persone ha un peso determinante nello svolgimento del processo
di mediazione, che assume così un aspetto di crescita interiore e di percorso
esistenziale offerto alle persone, il cui scontro rappresenta un’occasione per
affrontare sé stessi prima ancora degli avversari.
Castelli all’opposto interpreta il conflitto in
chiave sistemica da un punto di vista rigorosamente funzionale. Un utile
approccio al problema della mediazione sarebbe infatti quello che separa la
componente descrittiva e fattuale del conflitto da quella valutativa legata
alla degenerazione dei suoi effetti. Considerato nel suo aspetto
descrittivo-funzionale il conflitto esprime la necessità del cambiamento che
ogni sistema vivente affronta: per questa ragione si presenta biologicamente
necessario e fenomenicamente inevitabile. Visto nella sua veste funzionale, il
conflitto ha dunque un aspetto positivo: è il fenomeno che segnala l’esigenza o
la necessità di un cambiamento nella relazione fra le persone o i gruppi. La
mediazione ha l’obiettivo di ridurne gli effetti negativi e riabilitarne la
funzione: aiutare le parti a riconoscere la necessità del cambiamento e
approntare le strategie necessarie per raggiungerlo[22].
Proprio perché i conflitti nascono dalla
difficoltà delle persone di adeguarsi a un certo tipo di cambiamento, il
mediatore per Castelli dovrebbe essere un “tecnico della gestione del
mutamento” che aiuta le persone coinvolte ad uscire da una situazione di
blocco, senza tuttavia dar spazio alle emozioni, o farsene carico in alcun
modo. Egli dovrà tenere conto delle emozioni, ma al fine di “depotenziarle, di
tenerle fuori dalla mediazione in maniera tale da condurre le attività in un
clima quanto più possibile calmo e ragionevole”[23].
Mentre Morineau esplora l’aspetto soggettivo ed
emotivo del conflitto, considerando che ogni cambiamento deve partire dal
profondo perché possa rispondere a una scelta coerente e duratura, Castelli
opta per un approccio il più possibile controllato, considerando il conflitto
nella sua veste oggettiva e le persone coinvolte come capaci di scelte
razionali, ponderate e meditate.[24]
Un'altra interpretazione ancora del conflitto
viene dalla scuola di Harvard e in particolare da Fisher e Ury
che, in una prospettiva utilitaristica, ricorrono al concetto di interesse
considerato come il criterio fondamentale per comporre una disputa[25].
Il conflitto è il problema che nasce dall’abitudine a contrattare per
posizioni, traducibili nel linguaggio del potere e dei diritti, piuttosto che
per interessi rispecchianti la vera volontà delle persone. Gli interessi sono
quei bisogni, desideri, preoccupazioni e paure che rimangono nascosti dietro le
pretese di vittoria delle parti, il cui mancato riconoscimento spesso conduce a
un risultato insoddisfacente, o al fallimento dell’accordo.[26]
Alla base della negotiation sta
l’idea che in un gran numero di casi le persone entrano in conflitto perché
usano un linguaggio sbagliato, quello del potere conferito loro dal diritto o
dal denaro, che impedisce una reale comunicazione. La comunicazione personale
deve avvenire separando le persone dai problemi oggetto del contendere e
focalizzando l’attenzione sugli interessi, al fine di giungere a un accordo
soddisfacente e duraturo[27].
Le posizioni considerate presentano caratteri
comuni, ma anche importanti differenze nel ruolo che assegnano al mediatore
nella ripresa della comunicazione tra le parti e alla mediazione nel contesto
sociale e istituzionale.
Il modello tratteggiato da Morineau privilegia
la componente umanistica che la mediazione deve avere, volta alla pacificazione
degli animi prima che al tessuto sociale[28].
Castelli assegna invece alla mediazione un ruolo essenziale come elemento che
può concorrere alla stabilità del sistema sociale, aiutando le persone ad
accettare i cambiamenti, anche traumatici, che fanno parte della vita, e
garantendo un sistema di relazioni. Per questa via la mediazione assume un
ruolo determinante nella ricostruzione del tessuto sociale offrendo un luogo di
confronto e di possibile consenso[29].
Il modello utilitaristico elaborato dalla scuola di Harvard privilegia infine
l’aspetto pragmatico ed economico della mediazione, concentrandosi sui concetti
di interesse e costo, ampliati fino a ricomprendere oltre al tempo e al denaro,
anche le energie emotive, i desideri e le opportunità [30].
Sebbene tutti gli autori presi in considerazione
sostengano delle teorie moniste in cui la mediazione mantiene inalterati i
principali caratteri nonostante venga utilizzata in ambiti molto diversi,
sembra che alcune di esse si adeguino, meglio di altre, a determinate tipologie
di conflitto. Quella di Harvard ad esempio sembra più adeguata alla gestione di
conflitti in materia di lavoro e in ambito contrattuale, mentre il modello
umanistico e sistemico sembrano adattarsi meglio all’ambito dei rapporti
familiari e del diritto penale.
La varietà e il pluralismo della mediazione,
che questi tre esempi teorici ci fanno intravedere, ne costituiscono il punto
di forza e il principale elemento di differenziazione rispetto al sistema di
aggiudicazione giuridica. L’idea, profondamente radicata nell’ideologia giuridica
e sociale, dell’omogeneità e dell’unicità del diritto induce a diffidare
dell’affidabilità e della legittimità di ogni altro strumento alternativo. Il
fatto che siano possibili metodologie diverse, tutte egualmente legittime,
conduce alla conclusione che siano prospettabili tante soluzioni differenti, ma
egualmente accettabili e ‘probabilmente giuste’ di un conflitto.
Ma allora, quante possibili concezioni del
giusto possiamo elaborare per un unico conflitto? O dobbiamo invece rinunciare,
come abbiamo visto, a parlare di giustizia nelle stanze della mediazione?
Questo interrogativo ci introduce nel contesto culturale della mediazione, in
quella cornice di idee e principi da cui questa trae origine e identità.
Se infatti, possiamo definire la mediazione
come il risultato dell’incontro tra due o più persone che, con l’aiuto di un
terzo imparziale, intendono cercare e trovare insieme la soluzione al conflitto
che le divide, ci rendiamo conto che questa definizione è insufficiente a
spiegare quell’insieme di problemi e interrogativi che ne accompagnano il
dibattito.
L’idea, che la mediazione sembra implicitamente
sostenere, che siano possibili e legittime concezioni plurali del ‘giusto’,
così come del ‘bene’, va contro uno dei principali cardini del paradigma
giuridico della modernità: il principio dell’universalità della giustizia,
monopolio di uno stato che ha formalizzato e unificato le giustizie dell’età
premoderna facendole confluire in un modello unico[31].
Se risponde al progetto politico della
modernità il controllo dell’amministrazione di una giustizia che dirime i
conflitti e impone l’ordine stabilito dall’autorità sovrana, l’idea della
vigenza di un insieme di principi giusti e riconoscibili universalmente, sui quali
devono fondarsi i sistemi di diritto, soggiace alla concezione giusnaturalista
che domina il panorama dell’età moderna. Compito della ragione umana è
riconoscere i contenuti della giustizia e fare in modo che siano concretamente
realizzati dal diritto.
La possibilità di conferire più significati,
tanti quanti siano correttamente argomentabili, al termine giustizia, è
estranea al progetto politico della modernità, perché elemento disgregante che
oppone tanti ordini possibili all’unico ordine dello stato sovrano, ma è
estranea anche al suo progetto filosofico che fonda sull’idea universale di
ragione umana, eletta a criterio ordinante del mondo, i principi della
convivenza. Leggiamo l’art. 1 del titolo preliminare al Code Napoleon, composto
da Portalis, il grande giurista che contribuì in modo decisivo alla fortuna del
codice: “ Il existe un droit universel et immuable, sources de tous les lois
positives; il n’est que la raison naturelle en tant qu’elle gouverne tous les
hommes”[32].
Universalità e fondamento sono le due condizioni di cui i moderni legislatori e
filosofi vanno alla ricerca per stabilire regole e norme, morali e giuridiche,
che garantiscano una convivenza ordinata e priva di conflitti. Anzi, è proprio
la rimozione teorica dei conflitti la premessa da cui muovono le moderne teorie
politiche che contrappongono a uno stato di natura governato da un conflitto
potenzialmente distruttivo e senza regole, come nel caso di Hobbes[33],
o dotato di regole, ma non di un organo che possa applicarle e dirimere le
controversie, come in Locke[34],
uno stato civile in cui l’ordine è garantito dal legislatore e sovrano.
