Ius-Antiquum-Древнее-право-20-2007
L. VACCA*
DIRITTO GIURISPRUDENZIALE
ROMANO E TRADIZIONE ROMANISTICA
Non ha bisogno di dimostrazione l’assunto per cui
il diritto romano classico è un diritto giurisprudenziale, nel senso che
nell’ordinamento giuridico romano, sino a tutto il periodo del Principato
si deve all’attività interpretativa dei giuristi la formazione e l’elaborazione
delle regole e dei principi pratici e scientifici di tutto il diritto privato[1], come non ha bisogno di dimostrazione
l’affermazione che nell’esperienza giuridica romana il diritto si
forma dal ‘caso’[2], o meglio, dalla ‘risoluzione del caso’.
Eppure queste semplici e indiscusse enunciazioni
nascondono difficili problemi ricostruttivi : come è noto, la dottrina
romanistica è ben lungi dall’essere unanime nella valutazione del
‘metodo’ dei giuristi e le opinioni si dividono - per citare solo
le questioni più ampie - sulle tecniche e sulle logiche euristiche dei
singoli giuristi, sulla ‘razionalità’ del responso, sul
rapporto fra responsi concreti e costruzione scientifica astratta,
nonchè sul rapporto fra interpretatio
e normazione nei diversi momenti storici.
E’ indubbio che nella rappresentazione del metodo
giurisprudenziale romano, e nella successiva percezione dei suoi risultati ha
avuto un peso determinante la circostanza che le soluzioni dei giuristi e le rationes decidendi utilizzate per le
decisioni concrete sono state tramandate al mondo moderno con la mediazione di un doppio filtro.
In primo luogo, noi non conosciamo
l’attività pratica dei giuristi se non attraverso le loro opere
scientifiche, e anche nella letteratura problematica in cui è più
immediatamente percepibile il collegamento con la trattazione dei casi reali,
l’esposizione è quasi sempre ridotta - ai fini della trasmissione
in forma letteraria della ratio decidendi
utilizzata per la soluzione di un singolo caso o di più casi simili -
all’astrazione di una soluzione rappresentata per casi-tipo, rapportabile
quindi alla decisione di tutti i casi con elementi qualificanti simili[3]; l’argomentazione non si svolge, in genere, nel
confronto esplicito fra i fatti caratterizzanti i precedenti casi simili e
quelli caratterizzanti il casus
specifico, ma mediante semplice citazione di soluzioni precedenti, rispetto
alle quali spesso il giurista si limita ad esprimere il suo assenso o dissenso,
talvolta senza motivare ulteriormente. Non vi è dubbio che questo tipo
di conservazione e trasmissione dei risultati dell’attività
pratica rispondente rende estremamente complesso ricostruire il procedimento
euristico e argomentativo in relazione alla soluzione del singolo caso concreto,
e quindi individuare il valore delle rationes
decidendi precedentemente utilizzate nei casi simili in rapporto alla
soluzione dei nuovi casi.
Tuttavia, come vedremo, questo tipo di letteratura
problematica indica chiaramente modalità di utilizzazione razionale
delle soluzioni precedentemente individuate, che - pure ovviamente differenti
dalle modalità di conservazione e trasmissione proprie del Case Law
anglossassone, e quindi dai meccanismi di utilizzazione successiva delle
sentenze proprie dello stesso - implicano la formazione di un diritto casistico
nel senso di un diritto in cui la soluzione implica l’argomentazione
‘da caso a caso’.
In secondo luogo, nella valutazione, soprattutto da parte
di alcuni giuristi continentali, del diritto giurisprudenziale romano come
diritto in cui, nonostante la costruzione argomentativa casistica, prevale una
logica assiomatica tesa verso la formulazione di regole
‘prescrittive’ ordinate in un sistema unitario, ha indubbiamente
avuto un peso determinante
Le opere, che erano state composte dai giuristi per dar
conto delle soluzioni scientificamente individuate in relazione agli elementi qualificanti
dei casi sino a quel momento analizzati, e tuttavia aperte pur sempre alla
novità di responsi che, in rapporto a situazioni
‘differenti’ da quelle già tipizzate, individuassero nuove
soluzioni in coerenza della medesima ratio
generale, vennero infatti utilizzate dai commissari giustinianei per
rappresentare un sistema normativo chiuso ed esaustivo, modificabile solo
dall’intervento normativo dell’imperatore, unico legislatore ed
interprete [4].
I casi , proposti nelle opere giurisprudenziali come
tipici, in quanto in relazione ad
essi i giureconsulti avevano individuato modelli di soluzioni, via via
consolidatesi nell’ambito della scientia
iuris come le ‘più giuste’ in rapporto a determinati
elementi ritenuti ‘qualificanti’ del fatto, ovvero avevano indicato
le soluzioni ritenute ‘più probabili’ in rapporto a
situazioni di fatto la cui qualificazione e soluzione era tuttavia controversa,
ma sempre quali ‘modelli’ verificabili da parte del giurista in
rapporto alla determinazione scientifica degli elementi da ritenere rilevanti
per il singolo caso[5], venivano così trasformati in fattispecie astratte, in ‘norme
‘ da ‘applicare’ per la soluzione del singolo caso concreto.
Dopo la ‘riscoperta’ del Corpus iuris, i giuristi continentali si sono rivolti
all’insieme delle decisioni giurisprudenziali, private dalla compilazione
della loro dimensione storica e quindi della collocazione all’interno del
processo di sviluppo legato all’individuazione di soluzioni nuove e diversificate,
utilizzandolo per secoli come modello unitario, scientifico-dommatico e/o
normativo.
Da ciò, io credo, la difficoltà di
individuare nel processo costruttivo della scientia
iuris romana il rapporto fra la singola soluzione concreta e le precedenti
soluzioni su casi analoghi, nonché fra la singola soluzione e quelle
successive, e il convincimento , più o meno esplicitato e motivato, in
larga parte della dottrina continentale che il diritto giurisprudenziale romano
non sia un ‘Case Law’, almeno nel senso che a questa espressione
viene attribuita dalla dottrina anglossassone, e che vi siano radicali
differenze fra i meccanismi della produzione del diritto nell’esperienza
giuridica romana e i meccanismi di formazione del Common Law.
Come ho già avuto modo di rilevare, non vi
è dubbio che le due esperienze giuridiche siano differenti , né
potrebbe essere diversamente, non solo perché ovviamente differente
è il contesto storico, politico ed economico in cui esse si sviluppano,
e perché differenti sono i meccanismi di produzione del diritto e gli
‘organi’ cui l’ordinamento riconosce nei diversi momenti
storici il potere e la funzione di ‘creare’ il diritto; diverso è anche indubbiamente il
rapporto che nei due sistemi si pone fra il diritto e il giudice, fra
interpretazione del diritto e decisione del caso: nel sistema romano il
giurista ‘suggerisce’ con i suoi responsi le soluzioni , ma queste
soluzioni non hanno, in nessun momento storico, contenuto di per sé
precettivo, né per la decisione del caso singolo[6], né, tantomeno, generale per la decisione degli
altri casi simili; nel sistema anglossassone il giudice emette sentenze, che
non solo hanno valore normativo per il singolo caso, ma hanno formalmente
valore ‘precettivo’ per i successivi casi simili. Tutto ciò
è indiscutibile.
Tuttavia è altrettanto indiscutibile ed
appariscente che se si guarda alle ‘fonti di produzione del
diritto’ non come modi di produzione di regole vincolanti, ma come
procedimenti tecnici idonei a sviluppare e , ove necessario, a mutare,
l’ordinamento giuridico cui si fa riferimento ed i criteri di soluzione
delle controversie individuali, il
procedimento di formazione dell’esperienza giuridica romana nel momento
della giurisprudenza classica appare molto più vicino al procedimento di
formazione del Common Law che non al procedimento di formazione del diritto
negli attuali sistemi europei continentali.
