N° 1 - Maggio 2002 -
Tradizione - Lavori in corso - Contributi
“Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione
giuridica dei venditori di schiavi(*)
di Rosanna Ortu
(*) Articolo in corso stampa nella rivista Ius Antiquum-Drevnee Pravo
9, (Moskva) 2002.
Sommario:
1. Premessa: “qui venaliciariam vitam exercebat”.
2.
I lemmi venaliciarius e mango
nelle fonti. A) Venaliciarius.
3.
B) Mango.
4.
Venaliciarii e
mangones: negotiatores o mercatores?
5.
La societas come strumento organizzativo dell’attività dei venaliciarii.
Qui venaliciariam vitam
exercebat è la significativa espressione utilizzata dal giurista Ulpiano,
in D. 32.73.4, per indicare il mestiere esercitato da chi si dedicava alla
vendita di mancipia:
D.
32.73.4 (Ulp. 20 ad Sab.): Eum, qui venaliciariam vitam exercebat, puto
suorum numero non facile contineri velle eiusmodi mancipia, [nisi evidens voluntas
fuit etiam de his sentientis]: nam quos quis ideo comparavit, ut ilico
distraheret, mercis magis loco quam suorum habuisse credendus est[1].
Nel
frammento 73, tratto dall’opera Ad
Masurium Sabinum libri LI[2],
il giurista discute problemi relativi a fattispecie di legato in cui il
testatore avesse destinato all’onorato tutti i suoi servi. In particolare nel paragrafo 4, per spiegare quali mancipia fossero da considerare servi sui, Ulpiano prospetta il caso del testatore qui venaliciariam vitam exercebat e manifesta l’opinione che si
dovessero escludere dalla fattispecie i mancipia
destinati alla vendita, in quanto – argomenta Ulpiano – si deve ritenere che
tali servi fossero stati acquistati
dal de cuius con la precisa
intenzione di rivenderli.
Del
frammento ulpianeo, da cui prende le mosse questo mio lavoro dedicato ad alcuni
aspetti della attività “imprenditoriale” dei venditori di servi, mi pare opportuno sottolineare anzitutto l’espressione venaliciariam vitam exercere, utilizzata
dal giurista severiano per designare la professione del venditore di mancipia; di questa espressione meritano
di essere sottolineati due dati particolarmente significativi per qualificare
dal punto di vista giuridico l’attività professionale dei commercianti di
schiavi.
Il
primo consiste nell’utilizzazione del verbo exercere[3].
Nelle fonti tale verbo viene sovente usato per qualificare una attività
economica e lavorativa condotta attraverso negotiationes[4], infatti,
nel linguaggio dei giuristi sono assai frequenti espressioni come “exercere negotiationes/exercere negotiationem”[5] ed “exercere negotium”[6].
A
questo proposito, appare condivisibile una osservazione del Fadda sul
significato del verbo exercere: «congiunto
ad un ramo di speculazione commerciale, sia marittima sia terrestre, equivale
al negotiari ed accenna ad una
attività continuativa»[7].
é evidente che nel frammento di
Ulpiano il verbo exercere viene
utilizzato con un significato corrispondente ad un “negotiari” avente ad oggetto, in questo caso, la compravendita di servi. Il giurista severiano sceglie il
verbo exercere per qualificare una
attività professionale organizzata, continuativa, a scopo di lucro, finalizzata
a concludere negotiationes[8]. Dunque,
coloro i quali venaliciariam vitam
exerceba(n)t altro non erano che commercianti di mancipia, che si avvalevano di una organizzazione, si direbbe oggi,
di tipo “imprenditoriale”[9].
Anche
il secondo dato appare di notevole rilievo. L’espressione venaliciariam vitam exercebat sottende, quasi per certo, anche un
giudizio negativo nei confronti della professione di venditore di schiavi. Per
il giurista tale mestiere, non casualmente definito venaliciariam vitam, sembra connotare in maniera del tutto negativa
la vita e il ruolo sociale dell’individuo che lo esercita.
Mentre
nella lingua latina i termini di uso più comune per definire il mercante di
schiavi erano venaliciarius e mango; nel linguaggio dei giuristi,
invece, colui che esercitava il commercio di schiavi veniva di norma indicato
con il sostantivo venaliciarius[10].
Anche l’aggettivo venaliciarius[11],
come attestano le fonti, risulta utilizzato dai giuristi soprattutto per qualificare
qualsiasi cosa riguardasse il mercato di schiavi: così nel Digesto sono piuttosto frequenti espressioni
quali societas venaliciaria[12] (che
sta ad indicare il particolare tipo di società costituita dai commercianti di mancipia), o venaliciariam vitam exercere[13]
(per fare riferimento all’attivitа svolta dai venaliciarii).
Al
contrario, nei testi giuridici[14]
la parola mango compare una sola
volta, pur essendo usuale il suo utilizzo nelle fonti letterarie[15] ed
epigrafiche[16].
Per
quanto riguarda venaliciarius, il
termine risulta già utilizzato dal giurista Africano[17];
successivamente lo si ritrova nelle opere di Papiniano[18] e il
suo uso si consolida in età severiana con i giureconsulti Paolo[19] e
Ulpiano[20], i
quali offrono significative testimonianze sugli impieghi del lemma venaliciarius e sull’attività svolta da
questa categoria di commercianti.
Pur
non esprimendo alcun giudizio di valore sulla professione svolta dai
commercianti di servi, Africano si
occupa della qualificazione giuridica dei venaliciarii,
mentre Papiniano evidenzia alcuni importanti elementi organizzativi
dell’attività commerciale da loro condotta.
Così
in D. 50.16.207 (Afr. 3 quaest.) si
legge:
‘Mercis’ appellatione homines
non contineri Mela ait: et ob eam rem mangones non mercatores, sed
venaliciarios appellari ait, et
recte[21].
Africano,
dopo essere ricorso alla dottrina di Fabio Mela[22],
in merito alla qualificazione del termine
merx, puntualizza che i mangones
non potevano essere definiti mercatores,
ma dovevano considerarsi venaliciarii.
È evidente che la qualificazione di venaliciarii
e mangones come mercatores o negotiatiores
appare essere centrale nel frammento di Africano; ma qui mi preme evidenziare,
piuttosto, il fatto che questo frammento rappresenta la fonte giuridica più
risalente in cui si utilizzano i lemmi venaliciarius
e mango per indicare i venditori
di schiavi.
Dal
discorso di Papiniano emergono invece ulteriori elementi sull’attività dei venaliciarii:
D.
17.1.57 (Pap. 10 resp.): Mandatum distrahendorum servorum defuncto qui
mandatum suscepit intercidisse constitit. quoniam tamen heredes eius errore
lapsi non animo furandi sed exsequendi, quod defunctus suae curae fecerat,
servos vendiderant, eos ab emptoribus usucaptos videri placuit. sed
venaliciarium ex provincia reversum Publiciana actione non inutiliter acturum,
cum exceptio iusti dominii causa cognita detur neque oporteat eum, qui certi
hominis fidem elegit, ob errorem aut imperitiam heredum adfici damno[23].
La
lettura del frammento, tratto dai Responsorum
libri XIX[24],
offre particolari riferimenti a forme di esercizio della professione di venaliciarius. Il caso discusso dal
giurista riguarda una vendita di servi
effettuata per errore dagli eredi di un mandatario; vendita conclusa dagli
eredi, non con animus furandi[25], ma
al solo fine di portare a compimento l’incarico attribuito da un venaliciarius al defunto mandatario. Il
frammento si presenta ricco di problematiche, a proposito della tutela dei
compratori e della possibilità del venaliciarius,
al suo rientro dalla provincia, di intentare vittoriosamente l’actio Publiciana[26].
Di questo frammento, però, vorrei evidenziare altri aspetti, che possono
risultare utili per delineare la struttura organizzativa dei venaliciarii. Il fatto che il giurista
descriva una fattispecie in cui il venaliciarius
abbia conferito mandato per la vendita di mancipia
ad un uomo libero, in seguito defunto, denota quanto fosse abituale, per i
venditori di schiavi, nell’epoca di Papiniano, ricorrere al contratto
consensuale di mandato per meglio organizzare il proprio tipo di commercio.
Inoltre, il riferimento al ritorno del venaliciarius
dalla provincia, attesta che i mercanti di schiavi sovente si spostavano in
luoghi lontani per condurre negotiationes.
Ne consegue, quindi, che il venaliciarius,
mediante incarico a uno o più mandatari, poteva operare contemporaneamente in
più mercati e così ampliare territorialmente il proprio raggio d’azione.
In
merito all’organizzazione dell’attività venaliciaria
sono di grande interesse anche le testimonianze dei giuristi Paolo e Ulpiano.
Paolo,
in un noto frammento riportato in D. 21.1.44.1, tratto dal suo commentario Ad edictum aedilium curulium[27],
evidenzia la consueta fallacia insita nell’operato dei venaliciarii:
D.
21.1.44.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.):
Proponitur actio ex hoc edicto in eum
cuius maxima pars in venditione fuerit, quia plerumque venaliciarii ita
societatem coeunt, ut quidquid agunt in commune videantur agere: aequum enim
aedilibus visum est vel in unum ex his, cuius maior pars aut nulla parte minor
esset, aedilicias actiones competere, ne cogeretur emptor cum multis litigare,
quamvis actio ex empto cum singulis sit pro portione, qua socii fuerunt: nam id
genus hominum ad lucrum potius vel turpiter faciendum pronius est[28].
Nel
passo si percepisce chiaramente quanto fosse più complessa l’organizzazione
dell’attività venaliciaria, rispetto
a quella descritta da Papiniano. Paolo, discutendo il caso della societas venaliciaria, mostra come ormai
consolidata la prassi di ricorrere al contratto di società[29] per
l’esercizio del commercio degli schiavi. A tal proposito, il giurista dà
notizia del fatto che gli edili curuli emanarono l’editto adversus venaliciarios per sanzionare la responsabilità dei singoli
soci con l’actio redhibitoria[30], nel
caso in cui fosse stata omessa la dichiarazione dei vizi degli schiavi venduti
nei mercati.
Inoltre,
la costituzione di una societas
consentiva ai venaliciarii socii di
agire simultaneamente in diversi mercati e di ripartire pro quota gli eventuali rischi e responsabilità derivanti
dall’esercizio della loro attività.
Nella
parte finale del passo si legge una frase assai significativa, con la quale
Paolo delinea chiaramente i fini poco nobili insiti nel mestiere di venditori
di schiavi: “nam id genus hominum ad
lucrum potius vel turpiter faciendum pronius est”. Nel pensiero del
giurista si coglie una nota di disapprovazione[31]
nei confronti dell’operato di coloro che si dedicavano alla compravendita di homines. È risaputo che questo ramo dei
traffici commerciali era considerato dagli antichi come il peggiore e il più
infamante[32];
è altrettanto noto che i mercanti di schiavi, per ottenere facili guadagni,
attuavano numerosi artifici e raggiri ai danni dei compratori ignari[33].
Di
questa situazione testimonia anche il giurista Ulpiano, contemporaneo di Paolo:
D.
21.1.37 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Praecipiunt aediles, ne veterator pro
novicio veneat. et hoc edictum fallaciis venditorum occurrit: ubique enim
curant aediles, ne emptores a venditoribus circumveniantur. ut ecce plerique
solent mancipia, quae novicia non sunt, quasi novicia distrahere ad hoc, ut
pluris vendant: praesumptum est enim ea mancipia, quae rudia sunt, simpliciora
esse et ad ministeria aptiora et dociliora et ad omne ministerium habilia:
trita vero mancipia et veterana difficile est reformare et ad suos mores
formare. quia igitur venaliciarii sciunt
facile decurri ad noviciorum emptionem, idcirco interpolant veteratores et pro
noviciis vendunt. quod ne fiat, hoc edicto aediles denuntiant: et ideo si quid ignorante
emptore ita venierit, redhibebitur[34].
L’intero
frammento è connotato da un susseguirsi di giudizi negativi nei confronti dei
commercianti di servi. Il giurista
scrive che gli edili curuli, al fine di evitare gli atti fraudolenti dei
venditori di schiavi (sono eloquenti al riguardo le espressioni “fallaciis venditorum occurrit” e “ne emptores a venditoribus circumveniantur”),
emanarono un editto attraverso il quale veniva sanzionato con l’actio redhibitoria il comportamento di
colui che veterator pro novicio veneat[35].
L’abituale modo di agire dei mercanti di servi
è delineato nel passo con chiarezza: i venaliciarii
erano soliti interpolare gli schiavi veteratores al fine di farli apparire
come servi novicii e quindi venderli ad un prezzo superiore[36].
In
merito ai venaliciarii è assai
rilevante anche un altro frammento di Ulpiano (D. 14.4.1.1), in quanto
contribuisce ad arricchire le notizie sul complesso sistema organizzativo dei
venditori di mancipia e sullo
svolgimento della loro attività.
In
D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.):
Licet mercis appellatio angustior sit, ut neque ad
servos fullones vel sarcinatores vel textores vel venaliciarios pertineat,
tamen Pedius libro quinto decimo scribit ad omnes negotiationes porrigendum
edictum[37],
il giureconsulto utilizza il
lemma venaliciarius per indicare servi con peculio[38],
dediti alla compravendita di schiavi per conto del dominus. Appare chiaro che il termine venaliciarius qualificava non solo l’attività svolta da uomini
liberi, ma anche quella intrapresa dai servi.
Se
ne deduce che ai tempi di Ulpiano doveva essere consueto svolgere il commercio
di schiavi mediante il ricorso a strutture organizzative assai complesse,
basate anche sull’impiego di servi
con peculio; in tal modo utilizzando forme di organizzazione che in termini
moderni potremmo definire “imprenditoriali”, il dominus restringeva, entro i limiti dell’attivo del peculio dello
schiavo, la propria responsabilità nei confronti dei terzi. Nel frammento di
Ulpiano è, quindi, possibile intravedere, applicato all’impresa venaliciaria,
quel peculiare modello di organizzazione imprenditoriale che A. Di Porto
denomina «“modello” a responsabilità limitata»[39].
Le
fonti fin qui considerate, chiariscono il significato del termine venaliciarius nel linguaggio dei giuristi.
Il venaliciarius esercitava il
commercio degli schiavi ricorrendo ad un’organizzazione di base più o meno
articolata: sia nell’uso di conferire mandato per la vendita di schiavi a
uomini liberi; sia nella costituzione di apposite società di venaliciarii; sia nella utilizzazione di
servi venaliciarii con peculio. Per i giuristi erano, dunque, venaliciarii quanti organizzavano la propria attività per concludere negotiationes aventi ad oggetto la
compravendita di schiavi: in sintesi, coloro i quali venaliciariam vitam exerceba(n)t.
Il
sostantivo non risulta utilizzato dai giuristi romani per qualificare i
venditori di schiavi. Unica eccezione è il già citato passo dei Quaestionum libri IX[40] di Sesto
Cecilio Africano, in cui il giurista rifiuta la qualifica di mercatores per i mangones, i quali a suo avviso dovevano essere considerati venaliciarii.
La
parola latina mango, di sicura
derivazione greca[41],
nelle fonti letterarie ed epigrafiche[42]
veniva utilizzata per indicare diverse categorie di mercatores, il più delle volte con l’accezione di mercante astuto e
fraudolento[43].
Nei testi degli autori antichi, il sostantivo mango viene usato per qualificare mercanti di vino[44], di
profumi e spezie[45],
di gioielli e pietre preziose[46]
ed, infine, di muli[47],
anche se, comunque, si può constatare che tale parola aveva prevalentemente, il
significato di commerciante di schiavi[48],
accezione che si consolidò soprattutto in età imperiale[49].