Dal luogo e dal tempo in cui guardiamo a queste
concezioni, la situazione sembra addirittura essersi ribaltata: il diritto,
piuttosto che dirimere i conflitti e contribuire a costruire un ordine sociale,
sembra rappresentare un elemento disgregante, fattore di conflittualità. Come
scrive Alfonso Catania: “sembra evidente che nella realtà tardo-moderna si
diffonda sempre più una situazione di poliarchia, di disseminazione delle
pratiche ordinative, di policentrismo di fonti del diritto, (…). Ne consegue
l’incrocio delle tensioni e dei progetti, degli orientamenti: una potente
controfinalità rispetto all’originario orientamento all’ordine, per cui piuttosto
che controllare e uniformare i comportamenti si amplifica la possibilità di
conflitti indecidibili, di condotte centrifughe e disgreganti, suffragate e
supportate dall’uso del diritto stesso (…) da parte dei consociati, individui o
gruppi.”[35].
Com’è stato possibile che il diritto, concepito
come lo strumento che ‘cura’ e appiana i conflitti, sia divenuto esso stesso
fattore che accentua e talvolta fomenta il fenomeno della conflittualità? Porre
l’accento sull’uso che si fa del diritto, capace di produrre effetti
ambivalenti, talvolta addirittura opposti ai fini per cui è stato progettato,
prodotto e posto, richiama l’idea di un diritto pericolosamente ridotto a mera
tecnica, ad una forma che sempre con maggiore difficoltà riesce ad aprirsi alla
dimensione dei valori. La problematizzazione del fondamento – che la norma
fondamentale di Kelsen ha mostrato come necessario e allo stesso tempo
impossibile- e dell’universalità – ricondotta alla dimensione della positività
con le dichiarazioni dei diritti- ha aperto la via a un diritto senza
illusioni, o meglio, a un diritto che ha perso le illusioni che ne avevano
accompagnato il nascere nell’età moderna: la possibilità di costruire un ordine
universale e di governare la complessità sociale senza esserne soggiogato. Come
scrive Bauman tentando di definire la categoria fluida della postmodernità: “Le
illusioni di cui si parla si riducono alla credenza che il “caos” che
caratterizza il mondo umano sia solo una condizione temporanea e modificabile,
che verrà prima o poi rimpiazzata dal dominio ordinato e sistematico della
ragione. La “verità” è che il “caos” rimarrà nonostante tutto ciò che potremo
fare o sapere, e che i modesti ordini e “sistemi” che foggiamo nel mondo sono
fragili, effimeri, e altrettanto arbitrari, e alla fine casuali, delle loro
alternative”[36].
Accettare il disordine come elemento che caratterizza la convivenza umana,
ridimensionare il ruolo del diritto riducendone l’inutile invasività – per
esempio nell’ambito familiare - significa pensare un nuovo concetto di ordine,
basato sulla negoziazione e sul consenso, sui reali bisogni sociali e
individuali, più che sugli astratti disegni politici. L’ormai celebre immagine
della mitezza del diritto, evocata da Zagrebelsky, si riferisce alla
necessità che più valori e modelli
sociali possano coesistere: “La visione della politica che è sottintesa non è
quella del rapporto di esclusione e sopraffazione (nel senso dell’amico-nemico
hobbesiano e schmittiano) ma quella inclusiva dell’integrazione attraverso
l’intreccio di valori e procedure comunicative, che è poi l’unica visione della
politica non catastrofica possibile del nostro tempo.”[37]
Assistiamo infatti a un mutamento del paesaggio
giuridico, in cui i solidi pilastri concettuali ereditati dall’illuminismo sono
stati sostituiti dai fondali mobili della postmodernità; se vi è chi, come
Luigi Ferrajoli, sostiene che un simile cambiamento s’inquadra nella naturale
evoluzione del giuspositivismo moderno che porta a compimento le sue premesse[38],
vi è anche chi afferma che il mutamento indica piuttosto una cesura, un
rovesciamento delle premesse su cui si è costruito il moderno progetto di
sovranità degli stati.
Maria Rosaria Ferrarese sostiene infatti che
alla crisi del diritto, inteso come sistema nazionale di legislazione e di
giurisdizione, corrisponde una prepotente affermazione dei diritti, intesi come
“rights delle persone, ossia come dotazioni di carattere pre-politico o
a-politico, in grado di resistere ai meccanismi maggioritari”[39].
La rinata vitalità dei diritti, che è indice di un grande cambiamento nell’area
della giuridicità, è segnalata da alcuni fenomeni concettuali.
Il primo riguarda il contesto di nascita e di
affermazione-riconoscimento dei diritti: si è passati da un piano nazionale ad
uno transnazionale di rilevanza dei diritti. Non più e non solo patrimonio
dello stato-nazione, questi sono entità che valicano i confini della
territorialità per designare uno spazio di comunicazione e confronto globale
favorito dalla estensione del mercato[40].
Da una concezione statica, legata alla territorialità, ci si avvia verso l’idea
di mobilità dei diritti, intesi come utensili personali, di cui il soggetto
postmoderno, figura nomade e itinerante, per scelta o per necessità, si può
servire ovunque vada[41].
Il secondo cambiamento di prospettiva, già
segnalato a suo tempo da Norberto Bobbio[42],
consiste nell’accentuare l’aspetto promozionale e attivo dei diritti, contro
quello, finora prevalente, normativo e sanzionatorio: l’arretrare del concetto
di autorità conseguente alla crisi della sovranità statale spinge infatti a
rileggere il significato di termini come dovere, obbligo, responsabilità e pena
per iscriverli in un paradigma consensuale dei rapporti politici e
istituzionali.
Allontanati da un’ottica strettamente
giuspositivista e statalista, i ‘diritti’ intrattengono col ‘diritto’ una
relazione ambigua: da un lato hanno bisogno di tutela e riconoscimenti,
dall’altro vantano un’esistenza che prescinde da questi. Questa separazione tra
la legge, concepita come regola del legislatore, e i diritti, intesi come
pretese soggettive e da questa indipendenti, evidenzia una tensione tra due
poli dell’esperienza giuridica, che fino ad alcuni decenni fa vivevano in
un’indiscussa unità; la crisi della sovranità statale e delle sue attribuzioni
ha scomposto l’immagine monolitica del diritto dello stato, ormai separato dai
diritti della persona[43].Da
qui deriva il loro vivere “sospesi tra la dimensione giuridica e quella etica.
Non a caso, nota Ferrarese, solo per i diritti si pone la questione della
“positivizzazione”, che non ha nessun senso riferita alla legge: la legge o è
“positiva” o non è.”.[44]
Il terzo fenomeno che segnala il mutamento di
paradigma della giuridicità è la forte impronta soggettivista che i diritti
vanno assumendo, sempre meno prodotti della legislazione statale e sempre più
pertinenze dei soggetti; se infatti la categoria dei diritti è un’invenzione
giusnaturalista che costruisce intorno all’individuo una zona di sicurezza e libertà,
questi diritti trovano la loro giustificazione nella costruzione dello stato,
organismo di legittimazione politica e orizzonte concettuale delle prerogative
individuali. Venendo a mancare la dimensione nazionale come costitutiva dei
diritti, anche la loro soggettività cambia radicalmente, individualizzandosi
sempre più; è per questa ragione che i confini tra diritti e interessi
individuali sembrano diventare sempre più labili.
Alla proliferazione di diritti, provenienti da
fonti diverse e con una gerarchia tutta da costruire[45],
non corrisponde tuttavia una loro maggiore certezza ed esigibilità. Il
paesaggio mobile dei diritti contemporanei non si identifica dunque con un
catalogo chiaro e definito una volta per tutte, ma genera continui cambiamenti
e aggiustamenti che si traducono in una serie di domande antagoniste, di
conflitti, derivati dall’affermazione di identità e culture plurali. Il
naturale sbocco di questa conflittualità extra ordinem, è la giurisdizione,
anch’essa rivisitata in una prospettiva globalizzatrice. Se infatti la
giurisdizione ha rappresentato sempre un luogo privilegiato di incontro tra le
persone e il diritto, tra i ‘diritti’ e il ‘diritto’, alla proliferazione
incoerente dei diritti corrisponde in epoca contemporanea una corrispondente
proliferazione di organi, pubblici e privati, nazionali, e sovranazionali,
giudiziari e extragiudiziari che si fanno carico dei conflitti.[46]
È in questo contesto che la mediazione nasce e
trova i suoi significati. In tal senso possiamo dire che si tratta di
un’invenzione della società contemporanea[47],
sebbene la sua logica informale e triadica la avvicini ad altre pratiche di
gestione delle liti[48],
alternative al diritto, le cui tracce si rinvengono in numerose culture[49].
È infatti condivisa dai più l’idea che la mediazione sia uno strumento che
affonda le sue radici in una tradizione millenaria presente nelle nostre
società [50].
Anche l’antropologia ha messo in evidenza una sorta di logica trasversale
dell’informalismo che abbraccia le culture più diverse e eclissa l’idea che il
diritto giurisdizionale sia l’unico efficace strumento di gestione della
conflittualità sociale. Come sottolinea Mark Umbreit enunciando i principi
della mediazione umanistica, si tratta di credenze e valori condivisi da un
ampio ventaglio di culture che concepiscono il processo di pacificazione come
un percorso spirituale, che antepone l’importanza della relazione e del dialogo
a una rapida ed efficiente soluzione del conflitto[51].