Nel sistema giurisprudenziale romano e nel sistema del
Common Law è infatti analogo il procedimento razionale che viene utilizzato
dal giurista (e anche il giudice anglossassone è un giurista, non solo
un pratico) per ‘trovare’ nell’ordinamento[7] la soluzione del caso singolo e per
‘costruire’ dalla soluzione dei singoli casi l’ordinamento
stesso; questo procedimento è per necessità logica differente da
quello seguito dall’interprete vincolato a ‘trovare’ nella
legge , precetto generale, la norma del caso singolo[8]. Peraltro, nei sistemi di Civil Law, esaurita
l’operazione della trasformazione del precetto generale in precetto individuale,
si esaurisce, almeno sul piano teorico, la funzione ‘creatrice’
dell’interpretazione. La soluzione del nuovo caso dovrà essere
trovata ancora nella legge, e la legge può essere modificata solo da una
nuova legge.
Come accennato, il fulcro della tecnica scientifica di
utilizzazione del precedente in un Case Law è individuabile in due
momenti che caratterizzano l’operazione logica dell’interprete
chiamato a formulare la soluzione per un nuovo caso: l’astrazione
mediante induzione della ratio decidendi
delle precedenti decisioni su casi simili e la determinazione se il caso da
decidere sia ‘analogo’ a quelli già decisi, se cioè
sia caratterizzato dalle stesse circostanze di fatto qualificanti ai fini della
individuazione del principio giuridico che ne regola la soluzione, ovvero
richieda una soluzione differente in quanto caratterizzato da diversi elementi
di fatto (distinguishing). Abbiamo
visto altresì che entrambe le operazioni competono esclusivamente
all’interprete che deve formulare la ‘nuova decisione’, nel
senso che egli non è condizionato dalla ratio che l’interprete precedente ha indicato (più o
meno esplicitamente ) a fondamento della sua decisione. La ratio decidendi non è infatti la motivazione giuridica della
decisione, ma è il principio che l’interprete successivo ricava
rapportando le circostanze individuate come qualificanti alla decisione che ne
discende logicamente.
Questo procedimento logico è ben noto ai giuristi
romani: la tecnica dell’astrazione che dalla soluzione di casi concreti
particolari porta alla formulazione di casi tipo consiste appunto
nell’evidenziare le rationes
decidendi nel rapporto fra elementi qualificanti e decisione, e nel
determinare analogie o differenze fra i casi risolti e i casi da risolvere, al
fine di determinare l’applicabilità della ratio decidendi precedentemente individuata e ‘dedurne’
la nuova soluzione[9].
Vediamo alcuni esempi[10]:
D.41,2,21,1 (Iav. 7 ex Cassio): quod ex naufragio expulsum est, usucapi non potest,
quoniam non est in derelicto sed in deperdito. 2. Idem iuris esse existimo in
his rebus quae iactae sunt: quoniam non potest videri id pro derelicto habitum,
quod salutis causa interim dimissum est.[11]
Giavoleno , riferita la soluzione di Cassio, che
escludeva la possibilità di usucapire le cose provenienti da naufragio,
in quanto queste cose non potevano considerarsi derelitte, estende per analogia[12] la soluzione alle cose gettate dalla nave per evitare il
naufragio, in quanto trova applicazione la medesima ratio decidendi che limita l’acquisto per usucapione alle
cose che possono essere considerate definitivamente perdute dal dominus[13].
D.47,2,43,11 (Ulp.41 ad Sab): Si iactum ex nave factum alius
tulerit, an furti teneatur? quaestio in eo est, an pro derelicto habitum sit.
et si quidem derelinquentis animo iactavit, quod plerumque credendum est, cum
sciat periturum, qui invenit suum fecit nec furti tenetur. si vero non hoc
animo, sed hoc, ut, si salvum fuerit, haberet: ei qui invenit auferendum est,
et si scit hoc qui invenit et animo furandi tenet furti tenetur. enimvero si
hoc animo, ut salvum faceret domino, furti non tenetur. quod si putans
simpliciter iactatum, furti similiter non tenetur.
Una questione diversa è posta in questo testo di
Ulpiano[14], in cui il giurista , al fine di risolvere il problema
se colui che porta via una cosa iacta ex
nave sia tenuto con l’actio
furti, introduce la rilevanza di un’ulteriore circostanza : l’animus di colui che getta la cosa dalla
nave; se questi è convinto che la cosa andrà definitivamente
perduta, la cosa può essere considerata ‘derelitta’, e in
questo caso colui che la trova può acquistarla. La ratio decidendi della soluzione di Ulpiano non è differente
da quella utilizzata per le soluzioni di Cassio e di Giavoleno: il terzo
può acquistare solo ciò che, in rapporto agli elementi di fatto
rilevanti per la diagnosi del caso, è da considerarsi
‘tipicamente’ perduto definitivamente dal dominus, e non ciò che deve ritenersi perduto solo
temporaneamente. Ulpiano però introduce un distinguo che modifica l’ambito della ‘rule of
law’ che da quella ratio decidendi
derivava: mentre Cassio e Giavoleno ritenevano che tutte le circostanze di
fatto da considerarsi rilevanti nelle perdite da naufragio e, in analogia,
nelle perdite per il gettito dalla nave per evitare il naufragio, trovassero
considerazione nella soluzione che , distinguendo questi casi da quelli di derelictio, negava comunque
l’acquisto al terzo, Ulpiano, mettendo l’accento sulla rilevanza
del convincimento di colui che getta la cosa, elemento che non veniva in
considerazione nelle soluzioni precedenti, restringe la portata della regola ai
casi in cui effettivamente il dominus
ritiene di poter recuperare la cosa.
Gli altri casi , in applicazione della medesima ratio decidendi, devono essere quindi decisi in senso opposto.
E’ evidente, mi sembra, che pur essendo i casi
esaminati in questi testi fortemente ‘astratti’, l’operazione
logica che guida l’utilizzazione delle soluzioni precedentemente
‘standardizzate’ è molto differente dalla sussunzione di un
determinato caso concreto nella fattispecie precedentemente tipizzata; a
differenza di quanto avviene in un sistema ‘normativo’ il numero
dei casi tipo può essere moltiplicato all’infinito, ogni volta che
il giurista individua un ulteriore elemento di fatto che , ritenuto elemento
qualificante non specificamente rilevante nella situazione per cui la soluzione
tipo è stata prima adottata, giustifica per il nuovo caso una soluzione
diversificata. Ciò significa che nel determinare la soluzione per un
determinato caso il giurista deve necessariamente utilizzare le soluzioni
precedenti , individuando la ratio decidendi in esse implicata: per es. le
cose provenienti da naufragio non sono usucapibili perché nella
soluzione consolidata la situazione di per sé implica
‘tipicamente’ che il dominus
non ha inteso abbandonarle definitivamente, soluzione in cui il giurista
successivo individua la ratio secondo
cui le cose non sono usucapibili in quanto il dominus non ne ha dismesso il possesso ; in applicazione della
medesima ratio, il giurista adotta
quindi la soluzione analoga per le cose gettate dalla nave in stato di
necessità. Ma se un giurista individua un caso che, pur essendo simile a
quelli per cui si è consolidata una certa soluzione (la cosa è
pur gettata dalla nave in stato di necessità), presenta un diverso
elemento di fatto che egli individua come ulteriormente qualificante ( il dominus , a differenza che nel caso
precedentemente ‘tipizzato’, è convinto di non poter
recuperare la cosa) il giurista può, utilizzando la medesima ratio, adottare una soluzione diversa.
Il giurista romano ragiona quindi effettivamente ‘from case to
case’, nel senso che non ‘applica’ il caso già
tipizzato, ‘sussumendovi’ quello nuovo, ma deve necessariamente
risalire dalle soluzioni precedenti alla
ratio decidendi che le giustifica (ratio
decidendi che spesso nelle soluzioni non è esplicitata ma che deve
essere sempre ricavata per induzione da chi le utilizza successivamente) e da
questa scendere al caso concreto per verificarne l’applicabilità e
le conseguenze[15], restringendo ad allargando il campo di applicazione della soluzione
precedentemente adottata[16].
