N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione - Lavori in corso - Contributi
Sanctitas:
cose, Dèi, (uomini).
Premesse per una ricerca
sulla
santità nel diritto
romano
di Francesco Sini.
(*) Comunicazione presentata nel XXI Seminario
Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Sanctitas. Persone
e cose da Roma a Costantinopoli a Mosca» (Campidoglio, 19-21 aprile 2001).
Sommario
1.
Premessa.
2.
Sacro, santo, religioso (emersione di categorie
giuridiche e religiose tra sacerdoti e giuristi).
3.
Il problema dell’inquadramento giuridico delle res
sanctae.
4.
Alcune realtà materiali della sanctitas.
A) le mura della città.
5.
B) I templa.
«Separare con caratteristiche
ben definite ciò che appartiene agli uomini da ciò che appartiene agli Dèi;
distinguere con un’analisi ancora più minuziosa le diverse forme di proprietà
divina; stabilire tutto questo sulla base di definizioni ed esempi»: con queste
parole Auguste Bouché-Leclercq, introducendo la parte in cui ha trattato «del
sacro e del profano» nel suo libro Les Pontifes de l’ancienne Rome
(1871), sintetizzava prerogative e compiti di questi sacerdoti, da lui
qualificati «fedeli intendenti degli Dèi».
La sapientia (teologica
e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione delle res divinae
e delle res humanae, rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai
rapporti tra uomini e divinità, al fine di evitare che una non perfetta conoscenza
delle intrinseche qualità di uomini, cose materiali e Dèi, potesse
compromettere la conservazione della pax deorum, sulla cui
stabilità riposava per la teologia e per il diritto la stessa vita del Populus
Romanus Quirites.
Nelle antitesi «divino/umano» e fas/nefas si manifestava «la più antica concezione romana del
mondo» (Orestano). Su tale concezione del mondo, frutto della cautela
definitoria della scienza sacerdotale e della tensione universalistica della
teologia pontificale[1],
appaiano fondate sia la definizione ulpianea di iurisprudentia, accolta nei Digesta
dell'imperatore Giustiniano[2],
sia la summa divisio rerum della
giurisprudenza romana[3].
Ma, quasi sicuramente, anche il grande M. Terenzio Varrone aveva fatto
riferimento a questa «più antica concezione romana del mondo» nella
strutturazione delle sue Antiquitates
in humanae e divinae[4].
Regolare una materia così ardua e dai profili incerti,
richiedeva un’intensa attività speculativa e decisionale, che assorbiva gran
parte dell’attività decretale dei pontefici.
Macrobius,
Sat. 3.3.1: Et quia inter decreta pontificum hoc maxime quaeritur
quid sacrum, quid profanum, quid sanctum quid religiosum, quaerendum utrum his
secundum definitionem suam Vergilius usus sit et singulis vocabuli sui
proprietatem suo more servaverit[5].
[«Nei decreti dei pontefici si indaga soprattutto
su ciò che è sacro, su ciò che è profano, su ciò che è santo, su ciò che è
religioso»]
Purtroppo,
lo stato miserevole dei materiali provenienti da documenti sacerdotali non
consente di farsi un’idea precisa di questa immensa attività interpretativa,
che, stando all’enunciazione di Macrobio, coinvolgeva l’intera realtà del mondo
conoscibile. Decretare in merito a che cosa sia sacrum, cosa sia profanum,
sanctum o religiosum significava per i pontefici dover tracciare
linee di demarcazione non sempre definibili, né in maniera chiara né una volta
per tutte.
Ben
poco risulta comprensibile di questi antichi decreti, di cui giuristi e
antiquari sintetizzano quasi sempre le conclusioni, avulse da ogni contesto
argomentativo ed esemplificativo. Ne conseguono definizioni lacunose e poco
soddisfacenti, quali appunto le definizione di sanctum; testimonianze
evidenti delle difficoltà dei pontefici a ricondurre a un’idea semplice il
significato vago e multicomprensivo della parola.