Sebbene sia possibile riscontrare significative somiglianze tra mediazione e
sistemi tradizionali di composizione delle liti utilizzati nelle più svariate
parti del pianeta, sarebbe tuttavia un errore pensare alla mediazione come
espressione di un pensiero antico, e come una loro derivazione in versione contemporanea.
La mediazione è un frutto maturo della
crisi del diritto e delle altre forme di
esperienza pratica che attraversa l’ultimo scorcio dell’età moderna; esprime
l’esigenza di un cambiamento di paradigma, della ricerca di nuovi principi e
idee che ci consentano di affrontare in modo efficace i rapidi mutamenti della
società contemporanea. È vero, si tratta di uno strumento informale che rifugge
i rigidi schemi del diritto, e questo lo avvicina ad alcuni ambiti culturali
premoderni, ma, come dice Boaventura de Sousa Santos, “dopo quasi due secoli di
formalizzazione e di statalizzazione, il nuovo informalismo e il nuovo spirito
di cittadinanza non potevano mancare di essere differenti dall’informalismo e
dallo spirito di cittadinanza premoderni”[52].
Nel senso che le idee di cui la giustizia informale si fa portatrice fin dagli
anni settanta sono, questa volta sì, una diretta filiazione del sistema di
giustizia statale e del paradigma culturale moderno; in tal senso formalismo e
informalismo sono figli dello stesso sistema di pensiero, della stessa
struttura di valori e idee che governano l’età moderna. Per questo de Sousa
Santos sostiene che, come le oscillazioni del pendolo, l’informalismo tende a
formalizzarsi, così come i sistemi di giustizia giuridica tendono a produrre
periodicamente pratiche informali[53].
Non è guardando alla logica formale o informale
di composizione dei conflitti – o almeno non solo - che riusciremo a cogliere i
principi veicolati dalla mediazione e i caratteri che ne fanno uno strumento
del tutto omogeneo ai bisogni e alle esigenze della società contemporanea. È
necessario rivolgersi al contesto di idee e principi nuovi che attraversano il
mondo del diritto e dell’etica, della politica e dell’economia per capire che
la mediazione è solo uno strumento, efficace e attivo, del cambiamento in atto.
Essa presenta caratteri che la distanziano sia dall’universo di pensiero antico
che da quello moderno e la situano in quella dimensione atemporale definita
postmoderna. Post non nel senso di
cronologico, ma di superamento critico dell’immagine del mondo rappresentata e
costruita dall’età moderna[54].Il
postmoderno non è infatti una categoria definibile attraverso strumenti
temporali, sebbene convenzionali, ma convive col moderno, perché rappresenta un
modo critico di guardare all’età moderna e al suo progetto, quello della
costruzione di un ordine umano
universale attraverso il diritto e sulla base di un’epistemologia
unificata dalla scienza[55].
La mediazione non ricalca una struttura di
pensiero “antica”[56]
perché con l’antichità non condivide un elemento essenziale: un orizzonte etico
unitario, come quello che fondava il senso di appartenenza alla polis, garantito dal logos, la trama razionale che governava
l’universo. Non è pensabile in un orizzonte di pensiero antico l’idea di un
ordine negoziato al di fuori di un principio di autorità rappresentato dalle
norme della comunità, così come non è pensabile la libera scelta individuale. Diciamo
pure che non è pensabile l’uomo-individuo, concepito come ente autonomo,
separato dai suoi ruoli e dotato della capacità di scegliere liberamente[57].
Molte delle pratiche citate come progenitrici della nostra mediazione si
inseriscono in un contesto comunitario, costituito da un insieme di credenze,
valori e stili di vita condivisi. Ma non solo, sono il frutto dell’ evoluzione
di forme di vita associata dettata da precise condizioni storiche, geografiche,
nascono cioè con un’identità, una storia e un luogo di provenienza. La stessa
tipologia di conflitto che viene affidato nelle mani del saggio o della figura
investita dell’ autorità necessaria a mediare la lite non è disgregante
rispetto al tessuto comunitario, ma fisiologica in una rete di relazioni garantita
da strumenti molto più potenti del diritto o dei sistemi di pacificazione ad
esso alternativi.
La mediazione no. Il suo luogo di lavoro è una
società, non una comunità; le sue basi operative sono il pluralismo dei valori,
la presenza di sistemi di vita diversi e alternativi; il suo fine è riaprire
canali di comunicazione interrotti, ricostruire legami sociali spezzati o
compromessi. La sua vera scommessa è l’accettazione della diversità, della
differenza, del dissenso e del disordine da questo generati. Il suo obiettivo
più ambizioso non consiste nel proporre nuovi valori, ma nel mettere in
comunicazione quelli di cui ciascuno di noi è portatore.
Il principio della comunicazione che regge
l’intera struttura della mediazione è l’elemento che la distanzia dal paradigma
del moderno e ne costituisce il superamento. L’idea che i valori che orientano
le nostre scelte possano essere argomentati, discussi e riveduti criticamente
nelle loro gerarchie va contro la prospettiva di un codice etico universale, così
come scardina un sistema di diritto che in alcuni ambiti viene percepito dai
suoi destinatari come impositivo e autoritario.
Come rileva Castelli “la pratica della
mediazione, con le sue irrinunciabili premesse di libertà, di libera assunzione
di responsabilità da parte dei soggetti coinvolti, di completa indipendenza
dalle pratiche già regolamentate rappresenta qualcosa di completamente
sconosciuto alle culture “tradizionali” e del tutto “rivoluzionario”[58].
Aggiungiamo, anche rispetto alle idee su cui si sono formati i nostri
ordinamenti giuridici.
Libertà, autonomia e responsabilità sono
termini che nella mediazione assumono nuove sfumature e significati legati alla
crisi della sovranità statale e del principio d’autorità che attraversa la
nostra società. Il loro referente non è più (o almeno non solo) l’individuo da
tutelare e intorno al quale costruire una sfera di diritti e garanzie, ma è un
soggetto che intende partecipare attivamente al processo di costruzione delle
garanzie e delle tutele[59].
Questo riappropriarsi della libertà di gestire i conflitti che lo vedono
coinvolto, esprime l’esigenza di autonomia, attraverso la costruzione di
micro-ordini negoziati localmente che si contrappongono all’ordine imposto dal
diritto dello Stato.
Ma è nell’idea di responsabilità che
cogliamo la portata innovativa della mediazione e la grande distanza che la
separa dai principi del diritto: si tratta infatti di una responsabilità
liberamente assunta dalle persone, non attribuita dall’esterno, come accade nel
diritto. Con la sua attenzione alla singolarità delle persone coinvolte nel
conflitto, col rilievo che assegna alle emozioni oltre che alla volontà
razionale dell’individuo, col deciso rifiuto del potere decisionale del terzo e
infine con l’allontanamento dall’idea funzionale della pena e della sanzione,
la mediazione propone un’idea di responsabilità molto differente rispetto a
quella che troviamo nel linguaggio e nella prassi del diritto.
In primo luogo, il dovere di rispondere delle
proprie azioni non è funzionale all’irrogazione della sanzione; non ha
significato né ragione l’inflizione di una pena nella gestione del conflitto,
ha ragione e significato il riconoscimento, da parte dell’autore dell’azione
lesiva o dannosa, del proprio agire, il dovere di spiegarne le ragioni, la
volontà chiara di superare e rimediare - se e quanto è possibile - a ciò che ha
fatto. Nel caso di un conflitto orizzontale, dove torti e ragioni si
intrecciano fino a non essere più attribuibili con utilità all’una o all’altra
parte, la responsabilità opera attraverso il riconoscimento da parte di
ciascuno della volontà di cambiamento del sistema di relazioni
conflittuali che è ormai divenuto, o
rischia di esserlo, distruttivo per entrambi. In questo caso la responsabilità
si traduce nell’assumere un impegno condiviso e risponderne per il futuro.
In secondo luogo la responsabilità,
intesa come impegno assunto verso un’altra persona e la collettività, assume un
aspetto progettuale che manca totalmente al riconoscimento di responsabilità
giuridica. Nel diritto, come sappiamo, la responsabilità viene stabilita con un
giudizio rivolto al passato, che accerta i fatti e nel caso infligge una pena;
in questo modo la responsabilità viene
ascritta al soggetto che, come diceva Croce, viene “fatto responsabile”[60].
Nella responsabilità tratteggiata dalla
mediazione la prospettiva del futuro assume un importante rilievo: l’impegno
che ciascuna parte liberamente assume di rispondere verso l’altro delle proprie
azioni riguarda quelle future, segnate dagli obiettivi che le parti hanno
comunemente stabilito e dal cambiamento nel sistema di relazioni.[61]
Potremmo dire che la mediazione pone l’accento
sull’idea che la responsabilità, oltre che un giudizio, è un processo che si svolge
e sviluppa in un vasto sistema di relazioni[62].
Collocare il soggetto e la sua responsabilità
in un ambito sociale comunicativo significa considerarne due aspetti
fondamentali, finora trascurati dal diritto: un’assunzione di responsabilità
individuale e una forma di riconoscimento di responsabilità sociale e
collettiva che si alimentano reciprocamente[63].