Sovente
gli autori latini descrivono, come fatto di costume, i vari tipi di artifici
attuati dai mangones per ingannare i
compratori di schiavi. Interessanti, a questo proposito, le parole che Seneca[50]
rivolge agli emptores di servi:
Ep. 80.9: Equum empturus solvi iubes stratum, detrahis vestimenta venalibus, ne
qua vitia corporis lateant: hominem involutum aestimas? mangones quicquid est,
quod displiceat, aliquo lenocinio abscondunt, itaque ementibus ornamenta ipsa
suspecta sunt: sive crus alligatum sive brachium aspiceres, nudari iuberes et
ipsum tibi corpus ostendi.
Il
filosofo, nel mettere in guardia i compratori, riferisce l’abituale
consuetudine dei mangones di
ricoprire con ornamenta gli schiavi,
per nasconderne difetti fisici; per tanto, suggerisce agli emptores di servi di
scoprire il corpo dei mancipia al
momento della vendita al fine di evitare l’atto di frode dei mangones[51].
Meritano
considerazione anche due passi di Quintiliano[52]
nei quali il retore descrive il consueto operare dei mangones. Nel primo di questi testi leggiamo:
Inst. 2.15.24, 25: Plerique autem, dum pauca ex Gorgia
Platonis a prioribus inperite excerpta legere contenti neque hoc totum neque
alia eius volumina evolvunt, in maximum errorem inciderunt credunt que eum in
hac esse opinione, ut rhetoricen non artem, sed ‘peritiam quandam gratiae ac
voluptatis’ existimet, et alio loco ‘civilitatis particulae simulacrum et
quartam partem adulationis’, quod duas partes civilitatis corpori adsignet,
medicinam et quam interpretantur exercitatricem, duas animo, legalem atque
iustitiam, adulationem autem medicinae vocet cocorum artificium, exercitatricis
mangonum, qui colorem fuco et verum robur inani sagina mentiantur, legalis
cavillatricem, iustitiae rhetoricen.
Alla
fine del brano il retore fa riferimento alla pratica dei mangones di simulare la prestanza fisica dei mancipia: «colorem fuco et
verum robur inani sagina mentiantur».
Il
secondo passo, invece, è una declamazione preparata da Quintiliano per un
dibattimento su un caso di truffa relativo all’importazione di schiavi novicii:
Decl.
340 pr.: Novicius praetextatus. Qui voluntate domini in libertate fuerit, liber
sit. Mango novicium puerum per publicanos traiecit praetextatum. Dicitur ille
liber.
Le parti della controversia
sono dei pubblicani e un mango. Dalla
lettura dell’intera Declamatio[53],
risulta che l’oggetto della controversia riguardava un’accusa di falsa
dichiarazione di novicii, importati
dal mango, per evadere il pagamento
del vectigal dovuto ai publicani. Proprio l’applicazione del vectigal era oggetto di discussione, in
quanto i pubblicani ne pretendevano il pagamento a proposito di un giovinetto
dichiarato libero dal mango (ma
evidentemente considerato novicius
dagli esattori). A prescindere dal fatto che il mango in questa occasione possa essere considerato autore o vittima
della truffa, risulta però evidente che nell’antica Roma né i mangones e né i pubblicani godevano di
buona reputazione, tant’è che Quintiliano alla fine del passo nota con
rammarico quanto fossero frequenti episodi di questo genere (Decl. 340.11.2: Novimus istam negotiationem, et
frequentissima in foro videmus iudicia talium iniuriarum).
L’autore
latino che offre maggiori testimonianze delle pratiche fraudolente dei
venditori di schiavi è Plinio il Vecchio[54].
In alcuni passi della Naturalis historia,
l’enciclopedista descrive con dovizia di particolari l’operato dei mangones ai danni di ignari compratori:
Nat. hist. 7.56: Toranius mango Antonio iam
triumviro eximios forma pueros, alterum in Asia genitum, alterum trans Alpis,
ut geminos vendidit: tanta unitas erat. postquam deinde sermone puerorum
detecta fraude a furente increpitus Antonio est, inter alia magnitudinem preti
conquerente (nam ducentis erat mercatus sestertiis), respondit versutus ingenii
mango, id ipsum se tanti vendidisse, quoniam non esset mira similitudo in ullis
eodem utero editis; diversarum quidem gentium natales tam concordi figura
reperire super omnem esse taxationem; adeo que tempestivam admirationem
intulit, ut ille proscriptor animus, modo et contumelia furens, non aliud in
censu magis ex fortuna sua duceret.
L’episodio
è molto significativo. Plinio racconta, infatti, di un atto di frode perpetrato
da un famoso venditore di schiavi, Toranio[55],
ai danni del compratore, il triumviro Antonio.
Dal testo emerge chiaramente la sfrontatezza e, soprattutto, la facilità nel
mentire di Toranio, il quale, pur di guadagnare sesterzi in più, riuscì a
vendere due giovinetti di diversa nazionalità (uno proveniva dall’Asia e
l’altro dalla Gallia Transalpina), in qualità di gemelli, solo perché tra i due
esisteva una forte rassomiglianza fisica. La vera abilità di Toranius si era manifestata al momento
del reclamo da parte del compratore; infatti, aveva convinto Antonio di essere
stato molto fortunato nel suo acquisto, poiché era raro trovare due persone
simili come gemelli, ma di diversa nazionalità. In questo modo Toranio aveva
dimostrato anche la congruità dei 200.000 sesterzi[56],
pagati dal compratore al momento della vendita.
Plinio
riferisce anche i diversi tipi di artifici posti in essere dai mangones per mantenere il più a lungo
possibile l’aspetto da impuberes dei mancipia:
Nat. hist. 21.170: Hyacinthus in Gallia maxime provenit. hoc ibi fuco hysginum tingunt.
radix est bulbacea, mangonicis venaliciis pulchre nota, quae e vino dulci
inlita pubertatem coercet et non patitur erumpere. torminibus et araneorum
morsibus resistit. urinam impellit. contra serpentes et scorpiones morbum que
regium semen eius cum habrotono datur.
Nat. hist. 30.41: Umeri doloribus mustelae cinis cum cera medetur. - Ne sint alae
hirsutae, formicarum ova pueris infricata praestant, item mangonibus, ut lanugo
sit pubescentium, sanguis e testiculis agnorum, cum castrantur. qui evulsis
pilis inlitus et contra virus proficit.
L’enciclopedista
descrive i metodi naturali, ben noti ai mangones,
per ritardare l’avvento della pubertà. Mantenere il più a lungo possibile
l’aspetto da giovinetti dei servi
doveva costituire, infatti, un grande vantaggio economico per i mangones: costoro potevano realizzare ingenti guadagni[57]
dalla vendita dei giovani mancipia,
in quanto un giovane schiavo aveva un valore di mercato assai più elevato
rispetto a quello di un servus veterator.
Infine,
in un altro passo Plinio fa menzione del rimedio utilizzato dai mangones in caso di eccessiva gracilità
del servus:
Plinio, Nat. hist. 24.35: Natura in medendo contrahere vulnera,
purgare, discutere collectiones. lenit pectoris vitia terebinthina; inlinitur
eadem calida membrorum doloribus spasticis que - in sole abluitur - et totis
corporibus mangonum maxime cura ad gracilitatem emendandam, spatiis ita
laxantium cutem per singula membra, capaciora que ciborum facienda corpora,
Dalle
fonti fin qui esaminate, appare evidente che i mangones non godevano di una buona reputazione.
Nel
linguaggio degli autori antichi col lemma mango
vengono definiti in termini dispregiativi i mercanti in genere, a prescindere
dal tipo di commercio da loro effettivamente svolto. In un primo tempo, quindi,
il termine mango pare utilizzato per
qualificare i mercatores disonesti,
mentre successivamente (in età imperiale) la parola servirà ad identificare
principalmente i mercanti di schiavi; cioè i venditori al dettaglio di “merce
umana”. Dai testi discussi in precedenza non si evince in alcun modo che i mangones avessero bisogno di una
organizzazione di tipo “imprenditoriale” per lo svolgimento delle loro
attività.
Mi
pare chiaro che i sostantivi mango e venaliciarius inizialmente avessero una
valenza diversa. Nel linguaggio degli antichi sembrerebbe che il termine
tecnico per indicare il commerciante di schiavi (cioè il soggetto a cui faceva
capo una organizzazione assai articolata per lo svolgimento della sua attività
commerciale) fosse venaliciarius;
mentre il sostantivo mango risultava
utilizzato nel linguaggio comune, con una valenza dispregiativa, per
identificare i mercanti che si occupavano di vari tipi di commerci e, tra
questi, anche della vendita al dettaglio di servi[58].
Si
tratta, a questo punto, di stabilire se venaliciarii
e mangones fossero considerati mercatores[59]
oppure negotiatiores[60]. I
termini negotiator e mercator, almeno fino al I sec. d.C.[61], si
presentavano concettualmente distinti, come risulta ben evidente dalla lettura
di due passi di Cicerone[62]:
Verr. II.2.188: Postulo ut mihi respondeat qui sit is
Verrucius, mercator an negotiator an arator an pecuarius, in Sicilia sit an iam
decesserit. clamare omnes ex conventu neminem umquam in Sicilia fuisse
Verrucium.
Planc. 64: Frumenti in summa caritate maximum numerum miseram; negotiatioribus
comis, mercatoribus iustus, mancipibus liberalis, sociis abstinens omnibus eram
visus in omni officio diligentissimus; excogitati quidam erant a Siculis
honores in me inauditi.
La
dottrina[63]
si mostra concorde sul significato del termine negotiator : tale termine era usato per indicare quel commerciante
che svolgeva stabilmente la sua attività, operando in una struttura fissa (taberna instructa[64]).
Pertanto, si deve convenire con A. Di Porto sul fatto che gli elementi
distintivi dell’attività svolta dai negotiatores
sono: la «continuità dell’esercizio»[65];
l’esistenza di una «certa organizzazione di cose e di uomini»[66]; il
«fine di lucro»[67].
Mercator[68]
era invece colui il quale, pur esercitando una attività continuativa[69],
comprava determinate merci al fine di rivenderle, senza tuttavia svolgere i
suoi commerci in un luogo determinato[70].
Questa
distinzione risulta confermata anche da alcune fonti epigrafiche, come ad
esempio:
CIL IX. 4680: a. herennuleius\cestus negotiator\vinarius a
septem\ caesaribus idem mercator\omnis generis mercium\ transmarinarum lictor\
vivos sibi fecit et libertis\ libertabusque suis\posterisque eorum.
Nel
testo, Erennuleio Cestio viene definito sia negotiator
vinarius, sia mercator omnis generis mercium; quindi, al commerciante in
questione risulta attribuita la duplice qualificazione di negotiator e di mercator.
Al riguardo, mi sembra da condividere l’interpretazione dell’epigrafe proposta
da T.J. Chiusi: «il personaggio in questione – scrive la studiosa – esercitava
in modo stabile una negotiatio vinaria,
stabile nel senso di fissa e permanente in un luogo e nel suo oggetto, ed
inoltre vendeva merci di diverso genere … Si può ipotizzare che egli comprasse
e rivendesse diversi tipi di merces e
perciò fosse qualificato mercator e
accanto a questa attività possedesse una taberna
organizzata al fine di vendere vino e sempre nel medesimo luogo»[71]. In
tal modo l’A. giustifica la doppia qualificazione di Erennuleio sia come mercator sia come negotiator[72].
Cercherò
di risolvere, ora, la questione posta all’inizio del paragrafo: di stabilire
cioè se venaliciarii e mangones fossero considerati mercatores oppure negotiatiores. Il testo da cui prendere le mosse è il frammento di
Africano D. 50.16.207 (3 quaest.) che
ora ripropongo all’attezione del lettore:
‘Mercis’ appellatione homines
non contineri Mela ait: et ob eam rem mangones non mercatores, sed
venaliciarios appellari ait, et
recte[73].
Per
Africano, dunque, i mangones non
potevano essere considerati mercatores,
ma dovevano essere più giustamente chiamati venaliciarii.
Il giurista giustifica questa sua affermazione ricorrendo alla dottrina di
Fabio Mela, secondo il quale il termine merx
non ricomprendeva gli homines. Il
fatto che Africano non qualifichi i mangones
come mercatores sta a significare che
anche i venaliciarii non erano mercatores. A mio avviso, il voler
equiparare i mangones ai venaliciarii, può solo significare che i
mangones in un primo momento rappresentavano
una categoria di commercianti differente rispetto a quella dei venaliciarii[74]; con
molta probabilità, i mangones
inizialmente erano annoverati solo nella categoria dei mercatores. Il frammento di Africano rappresenta una
autorevolissima testimonianza per affermare che, dal momento in cui con il
termine mango si indicava
esclusivamente il commerciante di schiavi, i mangones non furono più considerati mercatores bensì venaliciarii.
Come
ho già riferito nel paragrafo precedente, il termine mango nelle fonti si trova utilizzato anche per indicare il
venditore di vino[75],
quello di spezie[76],
di gioielli e di pietre preziose[77].
In tutti questi casi i mangones
potevano considerarsi mercatores, in
quanto la loro attività si esplicava nel comprare e nel vendere merces. Nell’ambito del contratto
consensuale di compravendita[78]
merx[79]
era tutto ciò che poteva essere acquistato mediante il pagamento di un pretium. Al riguardo, il giurista Paolo,
nel trattare le origini del contratto di compravendita[80],
scrive che quando si ebbe la creazione del denaro si iniziarono a distinguere i
concetti di vendere e di comprare, di pretium
e di merx:
D.
18.1.1.1 (Paul. 33 ad ed.): Nam ut aliud est vendere, aliud emere, alius
emptor, alius venditor, sic aliud est pretium, aliud merx: quod in permutatione
discerni non potest, uter emptor, uter venditor sit[81].
Il
giurista distingue il contratto consensuale di compravendita dalla permuta,
nella quale non era possibile qualificare il compratore e il venditore e dove
non si poteva individuare nemmeno il pretium
dalla merx.
Anche
Ulpiano dà una sua definizione di merx:
D. 50.16.66 (Ulp. 74 ad ed.): “mercis” appellatio
ad res mobiles tantum pertinet.
Da
Nonio Marcello, inoltre, apprendiamo che:
De comp. doctr. 431.9: Merx et mercatura hoc
distant. Merx
est species ipsa; mercatura actus ipse vel lucrumde merce; mercatus locus in
quo agitur mercatura.
Dunque
anche nella lingua letteraria, come del resto nel linguaggio dei giuristi, i
termini merx, mercator, mercatura[82] e mercatus[83]
risultano avere i significati tecnici ben precisi[84].
Tornando
però al passo di Africano (il quale, sulla base della dottrina di Fabio Mela,
riteneva che il termine merx non
ricomprendesse gli homines), ne
consegue che il commerciante non poteva essere considerato mercator, quando oggetto della compravendita era un “homo”. Tale orientamento interpretativo
sembra essere condiviso anche da Ulpiano:
D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.): Licet mercis
appellatio angustior sit, ut neque ad servos fullones vel sarcinatores vel
textores vel venaliciarios pertineat, tamen Pedius libro quinto decimo scribit
ad omnes negotiationes porrigendum edictum[85].
In
questo passo il giurista severiano scrive che il concetto di merx è angustior e non riguarda i servi lavandai, sarti, tessitori e
venditori di schiavi. Pur riferendosi, il termine merx, all’ambito di applicazione più specifico dell’editto de tributoria actione[86], è
comunque rilevante il fatto che Ulpiano accolga l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui i servi,
in quanto homines, non potevano
essere ricompresi nel concetto di merx.
Tuttavia,
questo non era solo l’unico orientamento interpretativo della giurisprudenza
romana. Vi sono, infatti, delle fonti in cui il termine merx viene usato per indicare gli homines, mentre il sostantivo mercator
viene utilizzato per qualificare i commercianti di schiavi.