Esemplare
al riguardo la definizione di sanctum proposta dal giurista Trebazio
Testa, nel libro decimo del suo De religionibus; definizione che
noi possiamo leggere in una citazione tratta dai Saturnalia di Macrobio:
Macrobius,
Sat. 3.3.5: Sanctum est, ut idem Trebatius libro decimo Religionum
refert, interdum idem quod sacrum idemque quod religiosum, interdum aliud, hoc
est nec sacrum nec religiosum, est[6].
Dunque
per Trebazio sanctum «talora è sinonimo di sacro e di religioso, talora ha
significato diverso, cioè né sacro né religioso». Il giurista enuclea una nozione di sanctum – così come aveva fatto per sacrum e per religiosum –
priva di riferimenti giuridici, che sembrerebbe collocarsi al di fuori del
dibattito relativo alla concettualizzazione delle res sanctae; seppure, per qualche autorevole romanista non sarebbe
del tutto fuori luogo «accostare gli svolgimenti di Trebazio … alla
problematica delle classificazione delle res divini iuris» (M. Talamanca,
Trebazio Testa tra retorica e diritto, p. 56).
Neanche il ricorso all’etimologia antica offre alcunché di
positivo: i grammatici sembrano essere d’accordo nel far derivare sanctum
da sancitum e sancitum da sanguis. Secondo Servio, tardo
commentatore di Virgilio, il significato originale di sanctum sarebbe
quello di «reso sacro attraverso la consacrazione con sangue sacrificale».
Servius, in Verg. Aen. 12.200: ‘Sancire’ autem proprie est
sanctum aliquid, id est consecratum, facere fuso sanguine hostiae: et dictum
‘sanctum’, quasi sanguine consecratum[7].
In tal
modo, per il commentatore di Virgilio, l’epiteto si adatterebbe a tutti gli
oggetti santificati con l’immolazione di vittime, ma senza che per essi sia
stato celebrato alcun rito di consacrazione. Per quanto il contesto virgiliano[8],
di sapore arcaizzante, con la stretta relazione tra sancio, sanctum
e i fulgura – che santificavano i luoghi –, sembra piuttosto avvalorare
la tesi che sanctum fu usato prima in riferimento a luoghi, poi per gli
uomini che partecipavano della protezione sacra (Latte, Römische
Religionsgeschichte, pp. 39, 81).
Va
subito premesso che nelle fonti manca una definizione precisa ed esauriente di
ciò che è santo (sanctum) e di che cosa siano, dal punto di vista della
classificazione giuridica, le “cose sante” (res sanctae).
Né
soccorrono al riguardo le diverse posizioni della dottrina giuridica
contemporanea in merito alle res sanctae. Sebbene l’opinione
prevalente tenda a considerare le res sanctae come res divini iuris, in
quanto poste sotto la speciale protezione degli Dèi (così ad es. P. F. Girard,
G. Branca, E. Betti, R. Monier,
B. Biondi, A. Guarino, P. Voci); tuttavia, sul tema sono ben noti gli
approfondimenti e le divergenti riflessioni di studiosi insigni e
autorevolissimi, quali Pietro Bonfante, Giorgio
Riprendendo il discorso
sulle fonti, si deve rilevare che già nelle testimonianze più antiche, per
quanto improntate su testi di giuristi dell’età repubblicana o del primo
Principato (Servio Sulpicio Rufo, Trebazio Testa, Elio Gallo, Masurio Sabino),
la terminologia non si presenta affatto netta. Termini come sanctum e religiosum
sono presentati spesso come sinonimi, avviluppati e confusi in un concetto più
ampio e onnicomprensivo di religiosità.
Abbiano
già discusso delle difficoltà interpretative poste dalla definizione di sanctum
formulata dal giurista Trebazio Testa. Ma neanche dai giuristi dell’età
imperiale viene maggior chiarezza sul concetto di res sanctae, di
cui resta emblematica la definizione del giurista Gaio:
Gaius, Institutiones
2.8: Sanctae quoque res, velut muri et portae, quodammodo divini iuris sunt.