Questo tentativo di riattivare il circuito delle responsabilità individuali e
sistemiche, impedito da una concezione individualistica e atomistica delle
dinamiche sociali, è l’aspetto che sgancia l’oggetto mediazione da una
dimensione privatistica per mostrarcelo nella sua rilevanza pubblica e sociale,
come canale e filtro che mette in comunicazione le esigenze private con gli
interessi di rilevanza pubblica.
Ma vi è un aspetto ulteriore di questo processo
che forse non è stato ancora sufficientemente sottolineato. Riguarda la densità
morale implicata nell’esercizio della decisione comune, della comunicazione
delle ragioni, e nella condivisione delle conseguenze future di questa
decisione, in una parola nella responsabilità.
Quando ci si riferisce alla mediazione
generalmente si parla di un’assunzione comune di responsabilità come il
risultato, l’esito di un lungo e difficoltoso percorso tra le persone coinvolte,
ma questo non basta a cogliere interamente il significato dell’essere
responsabili. Responsabilità è prima e oltre che punto di arrivo della
mediazione, un punto di partenza, un potenziale necessario senza il quale la
mediazione non può avere esito. La mediazione scommette davvero sulla capacità
morale delle persone, sul talento della responsabilità assegnato a ciascuno,
sull’abilità di negoziare l’arte e gli usi del vivere insieme.Occorre chiarire
che quest’arte del negoziare progetti di vita comune non è basata sul calcolo
delle conseguenze, sebbene questo venga attentamente considerato come ulteriore
criterio decisionale, ma sulla capacità di ascoltare l’altro e di aprirsi alle
sue ragioni, sul potere della comprensione e talvolta, spesso, del perdono;
parola inusuale nel nostro corredo semantico, ma che nella mediazione sfoggia
potenzialità enormi.
Quest’aspetto è reso evidente dal ruolo che in
misura differente a seconda dei modelli, ma presente in ciascuno di essi, è
assegnato alla sfera dell’affettività che racchiude emozioni, desideri e paure,
tutto quel ventaglio di ‘modi di essere’ bandito nel processo giuridico,
ispirato da una concezione che identifica l’emozionalità come un terreno
inaffidabile e scivoloso sul quale non è possibile edificare nulla. In realtà
la mediazione non fa altro che riconoscere che le scelte delle persone, e
quindi le decisioni e le azioni che ne derivano, solo in parte sono
assoggettabili al calcolo razionale dell’utilità e del profitto; ma invece di
interpretare l’aspetto definito ‘irrazionale’ come una zona d’ombra,
insondabile e per alcuni versi inesplicabile, affida alle emozioni, insieme
alla facoltà di calcolo dell’utilità, il compito di veicolare la verità, di
mostrare l’interesse delle persone e di costruire una possibile pacificazione o
accordo. La mediazione sembra dire che la grammatica delle passioni e dei
desideri è portatrice di senso, è comunicabile e coniugabile col linguaggio
della logica razionale, dell’utile e degli interessi.
Questo processo di valorizzazione delle
emozioni, degli affetti, in una parola del sentire umano, interpretato come la
base su cui edificare, e, insieme allo strumento razionale, giustificare, i
nostri valori[64],
non è da interpretare come un fenomeno isolato, ma può essere inserito in un
lento processo di ridefinizione dell’immagine della soggettività e del suo
contesto. Reintrodurre nel linguaggio dei valori e delle scelte l’esperienza
degli affetti e delle emozioni risponde infatti al tentativo di ricomporre
l’immagine di un io diviso, costruito sulla dicotomia cartesiana di qualità
pensante e qualità corporea [65].
La qualità razionale che diviene ragione
soggettiva si afferma nel pensiero moderno come l’unico elemento idoneo a
costruire e ordinare la realtà; tutti gli aspetti che definiscono l’identità
personale, la sottraggono all’omologazione della ragione e all’indistinto mondo
di eguali della nuova logica giuridica, che possiamo riassumere nella
pascaliana raison du coeur, vengono
esclusi dal corredo conoscitivo dell’età moderna in cui, parafrasando
Barcellona, la fantasia diventa
ipotesi da verificare, la natura un
campo aperto alla osservazione e alla manipolazione e l’esperienza esperimento[66].
Il pensiero binario della modernità, che si
costituisce sulle dicotomie tracciando una linea netta di confine tra categorie
di opposti[67],
opera una scissione tra il logos e il
pathos, la capacità di conoscere
producendo concetti astratti e quella di sentire, percepire, esperire la realtà
soggettiva corporea, emotiva dell’io. Questa scissione è efficacemente
rappresentata nel panorama contemporaneo dal contrasto tra la ragione
funzionale ed efficientista dell’organizzazione sociale, che attraverso la
tecnologia e la scienza sembra poter risolvere i problemi dell’umanità, e il
dilagare violento e fuori da ogni controllo normativo del conflitto ad ogni
livello, da quello etnico e religioso a quello rionale e scolastico.
Accettando il conflitto come risultante di
ragioni e passioni la mediazione adotta il principio della completezza riferito
alla soggettività e alla sua espressione. Prendendo in prestito una distinzione
di Erikson diremo che completezza e totalità possono essere considerate due
categorie esplicative della soggettività: “Come Gestalt, dunque, “completezza” mette l’accento su una mutualità
sana, organica, progressiva tra funzioni e parti diversificate di un intero, i
cui confini sono aperti e fluttuanti. Al contrario “totalità” evoca una Gestalt il cui accento è posto su un
confine assoluto; data una certa configurazione arbitraria, niente di ciò che è
situato all’interno dev’essere lasciato all’esterno, niente di ciò che deve
trovarsi all’esterno può essere tollerato all’interno”[68].
Mentre la totalità corrisponde alla versione dell’individuo, ente razionale
dotato di diritti che tracciano un rigido confine tra sé e gli altri, la
completezza indica sia l’accoglimento di un’identità plurale, composta da più
voci e linguaggi, dal versante di luce della razionalità e chiarezza e da
quello d’ombra dei sentimenti inespressi, sia un’identità contestuale, fatta di
relazioni, ambienti sociali, luoghi d’origine e di memoria.
Il superamento critico della visione
razionalista dell’io allontana ancora una volta la mediazione dal solco sia
della tradizione che della modernità per accostarla al mutamento di paradigma
in atto nella cultura contemporanea, così ottimisticamente presentato dalle
parole di Bauman: “Il postmoderno (…) reca il “reincanto” del mondo dopo il
costante e strenuo, benché alla fine vano, tentativo moderno di
dis-incantarlo,(…). La sfiducia nei confronti della spontaneità umana, delle
tensioni, degli impulsi e delle inclinazioni che resistono alla previsione e
alla giustificazione razionale, è stata pressoché rimpiazzata dalla sfiducia nella
ragione fredda e calcolatrice. È stata restituita dignità alle emozioni e
legittimità alle simpatie e alle lealtà “inesplicabili”, o meglio, irrazionali,
che non possono esprimersi in termini di utilità e finalità”[69].
La figura enigmatica del mediatore, melange
complesso e vago di talenti naturali, conoscenze e esperienza, esprime e
condensa i caratteri che fanno della mediazione un possibile rimedio dei nostri
tempi.
È stato definito il terzo istruito[70],
perché portatore di un sapere nuovo, capace di coniugare conoscenze tecniche
estremamente raffinate e un corredo di valori etici, inteso a sua volta come un
bagaglio conoscitivo di cui la modernità ha perso la memoria. La ricomposizione
di cultura umanistica e scientifica, che dovrebbe orientare la formazione del
mediatore ideale, unita a una serie di qualità personali, tratteggiano una
metodologia e una formazione del tutto nuova in una figura professionale. È per
questa ragione che il mito del mediatore, inteso come una figura che ‘da
sempre’ esiste nelle culture tradizionali, dotata di esperienza e saggezza,
s’infrange ancora una volta sullo scoglio della complessità culturale
contemporanea.
Cominciamo a distinguere innanzitutto il
concetto di autorità, o meglio autorevolezza, necessario a delinearne la
figura. Il mediatore, tuttora esistente e operante nel solco della tradizione
in numerose società, tra cui ad esempio quella sarda, si vale di un’autorità
che gli viene conferita dall’intera comunità in quanto egli è portatore e
interprete della tradizione -su connottu
in lingua sarda – che si riassume in una rappresentazione condivisa della
realtà e delle regole del vivere insieme[71].
In Barbagia[72],
ad esempio, sono presenti e resistono con successo forme di mediazione,
caratterizzate dalla figura del terzo neutrale, liberamente scelto dalle parti,
che non impone una decisione né soluzioni, ma facilita la comunicazione tra i
litiganti. Tuttavia dobbiamo rilevare che la composizione e l’accordo, nonché
il linguaggio della mediazione, s’inseriscono in una trama di valori accettati
e condivisi dalle parti; i valori della comunità di cui queste fanno parte. Per
queste ragioni non potrebbe mai verificarsi
una mediazione di questo tipo tra un barbaricino e un senegalese che
discutono ad esempio delle condizioni di una vendita, perché l’altro è escluso
da quel contesto di vita che consente di ricomporre la trama sfilacciata delle
relazioni tra ‘uguali’.