Vediamo
brevemente alcune di queste fonti. In Plauto[87]
e in Cicerone, ad esempio, abbiamo impieghi del sostantivo merx per indicare schiavi.
Plauto, Persa 586:
Sag.: Hoc age. opusnest hac tibi empta?
Dor.: Si tibi venissest opus, mihi quoque emptast; si
tibi subiti nihil est, tantumdemst mihi.
Sag.: Indica, fac pretium.
Dor.: Tua mers est, tua indicatiost.
Verr.
5.146: At quae causa tum subiciebatur ab
ipso iudices huius tam nefariae crudelitatis? eadem quae nunc in defensione
commemorabitur. quicumque accesserant ad Siciliam paulo pleniores, eos
Sertorianos milites esse atque a Dianio fugere dicebat. illi ad deprecandum
periculum proferebant alii purpuram Tyriam, tus alii atque odores vestem que
linteam, gemmas alii et margaritas, vina nonnulli Graeca venalisque Asiaticos,
ut intellegeretur ex mercibus quibus ex locis navigarent. Non providerant eas
ipsas sibi causas esse periculi, quibus argumentis se ad salutem uti
arbitrabantur. iste enim haec eos ex piratarum societate adeptos esse dicebat,
ipsos in lautumias abduci imperabat, navis eorum atque onera diligenter
adservanda curabat.
Nei
versi di Plauto si tratta di una compravendita servile, a proposito della quale
il compratore, nel momento in cui si deve decidere l’ammontare del prezzo,
sollecita il venditore a proporre la cifra in quanto “tua mers est”.
Il
passo di Cicerone elenca, invece, beni oggetto di commercio, includendovi anche
i venales Asiaticos. Alla fine del passo, poi, definisce genericamente tutti
questi beni con il termine merx.
Veniamo
infine, sempre a proposito di merx,
al passo di Ulpiano già esaminato per altri aspetti nel primo paragrafo.
D.
32.73.4 (Ulp. 20 ad Sab.): Eum, qui venaliciariam vitam exercebat, puto
suorum numero non facile contineri velle eiusmodi mancipia, [nisi evidens
voluntas fuit etiam de his sentientis]: nam quos quis ideo comparavit, ut ilico
distraheret, mercis magis loco quam suorum habuisse credendus est[88].
Mentre
il termine mercator riferito ai
commercianti di schiavi si ritrova sia in autori latini[89], sia
in fonti epigrafiche, come quella riferibile a L. Valerius Zabdae, qualificato nell’iscrizione “mercatoris venalici”:
CIL
VI. 33813:
l. valerivs zabdae mercatoris venalici l. aries//sev stvpor est hvic stvdio sive est insania
nomen//omnis ab hac cvra/ cvra levata mea est //monimentvm apsolvi impensa
mea amica//tellvs vt det hoptium
ossibvs/ qvod omnes //rogant sed felices impetrant/ nam qvid //egregium qvidve
cupiendvm est magis qvam //vbi lvcem libertatis acceperis lassam
senectae//spiritvm ibi deponere qvod innocentis signum//est maximvm[90].
Che
cosa si può dedurre da tutte queste fonti in cui merx è utilizzato per definire anche servi e mercator per qualificare
anche commercianti di schiavi? Nel periodo più antico – ne danno conferma i
versi di Plauto –, con il termine merx
si designava genericamente qualsiasi cosa mobile, oggetto di compravendita. Più
tardi, si diffuse una concezione nuova per la quale il servus in quanto homo non
poteva essere considerato merx, pur
restando oggetto di compravendita. Si affermò, quindi, il principio poi
enunciato dal giurista Mela: “merx
homines non contineri”.
Per
quanto attiene alla testimonianza di Cicerone, pur non essendovi enunciato il
principio merx homines non contineri,
non mi pare che dal passo possa conseguire necessariamente la qualifica di mercatores per i commercianti di
schiavi, anche perché in altro luogo Cicerone opera una netta distinzione tra
commercianti di mancipia e mercatores:
Cicerone, Or. Frg. A VIII 9: Neque me divitiae movent,
quibus omnis Africanos et Laelios multi venalicii mercatoresque superarunt, neque vestis aut caelatum aurum et
argentum…
Mi
sembra quindi di poter affermare che nel passo delle verrine, Cicerone faccia riferimento ad un soggetto, la cui
attività principale non era il commercio di servi;
si trattava piuttosto di un mercante che commerciava merci di vario tipo e
quindi poteva essere considerato anche genericamente un mercator[91].
Per
quanto riguarda poi il contenuto della iscrizione, può essere convincente la
spiegazione proposta da T.J. Chiusi, la quale scrive: «il personaggio in
questione potrebbe aver ricevuto due qualifiche: quella di mercator e quella di venalicius»[92]; dando
così per certo che il soggetto menzionato nell’epigrafe svolgesse
principalmente la professione di commerciante di schiavi e secondariamente
anche quella di commerciante di altre merci.
Per
concludere. Inizialmente i mangones
venivano considerati mercatores, in
quanto si dedicavano continuativamente alla compravendita di vari tipi di merces, senza però disporre di una
struttura stabile e fissa per lo svolgimento della loro attività. In seguito,
quando diventò prevalente l’opinione giurisprudenziale per la quale “merx homines non contineri”[93], i mangones che esercitavano come attività
principale il commercio di schiavi non vennero più considerati mercatores, ma equiparati ai venaliciarii (al riguardo sono eloquenti
le parole di Africano). Quindi, si può affermare che i venaliciarii non appartennero mai alla categoria dei mercatores, in quanto esercitavano in
maniera continuativa il commercio di mancipia,
avvalendosi di organizzazioni assai complesse e di strutture stabili in cui
svolgere la loro attività[94].
Questo spiega perché nell’antica Roma i venaliciarii
(e successivamente i mangones)
venivano definiti negotiatores.
Gaio[95], nel
terzo libro delle sue Institutiones,
quando tratta del contratto di società scrive:
Gai
3.148: Societatem coire solemus aut
totorum bonorum aut unius alicuius negotii, veluti mancipiorum emendorum aut
vendendorum.
Nel
testo appare molto significativo il fatto che il giurista, dopo aver enunciato
che si è soliti unirsi in società “aut
totorum bonorum”, oppure “unius
alicuius negotii”, citi come esempio tipico di societas unius negotiationis la societas
di coloro che si dedicano alla compravendita di schiavi. L’attività di mancipia emere vendereque corrispondeva
a quella particolare forma di negotiatio
propria dei venaliciarii. Dunque, con
molta probabilità, doveva essere assai frequente per i venaliciarii riunirsi in società.
In questo
caso, l’organizzazione imprenditoriale dei commercianti di schiavi si regolava
con un contratto consensuale di società[96].
Nel Digesto si fa menzione della societas
venaliciaria[97]
in due passi: D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad
Sab.) e D. 21.1.44.1 (paul. 2
ad ed. aed. cur.).
Nel
frammento di pomponio[98]
leggiamo:
D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.): Socius
cum resisteret communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus, vulneratus
est: impensam, quam in curando se fecerit, non consecuturum pro socio actione
Labeo ait, quia id non in societatem, quamvis propter societatem impensum sit,
sicuti si propter societatem eum heredem quis instituere desisset aut legatum
praetermisisset aut patrimonium suum neglegentius administrasset: nam nec
compendium, quod propter societatem ei contigisset, veniret in medium, veluti
si propter societatem heres fuisset institutus aut quid ei donatum esset[99].
Il
passo fa riferimento indiretto alla societas
venaliciaria, in quanto si pone il problema di stabilire a chi imputare le
spese mediche del socio ferito durante un tentativo di fuga dei servi comuni messi in vendita[100].
Sembra chiaro che il socio in questione sia un venaliciarius e che quindi pomponio
discuta un caso di societas venaliciaria.
Nel
frammento di Paolo si prendono in considerazione i problemi della
responsabilità per vizi dei venaliciarii
socii. Rileggiamo il passo paolino:
D. 21.1.44.1 (paul. 2 ad ed. aed. cur.):
Proponitur actio ex hoc edicto in eum cuius maxima pars in venditione fuerit,
quia plerumque venaliciarii ita societatem coeunt, ut quidquid agunt in commune
videantur agere: aequum enim aedilibus visum est vel in unum eius, cuius maior
pars aut nulla parte minor esset, aedilicias actiones competere, ne cogeretur
emptor cum multis litigare, quamvis actio ex empto cum singulis sit pro
portione, qua socii fuerunt: nam id genus hominum ad lucrum potius vel turpiter
faciendum pronius est.
Il
testo lascia intendere che i mercanti di schiavi costituivano delle società per
poter organizzare meglio la loro attività. Molto probabilmente il vincolo
societario veniva adoperato in maniera tale da poter creare delle agevolazioni
nei confronti degli astuti venditori[101].
Di
conseguenza per salvaguardare i diritti degli acquirenti, gli edili curuli inserirono
nel loro editto la rubrica adversus
venaliciarios[102],
con la quale si stabiliva che le azioni edilizie potevano essere intentate per
intero nei confronti del venditore cui spettasse una quota maggiore o, in
mancanza, uguale a quella degli altri soci.
Con
questa disposizione si affermava uno speciale regime di solidarietà[103], al
fine di evitare che il compratore dovesse agire pro quota contro ogni singolo socio, per ottenere il prezzo pagato
durante la vendita dello schiavo. Dal testo di Paolo, inoltre, si può capire
che al momento della vendita del mancipium
non era indispensabile la presenza di tutti i venaliciarii socii, dato che questi ultimi venivano ugualmente
obbligati, entro i limiti della loro quota, dall’atto di gestione compiuto da
un solo socio. In questo caso non si può negare l’esistenza di una forma di
rappresentanza reciproca tra i soci e una rilevanza esterna del rapporto
sociale nel caso in cui i mercanti di schiavi avessero costituito la società in
modo da renderne nota l’esistenza ai terzi[104].
Questa è l’interpretazione del fr. 44.1 proposta da F. Serrao[105]. Lo
studioso si discosta dalla interpretazione tradizionale per la quale era
necessaria la presenza di tutti i soci al momento della vendita dello schiavo:
solo in questo modo - si affermava - , tutti i venaliciarii socii si
obbligavano e potevano così applicarsi le disposizioni dell’editto degli edili
curuli[106].
Ritengo
che l’interpretazione del serrao
sia quella da seguire in quanto, l’insigne studioso, esaminando il passo di
Paolo «senza alcun preconcetto», ha ottenuto come risultato una interpretazione
il cui pregio è la sua «aderenza al testo»[107].
lo speciale regime di solidarietà
ben si adattava alle esigenze negoziali dei commercianti di schiavi. Si può
quindi affermare che la scelta della societas
quale strumento organizzativo per lo svolgimento dell’attività venaliciaria comportava un fondamentale
vantaggio per i soci: la possibilità di agire contemporaneamente in più mercati
con il conseguente aumento del volume degli affari[108].
[1] o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae
1889, coll. 1086, fr. 2612. Il Lenel segnala l’interpolazione tribonianea della
frase “nisi evidens ... sentientis”.
In merito al passo di Ulpiano vedi: H.J. Wieling,
Testamentsauslegung im Römischen Recht,
München 1972, pp. 178, 182.
[2] Riporto il titolo dell’opera
indicato da o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 1019. Per i frammenti
superstiti si rinvia sempre a o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 1019 ss., frr. 2421 - 2992;
e a F. Schulz, Sabinus-Fragmente in Ulpians
Sabinus-Commentar, Halle 1906, pp. 11 ss., il quale individua tutti i
frammenti dell’opera di Ulpiano in cui è possibile ritrovare frasi o frammenti
dei ‘Iuris civilis libri III’ di
Masurio Sabino.
Dalle fonti emerge che vi furono due edizioni del
commentario ulpianeo. A tale proposito si veda il paragrafo 3 della Praefatio de emendatione codicis del Codex da cui risulta che: in antiquis etenim libris non solum primas
editiones, sed etiam secundas, quas repetitae praelectionis veteres nominabant,
subsecutas esse invenimus, quod ex libris Ulpiani, viri prudentissimi, ad
Sabinum scriptis promptum erat quaerentibus reperire.
Per quanto riguarda il periodo in cui fu redatto il
commentario di Ulpiano ai ‘Libri iuris civilis’ di Masurio Sabino, fin dalla dottrina risalente si ritiene
che, con molta probabilità, l’opera dovrebbe risalire all’epoca di Antonino
Caracalla, cfr. P. Jörs, s.v. “Domitius”, in RE V, Stuttgart 1903, col. 1441: «Buch, ohne Frage aber in seinem
ganzen Umfange, nach Severus Tode unter Caracalla (211-217) veröffentlicht
worden»; F. Schulz, Sabinus-Fragmente in Ulpians
Sabinus-Commentar, cit., pp. 1 ss., in particolare p. 5; Id.,
Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, Weimar 1961, pp. 264 ss. (Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera,
Firenze 1968, pp. 381 ss.). Sull’opera in generale e la sua datazione vedi
anche G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del
giurista, in ANRW II.15,
Berlin-New York 1976, pp. 732 ss., 753 s. Sulle altre opere del giurista vedi:
T. Honorè, Ulpian, Oxford 1982; F. Mercogliano,
“Tituli ex corpore Ulpiani”. Storia di un testo, Napoli 1997; Id., Le
“regulae iuris” del “Liber singularis” ulpianeo, in Index 26, 1998, pp. 353 ss.
[3] Per le occorrenze di tale
verbo nelle fonti giuridiche e, soprattutto, per la valenza di exercere nel passo di Ulpiano rinvio a
H. Heumann - E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rechts10, Graz 1958, p. 188, v. “exercere”.
[4] Risulta assai utile, per la
nozione di negotiatio, un testo di
Marciano, in cui si riferisce l’autorevole opinione di Labeone riguardo ad una
fattispecie di legato di schiavi da cui venivano esclusi i servi negotiatores: D. 32.65 pr. (Marcian. 7 inst.): Legatis servis
exceptis negotiatoribus Labeo scripsit eos legato exceptos videri, qui
praepositi essent negotii exercendi causa, veluti qui ad emendum locandum
conducendum praepositi essent: cubicularios autem vel obsonatores vel eos, qui
piscatoribus praepositi sunt, non videri negotiationis appellatione contineri:
et puto veram esse Labeonis sententiam. Dal frammento emerge chiaramente,
accanto a quelle che non possono esserne incluse, quali attività debbano essere
ricomprese nella nozione di negotiatio.
Per Labeone quindi, la negotiatio
riguarda l’attività svolta dai servi
al fine di acquistare, locare e condurre. Per la nozione di negotiatio vedi anche D. 14.3.5 (Ulp. 28
ad ed.); D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.) e D. 50.11.2 (Call. 3 de cogn.).
Sul significato del termine negotiatio nel linguaggio dei giuristi romani vedi, anzitutto, C. Fadda, Istituti commerciali del diritto romano. Lezioni 1902-1903, I,
Napoli 1903, p. 52, il quale riconduce il concetto di negotiatio a quello di «speculazione commerciale». Per quanto
attiene alla nozione generica di negotiatio
come attività continuativa commerciale vedi: W.W. Buckland, The Roman law
of slavery, Cambridge 1908, p.
234; A.D. Manfredini, Costantino la ‘tabernaria’ il vino, in Atti del VII convegno internazionale dell’Accademia
Romanistica Costantiniana (Spello-Perugia-Norcia, 16-19 ottobre 1985),
Napoli 1988, p. 328; A. Wacke, Alle origini della rappresentanza diretta:
le azioni adiettizie, in Nozione
formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze
moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, II, Napoli 1997, p. 596.
