O. SACCHI

 

LA ‘VIRGO’ DEL QUIRINALE
E LA TUTELA MULIERUM
IPOTESI RICOSTRUTTIVE

Sommario: 1. La ‘virgo’ del Quirinale e la tutela mulierum. – 2. Donne e soggettività giuridica nel diritto romano arcaico. – 3. Segue: donne e capacità successoria. – 4. Segue: funzione tutelare ed emersione della tutela mulierum quale istituto giuridico autonomo. – 5. L’esercizio della funzione tutelare e il consortium ercto non cito. – 6. Tutela ed esercizio fattuale della funzione tutelare.

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1. La ‘virgo’ del Quirinale e la tutela mulierum.

 

Una delle ipotesi più autorevoli sul significato storico e sociale del reperto è stata formulata dal Dumézil per il quale sarebbe possibile isolare nella seconda parte del primo grafema dell’iscrizione il gruppo sillabico toitesiai e riconoscervi un termine tecnico indicante l’istituto della tutela mulierum nel significato più antico di potestas. Si tratta di un’interpretazione molto suggestiva che trova uno dei suoi punti di forza nella presenza del sostantivo ‘virco’(=’virgo’) nel primo grafema dell’iscrizione[1].

Anche in questo caso si pongono dei complessi problemi di inquadramento e ricostruzione storica per un giurista. Se il Dumézil avesse ragione avremmo una diretta conferma dell’esistenza di una forma di tutela a Roma in età predecemvirale (fra l’altro in virtù di una testimonianza molto più antica dell’istituto descritto dai giuristi a partire dalla fine della repubblica)[2].

In realtà, anche ammettendo (cosa che sin d’ora mi sento però di escludere) che nel dettaglio epigrafico sia riconoscibile il segmento toitesiai e che questo possa tradursi nel termine tecnico del latino giuridico classico tutela, non credo che si possa attribuire tout court a tale vocabolo il pieno valore semantico di potestas e inoltre collegarlo direttamente all’istituto giuridico conosciuto in età più tarda.

A prescindere da qualsiasi valutazione di carattere linguistico e anche considerando la questione prendendo come riferimento soltanto la tutela mulierum, vari elementi portano a credere che ancor prima che l’esercizio della funzione tutelare si qualificasse più propriamente come un istituto giuridico, questa potrebbe aver vissuto una fase preliminare (meramente fattuale?) individuabile entro schemi giuridicamente riconoscibili, ma riconducibili solo indirettamente (erede e tutore) ad un vero e proprio esercizio di potestas. Penso alla nota definizione del Gallo che descrive la signoria del paterfamilias arcaico: «…come un potere analogo o parallelo (non identico o consostanziale) a quello magistratuale (o regio), come un potere cioè a carattere unitario e personale, nei cui confronti le relazioni concrete con gli elementi ad esso sottoposti non davano luogo a figure distinte di diritti, bensì consistevano in semplici atteggiamenti od esplicazioni del potere medesimo…»[3].

Seguendo questa impostazione la tutela potrebbe assimilarsi ad una facoltà la cui rilevanza poteva venire in gioco alla morte del pater familias come parte di un insieme di prerogative che la giurisprudenza più antica gradatamente avrebbe riconosciuto prima ai successori del pater (agnati e gentili), poi all’heres suus et necessarius[4]. L’individuazione e l’elaborazione giuridica dell’istituto della tutela in senso stretto dev’essere venuta in un secondo momento[5].

Fra l’altro, nel valutare l’attendibilità dell’ipotesi di una presenza della tutela mulierum nell’ordinamento giuridico romano già per il VII/VI secolo a. C. bisogna tenere conto anche del problema di riconoscere una capacità successoria per le donne prima di una certa epoca: l’età repubblicana avanzata[6].

Mettendo questi dati insieme con l’idea della vigenza del principio d’identità tra erede e tutore (fra l’altro basata su dati testuali e non meramente teorici o soltanto congetturali[7]) e con la tesi accolta dalla prevalente dottrina per cui la ratio della tutela mulierum sarebbe nella necessità di salvaguardare l’integrità (sociale, patrimoniale e giuridica) del gruppo agnatizio[8], viene fuori un quadro di ricostruzione che porta decisamente in una direzione diversa rispetto a quella indicata dal Dumézil.