Viene a mancare uno degli elementi che segna
profondamente la mediazione: il riconoscimento della differenza, dell’altro,
diverso in quanto veicolo di credenze e principi diversi.
L’autorità di cui il mediatore contemporaneo
deve essere provvisto non è iscritta in un contesto istituzionale, ma è
guadagnata volta per volta, sulla base di una chiara serietà professionale che
i litiganti gli riconoscono e che, allo stesso modo, possono negargli in
qualsiasi momento della mediazione. Questo sarebbe impossibile in un contesto
tradizionale: rifiutare il mediatore, una volta scelto, significherebbe
respingere con lui le regole della comunità, autoescludersi dalla vita comune.[73]
La credibilità del mediatore contemporaneo deriva quindi esclusivamente da
quanto egli riesce a mostrare della capacità di svolgere il suo lavoro, al pari
di un qualsiasi bravo professionista. Ma è proprio qui, nella definizione di
quella capacità, del corredo degli utensili del mediatore, che notiamo la
novità e la difficoltà di questo ruolo. Nel nostro mondo il mediatore dovrebbe
fare più o meno solo il mediatore e la sua affidabilità gli deriva dall’essere
un bravo mediatore, non un bravo medico, avvocato o sacerdote; nei luoghi
tuttora esistenti della memoria in cui la mediazione resiste si diventa
mediatori perché è stata dimostrata una certa saggezza, prudenza e moderazione
in altri ruoli e ambiti. Non esiste la figura professionale del mediatore, ma è
legata piuttosto a un’etica pubblica in cui mediare è un onore e un dovere;
allora le regole di questa mediazione antica non derivano da un addestramento
tecnico, ma dal bagaglio culturale naturalmente appreso, dalla formazione
comunitaria ricevuta, e da una notevole dose di buon senso e disponibilità
all’ascolto. Non così per il ‘nuovo’ mediatore che deve avere un addestramento
tecnico e conoscitivo che va oltre il semplice buon senso, termine che nel
nostro contesto culturale ha ormai perso quella densità di significato che
conserva in ambito tradizionale.
Il secondo elemento che allontana la figura del
mediatore contemporaneo dal rassicurante alveo della tradizione risiede infatti
nella sua preparazione e formazione,
costruita su un metodo - ancora da perfezionare - articolato in teoria, tecnica
e pratica che si vale di strumenti di indubbia scientificità, che poco hanno a
che fare con la tradizione.
“Si riconosce sempre più spesso, sottolinea
Lisa Parkinson, che le abilità di
gestione del conflitto richiedono molto più che buona volontà, buon senso e
qualche parola di rabbonimento detta qua e là (…) La conciliazione deve
sviluppare una base teorica sua specifica: non dovrebbe essere soltanto un
minestrone di servizio sociale dal quale pescare idee e metodi alla rinfusa per
poi ingoiarli così come sono”[74].
Parkinson mette l’accento sul problema più rilevante della mediazione: la messa
a punto di un corpo coerente di teoria e principi che coordini una pluralità di
griglie teoriche che, un po’ disordinatamente, affollano il campo dei percorsi
formativi alla mediazione. Tra queste quella probabilmente più rilevante,
soprattutto nel campo familiare e penale minorile, è fornita dalla psicologia e
dalla psicoterapia. Sebbene numerosi autori traccino una netta linea di confine
tra l’approccio psicoterapeutico e quello della mediazione[75],
adducendo validi argomenti relativi all’obiettivo delle due pratiche, al metodo
e ai soggetti, vi sono alcuni tipi di mediazione che sono una diretta
derivazione di scuole psicanalitiche, con un setting di regole che nascono dal contesto epistemologico della
psicoterapia
[76].
Tuttavia anche i modelli che prendono
esplicitamente le distanze dalla psicoterapia e dalla psicologia, attingono a
piene mani al loro sapere, ormai entrato necessariamente a far parte del
corredo conoscitivo di ogni professionista in relazioni umane. Diciamo pure che
il mediatore che non ha una buona conoscenza di alcuni meccanismi psicologici e
che ignora del tutto le dinamiche che s’innescano in terapia ha scarse
probabilità di mantenersi con la sua professione. Non solo, aggiungiamo che il
mediatore che non abbia fatto almeno un po’ di autoanalisi, o di approfondita
riflessione critica ed esistenziale, in modo da individuare le sue
vulnerabilità affettive e le eventuali difficoltà relazionali che possono
rendere difficile il controllo di una situazione, non può pensare di
‘scoprirle’ in mediazione. È per questo che il confine che separa mediazione e
psicoterapia rimane spesso nebuloso, raffigurabile più che come una linea, come
uno spazio in ombra in cui nuovi saperi nascono dalla contaminazione di
discipline note.
Castelli, uno dei più netti sostenitori delle
differenze tra mediazione e psicoterapia, dopo averle opportunamente distinte[77],
le riaccosta, riconoscendo che vi sono delle “somiglianze nelle tecniche
utilizzate”, e che, sebbene non abbia un esplicito obiettivo di cura, la
mediazione può avere “risvolti terapeutici”. Anche nel modello di Morineau
l’originalità della mediazione viene rivendicata con forza come la costruzione
di uno spazio protetto di accoglimento del disordine e della sofferenza delle
persone senza ricorrere ad alcuno strumento tratto dalla psicoterapia: “Per
incontrare il disordine i mediatori non dispongono né del lettino dello
psicanalista né delle forze ordinanti del sistema giudiziario”[78],
dice Morineau, tuttavia, aggiungiamo, essi devono attingere alle loro energie
morali e affettive più profonde – oltre a un robusto bagaglio
tecnico-conoscitivo- per inserirsi efficacemente nella trama dell’altrui
conflittualità senza esserne fagocitati. Per far questo devono costruirsi un
‘luogo’ da cui guardare al conflitto, che li renda capaci di reggere gli
scossoni affettivi e di partecipare al circolo emotivo che s’instaura nelle
stanze della mediazione senza tuttavia perdersi in esso.
E’ difficile non pensare agli ineludibili
risvolti terapeutici, anche se non codificati, che questo modello presenta.
Morineau, infatti precisa che la vera motivazione del mediatore è quella di
incontrare il proprio conflitto interiore, prima che quello delle persone che
intende aiutare: la vera vocazione è insomma quella di curare sé stesso, prima
che gli altri. Per questo la formazione del mediatore è essenzialmente
ricostruzione di una mappa interiore e sentiero esistenziale, che tanto
somiglia al percorso dell’analista che deve prima sottoporre sé stesso
all’analisi, e attraversare le sue paludi interiori, per poter curare gli altri[79].
Come sottolinea Daniela Antonucci, accostare mediazione e intervento
psicologico è un’operazione che comporta “seri rischi di generalizzazione”[80],
perché sia le mediazioni che le psicoterapie sono molto diversificate e se in
alcuni casi presentano numerosi punti di contatto, in altri si differenziano
radicalmente; tuttavia è indubbio che nella formazione del mediatore vi sia una
robusta trama di conoscenze psicologiche che emergono anche negli accorgimenti
tecnici che egli apprende per facilitare la comunicazione[81].
In realtà il corredo del mediatore è formato da una serie di strumenti
eterogenei che danno conto di una irriducibile complessità della mediazione,
professione in bilico tra virtù, tecnica e profitto.
Quest’ultimo termine evoca il grande assente
nei discorsi sulla mediazione: il mercato, a cui più o meno tutti i centri di
mediazione necessariamente guardano.
Quello del mediatore non è infatti, almeno non
solo, un ruolo, ma è una professione, per la quale si richiede addestramento,
una buona preparazione culturale, un sapere teorico, un lungo tirocinio, e un
conseguente profitto che deriva dall’esercizio di quest’attività. La
prospettiva economica immette il mediatore in un panorama radicalmente mutato
rispetto a quello di una cultura tradizionale in cui non esiste la
professionalizzazione del ruolo del pacificatore. È questo il terzo argomento
che conferma l’ipotesi della nascita di una figura del tutto nuova nel
paesaggio culturale contemporaneo che mantiene con il mediatore ereditato dalla
tradizione forse un unico elemento comune: il suo agire fuori dalle maglie del
diritto.
Leggiamo i consigli che John Haynes e Isabella
Buzzi, autori di corsi di formazione alla mediazione familiare, scrivono sul
loro manuale: “Anche i migliori prodotti hanno bisogno di un marketing attento
e la mediazione familiare non fa eccezione a questa regola. Un mediatore
competente deve creare un flusso continuo di clienti e questo capitolo
suggerisce come convincere i clienti a rivolgersi a voi”[82],
seguono infatti le descrizioni estremamente dettagliate dei passi che i
mediatori che si affacciano sul mercato devono compiere per promuovere la loro
immagine e procurarsi i clienti. Tra le abilità –assai numerose- del mediatore
vi è dunque anche quella di un’oculata gestione della propria immagine
professionale e di una buona capacità manageriale.