Vediamo un altro esempio. Come è noto, Giuliano ed
il suo discepolo Africano sono fra i giuristi nelle cui opere si presenta
più accentuato il processo di astrazione e di standardizzazione dei
casi. Mi sembra quindi particolarmente utile rileggere un testo di Africano,
che ho avuto occasione di esaminare di recente, e che, a mio avviso,
costituisce un esempio significativo della tecnica argomentativa casistica
mediante ragionamento ‘from case to case’, procedendo per analogie
e differenziazioni, sia pure in
relazione a ‘casi’ fortemente astratti[17]:
D.19,2,33 (Afr. 8 quaest.):
Si fundum quem mihi locaveris publicatus
sit teneri te actione ex conducto ut mihi frui liceat, quamvis per te non stet,
quo minus id praestes: quemadmodum, inquit, si insulam aedificandam locasses et
solum corruisset, nihilo minus teneberis. nam et si vendideris mihi fundum
isque priusquam vacuus traderetur publicatus fuerit tenearis ex empto: quod
hactenus verum erit , ut pretium restituas, non etiam id praestes, si quid
pluris mea intersit eum vacuum mihi tradi. similiter igitur et circa
conductionem servandum puto, ut mercedem quam praestiterim restituas, eius
scilicet temporis, quo fruitus non fuerim, nec ultra actione ex conducto
praestare cogeris. Nam et si colonus tuus fundo frui a te aut ab eo prohibetur,
quem tu prohibere ne id faciat possis, tantum ei praestabis, quanti eius
interfuerit frui, in quo etiam lucrum eius continebitur: sin vero ab eo
interpellabitur, quem tu prohibere propter vim maiorem aut potentiam eius non
poteris, nihil amplius ei, quam mercedem remittere aut reddere debebis
D.19,2,35 (Afr. 8 quaest.)
: Et haec distinctio convenit illi, quae
a Servio introducta et ab omnibus fere probata est, ut, si aversione insulam
locatam dominus reficiendo, ne ea conductor frui possit effecerit,
animadvertatur, necessario necne id opus demolitus est: quis enim interest,
utrum locator insulae propter vetustatem cogatur eam reficere an locator fundi
cogatur ferre iniuriam eius, quem prohibere non possit? Intellegendum est autem nos hac distinctione uti de eo,
qui et suum praedium fruendum locaverit nec resistere domino possit, quominus
is colonum frui prohibeat.
In
questo testo di Africano[18] vengono
presi in esame una serie di casi, simili ma caratterizzati da diverse
circostanze , in rapporto ai quali si pone la questione di distinguere fra i
casi in cui , divenuta impossibile la prestazione di una delle parti di un
contratto bilaterale sinallagmatico, ma non potendo il mancato adempimento
essere impedito dal debitore, l’azione deve essere esperita, secondo i criteri
del bonum et aequum, solo per la
ripetizione del corrispettivo, ed i casi in cui, essendo invece riferibile alla
condotta del debitore la circostanza che ha determinato il mancato adempimento,
egli sarà tenuto a risarcire il danno, rispondendo per l’id quod interest.
Africano
riferisce che Giuliano affermava che nel caso il fondo locato fosse
espropriato, il locatore era tenuto con l’azione contrattuale nonostante
l’inadempimento non dipendesse da lui, analogamente al caso in cui,
essendo stata data in appalto la costruzione di un edificio su un determinato
suolo, il terreno fosse franato. L’impossibilità della prestazione
in un caso di locatio rei viene quindi equiparata alla
impossibilità derivante da causa naturale in un caso di locatio operis. A sostegno di questa
soluzione si ricorda che anche ove il fondo fosse stato venduto, e
l’espropriazione fosse intervenuta prima della traditio, il venditore sarebbe stato tenuto con l’actio ex empto. Tutte queste soluzioni
sono quindi dettate, secondo Africano, da una stessa ratio decidendi, che pur non esplicitata risulta necessariamente
dal rapporto fra le circostanze di fatto indicate come qualificanti e la
soluzione.
Sino a
questo punto il testo enuncia chiaramente soluzioni di Giuliano accettate da
Africano come pacifiche. Il punto problematico, che viene risolto da Africano
per l’actio ex conducto in
analogia con una soluzione dello stesso Giuliano in materia di actio empti, concerne invece la
determinazione della condemnatio:
è vero, sottolinea il giurista, che nel caso venga espropriato il fondo
viene concessa l’actio empti,
ma è altresì vero che in questo caso l’azione è
concessa per la restituzione del prezzo, non per il risarcimento del danno
valutato in rapporto all’interesse del creditore ad avere l’habere licere. La stessa soluzione deve
essere quindi adottata nel caso della locatio
conductio: l’actio ex conducto
può essere esperita solo per la restituzione della mercede corrispettiva
relativamente al periodo in cui non è stato possibile il godimento del
fondo, e il locatore in questo caso non può essere tenuto a niente di
più. Se invece è dipeso dal locatore che al colono si sia
impedito il godimento del fondo, egli sarà tenuto ad una somma
corrispondente all’interesse anche positivo al godimento, ma nel caso il
godimento sia stato impedito da una persona cui il locatore non poteva opporsi
o per forza maggiore o a causa della sua posizione sociale, il locatore
sarà tenuto solo alla remissione o restituzione del canone. Questa
distinzione, prosegue il giurista, concorda con il principio introdotto da
Servio e pressocchè unanimemente accettato, che in caso di demolizione
da parte del locatore di un edificio per effettuare delle riparazioni, con la
conseguenza dell’impossibilità per il conduttore di fruirne,
distingueva se tale distruzione era resa o meno necessaria a causa della
situazione di vetustà dell’edificio: non vi è infatti
differenza fra i due casi, in quanto in entrambi i casi il debitore non poteva
impedire l’evento che ha determinato l’impossibilità della
prestazione. Nota infine il giurista che questa distinzione può trovare
applicazione solo nel caso in cui il locatore abbia contratto il negozio in
buona fede, non nel caso in cui egli , avendo consapevolmente locato un fondo
altrui, non possa poi impedire al proprietario di proibire al colono di
fruirne.
Nella
prospettiva della specifica questione affrontata in questa sede interessa in
primo luogo evidenziare il rapporto fra le soluzioni di Giuliano e
l’argomentazione casistica di Africano volta a costruire un
‘sistema’ di principi idonei a regolare l’ambito di
applicazione e le conseguenze pecuniarie dell’azione contrattuale
nell’ipotesi di impossibilità sopravvenuta di una delle
prestazioni: Africano utilizza alcune soluzioni del suo maestro relative a casi
differenti sotto il profilo della situazione di fatto, ma riconducibili ad
elementi qualificanti comuni che come tali giustificano soluzioni analoghe: sia
nel caso della publicatio del fondo
locato, sia nel caso della frana del terreno nella locatio operis il locatore resta tenuto con l’azione
contrattuale nonostante l’impossibilità della prestazione non sia
a lui imputabile; la stessa soluzione veniva adottata da Giuliano per il caso
di publicatio del fondo venduto. In
questo caso lo stesso Giuliano peraltro concedeva espressamente l’azione
solo per la restituzione del prezzo e non nell’id quod interest. Gli elementi comuni dei casi sono costituiti
dalla impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni in un
contratto a prestazioni corrispettive e dalla circostanza che tale
impossibilità non è imputabile al debitore. La applicazione della
stessa ratio decidendi che - secondo
Africano - giustifica la soluzione di Giuliano per la compravendita comporta,
nel caso di locatio rei, una soluzione
che preveda la sola restituzione della mercede per il periodo in cui non stato
possibile il godimento del fondo. Africano cioè, individuata la ratio decidendi di una precedente
soluzione di Giuliano nel principio che impone che nel caso
l’impossibilità non sia imputabile debba solo ripristinanrsi
l’equilibrio patrimoniale fra le prestazioni e non sia equo condannare al
risarcimento del danno, la utilizza per un caso ‘simile’ ma non
uguale, inducendo dalla soluzione specifica in materia di compravendita un
principio di carattere più generale per i contratti sinallagmatici, da
cui ‘deduce’ la soluzione analoga per il caso della publicatio del fondo non venduto ma
locato. A questo punto il giurista introduce dei distinguo in rapporto alla soluzione di casi caratterizzati da
elementi di fatto differenti, per chiarire ulteriormente l’ambito di
applicazione della ‘rule of law’ : la ratio decidendi individuata per i casi precedentemente descritti
non trova applicazione ove sia dipeso dal locatore che al colono si sia
impedito il godimento del fondo, ma trovava applicazione in altri casi in cui
il locatore non poteva impedire che si verificasse detto impedimento.