Rinvio, comunque, ai fondamentali studi di: F. Serrao, Impresa e
responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa 1989, p. 22, il quale, in
riferimento al frammento di Ulpiano D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.) su taberna instructa e negotiatio, così afferma: «E se, come parmi sicuro, negotiatio si traduce con “impresa”,
cominciamo pure ad avere il concetto di impresa e in particolare di impresa
commerciale»; F. Gallo, Negotiatio e mutamenti giuridici nel mondo
romano, in Imprenditorialità e
diritto nell’esperienza storica, (Erice 22-25 novembre 1988), a cura di M.
Marrone, Palermo 1992, pp. 133 ss., 823 n. 4, il quale sottolinea efficacemente
lo stretto collegamento tra negotiatio
e attività imprenditoriale; A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, in Nozione formazione
e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche
dedicate al Prof. Filippo Gallo, III, Napoli 1997, p. 440, il quale scrive:
«Come studi recenti hanno posto ormai in chiara evidenza, con negotiatio i giuristi fanno riferimento
all’idea generale di attività imprenditoriale, in una parola al concetto di
impresa». Di grande interesse anche lo studio di T.J. Chiusi, Contributo allo
studio dell’editto “de tributoria actione”, in Memorie Acc. Lincei, serie IX, III, fasc. 4, Roma 1993, p. 283 n.
2: «Negotiatio, correlato a negotiari, è termine vasto nel quale
rientra sia l’attività di rivendita di merces,
sia quella artigianale, sia quella di prestazione di servizi»; nonché quello
recentissimo di M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum
instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica,
in «Antecessori oblata». Cinque studi
dedicati ad Aldo Dell’Oro (con, in appendice, un inedito di Arnaldo Biscardi),
Padova 2001, pp. 65 s., la quale sostiene che: «siano qualificabili alla
stregua di negotiationes le sole
attività economiche consistenti nella conclusione di determinati contratti con
la clientela, che siano svolte in maniera stabile e abituale a fine di lucro».
Inoltre, la Ligios è dell’avviso che il concetto di ‘negotiatio’ non riguardi il settore della produzione (in part. vedi
pp. 53 ss.) e mostra di non condividere quanto sostenuto da A. Di Porto,
op. ult. cit., p. 439, a proposito
dell’interpretazione di D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.), il quale ritiene che negotiator
e negotiari venissero utilizzati da
Sesto Pedio e da Ulpiano «per fare riferimento all’intero ambito
imprenditoriale, compresa la produzione».
[5] Le espressioni “exercere negotiationes/exercere negotiationem” ricorrono in
numerosi passi del Digesto. Particolarmente interessanti: D. 14.4.5.15 (Ulp. 29
ad ed.): Si plures habuit servus creditores, sed quosdam in mercibus certis, an
omnes in isdem confundendi erunt et omnes in tributum vocandi? ut puta duas
negotiationes exercebat, puta sagariam et linteariam, et separatos habuit creditores.
puto separatim eos in tributum vocari: unusquisque enim eorum merci magis quam
ipsi credidit; D. 38.1.45 (Scaev. 2 resp.):
Libertus negotiatoris vestiarii an eandem
negotiationem in eadem civitate et eodem loco invito patrono exercere possit? respondit
nihil proponi, cur non possit, si nullam laesionem ex hoc sentiet patronus.
Vedi anche: D. 14.3.11.3 (Ulp. 28 ad ed.);
D. 14.4.5.16 (Ulp. 29 ad ed.); D.
32.65 pr. (Marcian. 7 inst.).
Sull’exercere
negotiationes per servos communes rinvio, soprattutto, ai lavori di A. Di Porto,
Impresa collettiva e schiavo “manager”
in Roma antica. (II a.C.-II d.C.), Milano 1984, pp. 19 ss.; Id., Il
diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 413 ss.
[6] Il giurista Scevola utilizza
spesso la locuzione exercere negotium,
come nel frammento D. 37.14.18 (Scaev. 4 resp.):
Quaero, an libertus prohiberi potest a
patronoin eadem colonia, in qua ipse negotiatur, idem genus negotii exercere.
Scaevola respondit non posse prohiberi; ma anche in D. 26.7.47.6 (Scaev. 2 resp.); D. 26.7.58 pr. (Scaev. 11 dig.).
Fra i tanti frammenti delle opere dei giuristi, in cui compare l’espressione exercere negotium, vedi: D. 4.9.32
(Ulp. 14 ad ed.); D. 14.3.19.1 (Pap.
3 resp.); D. 32.65 pr. (Marcian. 7 inst.).
[7] C. Fadda, Istituti
commerciali del diritto romano, cit., p. 57. Dello stesso avviso anche A. Di Porto,
Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni
storico-comparative dei commercialisti, cit., p. 438; M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna
instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, cit., p. 65 n.
124, la quale ritiene che ciò sia particolarmente evidente in numerose
fattispecie considerate dai giuristi: fra le tante, elencate da M.A. Ligios,
anche l’attività di commercio degli schiavi (“venaliciariam vitam exercere”) a cui si riferisce Ulpiano nel frammento
D. 32.73.4 (Ulp. 20 ad Sab.).
[8] Faccio riferimento a
categorie utilizzate, al fine di chiarire le nozioni di negotiator e di negotiatio,
da A. Di Porto, Il diritto
commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., p. 442:
«Iniziamo da negotiator (exercitor) e negotiatio. Sembrano essere caratterizzate dai seguenti elementi: -
dalla continuità dell’esercizio …; - dall’esistenza di una certa
organizzazione, di uomini e cose, finalizzata all’esercizio della negotiatio; - dal fine di lucro, dal quaestus».
[9] Le fonti mostrano in maniera
inequivocabile che l’attività dei commercianti di schiavi era organizzata in
modo più o meno complesso, infatti, potevano disporre di organizzazioni (che in
termini moderni si potrebbero definire imprenditoriali) di beni e di uomini
finalizzate alla compravendita di servi.
A tale proposito, sono significavi: 1) il riferimento all’esistenza di tabernae in cui i commerciati di schiavi
negotiantur al fine di mancipia emere vendereque (Seneca, De const. sap. 2.13.4: Num moleste feram, si mihi non reddiderit
nomen aliquis ex his qui ad Castoris negotiantur, nequam mancipia ementes
vendentesque, quorum tabernae pessimorum servorum turba refertae sunt? Non, ut
puto); 2) i documenti epigrafici che attestano trasferimenti di “aziende”
venaliciarie (Tabula Herculanensis n.
LXIII e CIL IV.
3340 n. XLV = FIRA, Negotia,
Apocha Pompeiana, Chirographa,
n. 130a); 3) i frammenti delle opere dei giuristi su servi institores preposti
alla vendita di schiavi (D. 14.3.17 pr.; Paul. 30 ad ed.) e su servi con peculio dediti all’attività
imprenditoriale di compravendita di schiavi (D. 14.4.1.1; Ulp. 29 ad ed.),
che dimostrano l’impiego, anche in questo ambito commerciale, dei modelli
imprenditoriali a responsabilità limitata e illimitata del dominus. Su tali aspetti dell’organizzazione giuridica dei
commercianti di schiavi, rinvio a R. Ortu,
Note in tema di organizzazione e
attività dei venaliciarii, in Archivio storico e giuridico sardo di
Sassari 6, 1999 (in corso di stampa).
In generale sui commercianti di schiavi vedi: w. Westermann, The Slaves Sistems of
Greek and Roman Antiquity, Philadelphia 1955, pp. 98 s.; M.I. Finley, Il commercio degli schiavi nell’antichità: il Mar Nero e le regioni
danubiane, in Schiavitù antica e
ideologie moderne, a cura di M.I. Finley, Bari 1981, pp. 231 ss. (= The Slave trade in Antiquity: the Black Sea
and Danubian Regions, in Klio 40,
1962, pp. 51 ss.); Id., Aulus Kapreilius Timotheus, in Aspects of Antiquity, a cura di M.I. Finley, London 1968, pp.
162 ss.; F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di
società in diritto romano, in Studi
Volterra, V, Milano 1971, pp. 743 ss.; W.E. Boese, a study of the slave trade and the sources
of slaves in the Roman Republic and the early Roman Empire, Washington 1973, pp. 158 ss.; M.F. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, II, Bari 1979, pp. 759 ss.; A.J.
Toynbee, L’eredità di Annibale, II, Torino 1981, pp. 425 ss.; F. Coarelli, Iside capitolina, Clodio
e i mercanti di schiavi, in Studi
Adriani, III, Roma 1984, pp. 461 ss.; Id.,
“Magistri Capitolini” e mercanti di schiavi nella Roma
Repubblicana, in Index 15, 1987,
pp. 174 ss.; I. Bieżuńska
Małowist, La schiavitù nel mondo antico, Napoli
1991, pp. 34 ss.
[10] Per quanto riguarda l’uso
nelle fonti del sostantivo venaliciarius
vedi: H.E. Dirksen, Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum,
Berolini 1837, p. 987, s.v. “venaliciarius”;
E. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, IV, Patavii
1887, p. 931, s.v. “venaliciarius”; Vocabolarium Iurisprudentiae Romanae, V,
Berolini 1939, col. 1255, s.v. “venaliciarius”;
H. Heumann - E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rechts10, cit., p. 616, s.v. “venaliciarius”.
[11] Sulle occorrenze
dell’aggettivo venaliciarius vedi:
H.E. Dirksen, Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum, cit., p. 987,
s.v. “venaliciarius”; E. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, cit., p. 931, s.v. “venaliciarius”; Vocabolarium Iurisprudentiae Romanae, V, cit., col. 1255, s.v. “venaliciarius”; H. Heumann - E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rechts10, cit., p. 616, s.v. “venaliciarius”.
[12] Cfr. D. 21.1.44.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.).
[13] Cfr. D. 32.73.4 (Ulp. 20 ad Sab.).
[14] Cfr. D. 50.16.207 (Afr. 3 quaest.).
[15] Il termine mango viene utilizzato assai di
frequente dagli autori latini. Al riguardo vedi Varrone, frg. Non. 179.7; Orazio,
Ep. 2.2.13; Seneca, Contr. 1.2.9; Seneca, Ep. 80.9; Plinio, Nat. Hist. 7.56, 9.168, 10.140, 21.170, 23.26, 24.35, 30.41;
Marziale, Ep. 1.58.1, 7.80.9,
9.5(6).4; Quintiliano, Inst. 2.15.25,
Decl. 340; Svetonio, Aug. 69.1, Dom. 7.1; Macrobio, Sat.
2.4.28.
[16] Vedi CIL XIII.8348: C Aiacius P. f Stel mango hic situs est. Vale Aiaci; ILS 4833: I. O. M. Poenino C. Domitius Carassounus
Hel(uetius) mango u.s.l.m. Sulle due iscrizioni vedi T. Kleberg, Mango - a semasiological study, in Eranos 43, 1945, pp. 282 s., il quale osserva che: «Even if these examples
do not directly state anything about the meaning of mango, it is evident that
the word has not a derogatory sound, but is used as a purely objective
indication of profession»; W.E. Boese,
A Study of the Slave trade and the
Sources of Slaves in the early Roman Empire, cit., pp. 158, 189 n. 112 e
113, 193 nn. 158.
[17] Sul giurista Sesto Cecilio
Africano vedi W. Kalb, Roms Juristen. Nach ihrer Sprache Dargestellt, Leipzig 1890, pp. 66 ss. Rinvio comunque ai più recenti
contributi di A. Wacke, Dig. 19, 2, 33: Afrikans Verhältnis zu
Julian und die Haftung für höhere Gewalt, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, pp. 455 ss.; e di F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C.: il senso del
passato, in ANRW II.15, cit., pp.
131 ss. [ora in Id., Giuristi adrianei, (con Note di prosopografia e bibliografia su
giuristi del II secolo d.C., a cura di G. De Cristofaro, Napoli 1980, pp. 8
ss.)] da leggersi con le recensioni di M. Talamanca,
Per la storia della giurisprudenza romana,
in BIDR 80, 1977, pp. 277 ss. Da
ultimo vedi F. Casavola, Gellio, Favorino, Sesto Cecilio, in Giuristi adrianei, cit., pp. 75 ss., 324
ss., al quale si fa rinvio anche per l’ampia bibliografia ivi citata.
Per i frammenti superstiti del giurista Africano vedi o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
coll. 1 ss.,
frr. 1-122; ph. Huschke - e. Seckel - b.
Kübler, iurisprudentiae anteiustinianae
reliquiae6, I, Lipsiae 1908, pp.
97 ss.
[18] Il giurista Papiniano è stato
oggetto di numerosi studi da parte della dottrina a partire da W. Kalb, Roms Juristen. Nach ihrer Sprache Dargestellt, cit., pp. 107 ss.; E. Costa, Papiniano. Studio di storia interna del
diritto romano, Bologna
1894 (rist. an. Roma 1964). Si rinvia però, anche per la bibliografia ivi
citata, a V. Giuffrè, Papiniano: fra tradizione ed innovazione,
in ANRW II.15, cit., pp. 632 ss. (sul
contributo del Giuffrè vedi le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 204 ss.).
[19] Sulla figura del giurista si rinvia
a C.A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica
all’età dei Severi. Iulius Paulus, in ANRW
II.15, cit., pp. 667 ss., da leggere con la recensione di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 221 ss. Del
giurista si occupa anche A. Mantello,
Il sogno, la parola, il diritto. Appunti
sulle concezioni giuridiche di Paolo,
in BIDR 94-95, 1991-1992, pp. 349 ss.
[20] La dottrina romanistica ha
dedicato un gran numero di studi a questo giureconsulto. Si fa, per tanto,
rinvio per contenuti e bibliografia ivi citata a G. Crifò, Ulpiano.
Esperienze e responsabilità del giurista, cit., pp. 708 ss. (su cui vedi le
considerazioni critiche di M. Talamanca,
Per la storia della giurisprudenza romana,
cit., pp. 236-249). Più recenti: V. Marotta,
Ulpiano e l’impero, I, Napoli
2000; M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il diritto di famiglia,
Torino 2001. Sulla
formazione stoica del giurista vedi: U. Manthe,
Beiträge zur Entwicklung des
antiken gerechtigkeitsbegriffes
II: Stoische Würdigkeit und iuris praecepta Ulpians, in ZSS 114, 1997, pp. 1 ss. Sul pensiero di Ulpiano in
tema di schiavitù vedi A. Schiavone, Legge di natura o convenzione sociale? Aristotele, Cicerone, Ulpiano
sulla schiavitù-merce, in Schiavi e dipendenti
nell’ambito dell’“oikos” e della “familia”. Atti del XXII Colloquio GIREA, Pontignano
19-20 novembre 1995, a cura di M. Moggi - G. Cordiano, Pisa 1997, pp. 173
ss.
[21] Cfr. o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 6, fr. 23. Sul frammento di Africano vedi: A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager”
in Roma antica, cit., pp. 223 s.; T.J. Chiusi,
Contributo allo studio dell’editto
“de tributoria actione”, in Memorie
Acc. Lincei, serie IX, III, fasc. 4, Roma 1993, pp. 315 ss.; E. Jakab, Praedicere und cavere beim Marktkauf, München 1997, pp. 17 s.
[22] Per i frammenti in cui viene
citato il giurista Fabio Mela rinvio a o.
lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 691 ss., frr. 1-33, il quale
afferma: «Melam Servio esse aetate minorem, maiorem Proculo colligitur ex fr.
(33.9) 3 § 10, (9.2) 11 pr.» (col. 691 n. 1). Sul giurista vedi, in
particolare, C. Ferrini, Saggi intorno ad alcuni giureconsulti
romani. A) Fabio Mela, in Opere,
II, Milano 1929, pp. 11 ss. (già in Rend. Ist.
Lomb. 18, 1885, pp. 865 ss.); W. Kunkel,
Herkunft und soziale Stellung der
römischen Juristen, Weimar 1952, p. 116.