[«Anche le cose sante, come le mura e le porte,
sono in qualche modo di diritto divino»]
«Le res sanctae – scrive
M. Talamanca (Istituzioni di diritto romano, p. 382) – non sono, in
senso stretto, res divini iuris: già Gaio affermava che
esse vi rientravano solo in un certo senso … Esse sono, in definitiva, res
publicae poste sotto una specifica protezione dal punto di vista
sacrale».
Non posso approfondire
qui di seguito le implicazioni testuali. Basterà ricordare la vivace polemica
tardo interpolazionista del Solazzi sulla non genuinità del frammento di Gaio;
polemica che ha segnato il dibattito dottrinale negli anni cinquanta del
Novecento, ma che ora mi pare definitivamente superata, anche grazie agli studi
del Busacca.
Altri giuristi romani,
quali Marciano[9], Paolo[10] e Ulpiano[11] citano le res sanctae accanto alle res sacrae e alle res religiosae, senza però ricomprenderle
esplicitamente nella categoria delle res
divini iuris. Si potrebbe
argomentare in negativo, rilevando che i giuristi appena citati tendono
comunque a differenziare (contrapponendole) le res sanctae dalle res publicae. Questo si evince da Paolo in D. 39.3.17.3 e, ancora prima, da un frammento del commento all’editto provinciale
di Gaio (D. 41.3.9), in cui appare altrettanto netta la contrapposizione alle res publicae[12]
sia delle res sacrae sia delle res
sanctae, che però non risultano
accomunate nello stesso genus.
Nel
pensiero dei giuristi romani la specificità delle res sanctae sembra
concretizzarsi piuttosto sotto il profilo della protezione giuridica ad esse
accordata[13] e, quindi, della
sanzione che ne vietava la violazione. È quanto si legge nel frammento di
Ulpiano in D. 1.8.9.3:
D. 1.8.9.3
(Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum): Proprie dicimus
sancta, quae neque sacra neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata,
ut leges sanctae sunt, sanctione enim quadam sunt subnixae. Quod enim sanctione
quadam subnixum est, id sanctum est etsi deo non sit consecratum: et interdum
in sanctionibus addicitur, ut qui ibi aliquid commisit, capite puniatur.
[«Propriamente diciamo ‘sante’ le cose che non sono
né sacre né profane, ma sono avvalorate per mezzo di qualche sanzione: per
esempio sono sante le leggi: infatti sono appoggiate ad una sanzione. Infatti
ciò che è appoggiato ad una sanzione è santo, anche se non è consacrato a Dio;
e talvolta nelle sanzioni si aggiunge che colui, il quale commise alcunché in
materia, sia punito con la testa»]
Ma
anche le Istituzioni di Giustiniano collegano la santità di una res alla
sanzione che ne punisce la violazione:
Inst. 2.1.10: Sanctae quoque res, veluti muri et portae,
quodammodo divini iuris sunt et ideo nullius in bonis sunt. Ideo autem muros
sanctos dicimus, quia poena capitis constituta sit in eos, qui aliquid in muros
deliquerit, ideo et legum eas partes, quibus poenas constituimus adversus eos
qui contra leges fecerint, sanctiones vocamus.
[«Anche le cose sante, come le mura e le porte, sono in
qualche modo di diritto divino, e, per tanto, non sono in godimento di alcuno.
Diciamo sante le mura perché è stabilita la pena capitale contro coloro che
abbiano commesso nei confronti delle mura qualche delitto. Per questo, pure,
chiamiamo sanzioni quelle parti delle leggi con cui stabiliamo le pene contro i
loro violatori»]
Dai
passi appena citati comincia ad intravedersi la realtà concreta, materiale e
immateriale, delle res sanctae: lo erano le leggi, le mura dell’Urbs
(e poi, per assimilazione del rito augurale di fondazione, di tutte le città
dell’orbe romano) e, almeno in età giustinianea, anche le porte della città.