Ciò significa che il principio che costituisce la ratio decidendi del caso di impossibilità derivante da publicatio è secondo il giurista
estensibile ad altri casi di impossibilità per fatto non imputabile. A
conferma della estensione il giurista fa riferimento ad altre soluzioni
precedenti ed ormai consolidate per casi ‘simili’ : le soluzioni di
Servio per il caso di demolizione dell’edificio al fine di effettuarvi
delle riparazioni, che distingueva a seconda della effettiva necessità
delle stesse. La ratio tuttavia di
queste differenti decisioni implica la sua limitazione ai soli casi che sono
qualificati dalla ‘buona fede’ del locatore.
Come
accennato, questo testo costituisce un esempio particolarmente significativo di
costruzione casistica di concetti generali dommaticamente coerenti mediante il
ragionamento ‘from case to case’ e delle difficoltà che la
lettura di questi testi può
offrire al giurista moderno, avvezzo a ragionare in termini di logica
deduttiva.
La
casistica proposta da Africano non tende ad evidenziare i casi in cui la
mancata utilizzazione del bene locato o venduto deve essere posta a carico del
locatore o del venditore in applicazione di regole predeterminate di
attribuzione del rischio, ma si dispiega nella distinzione fra i casi in cui il
debitore - posto che nei casi descritti egli è considerato inadempiente
in quanto non si è oggettivamente realizzato il risultato utile
caratterizzante tipicamente il contratto, e viene altresì considerato
‘responsabile’ di tale inadempimento nel senso che il particolare
tipo di rapporto tutelato comporta, secondo una soluzione consolidata, che egli
sia esposto all’azione contrattuale - può essere tenuto nei
confronti del creditore solo alla restituzione del corrispettivo pecuniario
già percepito, ovvero anche al risarcimento del danno; debba cioè
essere tenuto solo a ristabilire l’equilibrio delle prestazioni, ovvero debba essere tenuto anche a
ristorare la perdita derivante dal mancato soddisfacimento dell’interesse
all’adempimento. Questa distinzione non è posta dal giurista come
conseguenza di una distinzione dommatica fra attribuzione di rischio e
responsabilità, o, tantomeno, come conseguenza di una distinzione
normativa fra l’ambito di applicazione di un’azione per la
risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta e di
un’azione per la responsabilità derivante da inadempimento , ma
è posta esclusivamente, ragionando sui casi già risolti, come
distinzione fra circostanze di fatto da ritenere ‘qualificanti’ per
la la determinazione concreta del quidquid
facere praestare oportet ex fide bona, differenziando quindi la aestimatio del danno in rapporto alla
circostanza che ha determinato l’inadempimento nei diversi casi. Posto
cioè che la natura sinallagmatica delle obbligazioni collegate ad alcuni
contratti comporta - secondo la ratio
decidendi di alcuni casi la cui soluzione è consolidata - l’interdipendenza
di esse, nel senso che in determinati casi, secondo soluzioni precedenti,
l’impossibilità di una delle prestazioni non estingue
l’obbligo del debitore, che continua a essere tenuto (“Si fundum quem mihi locaveris publicatus sit
teneri te actione ex conducto ut mihi frui liceat), anche se
l’adempimento non è nel caso di specie dipendente dalla sua
condotta (quamvis per te non stet, quo
minus id praestes), le conseguenze pecuniarie dell’azione per
l’inadempimento possono (debbono) essere diversamente determinate a
seconda che tale impossibilità sia o meno derivata da un evento che il
debitore avrebbe potuto impedire se la sua condotta fosse stata conforme al
modello richiesto per l’adempimento di quel particolare tipo di obbligazione.
I principi
che vengono utilizzati da Giuliano-Africano costituiscono la radice della
moderna distinzione nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive
fra la risoluzione per impossibilità sopravvenuta e la risoluzione per
inadempimento imputabile a fatto del debitore. Questi principi emergono
gradualmente, in rapporto alle soluzioni che vengono individuate per i singoli
tipi contrattuali utilizzando la flessibilità del iudicium bonae fidei, che rende possibile determinare
casisticamente il contenuto patrimoniale della condanna secondo i criteri della
buona fede. In altri termini: la ratio
decidendi che guida le soluzioni secondo cui nel caso di
impossibilità sopravvenuta la
aestimatio della condanna deve essere differenziata tenendo conto della
imputabilità o meno del fatto che ha determinato la impossibilità
stessa, apre la strada alla emersione della’regola’ in materia di
risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive, che vuole la riduzione
in pristino della situazione nel caso di impossibilità sopravvenuta,
salva l’obbligazione di risarcire il danno nel caso il fatto che ha
determinato l’impossibilità sia imputabile al debitore; in questa
fase di elaborazione e in rapporto a queste situazioni - considerate analoghe
all’evizione più che ai vizi della cosa - non si è ancora,
tuttavia, elaborato compiutamente lo schema concettuale della risoluzione del
contratto e della ripartizione del rischio.
Il
problema è posto da Africano ancora unitariamente, come problema di
responsabilità del convenuto, nel senso che per il giurista si tratta di
determinare, si può dire caso per caso, la tutelabilità della
pretesa attrice nell’ambito dell’azione contrattuale per
l’inadempimento, ma la risposta positiva anche per il caso di impossibilità
dell’adempimento non colpevole, limitatamente alla possibilità di
chiedere la restituzione del prezzo, viene giustificata nel caso della locatio e nel caso della vendita
utilizzando la stessa ratio di
esigenza di tutela obiettiva del rapporto sinallagmatico che regge le
obbligazioni a prestazioni reciproche. Questo ‘modello’ di
soluzione tuttavia non ha di per sé alcun contenuto precettivo generale,
e l’ambito di applicazione della rule of law che essa implica
potrà essere ulteriormente precisato solo dai giuristi successivi, in
rapporto all’analisi degli elementi ‘qualificanti’ delle
singole situazioni concrete.
In questo intervento cercherò di esporre alcune
considerazioni che in parte si riallacciano all'interessante relazione del
Horak, in parte vorrebbero tentare di mettere a fuoco il significato che
può avere oggi il considerare in queste prospettive il diritto romano
come diritto giurisprudenziale.
Il primo punto da valutare sarà quindi la
conclusione prospettata da Horak, secondo il quale l'opera della giurisprudenza
romana è approdata alla formulazione di una serie di casi, che non
rappresentano la descrizione di fattispecie concrete, come avviene nei Law
Reports del Case Law anglosassone; questi casi consistono, invece, in una serie
di fattispecie per lo più astratte, più simili quindi a quelle
che si trovano nel sistema di norme di un Codice.
Secondo me questa valutazione può essere esatta
solo se riferita alla utilizzazione successiva delle opere dei giuristi, quando
il diritto romano ha cessato di essere giurisprudenziale nel senso di prodotto
vivo e continuo dell'attività pratica di soluzione dei casi concreti da
parte dei giuristi; nel momento in cui, dunque, esso appare nel suo risultato
finale, per così dire esteriore. Su questo punto richiamerò brevemente
i risultati, peraltro ancora parziali, di uno studio che ho in corso, e che
riguarda il tema dell'acquisto della proprietà di cosa abbandonata.
Questa ricerca è nata da una serie di dubbi che mi
si sono proposti andando a leggere, dopo i testi dei giuristi classici, la
letteratu- ra romanistica, dalla pandettistica in poi, la disciplina
dell'occupazione di cosa abbandonata nelle codificazioni moderne, e la
trattazione che ne dà l'attuale letteratura civilistica italiana.
-C'è poi una seconda questione che vorrei trattare
qui, e che pe- raltro è strettamente connessa alla prima: sino a che
punto può dirsi che i contenuti delle attuali codificazioni sono
romanistici, o meglio, romani? Da un lato il diritto romano viene presentato
continuamente come modello di diritto giurisprudenziale e casistico, ma
dall'altro è ai suoi contenuti che si fa riferimento quando si parla di
sistemi romanistici. Ora, l'opera di concettualizzazione e sistemazio- ne,
compiuta soprattutto da Savigny in poi, ma -per altro verso - anche dai giusnaturalisti,
potrebbe aver inciso anche su questi conte- nuti, che per loro natura non erano
sempre riducibili a regole fisse e unitarie, a categorie logiche generali e
astratte.