Si potrebbe obiettare che numerose esperienze
di mediazione, come quelle avviate in Italia presso il Tribunale per i
minorenni di Milano[83],
o di Bari, tanto per citarne alcune, sono state portate avanti con
finanziamenti pubblici, e che tra le numerose proposte di modelli gestionali
delle strutture di mediazione, vi sono quelli misti, che vedono associazioni
private in parte sostenute dalle amministrazioni locali che hanno tutto
l’interesse a incoraggiare queste forme di gestione dei conflitti sociali.
Se queste soluzioni da un lato possono
sottrarre i mediatori al richiamo delle sirene del mercato, evitando le
distorsioni legate alla ricerca del profitto, dall’altro rischiano di
trasformarli in burocrati della pace sociale, colonizzati dallo spirito
statalista e normativista che affligge le nostre istituzioni. Libero
professionista del nuovo mercato della pace o pubblico dipendente al servizio
del bene comune, il mediatore si identifica comunque in un ruolo professionale,
come tale diviso tra vocazione, addestramento e mercato.
Oltre che persone che svolgono un ruolo
professionale , e quindi soggette alle lusinghe del mercato, a una rigorosa
deontologia e a un duro addestramento, i mediatori devono essere uomini e donne
di principi, provvisti di facoltà morali che vanno adeguatamente esercitate.
Questo è un punto cruciale che stacca il ruolo del mediatore dal
paesaggio indistinto e omologato delle professioni: se infatti la tecnica e il
profitto sono due elementi che inseriscono a pieno titolo questa figura nel contesto professionale contemporaneo, la
virtù è quel carattere che segnala un curioso distacco dall’oggi e apre una
nuova prospettiva, nuova e antica allo stesso tempo, nell’orizzonte della
mediazione.
Sembra infatti che non si possa fare il mediatore, senza essere, prima di tutto, un mediatore.
Ciò che colpisce delle numerose descrizioni del lavoro del mediatore è che
spesso si traducono in meticolosi ritratti del mediatore e delle sue doti.
Sembra che l’insieme dei suoi compiti si risolva principalmente in un dover
essere più che in un dover fare, anzi, il suo operare sembra il naturale
sviluppo del suo modo di essere, sebbene adeguatamente modulato
dall’esperienza.
Jean-François Six , che dedica una particolare
attenzione a questa figura, ne enumera le attitudini: il senso di realtà, il
distacco, il dono di ubiquità intellettuale (che traduciamo col più domestico
sapersi ‘mettere nei panni degli altri’), il senso della gerarchia dei valori,
l’ottimismo ragionato, la flessibilità e l’adattabilità, l’umiltà, la
creatività, la pazienza, l’autorità e il carattere, la salute fisica e mentale[84].
La sua formazione è infatti, soprattutto, ricostruzione interiore che gli
chiede di mettere ordine nei suoi valori e avere ben chiari principi e dubbi,
insomma sembra che il mediatore debba possedere una grande lucidità morale,
oltre che intellettuale, per poter costruire quella terzietà che rende unico il
suo ruolo.
Tuttavia il lungo e puntuale elenco dei talenti
che egli, almeno in parte, deve possedere, invece che definire nella sua
specificità il ruolo, finisce per produrre il risultato opposto, quello di
annullarne i confini per immetterlo nell’indistinto della morale comune,
costruendo un modello ideale che non facilita l’apprendimento, ma crea una
inutile distanza tra la realtà dei mediatori e la retorica del mediatore.
Potremmo dire, con Castelli, che descrivere il
mediatore ideale equivale a ritrarre l’uomo e la donna perfetti, nel senso che
qualunque persona che voglia essere ‘vera’ deve anche saper ascoltare gli
altri, prendere parte ai loro conflitti con spirito ottimista e collaborativo,
caricarsi un po’ i loro fardelli senza farsi schiacciare dal peso, aiutare le
persone a riallacciare legami e riprendere relazioni, come credo ognuno di noi
abbia provato almeno una volta a fare[85].
Ma allora ci chiediamo, cos’è che distingue il mediatore dalla persona che,
spinta da un genuino interesse per gli altri, cerca di aiutarli a superare i
loro conflitti? Per capire davvero cosa il mediatore fa è necessario andare
oltre il lungo e puntuale elenco dei suoi talenti e concentrare l’attenzione
sul processo che egli innesca in mediazione. Egli infatti fa qualcosa -di molto
diverso da una buona azione- che possiamo vedere solo se usciamo dalla stanza
della mediazione e ci poniamo in un altro luogo di osservazione: quello
dell’organizzazione sociale.
In questo contesto il lavoro del mediatore si
rivela nella sua veste istituzionale attraverso la costruzione di un ordine
nelle relazioni sociali che si affianca e in parte si sovrappone a quello
stabilito dalla giurisdizione. Il suo obiettivo è lavorare a un progetto comune
di parziale ristrutturazione dei rapporti e degli equilibri sociali secondo una
modalità che definiremo progettuale.
La progettualità va oltre il mero consenso
perché implica un impegno, uno sforzo di ricostruzione e riflessione critica
che talvolta manca nell’espressione del consenso. Dare il proprio consenso
talvolta infatti assume il significato di adeguamento passivo ad una
situazione, come quando accettiamo una proposta che ci trova d’accordo anche se
non siamo noi a formularla; progettare invece significa partecipare attivamente
alla pianificazione e alla costruzione di un accordo che implica
necessariamente il nostro consenso, ma critico e attivo. Le persone che si
rivolgono al mediatore sono invitate a costruire al di fuori degli usuali
schemi formali, e quindi creativamente, le loro relazioni future, sono parte
attiva di un progetto del quale sono co-responsabili e che vivranno nel tempo
secondo le loro scelte e decisioni. Ma non sono solo le persone in conflitto a
elaborare il progetto, sono almeno in tre a farlo.
È per questa ragione che l’idea, ampiamente
accreditata, della neutralità, terzietà e alterità del mediatore, va un po’
ridimensionata: egli è parte integrante del progetto relazionale avviato in
mediazione, non è solo colui che assiste e sorregge la volontà delle parti dopo
aver loro indicato i canali di comunicazione. Anche l’immagine del
catalizzatore, tanto efficace e diffusa per indicare la forza e la neutralità
del personaggio[86],
è in qualche modo fuorviante, perché se l’elemento che produce la catalisi
rimane immutato dopo la reazione che scatena, lo stesso non può dirsi del
mediatore che in quanto parte del processo ne subisce il mutamento così come le
persone coinvolte. Il circuito
comunicativo comprende tutte le persone che costruiscono la mediazione e
partecipano attivamente ad essa, ciascuna secondo le proprie competenze;
potremmo dire che il ruolo del mediatore diventa più chiaro in una prospettiva
ecologica della mediazione che vede al centro del processo non tanto e non solo
il problema oggetto del conflitto, ma l’insieme delle relazioni fra tutti i
partecipanti. Il sistema rappresentato dalla mediazione è infatti complesso
perché composto dalla somma delle parti più l’insieme delle relazioni tra
queste. È forse per questa ragione che appare così difficile circoscrivere il
ruolo del mediatore, parte del sistema relazionale che egli stesso avvia, e
allo stesso tempo figura che arretra sullo sfondo via via che le persone
assumono il peso delle loro decisioni. Questa sua particolare competenza
relazionale genera una figura curiosamente complessa che intreccia la
competenza tecnica, necessaria a dipanare la matassa dei quesiti giuridici,
economici e psicologici cui deve rispondere, a un corredo di doti umane,
indispensabile per costruire una rete di relazioni basata sulla fiducia, la
chiarezza, la coerenza e la responsabilità.
[1] Jean Faget sostiene
che la pluralità dei modelli di mediazione penale, che riguarda i differenti significati
assegnati al termine médiation, le pratiche relative, e infine gli obiettivi,
suscitano in Francia la diffidenza dei giuristi che “vi vedono una minaccia
potenziale contro il loro monopolio nel campo giuridico”, Le cadre juridique et etique de la médiation pénale, in R. Cario (sous la direction de), La médiation pénale, Paris,
L’Harmattan,1997, p. 37 (trad. mia).
[2] “Le non-droit, s’il faut en donner une
première approximation, est l’absence du droit dans un certain nombre de
rapports humains où le droit aurait eu vocation théorique à être
présent. » Carbonnier
precisa che non si tratta di uno spazio vuoto in cui vi è una totale assenza di
norme, ma di un ambito in cui la loro pressione si allenta: “Quand nous
parlerons de non-droit, il sera donc loisible d’entendre, non pas le vide
absolu de droit, mais une baisse plus ou moins considerable de la pression
juridique. La relativité ainsi introduite peut dissiper les tourments
philosophiques que susciterait le concept d’un pur néant.», Flexible droit, Paris, L.G.D.J .,
1995, p.24.
[3] Così J.