Proprio
la santità delle mura era stata utilizzata come caso esemplificativo di sanctum
dal giurista Elio Gallo, autore di un’opera intitolata «De verborum, quae ad
ius civile pertinent, significatione», laddove distingueva tria divini
iuris genera:
Festus, De
verb. sign., p.
Ora,
a proposito dei tria divini iuris genera, si può notare che, mentre per sacrum
e per religiosum il giurista individua sia le res (edificio;
sepolcro) sia le procedure operative (consecratio; inumazione del
cadavere), nel caso di sanctum indica invece solo l’oggetto della
santità, tacendo sulle procedure operative, e quindi sulla competenza a rendere
sancta una res.
Ci soccorre al riguardo
Cicerone, il quale nel de natura deorum ricollega la santità delle mura
alla teologia e al diritto elaborati dal collegio dei pontefici («urbis
muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis»):
Cicero, De
nat. deor. 3.94: Est enim mihi te cum pro aris et focis certamen et pro
deorum templis atque delubris proque urbis muris, quos vos pontifices sanctos
esse dicitis diligentiusque urbem religione quam ipsis moenibus cingitis; quae
deseri a me, dum quidem spirare potero, nefas iudico.
Ancora più importante, al riguardo, appare la glossa Tesca dell’epitome
di Festo, pervenuta purtroppo irrimediabilmente mutila:
Festus, De verb. sign., p.
Tuttavia nel testo festino, si leggono con sicurezza le parole sancta
loca, pontifici libri e dedicaverit. Si tratta, in
tutta evidenza, di una citazione testuale dai libri pontificum.
Sulla base della quale non risulta difficile affermare – ritengo senza alcun
dubbio – la presenza nei libri pontificum di formule solenni, di
regole rituali e di procedure relative alla santificazione dei luoghi; nonché
una competenza più generale dei pontefici in materia di sorveglianza e
regolamentazione dei loca sancta.
In relazione alla regolamentazione dei sancta
loca, i pontefici dovevano certo raccordare la loro attività a quella
degli àuguri; poiché. come è stato autorevolmente dimostrato (Valeton,
Catalano) «Dapprima
…ciò che era inauguratus era sanctus; anche se, ovviamente, la sanctitas
non era esclusiva delle realtà inaugurate».
In questa prospettiva, non
pare possibile sostenere che la santità delle mura sia più tarda rispetto alle
realtà inaugurate; tesi – come è noto – proposta da Fabrizio Fabbrini: «All’accezione
di sanctus come “inaugurato” subentra quella di sanctus =
“garantito”: garantito da un atto sacer, e garantito dagli Dèi. Ciò che
è garantito dagli Dèi è considerato “immutabile”, “solido”, “sicuro”. è in questa accezione che va ricercato
il significato di sanctus dato alle mura e alle porte fin da età
piuttosto antica» (Fabbrini 1968, p. 542).
Tuttavia, il dato testuale non
corrobora la tesi del Fabbrini. Nessuna fonte lascia intendere, infatti, una
scansione temporale così evidente tra le due accezioni di sanctum; né,
d’altra parte, esiste prova certa che il concetto di sanctum, inteso
come «ciò che è inaugurato», abbia mai avuto operatività esclusiva, perfino
nella fase primordiale dell’esperienza giuridica romana.
È certo, invece, che la teologia e il
diritto dei sacerdotes, considerava la santità delle mura connessa agli
stessi riti di fondazione dell’Urbe; attraverso le prescrizioni di quei libri
rituales etruschi, a cui secondo la tradizione si sarebbe richiamato il
fondatore di Roma.
Festus, De verb. sign., p.
Nella compilazione giustinianea numerose disposizioni
tutelano la santità delle mura. In D. 1.8.9.4[14],
Ulpiano attesta che non è lecito rifare le mura, né affiancare o sovrapporre una
costruzione senza l’autorizzazione del principe o del preside (forse di
quest’autorizzazione in età repubblicana erano competenti i pontefici)
(Lübbert).