Il riconoscimento della tutela delle donne come istituto giuridico autonomo da parte della giurisprudenza medio/tardo repubblicana (Cic. pro Mur. 12. 27; Gai. 1. 144; 1. 188) potrebbe essere stato solo la conseguenza di un lento processo di evoluzione che dal primo ordinamento decemvirale può essere arrivato (forse non senza il fondamentale contributo di Sesto Elio[9]), al sistema del giurista pontefice Q. Mucio[10].

In questo quadro, si comprende quanto sia difficile accettare tout court l’ipotesi dumeziliana sulla presenza del vocabolo tutela=toitesiai nell’iscrizione del ‘triplo-vaso’. Fra l’altro, il termine tutela sembra riscontrarsi con una certa frequenza principalmente nelle fonti giuridiche di età tardo repubblicana.

Questo però non vuol dire che non sia possibile ammettere l’esistenza in capo a più ‘tutori’ di una forma di ‘tutela collettiva’ (non però l’istituto giuridico dell’età classica) sin dalle fasi più risalenti del diritto romano. La formula epigrafica del reperto di cui stiamo studiando le possibili implicazioni giuridiche potrebbe infatti costituire un serio indizio dell’esistenza di una realtà del genere ed evocare una situazione assimilabile a ciò che le fonti più tarde definiranno consortium ercto non cito. Si tratta di un istituto plausibile per l’epoca del reperto e non in contrasto con il principio d’identità tra eredità arcaica e tutela, a sua volta canone qualificativo/descrittivo di una situazione giuridica compatibile con l’ordinamento più risalente. Del resto, se come vedremo tutto porta a ritenere che l’epigrafe del ‘triplo-vaso’ adombri una sponsio matrimoniale (come sostiene con convinzione la coppia di studiosi Simón/Elboj) e il grafema virco(=virgo) corrisponde al sostantivo vergine=‘fanciulla’, qualcuno, ossia il pater familias o chi per lui, potrebbe aver partecipato alla cerimonia sacra (anche solo come destinatario di un eventuale impegno=promessa unilaterale) e quindi realizzato lo schema negoziale.

In questo capitolo vorrei esporre gli argomenti che a mio avviso confutano definitivamente la tesi del Dumézil sulla presenza del segmento toitesiai=’tutela’ nell’epigrafe del reperto, poiché ritengo che si tratti di un’ipotesi da non condividere soprattutto per le implicazioni che questa porterebbe per la storia del diritto romano arcaico.

 

 

2. Donne e soggettività giuridica nell’ordinamento romano arcaico.

 

Vorrei cominciare dal problema della posizione giuridica della virgo menzionata nella prima parte del primo gafema dell’ epigrafe del ‘triplo-vaso’ (o prima ‘stringa’).

L’impossibilità di riconoscere l’esistenza di una piena capacità di agire per le donne prima dell’età della media-tarda Repubblica è una convinzione che in dottrina ha acquistato già da tempo un certo credito[11].

Interessanti studi, al di là di incerte e molto spesso contraddittorie indicazioni nelle fonti anche giuridiche, dimostrano che la considerazione di una sia pur relativa capacità di agire per le donne cominciò ad evidenziarsi a Roma non prima dell’età appena successiva alle guerre puniche, e raggiunse il suo culmine nell’età del Principato[12]. La cosa non deve sorprendere dato che lo stesso Pomponio, come è noto, riconduce alla seconda metà del secondo secolo a. C. la ‘fondazione’ stessa del ius civile (D. 1. 2. 2. 39)[13] e, sul ruolo delle donne nell’ordinamento giuridico, si esprime ancora alla sua epoca in questi termini: D. 1. 5. 9 (Papin. 31 quaest.): in multis iuris nostri articulis deterior est condicio feminarum quam masculorum[14].