Arriviamo così al terzo nodo fondamentale, che
investe una delle tematiche più attuali e sentite dello studio e
dell'insegnamento del diritto romano in tutti i paesi continentali: quali sono
i suoi rapporti con lo studio e l'insegnamento delle materie civilistiche,
qual'è oggi la sua funzione nella formazione del giurista? Perchè
una volta che il diritto vigente ha cessato inevitabilmente di svolgersi
nell'orbita del diritto romano attuale, necessariamente cambia anche la
prospettiva nella quale il diritto romano può essere visto, ed essa
acquista profondità come pròspettiva storica. Così, quel
che vorrei sottolineare è che non si tratta solo di andare a cercare, da
eruditi, le nostre radici giuridiche; invece, proprio cercando di svelare a
fondo le tecniche di ragionamento casistico dei giuristi classici, si può
giungere a comprendere alcune connessioni, ma anche sconnessioni, del nostro
ordinamento, prodotte dall'esigenza di ridurre ad unità concettuale
...una pluralità di soluzioni giurisprudenziali, non occasionale, ma
necessaria per il sistema di cui erano espressione.
Con ciò torniamo alla prima questione: la
valutazione del diritto dei giuristi romani come Case Law.
A questo proposito mi sembra necessario fare una
precisazione: il richiamo del metodo del Case Law anglosassone può avere
solo un valore strumentale e non comparativistico. È fin troppo ovvio
infatti, che i due sistemi si sviluppano in connessione a circostanze storiche
e a presupposti ideologici profon- dameI1te differenti ed estranei l'uno
all'altro; così, anche le tecniche di produzione del diritto e di
costruzione della scienza giuridica, pur presentando dei punti di contatto fra
loro, operano secondo modalità del tutto diverse.
Quest' opera di astrazione e tipizzazione dei casi
procede però secondo una logica che non può essere compresa sino
in fondo se non si tengono presenti alcuni caratteri comuni, io credo, a
qualun- que tipo di ordinamento in cui il diritto è opera,
prevalentemente, degli interpreti-pratici, giuristi o giudici che siano.
Solo sotto quest'angolo visuale assu'me rilevanza
l'acquisizione di alcuni modi tipici del ragionamento giuridico anglosassone.
Non a caso i giuristi anglo-americani individuano facilmente nel diritto romano
la presenza di alcune categorie generali di rgionamento comuni al loro sistema:
basti pensare al significato delle regulae iuris, dell'equità, della
consuetudine, in rapporto all'attività interpre- tativa dei giuristi; o
si pensi ancora al significato stesso dell'interpre- tatio iuris, in cui i
giuristi sono in realtà i veri 'oracoli del diritto', per riprendere
un'espressione del Blackstone, ma già enunciata nella sua sostanza da
Celso, e dietro di lui Ulpiano; o si ponga mente, ed è il caso
più macroscopico, al ruolo determinante del processo, in cui il diritto
si costruisce prima mediante cristallizzazione graduale di formule giudiziarie,
poi con aperture successive dovute all'esigen- za di adeguare la tutela
processuale' all'equità.
Certo, è evidente che questi discorsi rischiano di
restare troppo astratti e generici; vorrei però sottolineare che la
struttura del diritto casistico appare collegata costantemente ad un modo di
procedere che nella sua essenza è contrapposto alla costruzione di un
sistema di norme.
Il ragionare 'from case to case' non implica solo
l'astrazione della ratio decidendi e il distinguishing, come contenuto del
potere discrezionale dell'interprete; esso significa prevalentemente partire
dalle caratteristiche del caso, come fattispecie concreta, per determinare, nel
senso di individuare euristicamerite, la soluzione giusta. Si è
sostenuto che, quando i giuristi, nelle loro opere, tipiz- zano i casi concreti
in una serie di fattispecie astratte, l'operazione logica di colui che è
chiamato a risolvere il caso consiste nel diritto romano nel sussumere la
fattispecie concreta sotto la fattispecie astratta per ricavarne il criterio
decisionale, analogamente a quanto avviene nei sistemi codificati.
Ma io credo che questa fosse al più l'operazione
logica dei pratici del diritto dell'età postclassica che dovevano
utilizzare i testi preesistenti, e non quella degli stessi giuristi classici.
È indubbio che un giureconsulto che si trovasse a
rilasciare un parere su un caso poteva – anzi doveva – ricercare il
criterio di decisione nei principi già consolidati: ma ciò
avviene anche in un sistema di Common Law.
Come è evidente, la differenza sostanziale
consiste nel fatto che ai giuristi spetta il compito di determinare la
struttura del caso concrç:to, sulla base di quelle circostanze che egli
individua come caratterizzanti e decisive ai fini della regolamentazione
giuridica. In altri termini, anche il giurista roma- no compie una sorta di
distinguo, individuando nei casi concreti gli elementi rilevanti ai fini della
decisione. Solo in questo senso può essere esatto dire che la nascita
della giurisprudenza come scienza è da collegarsi al momento in cui le
sue formulazioni raggiungono un grado di astrazione tale da permettere di
separare gli elementi - anche di fatto -che possono influire sulla decisione,
da quelli me- ramente contingenti. Ma questa astrazione -almeno nella giuri-
sprudenza classica da Labeone in poi -porta alla individuazione di elementi che
'probabilmente' potranno essere utili alle soluzioni future; tuttavia, per la
loro stessa natura essi non esauriscono e non pretendono di esaurire i criteri
di soluzione che possono essere utilizzati dai giureconsulti.
Arrivo così all'esempio che mi ero ripromessa di
addurre, nel tentativo di spiegare in che modo la sovrapposizione di un
concetto e di una regolamentazione unitaria ad una casistica, sia pure forte-
mente tipizzata ed astratta, può portare a modificare gli stessi ele-
menti utilizzati e utilizzabili per determinare la soluzione dei casi.
L'acquisto della proprietà delle cose abbandonate
è regolato dal nostro c.c. come caso di occupazione di res nullius, ed
è limitato attualmente alle cose mobili. È affermazione unanime
della dottrina romanistica e civilistica che si tratta di un istituto
schiettamente romanistico; l'unica innovazione sarebbe costituita dalla
limitazione dell'acquisto alle cose mobili, determinata da esigenze di
pubblicità e certezza dell'appartenenza, collegate al regime della
circolazione dei beni immobili.
Gli elementi dell'acquisto per occupazione e della
perdita per derelictio rispecchierebbero perfettamente l'elaborazione romana, e
si concretizzerebbero in due elementi paralleli ma di contenuto opposto: per
l'occupazione, animus occupandi e apprensione materiale della cosa; per la
derelictio, animus derelinquendi e abbandono ma- teriale. Nel diritto romano
entrambi gli istituti avrebbero avuto con- tenuto generale e le limitazioni
attuali sarebbero, in un certo senso, il risultato dell'intervento dello stato
nella regolamentazione della proprietà, senza che ciò incida
però sulla configurazione dogmatica.
Non mi soffermerò sulla pretesa generalità
dell'occupazione quale modo di acquisto della proprietà, che pure
è stata posta in discussione di recente; vorrei invece partire dalla
considerazione che tutta la dottrina romanistica si è trovata in forti
difficoltà quando ha cercato di far corrispondere la pluralità di
soluzioni fornite dai giuristi con la definizione di res pro derelicto habita,
che è contenuta per la prima volta nelle istituzioni giustinianee, e che
è stata poi ripresa e generalizzata dalla dottrina successiva. Certo,
questa pluralità di soluzioni investe il momento in cui si può
ritenere che il dominus che compie la derelicta perda effettivamente la
proprietà, e questa controversia fra Sabiniani e Proculiani è testimoniata
esplici. tamente dalle fonti; ma essa investe anche il modo di acquisto della
proprietà della reI pro derelicto habita, che secondo alcuni testi av-
viene immediatamente in capo a chi se ne impossessi, secondo altri per
usucapione. Ora, se si prescinde per un momento dall'idea che i giuristi
avessero l'esigenza di sussumere i vari casi ad una nozione unitaria di
derelictio e di occupazione, si vede con chiarezza che la pluralità
delle soluzioni può essere dovuta alla diversa struttura dei casi che
venivano via via esaminati. È indubbio che i problemi che si presentano
in tema di acquisto di merci gettate da una nave per evitare il naufragio sono
molto distanti da quelli che si presen- tano in tema di occupazione di un fondo
lasciato abbandonato e incolto: così i problemi pratici da risolvere nel
caso di abbandono di uno schiavo sono molto diversi da quelli che si
prospettano nel caso che si getti via una cosa perchè usata o che non ci
piace più, o quando si cessi di inseguire un animale mansuefatto
perchè si è per- , sa la speranza di riprenderlo.