Nel
frammento D. 1.8.11:
(Pomponius libro secondo ex variis lectionibus): Si quis
violaverit muros, capite punitur, sicuti si quis transcendet scalis admotis vel
alia quilibet ratione. Nam cives Romanos alia quam per portas egredi non licet,
cum illud hostile et abominandum sit: nam et Romuli frater Remus occisus
traditur ob id, quod murum trascendere voluit;
il giurista Pomponio riferisce
che è sacrilegio, punito con la pena capitale, non solo violare le mura, ma
perfino il semplice transcendere scalis admotis, cioè «scavalcare le
mura avendovi accostato delle scale», poiché «non è lecito che i cittadini
romani escano altrimenti che attraverso le porte, essendo l’uscire altrimenti
atto da nemici o cosa abominevole». Questa santità delle mura, forse perché
volta a tutelare, oltre che l’inviolabilità nei loca, anche la sicurezza
degli homines, risulta poi estesa anche al vallum degli
accampamenti militari, che a nessuno era lecito violare, pena la morte[15].
Rientravano nella categoria delle res
sanctae – e forse erano le più sante di tutte – anche le aree inaugurate
chiamate templa. Le fonti distinguono sostanzialmente fra due tipologie: il templum
aërium o templum celeste (porzione di cielo limitata sulla
base di una precisa legum dictio e finalizzata
all’interpretazione augurale di segni che ivi si manifestavano)[16]; il templum terrestre
(spazio terrestre destinato, a seguito di speciali riti augurale, ad attività
religiose e politiche di sacerdoti e magistrati). I più delle volte questi templa
erano non solo sancta, ma resi anche sacra mediante consecratio;
la non coincidenza delle due qualità era talmente rara da essere oggetto della
curiosità erudita di Varrone[17].
Non voglio certo addentrarmi, ora,
nell’analisi del templum e del suo carattere sanctum[18] (e sovente anche religiosum)[19]; basterà riferire alcune valenze testuali che avvalorano questa
connessione. Un testo importante in tal senso è Ovidio, Fasti 1,
609-612:
Il poeta, in sostanza, per definire sancta
ricorre all’assimilazione con augusta; precisando poi che augusta vocantur /
templa sacerdotum rite dicata manu e che augustum ha la stessa origine di augurium;
insomma per Ovidio le res sanctae erano res inauguratae,
al pari dei templa[20].
Molti altri esempi di res sanctae,
oltre le mura e i templa, potrebbero essere ancora analizzati;
riservandomi di farlo per la pubblicazione degli atti, basterà ricordare qui
solo alcune altre delle res che si classificavano come sanctae: i
fana[21]; i delubra deorum[22];
Una ultima notazione, prima di passare
in rassegna la santitas degli Déi. Mi ha colpito, e anche un poco
sorpreso, constatare che nelle fonti i termini sanctitas e sanctum risultano
usati quasi mai in rapporto al tempo. Si direbbe che gli impieghi di questi
termini abbiano un prevalentemente valore locale, seppure operante in maniera
dinamica: da determinate porzioni dello spazio terrestre, agli homines
che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi, agli Dèi che quegli spazi
(e quanti li abitano) presiedono e tutelano.
L’espressione sanctitas Deorum
si legge nella parte iniziale della glossa festina «Religiosus», in cui
poi Verrio Flacco fa ricorso ad una lunga citazione di Elio Gallo per spiegare
cosa sia il religiosum:
Festus, De verb. sign., p.
Nell’unica definizione di sanctitas
che mi pare di conoscere, formulata nel De natura deorum:
Cicero, De nat. deor. 1.116: Sanctitas
autem est scientia colendorum deorum; qui quam ob rem colendi sint non
intellego nullo nec accepto ab his nec sperato bono;
il termine sanctitas
risulta interpretato dall’augure Cicerone in una prospettiva strettamente
umana, seppure assimilato (autem est) alla «scientia colendorum
deorum». Nello stesso senso si deve intendere un’altro riferimento
ciceroniano alla sanctitas, che si legge nel II libro del De officiis:
Cicero, De off. 2.11: ratione autem
utentium duo genera ponunt, deorum unum, alterum hominum. Deos placatos pietas efficiet
et sanctitas; proxime autem et secundum deos homines hominibus maxime utiles
esse possunt.