Senonchè la situazione non è così semplice. Perchè se è vero che la donna visse una situazione di quasi assoluta incapacità sul piano della capacità di agire in relazione a talune specifiche situazioni soggettive (ad es.: capacità di succedere mortis causa, di testimoniare in giudizio, partecipazione nelle assemblee popolari ed elettorato attivo e passivo, il postulare per altri in giudizio, etc.) la stessa cosa non si può dire circa l’esistenza o meno di una soggettività giuridica lato sensu. Le donne, infatti, pur prive di capacità successoria (attiva e passiva) fino probabilmente ad epoca repubblicana avanzata, non si può dire che non abbiano goduto di una certa considerazione giuridica da parte dell’ordinamento più risalente[15].

Si rintracciano infatti nelle fonti una serie di dati che dal punto di vista giuridico si sostanziano in tante prerogative certamente rilevanti per il diritto più antico. Insomma le donne, pur prive di capacità di agire, sarebbero state comunque oggetto di norme giuridiche per l’ordinamento più risalente. Pertanto, pur entro certi limiti, si potrebbe riconoscere alla ‘virgo’ del Quirinale una certa soggettività giuridica, almeno nel senso che noi diamo all’espressione negli ordinamenti moderni.

Anzitutto bisogna dire che l’ordinamento più antico riconosceva alle donne prerogative di status dal carattere personalissimo, come il diritto di cittadinanza e il ius connubii. Così come il diritto al nomen, il diritto di appartenere alla famiglia e alla gens in qualità di filia, uxor, soror e mater, etc. Inoltre, sin dal diritto più risalente è ravvisabile una parziale capacità di agire che trova piena ragione di essere nel diritto sacro/pontificale più antico anche nella partecipazione delle donne laiche ai riti sacri più antichi. Si pensi alla celebrazione delle nuptiae e alla partecipazione attiva (però in epoca molto più recente) alle forme di costituzione della manus maritalis (usus, confarreatio, coëmptio) o ai culti cittadini (Mater Matuta, Vesta, Bona Dea, i giochi romùlei, etc.). Su un altro versante bisogna poi considerare la capacità di diritto sacro di cui era titolare ciascuna sacerdotessa (Vestali, flaminicae, sacerdotesse di Bona Dea, etc.). Infine, l’aes hordearium in base al quale sembrerebbe che alle vedove fosse stata riconosciuta dal Tarquinio Prisco una sorta di soggettività giuridica passiva dal punto di vista fiscale.

Prendiamo il diritto al nomen. Emilio Peruzzi sembra credere al dato tradizionale per cui l’uso caratteristico dell’onomastica romana di identificare le donne con il solo nomen gentilicium sarebbe una prerogativa riconducibile fino ai sabini dell’età romulea[16]. Si tratta di una regola che ha indubbia rilevanza giuridica come mostra la testimonianza di Dionigi sul dovere di ogni pater familias di iscrivere i membri della propria famiglia nelle liste del censo di Servio Tullio (Dion. 4. 15. 6)[17]. Il pater doveva registrare i nomi di tutti coloro che erano soggetti alla sua manus e quindi anche il nome della moglie, i nomi delle figlie nubili, i nomi delle mogli, dei figli e delle nipoti nubili (gunaicaV te cai paidaV ouoma zontaV)[18]. Anzi, secondo Livio, l’omissione di tale obbligo sarebbe stata severamente punita: Liv. 1. 44. 1: censu perfecto, quem maturaverat metu legis de incensis latae cum vinculorum minis mortisque.

Quanto alla prerogativa di partecipare ai riti pubblici si deve riconoscere che le donne romane in celebritate versatur già da età molto risalente. Non ho motivo di dubitare infatti della notizia di Dion. 2. 22. 1 dove lo storico greco afferma che le mogli dei sacerdoti sarebbero state chiamate da Romolo(=età molto antica) alla celebrazione dei riti sacri deputati alle donne. La qual cosa almeno è indice del fatto che le donne avessero capacità di agire per il ius sacrum.