Se si parte dalla struttura dei casi, che è in
larga parte determinata dalla natura dalla res, si vede subito che il
ragionamento dei giuristi tende a contemperare le diverse esigenze che entrano
in conflitto, secondo criteri unitari ma che si adeguano alla struttura della
fattispecie concreta: la tutela del proprietario precedente contro gli
impossessamenti abusivi di una cosa che solo apparentemente era abbandonata;
oppure la tutela della buona fede di chi trova una cosa che tutto lasciava
presupporre abbandonata, e quindi se ne im- possessa, contro la
possibilità di un' actio furti; ancora, la tutela del medesimo
inveniente contro l'ipotesi che chi effettivamente aveva ab- bandonato una
cosa, voglia poi recuperarla; infine, la necessità per un certo tipo di
situazioni e di res di particolare rilevanza economi- co-sociale, che
l'appartenenza possa essere determinata secondo crite- ri certi quando sia
trascorso un certo lasso di tempo; e così via.
È peraltro indubbio che, se si va a leggere per
esempio il commentario di Ulpiano in tema di actio furti, o il titolo pro
dereticto, collocato nel digesto in materia di usucapione, si nota che i casi.
. sono fortemente astratti e tipizzati, nel senso che i giureconsulti tendono a
raggruppare le possibili situazioni concrete sotto elementi comuni che
giustifichino la medesima soluzione. Così si configura una sorta di
fattispecie astratte nelle quali sarà possibile effettivamente sussumere
i casi concreti da risolvere; però, a differenza di quanto avviene in un
sistema di norme, le fattispecie astratte così realizzate potrebbero
essere moltiplicate all'infinito, ogni volta che si individui un caso che, per
le sue caratteristiche particolari, i giuristi ritengano di dover decidere
secondo un diverso criterio: qui siamo allora molto più vicini al
'reasoning from case to case' che all'utilizzazione di una fattispecie astratta
prevista in una norma; nell'esempio che si è fatto i giuristi non hanno
il problema di stabilire se vi sia o no l'animus derelinquendi accompagnato
dalla perdita della cosa, per ricollegarvi poi l'acquisto per occupazione; essi
esaminano i casi per stabilire volta per volta se in base agli elementi di
fatto si :possa ritenere che il dominus ha perso la proprietà della
cosa, e se 'chi se ne è impadronito poteva acquistarla. Ciò non
significa, si badi bene, che i giuristi non dessero poi effettivamente
rilevanza anche l' animus derelinquendi o al fatto che egli perdesse la disponibilità
materiale; però questa rilevanza era determinata. caso per caso, sulla
base di criteri che gradualmente andavano tipizzandosi, ma erano sempre
suscettibili di modificarsi.
Si comprende meglio questa opera di tipizzazione se si
riflette sul fatto che, rispetto al giudice inglese, il giurista romano opera
su un piano che, in una certa misura, è più distaccato dalla
soluzione del caso concreto; quella del giurista, infatti, oltre che il
risultato dell'attività pratica, è un'opera scientifica, e
ciò lo porta necessaria- lente ad un certo livello di astrazione. I
giudici inglesi, invece, nella generalità dei casi, non scrivono opere
scientifiche; e nei Law Reports la loro motivazione sul punto di diritto
è inevitabilmente ed lscindibilmente collegata con la struttura concreta
del caso deciso. ) non credo però che queste differenze incidano sulla
sostanza di na parte del diritto romano come Case Law.
Arriviamo così al secondo quesito che mi ero
proposta: in che misura il trasferire i casi giurisprudenziali romani in un
sistema oncettuale unitario e sistematico ha influito sui contenuti giuridici?
, questo punto penso che la mia risposta sia scontata; l'irrigidimento) degli
istituti in schemi concettuali dogmatici può comportare la reazione di
contenitori ai quali si adatta male la sostanza delle soluzioni romane; e
ciò vale, per restare all'esempio fatto, per la perfetta equiparazione
delle cose abbandonate alle res nullius; per la configurazione dell'acquisto
delle res pro derelicto habitae come acquisto a titolo originario; per la
distinzione fra occupazione e m- enzione; infine per la configurazione di
derelictio anche per l'abbandono degli immobili; e così via. Fra
l'altro, penso che gli esempi i questo tipo che ho cercato di abbozzare
potrebbero facilmente moltiplicarsi in relazione a istituti molto più
generali.
L'ulteriore conseguenza che si trae da queste
considerazioni è che le concettualizzazioni e le astrazioni di tipo
sistematico non solo hanno influito sulla formulazione delle norme, e della
dottrina civilistica moderna; ma sono state riproiettate all'indietro sulle
stesse )nti romane, oscurandone la comprensione.
Alcuni romanisti moderni rivolgono frequentemente
l'accusa di dogmatismo alla romanistica di tipo pandettistico; talvolta si
può tuttavia avere l'impressione che questa critica non sia del tutto
consapevole del fatto che il rifiuto del modello pandettistico non significa il
rifiuto della concettualizzazione giuridica, anche se di diverso tipo. È
innegabile infatti che i giuristi romani abbiano costruito un sistema giuridico
rigoroso e raffinato, anche se la sua logica e le sue modalità di
espressione si esplicano su linee differenti da quelle della logica del
razionalismo tedesco. Negare cioè che i giuristi romani abbiano
utilizzato una dogmatica dei concetti non significa negare che abbiano
utilizzato un apparato logico e scientifico di costruzione razionale del
diritto. Per intendere questo sistema è dunque necessario innanzi tutto
essere giuristi.
Spero così di avvicinarmi anche alla risposta al
terzo quesito che mi ero proposta: che funzione può avere, oggi, lo
studio del diritto romanò, per la comprensione dei sistemi giuridici
moderni? In fondo, si tratta di cercare di svelare compiutamente i rapporti fra
i due sistemi; ma non per trovarvi delle corrispondenze speculari, annunciando
poi che un determinato istituto è romanistico, e un altro ha subito
invece una profonda evoluzione.
Questa è un'operazione che è già
stata compiuta e non c'è dubbio che abbia esaurito la sua funzione
pratica. Oggi si tratta di comprendere più a fondo i nessi genetici
delle attuali formulazioni normative, anche per disincrostarle da quelle
aberrazioni logiche e pratiche cui talvolta può condurre
l'interpretazione astratta e astorica del semplice enunciato formale.
Un'ultima considerazione: questa proposta di studio
'storica' ricongiunge necessariamente anche le trame del diritto romano con
quelle del diritto intermedio e moderno, tagliate dal 'sistema del diritto
romano attuale'.
Л. ВАККА
РИМСКОЕ
«ПРАВО
ЮРИСТОВ» И
РОМАНИСТИЧЕСКАЯ
ТРАДИЦИЯ
РЕЗЮМЕ
Романистическая
традиция
средневековой
Европы
использовала
опыт римских
юристов,
сконцентрированный
в Дигестах, в
качестве
образца и
«последнего
авторитета»,
практикуя
при этом
подходы,
свойственные
нормативному
праву, во
многом противоположные
римскому
казуистическому
правовому
методу. Также
и
национальные
кодексы и
практическая
деятельность
юристов
Нового
времени
часто
сверялись с
римской
моделью
иногда без
учета
глубоких
различий
между
современной
нормативной
и римской
казуистической
системой.
Поэтому в
первую
очередь автор
рассматривает
идею о том,
что усилия
римской
юридической
мысли были
направлены на
формулировку
отдельных
казусов, не
столько
взятых из
жизни (как
это делается
в Law Reports
англосаксонского
Case Law),
сколько абстрактно-иллюстративных,
что сближает
их с системой
норм некоего
кодекса.
Однако на самом
деле это
можно
утверждать
лишь о постклассическом
периоде,
когда
римское право
уже
перестало
быть
собственно
«правом юристов»,
т.е. живым
продуктом
постоянной практической
деятельности
юристов.