[«si pongono invece due specie di esseri partecipi di ragione, quella
degli Dèi e quella degli uomini. La pietà e la sanctitas renderanno
propizi gli Dèi…»]
Pietas e sanctitas sono
fondamentali per la placatio deorum. Anche questo caso, come nel testo
che precede, Cicerone si richiama al significato di sanctitas = scientia colendorum deorum. (Da notare che Cicerone ancora una volta postula
l’esistenza di una comunità tra uomini e Dèi: in questo caso si tratta della
comunità della ragione).
Ad un uguale significato di sanctitas
Cicerone sembra riferirsi anche in un passo dei Topica:
Cicero, Topica 90: Atque etiam aequitas
tripertita dicitur esse; una ad superos deos, altera ad manes, tertia ad
homines pertinere. Prima pietas, secunda sanctitas, tertia iustitia aut
aequitas nominatur.
Di grande interesse in
questo testo la tripartizione (da genus a species) dell’aequitas
sulla base della pertinenza agli Dèi superi, ai Mani o agli uomini: «La prima
si chiama pietas, la seconda sanctitas, la terza iustitia».
La prospettiva è assolutamente umana: così si può agevolmente spiegare il fatto
che l’aequitas verso gli Dèi celesti consista nella pietas
(quindi nel culto loro dovuto); se la si deve esercitare nei confronti dei Mani
si tratta di sanctitas (anch’essa intesa come forma di culto = scientia colendorum deorum); mentre diventa iustitia se la si deve
esercitare nei confronti degli uomini.
Per quanto l’astratto sanctitas
appaia piuttosto un fatto umano, rivolto verso gli Dèi; è tuttavia innegabile,
come ha già rilevato Huguette Fugier nel sue «ricerche sull’espressione del
sacro nella lingua latina», che «les dieux latins soient si souvent qualifiés
de sancti». La studiosa francese riporta un gran numero di esempi
attestati da fonti di varia natura.
Non posso addentrarmi nella sua
disanima delle fonti che attestano l’impiego di sanctus come epiteto di
divinità; tuttavia, mi pare utile discuterne brevemente qualcuna, anche perché
la studiosa francese lascia intendere che ciò possa essere frutto di un
contatto semantico tra il latino sanctus e il greco ¤gioj.
Esaminerò ora solo l’epiteto sanctus
riferito alla divinità del fiume Tevere, rinviando per gli altri allo scritto
definitivo.
Espressioni quasi identiche si susseguono
nella letteratura latina da Ennio, a Virgilio, a Tito Livio:
Ennius, Annalium
fragmenta 1.54: Te que pater Tiberine tuo cum flumine sancto /
Vergilius,
Aen. 8.68-73: Surgit et aetherii spectans orientia solis / lumina
rite cavis undam de flumine palmis / sustinet ac talis effundit ad aethera
voces: / 'nymphae, Laurentes nymphae, genus amnibus undest, / tuque, o Thybri
tuo genitor cum flumine sancto, / accipite Aenean et tandem arcete periclis.
/
Livius 2.10.11: Tum
Cocles: Tiberine pater, inquit, te, sancte, precor, haec arma et hunc militem
propitio flumine accipias.
La ripetizione della stessa impostazione verbale
lascia intravedere l’esistenza di una fonte comune, a cui i tre autori hanno
fatto riferimento. Si trattava, senza dubbio, di un antico testo di preghiera
documentato negli archivi sacerdotali[25]; poiché risulta per
certo, che il Tevere era invocato con epiteti divini già in età molto
risalente. Ciò avveniva sia nelle preghiere degli auguri:
Cicero, De nat. deor. 3.52: in augurum precatione Tiberinum, Spinonem, Anemonem, Nodinum, alia
propinquorum fluminum nomina videmus;
sia negli indigitamenta
dei pontefici:
Servius, in Verg.