Leblois-Happe che parla della varietà dei tipi di mediazione penale: “Il
serait d’ailleurs plus exacte de parler des médiations plutot que de la médiation,
le singulier donnant à l’institution une apparence d’unité que dément l’étude
des faits”, La médiation pénale comme
mode de réponse à la petite delinquance: état des lieux et perspectives, in
Rev, Sc. Crim.,n. 3, 1994, pp.524-536 ; la citazione è
a p. 527.; in ambito civilistico A. Uzqueda è categorica nell’affermare la
pluralità delle mediazioni, Seminario
sulle tecniche di formazione alla mediazione, Univ. di Sassari, 25-26
maggio 2001.
[4] G. Pisapia, La scommessa della mediazione, in G. Pisapia e D. Antonucci (a cura di),La sfida della mediazione, Padova,
Cedam, 1997, p.7.
[7] “Every negotiation is different, but the
basic elements do not change. Principled negotiation can be used whether there
is one issue or several; two parties or many; whether there is a prescribed
ritual, as in collective bargaining, or an impromptu free-for-all, as in
talking with hijackers.(…) principled negotiation is an all-purpose strategy.”,
Getting to yes, New York, Pengouin Books, 1991 (2nd.ed.), p. XIX.
[9] J.P. Bonafé-Schmitt,
Una, tante mediazioni dei conflitti, in La
sfida della mediazione, cit., pp.21-49.
[15] A differenza di quanto suggerisce la definizione di J.Haynes : “La mediazione è un processo
di negoziazione in cui una terza persona aiuta i partecipanti a una disputa a
risolverla. L’accordo risolve il problema con una soluzione mutuamente
accettabile ed è strutturato in modo da aiutare a mantenere la continuità della
relazione delle persone coinvolte”, in J.M.
Haynes – I.Buzzi, Introduzione
alla mediazione familiare, Milano, Giuffrè, 1996, p.49.
[17] Così Fisher-Ury, op.
cit.; J.Haynes,- Buzzi, Introduzione alla mediazione familiare,
cit.,p.49 ss.; J. P. Bonafé-schmitt,
Una, tante mediazioni dei conflitti,
cit., G. Cosi, La responsabilità del giurista, Torino,
Giappichelli, 1998; Castelli, La mediazione, cit., p.7; C. Mazzucato, L’universale necessario della pacificazione, in Logos dell’essere, logos della norma, a cura
di L. Lombardi Vallauri, Bari,
Ed, Adriatica, 1999;G. Gulotta - G.Santi,
Dal conflitto al consenso, Milano,
Giuffrè, 1988, p.41 ss
[21] Ivi, p. 53 ss.; Cfr. anche M
Umbreit, What is Humanistic
Mediation?, www.restorativejustice.org,
il quale definisce la mediazione umanistica come un dialogo guidato piuttosto
che un processo guidato di risoluzione dei conflitti: “The focus of mediator’s
work is upon the creation of a safe, if not sacred, place to foster direct
dialogue among the parties about the emotional and material impact of the
conflict”, p.1.
[22] Sull’interpretazione del cambiamento in chiave psicologica cfr. P. Watzlawick; J. H. Weakland; R.
Fisch, Change. Sulla formazione e
la soluzione dei problemi, Roma , Astrolabio, 1974.
[24] Sui differenti tipi di ragionamento che ricorrono nel processo
decisionale e sulla razionalità delle scelte cfr. J. R. Cohen, Reasoning
along Different Lines: Some Varied Roles of Rationality in Negotiation and
Conflict Resolution, in Harvard
Negotiation Law Review, 1998, vol.3, pp. 111-122.
[26] “Interests are needs, desires, concerns,
fears – the things one cares about or wants. They underlie people’s positions –
the tangible items they say they
want.” ,W.L.Ury, J.M. Brett, S.B.,
Goldberg, Getting Diputes Resolved,
San Francisco, Jossey-Bass Publishers, 1988, p.5.
[27] I quattro criteri che compongono il metodo suggerito da Fisher e Ury sono: separare le persone dai problemi; concentrarsi
sugli interessi, non sulle posizioni; inventare soluzioni reciprocamente
vantaggiose; insistere per usare parametri obiettivi, Getting to yes, cit.
[28] Per la definizione
[29] Cfr. G. Pisapia, La scommessa della mediazione, in La sfida della mediazione, cit., in
questo senso si veda A. Ceretti, Mediazione: una ricognizione filosofica,
in L. Picotti (a cura di), La mediazione nel sistema penale minorile,
Padova, Cedam, 1998, p.32 ss.
[30] Anche J. Haynes e I. Buzzi seguono l’impostazione utilitaristica della
Scuola di Harvard; nella loro citata Introduzione
alla mediazione familiare, (Cap. 6) assumono, come metodo comportamentale
della negotiation, quello teorizzato da Fisher e Ury in Getting to Yes.
[31] Cfr. D.Garland, Pena e società moderna, Milano, Il
Saggiatore, 1999, p.235 ss.
[32] Cit. in M. Cattaneo,
Illuminismo e legislazione, Milano,
Ed. Comunità, 1966, p.115; Cfr. inoltre G. Solari, Individualismo e diritto privato, Torino, Giappichelli, 1959, p.
171 ss. ; G. Tarello, Le ideologie della codificazione nel sec.
XVIII, Genova, A.C.I.G., 1974.
[33] T. Hobbes, De Cive, a cura di T. Magri, Roma, Ed. Riuniti, 1988,
cap.V.
[34] J. Locke, Il trattato sul governo, a cura di L. Formigari, Roma, Ed. Riuniti, 1984.
part. § 19; 20.
[35]A. Catania, Purezza del diritto e politicità delle
decisioni, in Nuove frontiere del
diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Bari, Dedalo, 2001, p.27. si veda
inoltre, nello stesso volume, il saggio di R.
Bodei, Illimitatezza dei desideri
ed erosione delle norme, p. 59 ss.
[38] Ferrajoli sostiene
che si sta verificando un secondo mutamento di paradigma del diritto, generato
dalla crisi della sovranità esterna come della sovranità interna degli stati
nazionali e degli organismi internazionali, ma “si tratta di un mutamento di
paradigma che si produce all’interno del paradigma giuspositivistico, non già
quale suo indebolimento, ma quale suo completamento”,La crisi della sovranità e il ruolo della filosofia politica, in Nuove frontiere del diritto, cit, p.153;
si veda inoltre Id., La sovranità nel mondo moderno: nascita e
crisi dello stato nazionale, Roma, Laterza, 1997.
[39] M. R. Ferrarese, Il linguaggio transnazionale dei diritti,
in Riv. Di Diritto Costituzionale,
2000, pp. 74- 108, la citazione è a p.74.
[40] Come precisa Ferrarese
“transnazionale non equivale a internazionale; quest’ultimo termine evoca
territorialità e confini, secondo la logica propria degli stati nazionali.”Il
suo riferimento non è ai confini e alla certezza, ma è all’attraversamento dei
confini ed all’incertezza. Lo spazio transnazionale è quello spazio mobile e
cangiante disegnato e ridisegnato in continuazione dai soggetti che lo
percorrono specialmente con le loro comunicazioni: comunicazioni sociali,
giuridiche, politiche, economiche ecc.”, Ivi, p. 93.
[41] Per Bauman il
vagabondo e il turista sono una valida metafora per gli uomini che vivono nella
condizione postmoderna, Sfide dell’etica,
cit., p.244 ss., si veda inoltre Id.
La solitudine del cittadino globale,
Milano, Feltrinelli, 1999.
[44] Il linguaggio
transnazionale dei diritti, cit., p. 79. Sull’argomento cfr. inoltre F. Viola, Dalla natura ai diritti, Roma, Laterza, 1997.
[45] Cfr. A. Ruggeri, Fonti e norme nell’ordinamento e
nell’esperienza costituzionale, Torino, Giappichelli, 2002.
[48] “La conciliazione e la mediazione hanno una lunga storia in molte
culture: molte società di tutto il mondo hanno infatti sviluppato metodi
pacifici per risolvere le dispute tra i singoli, le famiglie o i gruppi
tribali, avvalendosi di una terza parte neutrale che aiuta i contendenti a
negoziare soluzioni accettabili per entrambi” così L. Parkinson, Separazione,
divorzio e mediazione familiare, Trento, Erickson, 1995, p.94.
[49] “Sebbene la logica di applicazione della mediazione sia esistita
da sempre in tutte le culture del mondo, l’istituzionalizzazione di essa si è
diffusa ampiamente soprattutto tra gli anni ’70 e ‘80”, così C. Sirignano e M. Corsi, La
mediazione familiare, Milano, Vita e Pensiero, 1999, p.25.
[50] Come dice Morineau,
op. cit., p.61: “la mediazione riprende un approccio vecchio quanto il mondo.