Исследовательница
считает, что
римская система
выработки
решений
гораздо
ближе к Common Law,
чем к
современному
европейскому
континентальному
праву. В
системе
европейского
гражданского
права не
содержится
«креативной
силы» толкования
норм. Каждый
новый случай
рассматривается
опять на
основании
закона, и
закон может
быть изменен
только новым
законом. В римской
системе, как
и в системе Common Law
прецедент,
предыдущее
решение
сходного дела,
предыдущая
интерпретация
закона рассматривается
судьей как
основание
для создания нового
решения.
Научный
метод
использования
прецедента в Case Law
отличается
двумя
принципиальными
моментами:
абстрактным
исследованием
логических
оснований (ratio decidendi)
предыдущего
решения, и
определением
того,
насколько
насущный
случай
является
схожим с
прецедентом.
Эти операции
хорошо знакомы
римским
юристам, что
можно
увидеть на примере
Pithana
Лабеона, где
он приводит
примеры
наглядных
казусов,
лишенных
несущественных
для извлечения
из них ratio decidendi деталей.
Рассмотрев
некоторые
примеры из
правотворческой
деятельности
Яволена и
Ульпиана,
автор статьи
приходит к
выводу о том,
что римский
юрист,
приводя
новые казусы,
ищет для их
разрешения
общие
логические
основания,
вписывающие
их в ряд уже
рассмотренных
его
предшественниками
случаев, что
делают и
юристы в
системе Common Law.
Но
англосаксонские
практикующие
юристы, в
основном, не
пишут
научных
трудов с
рассмотрением
абстрактных
казусов, так
что их метод
работы можно
охарактеризовать
как «от
конкретного
дела – к
абстракции»,
в то время
как метод, который
мы можем
рассмотреть
в трудах
римских
юристов – «от
абстракции к
конкретному делу».
Второй
вопрос,
который
ставит
Л.Вакка, насколько
структура и
концепция
современного
пандектного
права
соотносятся
с собственно
римскими
текстами? Она
отмечает, что
некоторые из
современных
романистов
упрекают
пандектную
романистику
в «модернизаторском»,
антиисторическом
подходе к римскому
праву. Однако
надо
отметить, что
«историческое»
прочтение –
подход в
большей
степени научно-теоретический,
менее
пригодный
для создания
основы
нового
транснационального
права. Такой
подход
необходим
как первый
этап, а
отрицание
пандектистских
методов не
означает
отказ от
анализа
структуры и концепций
римского
права. Нет
сомнений, что
римские
юристы
создали свою
строгую
систему права,
даже если их
логика и пути
развития не
походили на
немецкий
рационализм.
Утверждать,
что римские
юристы были
чужды
немецкой «концептуальной
догматике»
не значит отрицать
наличие в их
построениях
логического
и научного
аппарата.
Задаваясь
вопросом о
том, какую
роль может играть
изучение
римского
права в
понимании
современных
правовых
систем,
Л.Вакка отмечает,
что для
ответа на
него
необходимо изучить
правовую
логику
римских
юристов и освобождить
ее от
аберраций, внесенных
в нее
абстрактной
и
внеисторической
интерпретацией
пандектной
традиции.
* Летиция
Вакка – проф.
римского
права юридического
факультета
университета
Roma Tre (Рим, Италия).
[1] Su ciò, di recente, Vacca, La svolta
adrianea cit., 448 ss. e lett. citata ivi.
[2] Cfr. per tutti, Schulz, Principii del diritto
romano, trad. it. 1946, 34 ss. 221 ss. Kaser, Zur Methode der romischen
Rechtsfindung. Nachrichten der Akad. Der Wiss.Gottingen 1962-69 (= Ausgewalte
Schriften, I, Napoli, 1976, 3 ss.)
[3] Cfr. Lombardi, Diritto giurisprudenziale cit.
21; Sul procedimento di astrazione e tipizzazione dei casi nelle opere della
giurisprudenza, v. Vacca, La giurisprudenza cit., 107 ss. e lett. ivi citata; Tondo,
Profilo di storia costituzionale romana, II, Milano 1993, 465 ss. v. ancora infra.
[4] V. Vacca, La giurisprudenza cit., 177 ss.; Id.
, La svolta adrianea cit., 464 ss.
Nella rappresentazione
dell'età giustinianea (cfr. in part. Const. Tanta, § 18) non
sono più le singole leggi ad esigere l'integrazione
e la determinazione più certa del loro contenuto per la ineliminabile imperfezione dei testi normativi, ma il
testo codificato di tutto il
diritto, racchiuso nel templum iustitiae romanae ; le nuove situazioni, le lacune, non possono essere
colmate mediante interpretazione,
ma solo da nuove da nuove leggi imperiali. Il diritto è chiuso in un sistema normativo,
in cui unica fonte del diritto
è la legge, e unico «creatore» del diritto è
l'Imperatore.
[5] Come ho già avuto occasione di rilevare
(La giurisprudenza cit., 108 ss.), non mi sembra condivisibile la concezione
espressa in particolare (ma comune ad altri giuristi continentali) da Horak (
già in Rationes decidendi,
Entscheidungsbegrundungen bei den alteren romischen Juristen bis Labeo,
Innsbruck 1969, ma compiutamente sviluppata in Osservazioni sulla legge, la
casistica e il Case Law nel diritto romano e nel diritto moderno, in Legge,
Giudici cit., 67 ss.) secondo il quale l’opera di astrazione rispetto al
caso concreto compiuta dai giuristi, sia pure a diversi livelli , nella
letteratura problematica, al fine di rendere conoscibili e fruibili le
soluzioni per la soluzione di altri casi simili, avrebbe in definitiva
trasformato i ‘casi concreti’ in fattispecie astratte; ciò
avrebbe comportato che, per un verso, la soluzione in sé , così
prospettata, non poteva risultare il prodotto di un’argomentazione from
case to case, che individua il Case Law e, per altro verso, che essa non poteva
costituire a sua volta elemento di questo tipo di argomentazione nella sua
utilizzazione successiva, in quanto la decisione del successivo caso concreto
sarebbe avvenuta mediante un procedimento di ‘sussunzione’ del caso
(species) individuato nel
‘caso tipo’ (genus). In altri termini, l’insieme della casistica
giurisprudenziale avrebbe prospettato un insieme di fattispecie astratte, da
‘applicarsi’ con metodo deduttivo, e non mediante il metodo
induttivo implicato dal Case Law.
In realtà , questo ragionamento non tiene conto, per un verso,
del procedimento logico-scientifico
che porta il giurista alla
formulazione del singolo caso tipo utilizzando necessariamente le soluzioni
precedenti su singoli casi - individuati come simili in quanto risolti secondo
la medesima ratio decidendi - e, per altro verso, dell’articolazione
progressiva delle soluzioni tipo
mediante la diversificazione operata sulla diagnosi della particolarità
delle situazioni concrete che richiedono
applicazione di una differente ratio decidendi. Anche la formazione di
schematizzazioni, di regole o di definizioni (v.supra nt. 13 ) ha la funzione di
orientare la soluzione dei casi ‘simili’, fornendo gli elementi
della quaestio iuris, ma mai in funzione
normativa rispetto alla soluzione del nuovo caso. In questo senso, da
ult. Tondo, Profilo cit., 465 ss. con interessanti considerazioni. Solo
l’applicazione successiva, in età postclassica e giustinianea,
delle soluzioni contenute nelle opere giurisprudenziali, può essere
rapportata ad un’operazione di ‘sussunzione’.
[6] Non interessa specificamente in questa
sede la questione delle
implicazioni sul valore dei responsi dell’introduzione dello ius
respondendi ex auctoritate principis , su cui v. Vacca, Contributo cit., 93
ss.; Id., La giurisprudenza cit., 91 ss.