Aen. 8.72: sic enim invocatur in precibus “adesto, Tiberine, cum tuis undis”.
E. Lübbert, Commentationes pontificales, Berolini
[1] Cfr. la qualifica, certo antichissima, attribuita
al pontifex maximus nell'ordo sacerdotum: Festus, De verb sign. pp.
198-200: Ordo sacerdotum aestimatur
deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dei Dialis,
post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in
soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem;
Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus:
Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui appallatur Dium; Martialis, quod Mars
conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito
Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum
humanarumque.
[2] D. 1.1.10.2 (Ulpianus, libro primo regularum): Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum
notitia, iusti atque iniusti scientia.
[3] Gaius, Inst. 2.2 (= D. 1.8.1.pr.): Summa
itaque rerum divisio in duos articulos diducitur: nam aliae sunt divini iuris,
aliae humani.
[4] Agostino, De
civ. Dei 6.3: In divinis identidem
rebus eadem ab illo divisionis forma servata est, quantum attinet ad ea quae
diis exhibenda sunt. Exhibentur enim ab hominibus, in locis et temporibus
sacra. Haec quattuor, quae dixi, libris complexus est ternis: nam tres priores
de hominibus scripsit, sequentes de locis, tertios de temporibus, quartos de
sacris, etiam hic qui exhibeant, ubi exhibeant, quando exhibeant, quod
exhibeant, subtilissima distinctione commendans. Sed quia oportebat dicere et
maxime id expectabatur quibus exhibeant, de ipsis quoque diis tres conscripsit
extremos, ut quinquies terni quindecim fierent. Sunt autem omnes, ut diximus,
sedecim quia et istorum exordio unum singularem qui prius de omnibus
loqueretur, apposuit; quo absoluto consequenter ex illa quinquepartita
distributione tres praecedentes, qui ad homines petinent, ita subdivisit, ut
primus sit de pontificibus, secundus de auguribus, tertius de quindecemviris
sacrorum: secundos tres ad loca pertinentia ita, ut in uno eorum de sacellis,
altero de sacris aedibus, diceret, tertio de locis religiosis. Tres porro qui
illos sequentur, ad tempora pertinent, id est ad dies festos, ita, ut unum
faceret de feriis, alterum de ludis circensibus, de scenicis tertium. Quartorum
trium ad sacra pertinentia uni dedit consecrationes, alteri sacra privata,
ultimo publica. Hanc velut pompam obsequiorum in tribus, qui restant, dii ipsi
sequuntur extremi, quibus iste universus cultus impensus est, in primo dii
certi, in secundo incerti, in tertio cunctis novissimo dii praecipui atque
selecti.
[5] Cfr. Cicero, De haruspicum responso 12: de
sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris
caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod
post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est,
quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui,
semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum
esse visum est.
[6] F. P.
Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae que supersunt, I. Liberae
rei publicae iuris consulti, Lipsiae 1896 [Rist. an. Roma 1964], p. 406
fragm. 9. Ph. E. Huschke, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta aucta et emendata ediderunt E. Seckel et B. Kuebler, I, Lipsiae 1908 [Reprint der Originalausgabe
Leipzig 1988], p. 45 fragm. 7.
[7] Servius, in Verg. Aen. 8. 382;
Isidorus, Orig. 15.4.2.
[8]
Vergilius, Aen. 12.200: audiat hoc genitor qui foedera fulmine sancit.
[9] D. 1.8.6.2
(Marcianus libro tertio institutionum): Sacrae res et religiosae et sanctae in nullius bonis sunt. D. 1.8.8
(Marcian. 4 regul).
[10] D. 39.3.17.3 (Paulus libro quinto decimo ad
Plautium): Sed loco sacro vel religioso
vel sancto interveniente, quo fas non sit uti, nulla servitus imponi poterit.
[11] D. 11.7.2.4 (Ulpianus libro vicensimo quinto
ad edictum): Purus autem locus dicitur, qui neque sacer neque sanctus
est necque religiosus, sed ab omnibus huiusmodi nominibus vacare videtur.