Abbiamo visto, inoltre, come nel culto dei Matralia le ragazze offrissero al momento del loro matrimonio alla dea Fortuna le loro vesti infantili o ‘piccole toghe’ (Arnob. adv. nat. 2. 67). Ovvero, come le donne sposate in occasione della festività di Mater Matuta usassero pregare in un rituale forse evocativo delle loro origini familiari in base a un culto che potrebbe risalire fino all’età della dominazione etrusca (Ovid. fast. 6. 473 ss.; Plut. Cam. 5. 1 ss.; q. R. 17; Mor. 492d).

Infine, connesso allo status di appartenente al gruppo familiare, non va dimenticata la detestatio sacrorum che ogni donna uscendo dal proprio gruppo doveva forse celebrare in occasione del matrimonio[19]. La possibilità di arrogazione per le donne solo per rescriptum principis e la molto probabile origine tarda della coëmptio sacrorum interimendorum causa rendono però ininfluente questo dato per il nostro discorso[20].

Il costume più antico contemplava anche altre prerogative come quelle ricordate da Plutarco che parla del diritto di precedenza sugli uomini sulla pubblica via (Plut. Rom. 20. 3) e del diritto di essere esentate da particolari incombenze domestiche (Plut. Rom. 15. 4;19. 7; Plut. q. R. 85) come ad es. macinare il grano o fare cucina (Paul.-Fest. sv. Cocum L. 51. 10; Liv. 39. 6. 9).

In questo quadro collocherei anche le prescrizioni delle cerimonie nuziali più antiche che attestano un’attenzione dell’ordinamento più risalente difficilmente compatibile con l’idea di un’assoluta incapacità delle donne (Fest. sv. Senis crinibus, L. 454, 23–27; Gell. 10. 15. 30)[21]. E’ vero che in età arcaica e per buona parte dell’età repubblicana lo scambio matrimoniale veniva gestito principalmente (per i profili di rilevanza giuridica) dal soggetto, o dai soggetti, aventi potestà sulla donna e dal futuro marito o dall’avente potestà su di lui. Tanto è vero che la virgo non aveva il diritto di pronunciare nupta verba come ricordano la glossa festina (Fest. sv. Nupta verba, L. 174, 17–20) e l’epitome di Paolo Diacono (Paul.-Fest. sv. Nupta verba, L. 175, 1–3). Ma è altrettanto vero che il discorso si fa diverso per gli aspetti cultuali del rito matrimoniale. Sotto questo profilo la nubenda certamente agisce da protagonista (anche tenendo presente il ruolo svolto dalla matrona-pronuba). La dedicazione rituale – che si ripeteva ogni anno in questo ciclo festivo per le donne sposate in occasione dei Matralia e per le nubili in attesa di marito (con l’assistenza della matrona-pronuba) con la celebrazione di Fortuna Verginale – per l’ultima volta avveniva anche in occasione del matrimonio (come attesta Arnob. adv. nat. 2. 67: puellarum togulas Fortunam defertis ad Virginalem?) con una serie di riti tra cui la consegna alla Fortuna Verginale delle piccole toghe delle ragazze e lo scioglimento della fascia verginale da parte del marito (come attesta ancora Agostino in civ. dei 4. 11: cum virgini uxori zona solvitur, dea Virginensis vocetur). Dunque, anche da questo punto di vista sembra di poter riconoscere una diversa considerazione della figura femminile per il modo in cui questa viene contemplata dal ius sacrum piuttosto che dal ius civile.

Di alcuni aspetti riguardanti la condizione giuridica delle Vestali mi sono occupato in altra sede[22] ma, così come per tutte le altre sacerdotesse e la Flaminica – il cui status giuridico sarebbe stato equiparato alle altre donne solo con una legge (promulgata dal Senato?) voluta dall’imperatore Tiberio (Tac. ann. 4. 16. 3: sed lata lex, qua flaminica Dialis sacrorum causa in potestate viri, cetera promisco feminarum iure ageret) – c’è da credere che le prerogative riguardanti la loro condizione giuridica, magari non nei termini che si renderanno evidenti in età più avanzata, fossero antiche quanto il sacerdozio stesso.