[23] Cfr. o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 928, fr. 639. Sul frammento di Papiniano vedi A. Burdese, Autorizzazione
ad alienare in diritto romano, Torino 1950, pp. 85 s.; D. Daube, Mistake of Law in Usucapion, in The
Cambridge Law Journ., 1958, pp. 85 ss.; F.B.J. Wubbe, Res aliena
pignori data. De verpanding van andermans zaak in het klassieke Romeinse Rehct,
Leiden 1960, pp. 54 ss.; R. Martini,
Il problema della causae cognitio
pretoria, Milano 1960, pp. 127 s.; J.A.C. Thomas,
Animus furandi, in Iura 19, 1968, pp.
18, 30; O. Behrends, Die Prokuratur des klassischen römischen
Zivilrechts, in ZSS 101, 1971,
pp. 235, 275; P. Apathy, Die Actio Publiciana beim Doppelkauf vom
Nichteigentuemer, in ZSS 112,
1982, pp. 158 ss.; O. Milella, Il consenso del “dominus” e l’elemento
intenzionale nel furto, in BIDR
91, 1988, pp. 391 ss.
[24] I frammenti superstiti dei Responsorum libri XIX sono raccolti da o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
coll. 881
ss., frr. 387-749; ph. Huschke - e.
Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae6, I, cit., pp. 429 ss., frr. 2-23. Per quanto riguarda il periodo
di composizione dell’opera, o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 881, ritiene che:
«Responsorum pars prior conscripta est sub imp. Severo et Caracalla, pars
posterior iam solo imperante Caracalla».
[25] I problemi inerenti all’animus furandi nel frammento di
Papiniano sono affrontati soprattutto da: J.A.C. Thomas, Animus furandi, cit., p. 18; O. Milella, Il consenso del “dominus” e l’elemento intenzionale nel furto,
cit., pp. 392 s.
[26] Sull’ambito di applicazione
dell’actio Publiciana in D. 17.1.57, vedi P. Apathy,
Die Actio Publiciana beim Doppelkauf vom
Nichteigentuemer, cit., p. 180.
[27] Per i frammenti tratti dal
commentario Ad edictum aedilium curulium
di Paolo, vedi o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 1095 s., frr. 832-842. I
frammenti superstiti riguardano sempre il commento all’editto de mancipiis vendundis e vengono
inseriti nei libri 79 (frr. 832-839) e 80 (frr. 840-842) dell’opera di paolo Ad edictum. Cfr. anche ph.
Huschke - e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae6, II, cit., pp. 4 ss.
[28] Cfr. o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 1096, fr. 841.
[29] Il contratto di società è
stato oggetto di numerosi studi da parte della dottrina romanistica vedi tra
gli altri: B.W. Leist, Zur Geschichte der römischen Societas,
Jena 1881; E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain,
Paris 1928; F. Wieacker, Societas. Hausgemeinschaft und
Erwerbsgesellschaft, Weimar 1936; C.
Arnò, Il contratto di società, Torino 1938; E. Szlechter, Le contrat
de société en Babylonie en Grèce et a Rome, Paris 1947; v. Arangio-ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950; M. Bianchini, Studi sulla societas, Milano 1967; F. Bona, Studi sulla società consensuale in diritto
romano, Milano 1973; M. Talamanca,
v. “Società. a) Diritto romano”, in ED
29, Milano 1990, pp. 814 ss.; J.H. Lera,
El contrato de sociedad. La
casuistica jurisprudencial clasica, Madrid 1992; L. Gutiérrez-Masson, Del
“consortium” a la “societas”, I-II, Madrid 1994; G. Santucci, Il socio
d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, Padova 1997.
[30] Sull’actio redhibitoria si vedano soprattutto: W.W. Buckland, The Roman law of slavery, Cambridge 1908, pp. 59 ss.; R. Monier, La garantie contre les vices, Paris 1930,
pp. 59 ss.; A. Pezzana, D. 21, 1, 45. Contributi alla dottrina
romana dell’actio redhibitoria, in
risg, serie III, 5, 1951, pp. 275 ss.; F. Pringsheim,
The decisive moment for Aedilician
liability, in Rida
5, 1952, pp. 545 ss.; v. Arangio-ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli 1954, pp. 369 ss.; G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, Padova 1955, pp. 137 ss.; A.M. Honoré, The history of the Aedilitian actions from Roman-dutch law, in Studi De Zulueta, Oxford 1959, pp. 132 ss.; D. Pugsley, The Aedilician Edict, in Daube
Noster, a cura di A. Watson, Edinburgh-London 1974, pp. 253 ss.; A. Watson, Sellers’ Liability for Defects: Aedilician Edict and Pretorian law,
in Iura 38, 1987, pp. 167 ss.; L. Manna, “Actio redhibitoria” e responsabilità per vizi nell’editto “de
mancipiis vendundis”, Milano
1994, pp. 173 ss.; R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford 1992 (rist. 1996), pp. 317 ss.; N. Donadio, Sull’“actio redhibitoria”, in Index
25, 1997, pp. 649 ss.; L. Garofalo, “Redhibitoria actio duplicem habet
condemnationem” (a proposito di Gai. ad
ed. aed. cur. D. 21,1,45), in Atti del Convegno sulla Problematica
contrattuale in diritto romano, Milano 11-12 maggio 1995. In onore di Aldo Dell’Oro, Milano 1998,
pp. 57 ss.; Id., Perimento della cosa e azione redibitoria in
un’analisi storico-compararatistica, in Europa
e diritto privato 2, 1999, pp. 843 ss.; Id.,
Studi sull’azione redibitoria,
Padova 2000.
[31] La disapprovazione sociale e
la pessima reputazione dei venditori di schiavi emerge fin dal periodo di
Plauto, Capt. vv. 98-101: nunc hic occepit quaestum hunc fili gratia/
inhonestum et maxime alienum ingenio suo:/ homines captivos commercatur, si
queat/ aliquem invenire, suom qui mutet filium.
[32] Cfr. W.E. Boese, A Study of the Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman
Empire, cit., pp. 158 ss.; H.A. Wallon,
Historie de l’esclavage, Aalen 1974,
p. 48; J. Toynbee, L’eredità di Annibale, II, cit., p. 425.
[33] Nelle fonti vi sono numerose
attestazioni degli atti di frode dei venditori di mancipia. Sono particolarmente interessanti gli atti fraudolenti
perpetrati dai commercianti di schiavi per aggirare le disposizioni dell’editto
degli edili curuli. Le frodi dei venditori di servi vengono evocate in maniera molto limpida da Cicerone, de
off. 3.17.71: Nec vero in praediis
solum ius civile ductum a natura malitiam fraudemque vindicat, sed etiam in
mancipiorum venditione venditoris fraus omnis excluditur. Qui enim scire debuit
de sanitate, de fuga, de furtis, praestat edicto aedilium. Nel titolo D.
21.1 vi sono alcuni frammenti in cui l’emanazione dell’editto degli edili viene
sempre giustificata facendo ricorso alla volontà di porre fine alla fallacia dei venditori di schiavi, tra
tutti vedi: D. 21.1.1.2 (Ulp. 1 ad ed.
aed. cur.): Causa huius edicti
proponendi est, ut occurratur fallaciis vendentium et emptoribus succurratur
...; D. 21.1.37 (Ulp. 1 ad ed. aed.
cur.): Praecipiunt aediles, ne veterator
pro novicio veneat. Et hoc edictum fallaciis
venditorum occurrit: ubique enim curant aediles, ne emptores a venditoribus
circumveniantur. Nei due passi citati il
giurista Ulpiano descrive chiaramente comportamenti fraudolenti dei venditori
di servi ai danni degli ignari
compratori. Ma vedi anche D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.):
Iustissime aediles noluerunt hominem ei
rei quae minoris esset accedere, ne qua fraus aut edicto aut iure civili fieret,
in cui si fa riferimento all’intervento degli edili, i quali emanarono la
rubrica “si alii rei homo accedat”,
al fine di evitare che si attuasse la frode all’editto, da parte dei venditori
di mancipia, mediante la vendita di uno schiavo in qualità di accessorio di una
res.
[34] o. lenel, Palingenesia
iuris civilis, II, cit., col. 896, fr. 1789. Sul frammento di Ulpiano vedi:
G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., pp.
69 ss.; M. Kaser, Die Jurisdiktion der Kurulischen Ädilen,
in Mélanges Philippe Meylan, I,
Lausanne 1963; R. Freudenberger, Das Verhalten der römischen Behörden gegen
die Christen im 2. Jahrhundert dargestellt am
Brief des Plinius an Trajan und den Reskripten Trajans und Hadrians, München 1969, p. 84. Più recenti L. Manna, “Actio redhibitoria” e responsabilità per vizi della cosa nell’editto
“de mancipiis vendundis”, cit.,
pp. 75 s.; E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf, cit., pp. 141 ss.; F. Serrao,
Impresa, mercato, diritto.
Riflessioni minime, in Mercati
permanenti e mercati periodici nel mondo romano, Atti degli incontri capresi di
storia dell’economia antica (Capri 13-15 ottobre 1997), a cura di E. Lo
Cascio, Bari 2000, p. 46.
[35] Gli edili curuli
contemplarono nel loro editto anche la rubrica ‘ne veterator pro novicio veneat’ (cfr. O. Lenel, L’édit perpétuel,
(trad. fr. a cura di F. Peltier), Paris 1903, pp. 303 ss.), nella quale veniva
sanzionata con l’actio redhibitoria la mancata dichiarazione (o
l’errata dichiarazione) dei servi novicii
e di quelli veteratores: D. 21.1.65.2
(Ven. 5 act.): servus tam veterator quam
novicius dici potest. sed veteratorem non spatio serviendi, sed genere et causa
aestimandum Caelius ait: nam quicumque ex venalicio noviciorum emptus alicui
ministerio praepositus sit, statim eum veteratorum numero esse: novicium autem
non tirocinio animi, sed condicione servitutis intellegi. nec ad rem pertinere,
Latine sciat nec ne: nam ob id veteratorem esse, si liberalibus studiis eruditus sit.
[36] Cfr. F. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, cit., p. 46, il
quale, inoltre, afferma: «L’‘interpolazione’ denunciata da Ulpiano in tanto
poteva avvenire in quanto in mercato venivano presentati come tali gruppi
piuttosto numerosi di novicii, magari
con particolari indicazioni pubblicitarie».
[37] o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
col. 591, fr. 836. Sul passo di Ulpiano vedi soprattutto A. Di Porto,
Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., pp. 220
ss.; Id., Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., pp. 439 ss.; T.J. Chiusi,
Contributo allo studio dell’editto
“de tributoria actione”, cit., pp. 314 ss.; F. Serrao, Impresa,
mercato, diritto. Riflessioni minime, cit., p. 46; M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna
instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, cit., pp. 59 ss.;
R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii, cit. supra in n. 9.
[38] Sul peculio, la sua origine e
il suo impiego a fini imprenditoriali vedi, soprattutto: T. Trincheri, Studi sulla condizione degli schiavi in Roma; Roma 1888, pp. 59
ss.; G. Micolier, Pecule et capacité
patrimoniale, Lyon 1932; F. Serrao,
Diritto privato, economia e società nella
storia di Roma, I, Napoli 1984, p. 298; Id.,
Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., pp. 27 ss.; A. Di
Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager” in Roma antica, cit., pp. 42
ss.; Id., v. “Peculio”, in Enciclopedia Virgiliana IV, Roma 1998, pp. 2 ss.; Id., Il
diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 424
ss.; L. Amirante, Lavoro di giuristi sul peculio. Le definizioni
da Q. Mucio a Ulpiano, in Studi in
onore di Cesare Sanfilippo, III, Milano 1983, pp. 1 ss.; F. De Martino, L’economia, in Princeps
urbium. Cultura e vita sociale dell’Italia romana, Milano 1991, pp. 308 s.;
A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente
moderno, Bari 1996, p. 195.
[39] A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni
storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 423 s., il quale sostiene
che: «Emergono, nitidamente, i contorni di alcuni fondamentali “modelli”
organizzativi, in corrispondenza con i due principali modi di impiego dello
schiavo: come praepositus e come
“organo” del peculio. Si possono classificare in base al diverso regime di
responsabilità del dominus (o dei domini). B1) Il “modello” a
responsabilità illimitata […] B2) Il “modello” a responsabilità limitata». Il
“modello” a responsabilità limitata si caratterizza per l’attribuzione di un
peculio al servus e il Di Porto
spiega che: «il peculio assume la configurazione di “patrimonio separato” del dominus, separato dal restante suo
patrimonio, la “res domini”. Il peculium, infatti è del dominus,
ma rappresenta il limite della responsabilità del dominus stesso dinanzi ai creditori ex causa peculiari […] Di tale patrimonio il servus rappresenta, per così dire, l’organo vitale. Il peculium cioè vive giuridicamente ed
economicamente attraverso l’attività di amministrazione dello schiavo, che – è
appena il caso di rilevarlo – può concretarsi nello svolgimento di qualsiasi
attività economica, non solo di impresa» (p. 424).
[40] D. 50.16.207 (Afr. 3 quaest.). I frammenti tratti dai Quaestionum libri IX sono stati raccolti
e ordinati da o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 2 ss., frr. 2-121, il
quale afferma che: «Africani libri quaestionum temporibus Hadriani aut Antonini
videntur esse conscriptis».
[41] Sull’origine della parola mango, vi sono diversi orientamenti tra
gli studiosi. Inizialmente, il termine si riteneva che potesse derivare
dall’antico inglese mangere e dal
tedesco mangon che avevano il
generico significato di commerciante: cfr. A.S. Wilkins, Q. Horati
Flacci Opera, London 1896, p. 136.
Sulla derivazione greca di mango, vedi E.H. Brewster, Roman Craftsmen and Tradesman of the Early
Empire, Menasha - Wisconsin 1917, p. 30; RE, XIV, Stuttgart 1928, col. 1107, s.v. “mango”; T. Kleberg, Mango - a semasiological study, cit.,
pp. 278 s., il quale ritiene che: «No doubt the Greek m£ggnon, ‘means of bewtching and deceiving’, etc., magganeÚein, ‘deceive by artificial means’, ‘play tricks’, maggane…a, ‘trickery’, ‘witchcraft’, ‘deception’, are of the same
origin. One is
apt to believe that mango is simply a
Greek loanword *m£ggwn. This word has not, however,
been found, but can be presupposed. The meaning of the whole word-group clearly
indicates that the word, when introduced into Latin, had the function ‘merchant
who polishes up his goods by artificial means’»; v. “mango”, in Thesaurus linguae
latinae VIII, Lipsiae 1936-1966, col. 300.
[42] Per le occorrenze del
termine mango nelle fonti letterarie
ed epigrafiche vedi: H.E. Dirksen, Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum, cit., p. 566,
s.v. “mango”; H. Heumann - E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rechts10, cit., p. 332, v. “mango”.
Ma soprattutto rinvio a L. Deicke, vv. “mango”; “mangonico”; “mangonicus”, in Thesaurus linguae latinae VIII, cit., col. 300.
[43] Cfr. L. Deicke, v. “mango”, in Thesaurus linguae
latinae VIII, cit., col. 300, in cui si legge che mango in generale «significat primitus homines, qui mercibus
deterioribus ut pluris vendant speciem meliorum induunt, inde certa genera
negotiatorum, qui talibus fraudibus famosi erant» e che il termine viene impiegato
per indicare, in modo più specifico, coloro che vendevano schiavi, giumenti,
altri tipi di cose nonché «convicii loco adhibetur ad notandum hominem
nequissimum». Sull’uso dei diversi significati di mango vedi, soprattutto: Seneca, Epist. 80.9;
Plinio, Nat. hist. 7.12.56, 24.22.35, 23. 22.40,
30.13.41, 37.13.76; Marziale 9.5; Quintiliano, Inst. 2.15.24, 25; Svetonio, Vesp.