Il confronto con l’evento doloroso, ingiusto, è l’ostacolo che dev’essere
incontrato affinché esso possa essere superato”; la mediazione viene intesa
come un rito attraverso cui accettare la sofferenza e produrre il cambiamento
che questa esige. L’autrice si richiama al pensiero della Grecia classica che
attraverso la tragedia offriva una forma rituale di espressione alla sofferenza
permettendole di diventare patrimonio dell’intera comunità. Sul punto si veda
anche L. Faconnet, L’avenir de la médiation pénale?, In R. Cario,
[51] “These beliefs and values are not subject
to empirical testing. They derive from a variety of sources and are shared
across a range of cultures”, così M.
Umbreit, The Handbook of Victim
Offender Mediation, cit., p.4.
[52] B. de Sousa Santos, Stato e diritto nella transizione
post-moderna. Per un nuovo senso comune giuridico, in Sociologia del diritto,n.3 1990, pp.5-34, la citazione è a p.17.
[53] “ I meccanismi informali tendono a formalizzarsi; il senso comune
giuridico che serve loro di supporto tende a professionalizzarsi attraverso
azioni di formazione dei mediatori e di molte altre forme, le parti, che
detengono la titolarità della rappresentanza dei loro interessi, vanno a poco a
poco affidando tale rappresentanza ad altri, con maggiore esperienza e più
ampia conoscenza dei modi di funzionamento del tribunale. Con questi e altri
processi, la giustizia informale riproduce, se non le forme, quanto meno la
logica delle forme della giustizia formale. Insomma, anziché dicotomia,
duplicazione”, ivi, p.21. si veda inoltre, dello stesso autore, Law and Community: the Changing Nature of
State Power in Late Capitalism, in R.
Abel (ed.), The Politics of
Informal Justice, New York, Academic Press, 1982, vol. I.
[54] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna : rapporto
sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1979.
[55] La relazione tra concezione lineare del tempo e progresso
dell’umanità che ha segnato l’età moderna viene scardinata attraverso il
concetto di postmodernità. Questa viene intesa come il superamento di un
insieme di rappresentazioni e di
credenze ottenuto sviluppando fino in fondo le premesse della modernità. Non si
tratta quindi di annunciare un nuovo inizio, ma piuttosto di considerare
l’inadeguatezza delle premesse di una stagione dell’umanità, decretandone la
fine. Come chiarisce Bauman: “post non nel senso cronologico, non nel senso di
una rimozione e ricollocazione della modernità, di un inizio che può coincidere
solo con la fine o il dissolversi della modernità, di un ritorno impossibile
dal punto di vista moderno), ma in quanto implica che gli sforzi assiduamente
compiuti dalla modernità sono stati fuorviati, compiuti su pretese infondate e
destinati, presto o tardi, a seguire il loro corso” , Le sfide dell’etica, cit., p. 16.
[56] Col termine antico non si vuole indicare un criterio cronologico,
ma un orizzonte di idee e principi che si presentano alternativi e per alcuni
versi opposti a quelli presenti nel paradigma del moderno. Cfr. L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova,
Cedam, 1981, p. 242 ss.
[57]Sulla distinzione tra il concetto dell’io nell’età moderna e l’io
nella società eroica Cfr. A. Mac Intyre,
Dopo la virtù, Milano, Feltrinelli,
1988, p.148 ss. ; Cfr. inoltre L. Dumont,
Saggi sull’individualismo, Milano,
Adelphi, 1993.
[59] Come rileva P. Barcellona,
nell’età contemporanea “La libertà stessa (…) rimanda sempre più all’idea di potere,
inteso come possibilità di stare nel mondo e gestirlo, potenza pratica di
partecipazione autoaffermazione.”, Il
declino dello stato, Bari, Ed. Dedalo, 1998, p.214.
[61] La responsabilità che si traduce in un giudizio sulle azioni viene
definita retrospective responsibility,
a differenza di quella implicata dalla mediazione – che mostra significative
affinità con la responsabilità per ruolo – definita prospective responsibility; così M.S.
Moore, Law and Psychiatry. Rethinking
the Relationship, Cambridge, Cambridge Un. Press, 1984, p. 50. Sul concetto
di responsabilità giuridica cfr. H.L.A.
Hart, Responsabilità e pena,
Milano, Ed. Comunità, 1981; si veda inoltre, per una distinzione tra responsabilità giuridica,
morale e politica, U. Scarpelli, Riflessioni sulla responsabilità politica,
in La responsabilità politica. Diritto e
tempo, a cura di R. Orecchia,
Milano, Giuffrè, 1982.
[64] Delegittimare o “mettere tra parentesi” gli impulsi e i sentimenti
morali per poi cercare di riedificare l’edificio dell’etica a partire da
ragionamenti accuratamente mondati dalle sfumature emotive e sciolti da ogni
legame con l’intimità umana non
manipolata, equivale a dire (…) che se noi solo potessimo levar di mezzo i
muri, vedremmo meglio che cosa regge il soffitto.”,così Z. Bauman, Le sfide
dell’etica, cit., p.41.
[65] Sulla rimozione della sfera emozionale degli individui dall’ambito
della conoscenza operata dal filone vincente del pensiero moderno cfr. H.E. Richter, Pensieri di potenza e nuova etica, in Nuova civiltà delle macchine, 1992 n.1, pp.26-31.
[66] P. Barcellona, che
dedica una lunga riflessione a questo inesorabile lavoro di esproprio operato
dal pensiero razionalista, così conclude: “A partire dal formalismo del cogito,
dunque, tutta l’esperienza moderna può essere letta come un immane tentativo di
nullificare le pulsioni libidico-affettive, le differenze fra gli individui, la
cultura e le forme di vita, e contestualmente di negare il “rapporto di
filiazione” e la catena delle generazioni”, Il
declino dello stato, cit., p.295.
[67] Sulle dicotomie della modernità B.
De Sousa Santos, Stato e diritto nella transizione
post-moderna. per un nuovo senso comune giuridico, cit.
[70] L’espressione è di M.
Serres, Le tiers-instruit,
Paris, Ed. Bourin, 1991, cit. In S. Castelli,
La mediazione, cit., p. 95.
[71] Cfr. A. Pigliaru,
che ha analizzato il sistema etico della comunità barbaricina, ricostruendo
regole di vita comune, usanze e tradizioni, giungendo a concludere che
l’insieme delle consuetudini barbaricine può essere definito come un
ordinamento giuridico, La vendetta
barbaricina come ordinamento giuridico, in Id. Il banditismo in Sardegna, Milano, Giuffré, 1975.
[72] La regione geografica centro-orientale della Sardegna che, grazie
alla sua posizione e ai suoi abitanti, ha conservato e custodisce gelosamente numerose e
antiche tradizioni scomparse dal resto
dell’isola; come la definisce Pigliaru: “la “zona” geografica e morale delle
ultime resistenze autoctone alle varie invasioni e dominazioni della storia
sarda, e per questo i suoi costumi sono tra quelli più caratteristici della
Sardegna, i suoi dialetti più fedeli all’origine neolatina, la sua “cultura”
popolare la più organica e quella
altresì elaborata su basi più autonome”, op. cit., p. 7 nota 1.
[73] Cfr. M. Douglas, che
cita il caso degli Sherpa del Nepal, “nei cui villaggi ogni membro sollecita deliberatamente
gli altri affinchè risolvano pacificamente i loro dissidi. Essi cercano di
ridurre la loro rivalità. Possono contare su procedure di riconciliazione
forti, informali. Se queste falliscono, uno dei litiganti lascerà il
villaggio”. In questo caso il rifiuto della pacificazione secondo le regole
della comunità implica l’autoesclusione dalla stessa. Douglas nota che manca del tutto il meccanismo di
attribuzione della colpa, tipico della struttura sociale occidentale, Rischio e pericolo, Bologna, Il Mulino,
1996, p. 34
[74] Occore precisare che L.
Parkinson si riferisce espressamente alla mediazione familiare, ma
ritengo che l’esigenza sia estendibile ad ogni tipo di mediazione, Separazione, divorzio e mediazione familiare,
cit., p.93.
[75] Si veda il lavoro di D.
Antonucci, a cui rinvio per la bibliografia sull’argomento, Mediazione e intervento psicologico, in La sfida della mediazione, cit.
[76] M. Umbreit, ad
esempio, delineando i caratteri del modello di mediazione umanistica si
richiama alla teoria, elaborata da Virginia
Satir nel contesto della terapia familiare, che sottolinea la ‘presenza’ del terapista, necessaria per
instaurare una autentica relazione umana: “Although Satir developed her
concepts of making contact and congruence in the context of family therapy, her
material is relevant to a humanistic model of mediation.”, The Handbook of Victim Offender Mediation, cit., p. 12.
[77] “Ma nessun mediatore che miri a risultare attendibile, neppure nei
suoi momenti peggiori si sognerebbe di mirare a modificare la personalità dei
propri clienti”, La mediazione, cit.,
p.21, le citazioni successive sono alla p.23.
[79] Cfr. il breve saggio autobiografico di C. Musatti, Uno
psicoanalista fuori dalle regole, Bari-Roma, Laterza
[83] Cfr. A. Ceretti, Progetto per un Ufficio di Mediazione Penale
presso il Tribunale per i Minorenni di Milano,in La sfida della mediazione, cit.