[12] D. 41.3.9 (Gaius libro quarto ad edictum
provinciale): Usucapionem
recipiunt [maxime] res corporales, exceptis rebus sacris, sanctis, publicis,
populi romani et civitatium, item liberis hominibus.
[13] D. 1.8.8.pr. (Marcianus libro quarto regularum): Santus est, quod ab iniuria
hominum defensum atque munitum est.
[14] (Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum):
Muros autem municipales nec reficere licet sine principis vel praesidis auctoritate
nec aliud eis congiungere vel super ponere.
[15] D. 49.16.3.17 (Modestinus libro quarto de
poenis): Nec non et si vallum quis transcendat aut per murum castra
ingrediatur, capite punitur.
[16] Cfr. Servius, in Verg. Ad Aen. 1.92; Livius
1.18; Varro, De ling. Lat. 7.8.
[17] Varro, apud Gellium, Noct. Att.
14.7.7.
[18] Livius 24.3.3: Sex milia aberat ab urbe nobile
templum, ipsa urbe [erat] nobilius, Laciniae Iunonis, sanctum omnibus circa
populis.
[19] Cicero, In Verrem
2.4.94: Herculis templum est apud Agrigentinos non longe a foro sane sanctum
apud illos et religiosum.
[20] Singolare il fraintendimento del grande Varrone a
proposito di templum, tescum e sanctum; cfr De ling.
Lat. 7.10: Quod addit templa ut si<n>t tesca, aiunt sancta esse
qui glossam scripserunt. Id est falsum: nam curia Hostilia templum est et
sanctum non est; sed hoc ut putarent aedem sacram esse templum, <eo
videtur> esse factum quod in urbe Roma pleraeque aedes sacrae sunt templa,
eadem sancta, et quod loca quaedam agrestia, quod alicuius dei sunt, dicuntur
tesca.
[21] Cicero, In Verrem 2.4.103: Ab eo oppido
non longe in promunturio fanum est Iunonis antiquum, quod tanta religione
semper fuit, ut non modo illis Punicis bellis, quae in his fere locis navali
copia gesta atque versata sunt, sed etiam hac praedonum multitudine semper
inviolatum sanctumque fuerit quin etiam hoc memoriae proditum est, classe
quondam Masinissae regis ad eum locum adpulsa praefectum regium dentes eburneos
incredibili magnitudine e fano sustulisse et eos in Africam portasse Masinissae
que donasse. Gellius, Noct. Att. 17.2.19: Tanta inquit sanctitudo
fani est, ut numquam quisquam violare sit ausus. 'Sanctitas' quoque et 'sanctimonia' non minus Latine dicuntur, sed nescio
quid maioris dignitatis est verbum 'sanctitudo',
[22] Lucretius, De rerum nat.,
6.417-20-23: Postremo cur sancta deum delubra suas que / discutit infesto
praeclaras fulmine sedes / et bene facta deum frangit simulacra suis que /
demit imaginibus violento volnere honorem?
[23] Cicero, Pro Milone
90: Templum sanctitatis amplitudinis mentis consilii publici, caput urbis,
aram sociorum, portum omnium gentium, sedem ab universo populo concessam uni
ordini inflammari excindi funestari, neque id fieri a multitudine imperita - quamquam
esset miserum id ipsum -, sed ab uno! qui cum tantum ausus sit ustor pro
mortuo, quid signifer pro vivo non esset ausurus?
[24] Cicero, De domo sua
109: Quid est sanctius, quid omni religione munitius quam domus unius
cuiusque civium? Hic arae sunt, hic foci, hic di penates, hic sacra,
religiones, caerimoniae continentur; hoc perfugium est ita sanctum omnibus ut
inde abripi neminem fas sit. Quo magis est istius furor ab auribus vestris
repellendus qui, quae maiores nostri religionibus tuta nobis et sancta esse
voluerunt, ea iste non solum contra religionem labefactavit, sed etiam ipsius
religionis nomine evertit.