4.3.
[44] Plinio, Nat. hist. 23.22.40: Vinum [situinum] fumo inueteratum
insaluberrimum. Mangones ita in apothecis excogitauere, iam et patresfamilias,
aetatem addi, antequam per se cariem traxere.
[45] Plinio, Nat. hist. 12.20.98: Ladam
vocant talem barbaro nomine. Alia est balsamodes, ab odore simili appellata,
sed amara ideoque utilior medicis, sicut nigra unguentis. Pretia nulli diversiora,
optimae in libras L, ceteris V. His
adiecere mangones quam Daphnidis vocant, cognominatam isocinnamon, pretiumque
ei faciunt CCC. Adulteratur styrace et propter similitudinem corticum laurus
tenuissimis surculis. quin et in nostro orbe seritur, extremoque in margine
imperii, qua Rhenus adluit, vidi in alvariis apium satam. color abest ille
torridus sole et ob id simul idem odor.
[46] Plinio, Nat. hist. 37.13.76: Decussi fragmenti, quod in lamina ferrea
uratur, efficacissimum experimentum excusate mangones gemmarum recusant,
similiter et limae probationem. Obsianae fragmenta ueras gemmas non scariphant,
in ficticiis scariphatio omnis candicat.
[47] Svetonio, Vesp. 4.3: Quadam rapa in eum iacta sunt. Rediit
certe nihilo opulentior, ut qui prope labefactata iam fide omnia praedia fratri
obligaret necessarioque ad mangonicos quaestus sustinendae dignitatis causa
descenderit; propter quod vulgo mulio vocabatur. Conuictus quoque dicitur
ducenta sestertia expressisse iuveni, cui latum clavum adversus patris
voluntatem impetrarat, eoque nomine graviter increpitus.
[48] Tra questi vedi anche
Varrone, frg. Non. p. 179.7: Alii ita sunt
circumtonsi et terti atque unctuli, ut mangonis esse videantur servi;
nonché i versi di Orazio, Ep. 2.2.13:
Multa fidem promissa levant, ubi plenius
aequo / laudat venalis qui vult extrudere merces: / res urget me nulla; meo sum
pauper in aere. /nemo hoc mangonum faceret
tibi; non temere a me / quivis ferret idem./semel hic cessavit et, ut fit, / in
scalis latuit metuens pendentis habenae; Seneca padre, Contr. 1.2.9: P. Asprenatis.
Contradico non <odio, non> inimicitiis [cuiquam] impulsus. quod enim
odium, quae inimicitiae cuiquam <cum ea> esse possunt, quam nemo civium
suorum norat, antequam prostitit? movet me respectus omnium virginum, de quibus
gravis hodie fertur sententia, si in civitate nulla inveniri potest neque
meretrice castior neque homicida purior. Piratae te inviolatam servaverunt? a
sacerdote se non abstinuisset pirata, leno, mango. de sacerdotis pudicitia his
sponsoribus credendum est? iacuisti in piratico myoparone, contrecta<ta>
es alicuius manu, alicuius osculo, alicuius amplexu. an melius pirata servavit
quam pater? Conversata es cruentis et humano sanguine delibutis; inde est
profecto, quod potes hominem occidere; Marziale, 1.58.1: Milia pro puero centum me mango poposcit: / risi ego, sed Phoebus
protinus illa dedit. /hoc dolet et queritur de me mea mentula se cum / laudatur
que meam Phoebus in invidiam. / sed sestertiolum donavit mentula Phoebo / bis
decies: hoc da tu mihi, pluris emam, 7.80.9: sed si parva tui munuscula quaeris amici / commendare, ferat carmina
nostra puer, / non qualis Geticae satiatus lacte iuvencae / Sarmatica rigido
ludit in amne rota, / sed Mitylenaei roseus mangonis ephebus / vel non caesus
adhuc matre iubente Lacon, 9.5.4: non
puer avari sectus arte mangonis / virilitatis damna maeret ereptae, / nec quam
superbus computet stipem leno / dat prostituto misera mater infanti;
Giovenale 6.371-373b: ergo expectatos ac iussos crescere primum /
testiculos, postquam coeperunt esse bilibres, / tonsoris tantum damno rapit
Heliodorus. / Mangonum pueros vera ac miserabilis urit / mangonum pueros vera
ac miserabilis urit / debilitas, follisque pudet cicerisque relicti, 11.145-150: Plebeios
calices et paucis assibus emptos / porriget incultus puer atque a frigore
tutus, / non Phryx aut Lycius non a mangone petitus / quisquam erit et magno:
cum posces, posce Latine; Svetonio, Dom.
7.1: Multa etiam in communi rerum usu
nouauit: sportulas publicas sustulit reuocata rectarum cenarum consuetudine;
duas circensibus gregum factiones aurati purpureique panni ad quattuor
pristinas addidit; interdixit histrionibus scaenam, intra domum quidem
exercendi artem iure concesso; castrari mares uetuit; spadonum, qui residui
apud mangones erant, pretia moderatus est.
[49] Cfr. W.E. Boese, A Study of the Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman
Empire, cit., pp. 193 n. 158. Sono interessanti i testi di Agostino, Serm. 7.3; Patrol. Lat. 46.838: Deus et diabolus pater et mango. Deus ut
pater flagellat et corrigit et assumit; mango blanditur, seducit et vendit,
e Serm. 21.4; Patrol. Lat. 46.911. Vedi anche
Macrobio, Sat. 2.4.28; Cassiodoro, Psalm.
118.141.
[50] Sulle opere di Seneca: M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II,
cit., pp. 679 ss.; C. Marchesi, Seneca, Milano 1942; I. Lana, L. Anneo Seneca, Torino 1965; P. Grimal,
Seneca, trad. it., Milano 1992. Sul
pensiero giuridico di Seneca vedi F. Stella
Maranca, Seneca giureconsulto,
Lanciano 1926; R. Düll, Seneca iureconsultus, in ANRW II.15, cit., pp. 364 ss. (sul quale
vedi le considerazioni critiche di M. Talamanca,
Per la storia della giurisprudenza romana,
cit., pp. 195 ss.); A. Mantello, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.), Milano 1979; M. Brutti, Il potere, il suicidio, la virtù. Appunti sulla ‘Consolatio ad Marciam’
e sulla formazione intellettuale di Seneca, in Seminari di storia e di diritto, a cura di A. Calore, Milano 1995,
pp. 65 ss.
[51] Il sostantivo mango viene utilizzato da Seneca anche
in De ben. 4.13.3: Itaque multa, quae summam
utilitatem aliis adferunt, pretio gratiam perdunt. Mercator urbibus prodest, medicus
aegris, mango venalibus; sed omnes isti, quia ad alienum commodum pro suo
veniunt, non obligant eos, quibus prosunt. Non est beneficium, quod in quaestum
mittitur. 'Hoc
dabo et hoc recipiam' auctio est.
[52] Sul grande retore rinvio
soprattutto a M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II,
cit., pp. 745 ss. Vedi anche J. Cousin,
ètudes
sur Quintilien, I-II, Paris 1935 (rist. Amsterdam 1967); G. Kennedy, Quintilian, New York 1969; M. Winterbottom,
Problems in Quintilian, in Institute of classical studies, Bullettin supplement 25, 1970, pp. 3
ss.; O. Seel, Quintilian, Stuttgart 1977; P.V. Cova
- R. Gazich - G.E. Manzoni - G. Melzani, Aspetti della ‘paideia’ di Quintiliano,
Milano 1990; T. Zinsmaier, Der von Bord geworfene Leichnem,
Frankfurt am Main 1993. Sempre utile E. Bonellus,
Lexicon Quintilianeum, Lipsiae 1834.
[53] Quintiliano, Decl. 340: Qui voluntate domini in libertate
fuerit, liber sit. Mango novicium puerum per publicanos traiecit praetextatum.
Dicitur ille liber.
DECLAMATIO
:'Qui voluntate domini in libertate fuerit, liber sit'. Quaerendum est nobis
quid sit in libertate esse. 'voluntate domini est in libertate qui eo volente
liber est'. Nos finimus ita: 'voluntate domini in libertate est qui ius
libertatis usurpavit domino volente'. Id primum scripto ipso colligemus. Non
enim difficile fuit ei qui hanc legem componebat id scribere: 'qui voluntate
domini liber fuerit'; nunc hoc scribendo: 'qui in libertate fuerit' satis
ostendit aliud esse in libertate esse, aliud liberum esse. Excutiamus etiam causas legis
huius. Indignum putavit legum lator eum
qui in fortuna aliqua rei publicae, qui in numero civitatis fuisset, redigere
in servitutem. Sed hoc quoniam sibi nequitia interim adserebat, adiecit ut ii
liberi essent qui in libertate voluntate domini fuissent. Vis scire quanto
aliud sit in libertate esse, aliud liberum esse? Eum qui in libertate fuerit
iubet lex liberum esse. Tanta rerum differentia est in causa libertatis. In libertate est igitur quisquis
caret forma servitutis. Id, iudices, ex hac ipsa lege adhuc manifestum est. Non enim legum lator putavit etiam eos qui a dominis
fuga abessent esse in libertate? Quod colligo scripto eius: 'qui voluntate
domini in libertate fuerit': apparet aliquos et non voluntate domini in
libertate esse; quod si verum est, potest in libertate esse etiam qui liber non
est.
Nihil
ergo prodest tibi cum dicis liberum eum non fuisse. Non enim quaeritur an
voluntate tua liber fuerit, sed an voluntate tua in libertate fuerit. Si
voluntate tua liber [non] fuisset, quid nos postularemus? Depulsus hac pugna
transcendit eo, ut neget in libertate saltem fuisse. Quomodo igitur colligemus?
Eum qui in libertate <non> est quibus argumentis colligemus fuisse in
libertate? Signavit aliquis tamquam liber: si id voluntate domini fecerit,
etiamsi maxime illum servum esse dominus voluit eo tempore, manifestum erit
<fuisse> in libertate; sic quisquis aliquid pro libero fecit. Atqui hic
puer non tantum pro libero sed etiam pro ingenuo est: praetextatus fuit. Si talem
illum ad iudices produxissem, hoc insigne non [tantum] libertatis modo sed
etiam dignitatis esset. Ecquid
paves ne scelus feceris? Et alius fortasse tantum usurpaverit libertatem: hic
et adprobavit. Quibus? Publicanis, hominibus, ut parcissime dicam,
diligentissimis. In summa
velim ostendere totum tuum comitatum: quis habitus servorum fuit?
'Ego
tamen' inquit 'non ea voluntate feci ut hic liber esset, sed ea ut 'Ego tamen'
inquit 'non ea voluntate feci ut hic liber esset, sed ea ut publica non solveret.'
Saepius eadem dicenda sunt etiam gratulamur si invito te liber est: liberum
esse noluisti, sed in libertate esse voluisti. Nihil interest qua causa hoc
feceris: id est, ut propius ad verba legis accedam, nihil interest qua causa in
libertate esse eum volueris. Verum ista causa quam praetendis digna poena est:
circumscribere vectigalia populi Romani voluisti, specie praetextati imponere
publicano voluisti. Postmodum dicam quantum intersit huius pueri; interim
dicam, tua quid interest? Quod
petieras non contigit tibi? Non
fefellisti?
SERMO:
Haec circa ius, illa iam circa aequitatem.
DECLAMATIO:
Quae passurus est hic puer domino redditus? Sine dubio <ultima>. Novimus istam negotiationem,
et frequentissima in foro videmus iudicia talium iniuriarum. Fortasse etiam
natus est ingenuus, fortasse rapto ex aliquo litore praetextam Fortuna
reddidit. Illud est tamen quod nos magis confundat: videtur mangoni puer
pretiosus, timuit ne magno aestimaretur. Ista species in quacumque servitute
miserabilis foret. Rogamus
vos, iudices, cogitetis quam multa facere possit adversus puerum mango iratus.
Aut illi fortasse pretium excisa virilitate producet, aut ob infelicis
contumeliae annos venibit in aliquod lupanar. Res est nobis cum homine qui non
erubescit, nihil reservat: etiam periculose avarus est. Quos cultus accipiet
qui praetextam habuit? Ego vobis allego etiam ipsum illud sacrum praetextarum
quo sacerdotes velantur, quo magistratus, quo infirmitatem pueritiae sacram
facimus ac venerabilem. Su questo testo di Quintiliano vedi: T. Kleberg, Mango - a semasiological study, cit., p.
281; E.M. Štaerman – M.K. Trofimova, La
schiavitù nell’Italia imperiale, Roma 1975, p. 16.
[54] Per la biografia e le opere
di Plinio il Vecchio, vedi per tutti M. Schanz
- C. Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, II, cit., pp. 768 ss. Per gli studi più recenti vedi:
Aa.Vv., Science in the
Early Roman Empire: Pliny the Elder, his Sources and Influence, a cura di
R. French e F. Greenaway, London 1986; S. Citroni
Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano, Pisa 1991;
J.F. Healy, Pliny the Elder on Science and Tecnology, Oxford 1999; B. Tautz, Das bild des Kaisers Augustus in der Naturalis Historia des Plinius,
Bochum 1999.
[55] Toranius mango doveva essere
assai conosciuto nell’antica Roma. Di questo celebre venditore di mancipia ne danno notizia anche
Svetonio, Aug. 69.1: adulteria quidem exercuisse ne amici quidem
negant, excusantes sane non libidine, sed ratione commissa, quo facilius
consilia aduersariorum per cuiusque mulieres exquireret. M. Antonius super
festinatas Liuiae nuptias obiecit et feminam consularem e triclinio uiri coram
in cubiculum abductam, rursus in conuiuium rubentibus auriculis incomptiore
capillo reductam; dimissam Scriboniam, quia liberius doluisset nimiam potentiam
paelicis; condiciones quaesitas per amicos, qui matres familias et adultas
aetate uirgines denudarent atque perspicerent, tamquam Toranio mangone uendente; e Macrobio, Sat. 2.4.28: Delectatus inter cenam erat symphoniacis Toronii Flacci mangonis atque
eos frumento donaverat cum in alia acroamata fuisset nummis liberalis, eosdem
que postea Toronius aeque inter cenam quaerenti Caesari sic excusavit: ad molas
sunt. Sul testo di Plinio vedi I. Bieżuńska
Małowist, La schiavitù nel mondo antico, cit., pp.
35 s.
[56] I numerosi documenti
epigrafici, relativi a vendite di schiavi, rappresentano preziose fonti per la
conoscenza dei prezzi di mercato. Al riguardo, rinvio, tra i tanti, a FIRA, III, Negotia, n. 87 “Emptio puellae”, pp. 283 ss.; n. 88 “Emptio pueri”,
pp. 285 s.; n. 89 “Emptio ancillae”, pp. 287 s. Sui prezzi degli schiavi si vedano: w. Westermann, The Slaves Sistems of Greek and Roman
Antiquity, cit., pp. 100 ss.; F. De
Martino, Storia economica di Roma antica, II, Firenze 1979, pp. 274 ss.; J.
Axer, I prezzi degli schiavi e le paghe degli attori nell’orazione di
Cicerone «Pro Q. Roscio comoedo», in Actes
du Colloque sur l’esclavage. Nieborów
2-6 dicembre 1975, Warszawa 1979, pp. 217 ss.; E.M. Štaerman – M.K. Trofimova, La schiavitù
nell’Italia imperiale, cit., pp. 25 s.; I. Bieżuńska Małowist,
La schiavitù nel mondo antico,
cit., pp. 34 ss.; E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf, cit., pp. 7 ss.
[57] Le ingenti ricchezze dei venaliciarii vengono menzionate da Cicerone,
orat.
232: Neque me divitiae movent quibus
omnes Africanos et Laelios multi venalicii mercatoresque superarunt.