[7] E’ evidente che ciò è la conseguenza
della circostanza che sia nell’esperienza giuridica romana arcaica sia
nel più antico ordinamento
del Regno Unito l’ordinamento giuridico si identifica con un
ordinamento consuetudinario non scritto,
rispetto al quale i giuristi pontefici e gli antichi giudici inglesi
sono chiamati a ‘trovare’ la norma confacente al singolo caso: il
responso e la sentenza vengono quindi concepiti inizialmente come dichiarazioni
‘autorevoli’ di ciò che è già, sul piano
teorico, presente in forma latente nell’ordinamento, il quale
progressivamente tende poi ad
identificarsi con l’insieme della sua interpretazione, laddove
l’interpretazione stessa si costruisce in forma coerente e razionale. Il
diritto consiste nella sua interpretatio, in quanto solo l’interprete
è in grado di dichiarare il diritto latente. V. Vacca, Contributo cit.,
in part.140 ss.; Stein, The Civil Law Doctrine of Custom and the Growth of Case
Law., in Scintilaae iuris cit., In un ordinamento in cui invece il diritto
è identificato in forma prevalente con la legge scritta, al giudice e
all’interprete non può che essere affidato il compito di applicare
il precetto già contenuto ed esplicitato nella norma. Ciò non
toglie che il rapporto fra ordinamento precettivo e giudice, fra norma generale
e precetto del caso singolo, non
solo possa variamente articolarsi in relazione al singolo ordinamento storico e
politico, in ragione degli equilibri di poteri che in quello specifico ordinamento si
instaurano, ma possa anche essere
diversamente letto in ragione di ‘politica del diritto’ per
valorizzare un determinato modello quale quello più corrispondente o a
determinati parametri teorici astratti, o a una determinata rappresentazione
ideale della ‘giustizia’. Indicativo in questo senso può
essere per esempio il diverso atteggiamento con cui Roscoe Pound , The Spirit
of the Common Law, Boston 1921 , trad. it. A cura di Buttà, Milano 1970,
e Radbruch , Der Geist der englischen Rechts, Gottinga 1946, trad. it. A cura
di Baratta, Milano 1962, si pongono di fronte al modello anglossassone e romano
di diritto giurisprudenziale.: V. Alpa (a cura di), Corso di sistemi giuridici comparati,130
ss. Il compito dello storico non
è tuttavia quello di proporre un modello ideale, ma quello di cercare
di trovare i parametri
più appropriati per
intendere la specifica realtà esaminata. Su questi problemi v. per es.
le interessanti considerazioni di Santarelli, La funzione del giudice
nell’esperienza storica, Lezioni di storia del diritto, Pisa, 1981-82.
[8] Ciò non significa che anche in questa operazione
non sia implicita una funzione creatrice, significa solo che questa funzione
creatrice si esplica con prodimenti euristici e logici differenti. V. infra
[9] Basta qui ricordare l’apporto
determinante, ai fini della maturazione del metodo scientifico di sistemazione
razionale ed ordinante dei risultati dell’attività pratica offerto
dai Pithanà di Labeone, in cui il giurista raccoglie nella forma di
‘massime’ con valore probabile e perciò persuasivo una serie di casi tipo, in cui la ratio
decidendi emerge con precisione dall’esposizione del casus, semplificato
di tutti gli elementi di fatto ritenuti non rilevanti ai fini della sua qualificazione giuridica, correlato
logicamente al responsum. Su ciò v. Vacca, La giurisprudenza cit., 120
ss. e lett. ivi citata.
[10] Come ho accennato, ai fini di queste
considerazioni, che rappresentano in un certo senso una sintesi delle
riflessioni che sono andata via via maturando in rapporto a contesti di ricerca
differenti, utilizzerò
alcuni testi giurisprudenziali ,
già analizzati in detti contesti sotto il profilo del contenuto
sostanziale, ma la cui struttura argomentativa mi appare particolarmente
significativa ai fini della problematica qui specificamente rilevante.
[11]
Per l’esegesi del testo v.Vacca, Derelictio e acquisto delle res
pro derelito habitae, Lettura delle fonti e tradizione sistematica, Milano
1984, 91 ss.
[12] Come ho tentato di dimostrare in altra sede,
sia pure con particolare riguardo all’interpretazione analogica delle
‘norme’ (La svolta adrianea cit., in part. 448 ss. e 465 ss.), lo
stesso concetto di ‘interpretazione analogica’ assume un diverso
significato ed una diversa
rilevanza ‘euristica’ in un sistema normativo e in un sistema
giurisprudenziale. Infatti, mentre in un diritto codificato » questo
procedimento rappresenta un limite
esterno all'interpretazione, nel senso
che comunque l'interprete deve individuare una norma di riferimento, ed applicarla, deducendo - almeno sul piano teorico formale - dalla sua ratio il criterio decisionale per il
caso simile non previsto, nel caso di un diritto
casistico-giurisprudenziale il
ricorso al criterio analogico
rappresenta, direi quasi, una
necessità
implicata anche a
livello teorico-metodologico dalla stessa struttura del diritto
casistico, la cui essenza si individua
nel ragionare induttivamente «from case to case»: come si è detto, l'interprete che deve
«trovare» la soluzione non può che trovarla individuando,
attraverso la «diagnosi» degli elementi qualificanti del caso stesso, le analogie o le
differenze, non solo rispetto alle fattispecie previste dalle norme - che peraltro in un sistema di produzione del diritto di
questo tipo, concernono
generalmente solo materie molto specifiche - ma soprattutto rispetto ai casi già decisi
nell'ambito della stessa interpretatio
giurisprudenziale; questo tipo di operazione non può
rappresentare un limite alla esplicazione dell'interpretatio perchè il
presupposto - non teorico ma pratico-applicativo - del diritto
giurisprudenziale è che sia capacità esclusiva dell'interprete verificare se al singolo
caso debba essere estesa la tutela già prevista per casi simili, o se
per esso debba individuarsi una nuova soluzione, in quanto le sue caratteristiche qualificanti lo
differenziano da quelli già regolati. Si può dire quindi che uno
degli elementi che permettono di individuare i differenti pressupposti teorici
e metodologici di un diritto normativo e di un diritto giurisprudenziale
è la diversa funzione all’intermo di essi del ragionamento
analogico.
[13] V. anche Iav. D.41.1.58; Iul.D.41.7.7 e
D.14.2.8; Gai.D.41.1.9.8 ; Paul. D.14.2.2.7 su cui Vacca, loc.ult.cit.
[14] Per l’esegesi dettagliata del testo v. Vacca,
op.ult.cit. 93 ss.
[15] Cfr. già Vacca, Casistica
giurisprudenziale e concettualizzazione “romanistica”, in Legge,
Giudici, giuristi cit., 83 ss.
[16] Come nota Stein, I Precedenti cit., 56 s.,
anche nel Common Law “Quando
i fatti dei due casi sono differenti, la precedente sentenza non può
costituire precedente e non è vincolante. Questa indagine che ha ad
oggetto la somiglianza o la differenza delle circostanze di fatto è la
chiave dell’evoluzione di una
norma in Common Law. Per estendere l’ambito di una norma, il giudice
successivo considererà non
rilevanti alcune circostanze che i giudici precedenti avevano ritenuto
importanti. Viceversa, per restringere la portata di una norma, il giudice
successivo metterà l’accento su alcuni fatti considerati non
importanti dai giudici precedenti.”.
[17]
E’ interessante sottolineare che la riflessione di Africano, che si colloca
nella sua opera di quaestiones dedicate alle soluzioni giulianee, ha ad
oggetto la individuazione teorica delle ‘soluzioni’ da
applicarsi nei diversi casi,
rappresentati come casi ipotetici,
e non la soluzione di un
caso concreto. In questo
testo risulta quindi particolarmente evidente come il momento teorico ed il
momento pratico della scientia
iuris romana si presentino in una particolare connessione, in quanto la riflessione
scientifica, volta a collegare in un sistema logico coerente le differenti
soluzioni concrete si presenta
indubbiamente ben diversa dalla utilizzazione concreta del precedente nel Case Law anglossassone; cionostante
resta ben visibile la differenza fra la struttura dell’argomentazione di
Africano, tesa a presentare
‘modelli’ di soluzioni fra loro collegate, ottenute utilizzando una
determinata ‘ratio decidendi’, individuata astraendola da soluzioni
precedenti relative a casi ‘simili’ ed il procedimento
d’ordine deduttivo che caratterizza la ‘sussunzione’ di un
caso da risolvere al precetto
generale da ‘applicare’.
[18] Per l’esegesi dettagliata del testo, che
è peraltro uno dei più discussi dalla dottrina per le sue
implicazioni in materia di rischio e responsabilità, v. Vacca, Ancora sull’estensione
dell’ambito di applicazione dell’actio empti in età classica,
in corso di stampa IURA,XLV, 1994
(ma 1997), 11 ss. e lett. ivi cit.