[58] A proposito della differente
valenza dei termini venaliciarius e mango vedi W.E. Boese, A Study of the
Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman Empire, cit., p.
158; E. Jakab, Praedicere und cavere beim Marktkauf, cit., p.
19, la quale afferma che: «... daß im römischen Handelsleben kein großer
Unterschied zwischen venaliciarii und
mangones bestand. Jedenfalls kann man keine
feste Struktur des Handels feststellen, die den venaliciarii als Großhändler die mangones eindeuting als Kleinhändler gegenüberstellen würde».
[59] Per il significato di mercator e le occorrenze nelle fonti
vedi: H.E. Dirksen, Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum, cit., p. 580,
s.v. “mercator”; H. Heumann - E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rechts10, cit., p. 339, s.v. “mercator”;
V. Bulhart, v. “mercator”, in Thesaurus linguae latinae VIII, cit., coll. 788 ss.
[60] Per il
sostantivo negotiator rinvio a: H.E.
Dirksen, Manuale latinitatis fontium iuris
civilis Romanorum, cit., pp. 619 s., s.v. “negotiator”; H. Heumann - E.
Seckel, Handlexicon zu den Quellen
des römischen Rechts10, cit., p. 365, v. “negotiator”.
Sulla nozione di negotiator
vedi Marciano in D. 32.65 pr. (7 inst.),
citato supra n. 4, in cui viene
riportato un scritto di Labeone in materia di legato. In particolare, il grande
giurista indica i criteri necessari per individuare i servi negotiatores, gli unici esclusi per volontà del testatore dal
legato avente ad oggetto tutti i suoi schiavi. Labeone esprime chiaramente il
suo parere: sono negoriatores gli
schiavi che “praepositi essent negoti
exercendi causa”. Il giurista propone come esempio di negotiatio l’attività volta ad acquistare, locare e condurre;
ritenendo peraltro “cubicularios autem
vel obsonatores vel eos, qui piscatoribus praepositi sunt, non videri
negotiationis appellatione contineri”. A proposito di questa definizione,
A. Di Porto, Il diritto
commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 437 s.,
evidenzia lo specifico impiego, da parte di Labeone, del verbo exercere nella locuzione exercendi causa: «Con l’espressione exercendi causa il giurista individua
l’elemento che fa la differenza, che qualifica come negotiatores, distinguendoli, così almeno a me sembra, dai
“semplici” preposti e dunque (ad esempio) dagli institori. Insomma: l’institor è praepositus (negotiationis
o negotio), il negotiator, in quanto servus,
è sempre praepositus, ma (negotii o negotiationis) exercendi
causa». Su D. 32.65 pr. (Marcian.
7 inst.) vedi E. Jakab, Praedicere und cavere, cit., p. 20.
[61] Cfr. T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de tributoria actione”, cit.,
p. 316, la quale afferma che: «A tal proposito val la pena sottolineare come il
termine negotiator, almeno fino alla
seconda metà del II sec. d.C., sia abbastanza distinto da quello di mercator». Sul punto vedi anche W.E. Boese, A Study of the Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman
Empire, cit., pp. 178 s.; P. Baldacci,
Negotiatores e mercatores
frumentarii nel periodo imperiale, in Ist.
lomb. Sc. e Lett. 161, 1967, pp. 273 ss.; J. Andreau, Les Affaires de
Monsieur Jucundus, Roma 1974, pp. 223 ss.; S. Treggiari, Urban labour
in Roma: mercenarii and tabernarii, in Non
Slave Labour in the Greco-Roman World, Cambridge 1980, pp. 48 ss.; A. Bürge, Fiktion und Wirklichkeit: Soziale und rechtliche Strukturen des
römischen Bankwesen, in SZ 104,
1987, pp. 488 ss.; E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf, cit., pp. 16 ss.
[62] Sul grande oratore di Arpino
rinvio a M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I,
cit., pp. 400 ss. (ivi letteratura precedente); P. Grimal, Cicerone,
trad. it. a cura di L. Guagnellini Del Corno, Milano 1987. Per la carriera
politica vedi T.R.S. Broughton, The Magistrates, II, New York 1951, pp.
233 ss. Si vedano invece, in merito al pensiero giuridico ciceroniano, le opere
di E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna 1927 (rist. Roma 1964); M. Pallasse, Cicéron et le sources du droit,
Paris 1946; A. Pezzana, Sull’actio empti come azione di garanzia per
vizi della cosa in alcuni testi di Cicerone, in BIDR 62, 1953, pp. 158 ss.; V. Arangio-Ruiz,
Cicerone giurista, in Marco Tullio Cicerone, scritti nel
bimillenario della morte, Roma 1961, pp. 1 ss. (= Id., Scritti di diritto
romano, IV, Camerino 1977, pp. 259 ss.); G. Pugliese, Cicerone tra diritto e retorica, in Studi in onore di A.C. Jemolo, Milano 1962, pp. 31 ss.; F.
D’Ippolito, I giuristi e la città, Napoli 1978, pp. 95 ss.; I. Lana, I principi del buon governo secondo Cicerone
e Seneca, Torino 1981; M. Bretone,
Cicerone e i giuristi del suo tempo,
in Quaderni di Storia 5, 1979 n. 10,
pp. 243 ss. (= Tecniche e ideologie,
cit., pp. 63 ss.); A. Schiavone, Il caso e la natura. Un’indagine sul mondo di Servio, in Società romana e produzione schiavistica,
a cura di A. Giardina - A. Schiavone, III, Roma-Bari 1981, pp. 41 ss.; A. Ronconi, Cicerone e la costituzione romana, in Studi Italiani di Filologia Classica 54,
1982, pp. 7 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 93
ss.; G. Hamza,
Cicero und der Idealtypus der
iurisconsultus, in Helikon 22-27,
1982-1987, pp. 281 ss.; F. Bona, La certezza del diritto nella giurisprudenza
tardo-repubblicana, in La certezza
del diritto
nell’esperienza giuridica romana, Padova
1987, pp. 117 ss.; C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica
europea, I, Torino 1997, pp. 288 ss. Per i frammenti vedi F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae,
I, Lipsiae 1896, pp. 127 ss., il quale inserisce Cicerone tra i giureconsulti dell’ottavo
secolo di Roma; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae
1907, pp. 417 ss.
[63] Sul punto vedi soprattutto P.
Baldacci, Negotiatores e mercatores frumentarii nel periodo imperiale, cit.,
pp. 273 ss.; T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., p. 316; A. Di
Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella
storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei
commercialisti, cit., p. 442; M.A. Ligios,
“Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum
instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica,
cit., pp. 65 s.
[64] La definizione di taberna instructam viene elaborata da
Ulpiano in D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.):
‘Instructam’ autem tabernam sic
accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat.
Sulla nozione di taberna instructa e sulle attività
imprenditoriali in Roma antica, rinvio, soprattutto, ai lavori di A. Di Porto,
Impresa collettiva e schiavo “manager”
in Roma antica, cit.; Id.,
Filius, servus, e libertus.
Strumenti dell’imprenditore romano, in Imprenditorialità
e diritto nell’esperienza storica, (Erice 22-25 novembre 1988), a cura di
M. Marrone, Palermo 1992, pp. 231 ss.; Id.,
Il diritto commerciale romano. Una
“zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 413
ss.; F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età
commerciale, cit., pp. 21 ss.; e al recentissimo saggio di M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna
instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, cit., pp. 27 ss.
[65] A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni
storico-comparative dei commercialisti, cit., p. 442. Sul punto, già C. Fadda, Istituti commerciali del diritto romano, cit., pp. 54 ss., parlava
di esercizio di una «professione abituale».
[66] A. Di Porto, op. ult. cit., p. 442.
[67] A. Di Porto, op. ult. cit., p. 442.
[68] Sulle diverse valenze dei
termini mercator e negotiator, nonché i rapporti tra le due
nozioni, vedi J. Rougé, Recherches sur l’organisation du commerce
maritime en Méditerranèe sous l’empire romain, Paris 1966, pp. 287 ss., in
part. 289; P. Baldacci, Negotiatores e mercatores frumentarii nel
periodo imperiale, cit., pp. 273 ss.; W.E. Boese, A Study of the
Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman Empire, cit., pp.
160 ss.; T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., pp. 316 s.
[69] Cfr. A. Di Porto,
op. ult. cit., p. 438. Il
carattere della continuità della professione svolta dai mercatores viene evidenziata nell’espressione “quae venire solebant” di Sabino citato da Paolo D. 33.9.4.2 (Paul.
4 ad Sab.): Item si quis solitus fructus suos vendere penum legaverit, non omnia
quae et promercii causa habuit, legasse videtur, sed ea sola, quae in penum
sibi separabat. quod si promiscue uti solebat, tunc quantum ad annuum usum ei
sufficeret familiaquae eius ceterorumque, qui circa sunt, legato cedet: quod
fere, inquit Sabinus, evenit in personis mercatorum aut quotiens cella est olei
et vini, quae venire solebant, in hereditate relicta.
[70] A questo proposito sono
significative le parole di E. Forcellini,
Lexicon totius Latinitatis,
cit., p. 355, s.v. “negotiatio”, in a proposito della netta distinzione
concettuale dei due termini in Cicerone: «Negotiatores videntur esse, qui eodem
loco haerentes comparant et coemunt merces, quas pluris distrahant, qui nullo
certo loco consistunt, et merces coemptas hic inde exportant, atque huc illuc
important». Rinvio comunque a M.A. Ligios,
“Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum
instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica,
cit., p. 119 n. 290, la quale osserva che: «è interessante notare come in
nessuno dei testi giuridici a noi pervenuti nei quali compaia il termine ‘mercator’, si faccia menzione di ‘tabernae’: tale soggetto, evidentemente,
doveva svolgere i propri commerci al di fuori di questi locali».
[71] T.J. Chiusi, Contributo allo
studio dell’editto “de tributoria actione”, cit., p. 317 n. Sul testo
epigrafico si vedano anche J. Rougé,
Recherches sur l’organisation du commerce
maritime en Méditerranèe sous l’empire romain, cit., p. 289; P. Baldacci, Negotiatores e mercatores frumentarii nel periodo imperiale, cit.,
p. 287.
[72] Di opinione contraria P. Baldacci, Negotiatores e mercatores frumentarii nel periodo imperiale, cit.,
p. 287, il quale afferma che nel documento epigrafico in questione i termini mercator e negotiator vengono utilizzati come sinonimi.
[73] Sul passo di Africano vedi
soprattutto: A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo
“manager” in Roma antica, cit., pp. 223 s.; T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de tributoria actione”, cit.,
pp. 315 ss.; E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf, cit., pp. 17 s.
[74] Dalla testimonianza delle
fonti, mi pare sia evidente che i venaliciarii
fossero negotiatores. Sul punto, rinvio
ai passi del Digesto in cui si fa riferimento alla complessa organizzazione
dell’attività venaliciaria, basata su assetti logistici stabili di beni e di
uomini (tabernae), configurata
giuridicamente anche attraverso la costituzione di società oppure mediante
l’impiego delle strutture imprenditoriali a responsabilità illimitata (praepositio di un servus institor venaliciarius)
o a responsabilità limitata (servus
venaliciarius con peculio): Seneca, De
const. sap. 2.13.4; Tabula
Herculanensis n. LXIII e CIL IV.3340 n. XLV = FIRA, Negotia, Apocha Pompeiana, Chirographa, n. 130 a); D. 21.1.44.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.); D. 14.3.17 pr. (Paul. 30 ad ed.);
D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed). Vedi, comunque, R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii, cit. supra in n. 9.
[75] Plinio, Nat. hist. 23.22.40.
[76] Plinio, Nat. hist. 12.20.98.
[77] Plinio, Nat. hist. 37.13.76.
[78] Sul contratto consensuale di
compravendita rinvio al fondamentale lavoro di M. Talamanca, v. “Vendita in
generale (diritto romano)”, in ED
46, Milano 1993, pp. 303 ss. Ma vedi anche, tra gli altri, C. Ferrini, Sull’origine del contratto di vendita in Roma, in Opere, III, Milano 1929; v. Arangio-ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli 1956; C.A. Cannata, La compravendita consensuale romana: significato di una struttura,
in Vendita e trasferimento della
proprietà nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del congresso
Internazionale, Pisa-Viareggio-Lucca 17-21 aprile 1990, a cura di L. Vacca,
II, Milano 1991 (= in Vendita e
trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica.
Materiali per un corso di diritto romano, a cura di L. Vacca, Torino 1997);
G. Impallomeni, Applicazione del principio dell’affidamento
nella vendita romana, in Scritti di
diritto romano e tradizione romanistica, Padova 1996.
[79] Sul termine merx vedi: H.E. Dirksen, Manuale
latinitatis fontium iuris civilis
romanorum, cit., p. 582, s.v. “merx”;
H. Heumann - E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts10,
cit., p. 341, v. “merx”; V. Bulhart, s.v.“merx”, in Thesaurus linguae
latinae VIII, cit., coll. 850 ss.
[80] D. 18.1.1 pr. (Paul. 33 ad ed.): Origo emendi vendendique a permutationibus coepit. olim enim non ita
erat nummus neque aliud merx, aliud pretium vocabatur, sed unusquisque secundum
necessitatem temporum ac rerum utilibus inutilia permutabat, quando plerumque
evenit, ut quod alteri superest alteri desit. sed quia non semper nec facile
concurrebat, ut, cum tu haberes quod ego desiderarem, invicem haberem quod tu
accipere velles, electa materia est, cuius publica ac perpetua aestimatio
difficultatibus permutationum aequalitate quantitatis subveniret. eaque materia
forma publica percussa usum dominiumque non tam ex substantia praebet quam ex
quantitate nec ultra merx utrumque, sed alterum pretium vocatur.
[81] o. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 1034, fr. 502.
[82] Vedi Cicerone, De off. 1.151. Cfr. E. Jakab,
Praedicere und cavere, cit., pp. 22 ss.
[83] Lo scambio delle merci
avveniva sempre in luoghi determinati. Assai interessante un passo di Isidoro, Orig. 5.25.35: Commercium dictum a mercibus quo nomine res venales appellamus. Unde et mercatus dicitur coetus multorum hominum, qui res
vendere vel emere solent. Sul
mercato e sul “diritto del mercato” rinvio al fondamentale contributo di F. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, cit., pp. 31 ss.
[84] Cfr. T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de tributoria actione”, cit.,
p. 316, e n. 110.
[85] o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
col. 591, fr. 836. Il passo di Ulpiano è stato oggetto di numerosi studi, tra
tutti vedi: A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo
“manager” in Roma antica, cit., pp. 225 ss.; Id., Il
diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e
nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, cit., pp. 439
ss.; T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., pp. 315 ss.; F. Serrao, Impresa,
mercato, diritto. Riflessioni minime, cit., p. 57; M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna
instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, cit., pp. 59 ss.
In particolare, in merito all’attività dei servi
venaliciarii, R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività
dei venaliciarii, cit. supra in
n. 9.
[86] Sull’actio tributoria rinvio soprattutto a T.J. Chiusi, Contributo allo
studio dell’editto “de tributoria actione”, cit., pp. 274 ss. (ivi
bibliografia precedente).
[87] La bibliografia su Plauto è
assai ampia: M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur bis zum
Gesetzgebungswek des Kaisers Justinian4, I, cit., pp. 55 ss.; A. Rostagni, Letteratura latina, I, Torino 1949, pp. 121 ss.; R. Perna, L’originalità di Plauto, Bari 1955; E. Norden, La letteratura
romana, trad. it., Bari 1958; E. Fraenkel,
Elementi plautini in Plauto, trad.
it. a cura di F. Munari, Firenze 1960; E. Paratore,
Storia del teatro latino,
Milano 1957, pp. 78 ss.; Id., Plauto, Firenze 1961; F. Della Corte,
Da Sarsina a Roma (Ricerche plautine)2,
Firenze 1967; K. Gaiser, Zur Eigenart der römischen Komödie: Plautus
und Terenz gegenüber ihren griechischen Vorbildern, in ANRW I.2, Berlin-NewYork 1972, pp. 1027 ss.; E. Flores, Letteratura latina e ideologia del III-II a.C., Napoli 1974, pp. 49
ss.; L. Perelli, Imago vitae. Teatro comico e tragico da
Plauto e Terenzio a Seneca, Torino 1983; G. Petrone, Teatro e
antico inganno. Finzioni plautine, Palermo 1983; N.W. Slater, Plautus in performance. The
theatre of mind, New York 1985; M. Crampon,
Salve lucrum ou l’expression de la
richesse et de la pauvreté chez Plaute, Paris 1985; P.G. Brown McCarthy, v. “Plautus”, in The Oxford
Classical Dictionary3, Oxford 1996, pp. 1194 ss.; A. Garzya, La parola e la scena. Studi sul teatro antico da Eschilo a Plauto,
Napoli 1997; E. Sergi, Patrimoni e scambi commerciali: metafore e
teatro in plauto, Messina
1997; F. Gori, Il contrapasso buffo nelle commedie
plautine: il Miles gloriosus, in SU
(ser. Scienze umane e sociali) 68,
1997-1998, pp. 227 ss.; E. Flores,
Il comico (“Pseudolus”) e il tragicomico
(“Amphitruo”) in Plauto, in Lexis
16, 1998, pp. 139 ss.; B. Rochette, “Poeta barbarus”: Plaute, Miles gloriosus
211, in Latomus 57, 1998, pp. 415
ss. Sul lessico plautino si rinvia a G. Lodge,
Lexicon Plautinum, Leipzig 1924
(rist. an. Hildesheim-New
York 1971).
per i problemi giuridici vedi, tra gli altri, E. Costa, Il diritto privato nelle commedie di Plauto, Roma 1890 (rist. an.
1968); R. Dareste, Le droit romain et le droit grec dans Plaute,
in Nouv. Études d’Hist. du droit,
Paris 1902, pp. 149 ss.; A. De
Senarclens, La date de l’édit,
des édiles de mancipiis vendundis, in
Tijd. 4, 1923, pp. 384 ss.; C. Ferrini, Sulla origine del contratto di vendita in Roma, cit., pp. 57 ss.;
U.E. Paoli, Nota giuridica su Plauto, in Iura
4, 1953, pp. 174 ss.; Id., Comici latini e diritto attico, Milano
1962; F. De martino, I “quadruplatores” nel Persa di plauto, in Labeo 1, 1955, pp. 32 ss.;
F. Treves Franchetti, v. “Plauto”, in NNDI 13, Torino 1966, pp. 129 ss.; L. Labruna, Plauto, Manilio, Catone, cit., pp. 24 ss.; C.St. Tomulescu, La “mancipatio” nelle commedie di Plauto, in Labeo 17, 1971, pp. 284 ss.; G. Rotelli,
Ricerca di un criterio metodologico per l’utilizzazione
di Plauto, in BIDR 75, 1972, pp.
97 ss. Più recenti, su alcuni problemi specifici: M.V. giangrieco Pessi, “Argentarii” e trapeziti nel teatro di plauto, in AG 201, 1981, pp. 39 ss.; L. Peppe,
Studi sull’esecuzione personale, I. Debiti e debitori nei primi due secoli
della Repubblica romana, Napoli 1981, pp. 196 ss.; E. Gabba, Arricchimento e ascesa sociale in Plauto e in Terenzio, in Index 13, 1985, pp. 5 ss.; R.L.
Dees, Aspects of the Roman Law of marriage
in Plautus’ Casina, in Iura 39,
1988, pp. 107 ss.; G. Falcone, Testimonianze plautine in tema di
‘interdicta’, in AUPA 40, 1988,
pp. 180 ss.; R. La Rosa, La repressione del furtum in età arcaica. Manus iniectio e duplione
damnum decidere, Napoli 1990, pp. 113 ss.; L. Manna, “Actio redhibitoria”, cit., pp. 11 ss.; E. Jakab,
Praedicere und cavere, cit., pp. 123 ss.
[88] o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
coll. 1086, fr. 2612.
[89] Al riguardo si veda Plauto, poen.
v. 340: Ad.: Quia apud aedem Veneris hodie est mercatus meretricius: eo conveniunt
mercatores, ibi ego me ostendi volo./ Agor.: Invendibili merci oportet ultro
emptorem adducere: proba mers facile emptorem reperit, tam etsi in abstruso
sitast. quid ais tu? quando illi apud me mecum caput et corpus copulas?
[90] Su questo documento
epigrafico vedi le considerazioni di A. Di
Porto, Impresa collettiva e schiavo “manager”
in Roma antica, cit., p. 224 n. 33 bis; T.J. Chiusi, Contributo allo
studio dell’editto “de tributoria actione”, cit., p. 315 n. 108.
[91] Sul passo delle Verrine vedi
in particolar modo T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de
tributoria actione”, cit., p. 316 n. 112.
[92] Cfr. T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de tributoria actione”, cit.,
p. 315 n. 108.
[93] La concezione di
Mela-Africano mi pare che segua un orientamento giurisprudenziale, dominante,
affermatosi in età repubblicana. È significativo il fatto che già in precedenza
i giuristi avevano discusso se fosse opportuno considerare come fructus il parto della schiava. Sul partus ancillae si accese una controversia tra P.M. Scevola, M’. Manilio e
M.G. Bruto, di cui resta traccia in Cicerone, De fin. 1.12: An, partus ancillae sitne in fructu habendus, disseret inter principes
civitatis, P. Scaevolam Manliumque Manilium, ab hisque M. Brutus dissentiet?,
e in Ulpiano, D. 7.1.68 (17 ad Sab.): Vetus fuit quaestio, an partus ad fructuarium pertineret, sed Bruti
sententia optinuit fructuarium in eo locum non habere. Dalle fonti emerge
che prevalse l’orientamento giurisprudenziale di Bruto, tendente a non
considerare come frutti i parti delle schiave. Ciò sta a dimostrare che già nel
periodo più antico vi era una corrente giurisprudenziale che tendeva a
considerare i servi in maniera
diversa rispetto alle altre categorie di res.
Per i problemi giuridici relativi alle sententiae di Scevola, Manilio e Bruto
sul partus ancillae vedi G. Brini,
La sentenza di Bruto sul ‘partus ancillae’,
in Memorie dell’Accademia di Bologna
4, 1910, pp. 3 ss.; M. Kaser, Partus ancillae, in ZSS 75, 1958, pp. 157 ss.; V. Arangio-Ruiz,
Cicerone giurista, in Ciceroniana 1, cit., p. 10; G. Grosso, Schemi giuridici e società. Dall’epoca arcaica alla giurisprudenza
classica: diritti reali e obbligazioni, Torino 1970, pp. 58 s.; M. Talamanca, Costruzione giuridica e strutture sociali fino a
Quinto Mucio, in Società romana e produzione schiavistica,
a cura di A. Giardina - A. Schiavone, III, Roma-Bari 1981, cit., pp. 20 s.; E.
Herrmann-otto, Ex ancilla natus,
Stuttgart 1994; F. Horak, Etica della giurisprudenza, in Per la storia del pensiero giuridico romano.
Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio, Atti del seminario di S. Marino, 7-9 gennaio 1993, a cura di Dario
Mantovani, Torino 1996, pp. 168 s.; R. Cardilli,
La nozione giuridica di fructus,
Napoli 2000, pp. 312 ss.; F. Zuccotti,
«Partus ancillae in fructu non est»,
in «Antecessori oblata», cit., pp.
185 ss.
[94] Sul peculiare tipo di organizzazione
imprenditoriale dell’attività dei venaliciarii,
rinvio a quanto già detto supra nel
paragrafo 2 (in part. vedi anche n. 9); nonché a R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività dei
venaliciarii, cit. supra in n. 9.
[95] Per una biografia del
giurista vedi A.M. Honoré, Gaius. A biography, Oxford 1962; ma
anche G. Diódsi, Gaius, der Rechtsgelehrte, in ANRW II.15, cit., pp. 605 ss. (ivi, pp.
623 ss., accurata bibliografia gaiana di R. Wittmann,
alla quale si fa rinvio);
F. Casavola, Giuristi adrianei, cit., pp. 145 ss., 339 ss.; F. Gallo, La storia in gaio, in Il
modello di Gaio nella formazione del giurista, Atti del convegno torinese 4-5
maggio 1979 in onore del prof. S. Romano, Milano 1981, pp. 89 ss.; G. Pugliese, Gaio e la formazione del giurista, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista, cit., pp. 1 ss.;
R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, napoli 1979; Id., La persona in Gaio.
Il problema dello schiavo, in Iura
37, 1986, pp. 1 ss.; O. Diliberto,
considerazioni
intorno al commento di Gaio alle XII tavole, in Index 18, 1990, pp. 403 ss.; F. D’Ippolito,
Gaio e le XII Tavole, in Index 20, 1992, pp. 279 ss.; M. Bretone, una mano estranea sul
commento di gaio all’editto
provinciale, in Mélanges à la mémoire
de André Magdelain, Paris 1998, pp. 39 ss.
[96] Su alcuni particolari tipi di
società vedi F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di
società in diritto romano, cit., pp. 743 ss. (ora in Id., Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa 1989,
pp. 65 ss.); M.R. Cimma, Ricerche sulle società di publicani,
Milano 1981.
[97] Per quanto riguarda la
società venaliciaria vedi E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain, cit., pp. 232 s.; F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano,
cit., pp. 748 ss.; Id., Impresa, mercato, diritto. Riflessioni
minime, cit., pp. 48 ss.
[98] Sul giurista Pomponio si
rinvia agli studi di D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis
der römischen Juristen”, in ANRW
II.15, cit., pp. 497 ss. (vedi anche le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 261 ss.); M. Bretone, Tecniche e ideologie, cit., pp. 209 ss.; F. Casavola, Giuristi
adrianei, cit., pp. 71 s., 130 ss., 314 ss. (ivi accurata bibliografia
precedente); R.A. Bauman, Lawyers and politics in the early Roman
Empire. A study of relations between the Roman jurists and the emperors from
Augustus to Hadrian, München 1989, pp. 287 ss. I frammenti delle opere di
Pomponio sono ordinati e raccolti da o.
lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 15 ss.
[99] o. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
col. 116, fr. 585. Sul passo si vedano: V. Arangio-Ruiz,
La società, cit., p. 194; G. Gandolfi, ‘Damnum commune’, in Studi in
onore di E. Volterra, III, Milano 1971, p. 535; G. Santucci, Il socio
d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, cit., pp. 128 ss.
[100] In merito ai problemi
inerenti al risarcimento del danno sopportato dal socio d’opera vedi G. Santucci, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità,
cit., pp. 128 ss., il quale, nel mettere in correlazione D. 17.2.60.1 (Pomp. 13
ad Sab.) con D. 17.2.52.4 (Ulp. 31 ad
ed.), evidenzia il contrasto tra le opinioni di Labeone e di Giuliano a
proposito dei risarcimenti dei danni subiti dai soci d’opera.
[101] Cfr. G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., p. 71, il quale scrive: «Approfittando
della circostanza che il patto sociale è irrilevante nei confronti dei terzi, i
venaliciarii, costituendo tra loro
speciali società, vendevano apparentemente gli schiavi pro quota.
Conseguentemente la regola della divisibilità passiva dell’azione redibitoria e
della quanti minoris veniva a
costituire un grave ostacolo processuale per il compratore, costretto ad agire
pro quota contro ogni singolo componente la società, se avesse voluto ottenere
una completa redibizione, o l’aestimatio
vitii».
[102] Non tutta la dottrina è
concorde nel ritenere che la rubrica adversus
venaliciarios fosse inclusa nell’editto degli edili curuli. Quanto alla
ricostruzione dell’editto edilizio, redatto in modo definitivo da Salvio
Giuliano, O. Lenel, L’édit perpétuel, cit., pp. 303 ss.,
prospetta la seguente partizione: de
mancipiis vendundis (§ 293, p. 303); de
iumentis vendundis (§ 294, p. 316); de
feris (§ 295, p. 317); stipulatio ab
aedilibus proposita (§ 296, p. 318). Suddivide poi l’editto de mancipiis vendundis in 11 rubriche:
1) de vitiis pronunciandis e la
concessione dell’actio redhibitoria (D. 21.1.1.1); 2) formula
dell’actio redhibitoria (D.
21.1.23-27); 3) actio quanti minoris
(D. 21.1.31.16); 4) actio in factum ad
pretium reciperandum, si mancipium redhibitum fuerit (D. 21.1.31.17-19); 5)
de cavendo (D. 21.1.31.20); 6) de natione pronuntianda (D. 21.1.31.21);
7) si quid ita venierit, ut, nisi
placuerit, redhibeatur (D. 21.1.31.22-23); 8) si alii rei homo accedat (D. 21.1.31.25; 33; 35); 9) ne veterator pro novicio veneat (D.
21.1.37); 10) edictum adversus
venaliciarios (D. 21.1.44.1); 11) edictum
de ornamentis (D. 50.16.74). Per quanto attiene alla rubrica de castratione puerorum (D. 9.2.27.28)
il lenel ipotizza che sia da
considerare come un’appendice all’editto
de mancipiis vendundis (p. 304).
La ricostruzione della versione giulianea dell’editto de mancipiis vendundis proposta dal
Lenel si differenzia da quella di A.F. Rudorff,
Edicti perpetui quae reliquia sunt,
Lipsiae 1869, § 310, pp. 259 s.: quest’ultimo aveva individuato 10 rubriche, in
quanto non considerava gli editti ‘si
alii rei homo accedat’ e ‘adversus
venaliciarios’, mentre introduceva l’editto de castratione puerorum. Anche F. Glück, Commentario alle
Pandette, XXI, (trad. it. a cura di S. Perozzi e P. Bonfante), Milano 1898,
pp. 12 ss., pur includendo 11 rubriche nell’editto de mancipiis vendundis, propone una diversa sequenza di argomenti
rispetto a quella del lenel; ma
il suo ordine sistematico viene criticato da S. Perozzi, (in F. Glück, Commentario alle Pandette, cit., pp. 12
ss. n. b) il quale preferisce la
ricostruzione leneliana.
[103] Cfr. E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain, cit., p. 233.
[104] Vedi f. Serrao, Impresa, mercato, diritto. Riflessioni
minime, cit., p. 49, il quale afferma: «Con che non solo si ampliava e
rafforzava l’ammissione delle rappresentanza fra i socii venaliciarii, ma si
creava una speciale solidarietà infrangendo, anche per le società venaliciarie,
il voluto principio della non rilevanza esterna del rapporto sociale».
[105] f. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di
società in diritto romano, cit., p. 743; Id.,
Impresa, mercato, diritto. Riflessioni
minime, cit., pp. 48 ss.
[106] Il passo di Paolo viene
interpretato in questo modo da: V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano, cit., pp. 91 e 141 ss.; G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., pp. 71 ss.
[107] f. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di
società in diritto romano, cit., p. 749.
[108] Vedi f. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di
società in diritto romano, cit., p. 752, il quale sostiene che: «Dal punto
di vista pratico, infine, una società venaliciaria i cui soci fossero costretti
ad intervenire tutti alla vendita di un singolo schiavo non doveva essere molto
comoda e funzionale, specie ove si pensi che uno dei vantaggi fondamentali
dell’operare in società doveva essere costituito dalla possibilità per i venaliciarii socii di agire
all’occorrenza contemporaneamente in diversi mercati».