La questione relativa al cd. aes hordearium è invece più complessa[23]. Secondo Cicerone, Tarquinio Prisco, conformemente ad un uso vigente a Corinto, avrebbe fatto gravare sulle vidue (e gli orfani) un obbligo fiscale relativo all’aes hordearium, cioè un soldo (contributo) annuale per le donne senza marito per mantenere i cavalli dell’esercito romano[24]. Livio riprende la notizia ma soltanto con riferimento alle donne e attribuendo la tassa a Servio Tullio[25]. Il problema si complica ancor di più considerando che Gaio collega l’aes hordearium ad una procedura per pignoris capionem sancita moribus[26]. La qual cosa certamente non depone per una rilevante antichità della tassa stessa. In ogni caso mi pare significativo che Cicerone, che pure non trascura di darci notizie precise sulla storia della tutela mulierum (pro Mur. 12. 27) e prende posizione in ordine al dibattito culturale su una presunta infirmitas consilii di matrice culturale greca (che pure arriva fino a Gaio, come si evince da Gai. 1. 190), parli per l’epoca della monarchia etrusca di una sorta di soggettività passiva di diritto fiscale per le donne senza marito. Lo stesso discorso può farsi per Livio e lo abbiamo fatto per Dionigi a proposito della questione della partecipazione delle donne ai sacra pubblici e privati.

Probabilmente, guardando alla questione in sè, potrebbe anche darsi che si sia trattato di un’anticipazione storica. Non vedo infatti come si possa concepire l’esistenza di un diritto alla tassazione da parte dello Stato, prima che lo Stato romano raggiungesse un livello di organizzazione costituzionale e fiscale sufficientemente evoluto[27]; e prima che i giuristi incominciassero a considerare le cose in possesso di vedove e orfani come beni appartenenti a patrimoni autonomi separati. Sotto questo profilo la notizia di Gaio relativa ad una procedura per pignoris capionem moribus mi pare deponga per una relativa recenziorietà del fenomeno (XII tavole come terminus post quem?).

 

 

3. Segue: donne e capacità successoria.

 

Sotto il profilo della capacità successoria (ed è la critica più profonda da fare alla teoria funzionale[28]) credo sia invece da respingere fermamente l’idea di una capacità femminile prima dell’età post-decemvirale[29]. Anzi, direi che non si possa parlare di capacità successoria della donna a Roma prima almeno della metà del terzo secolo a. C., età in cui comincia da parte della giurisprudenza laica medio repubblicana il fenomeno della patrimonializzazione dell’antica hereditas[30], la stessa età cui, in base ad una testimonianza di Plauto, dovrebbe risalire anche la pratica della cd. coëmptio sacrorum interimendorum causa[31].

Non è mia intenzione approfondire particolarmente l’argomento in questa sede[32], mi limito soltanto a ricordare che tra gli argomenti opponibili alla dottrina dominante si possono citare fra gli altri[33]: a) un passaggio del testo dello Gnomon dell’Idiologo (l. 28) secondo il quale il ius liberorum istituito dalla lex Papia avrebbe previsto per le donne con un numero di figli sufficiente, anche l’esenzione dalla normativa della lex Voconia che, secondo Dione Cassio (41. 10. 2), seppure sistematicamente aggirata, sarebbe stata ancora in vigore all’età di Augusto[34]; b) l’estensione, sempre da parte della legge istitutiva del ius liberorum, alle madri ingenue con più di tre figli della facoltà di avere accesso alla successione legittima dei liberti e delle regole della successione pretoria poste a favore dei patroni sui liberti anche alle patrone ingenue e libertine rispettivamente con due e tre figli[35]; c) l’abolizione, solo con Marco Aurelio, della auctoritatis interpositio del tutore per il testamentum per aes et libram della donna; d) l’abolizione, solo con l’imperatore Adriano, della necessità per le donne di adoperare il meccanismo descritto da Gai 1. 115a per conseguire la facoltà di fare testamento. Tutti indizi chiari di una emancipazione giuridica della donna sotto il profilo successorio non ancora del tutto compiuta in età classica avanzata[36].

Tutto ciò è sintomatico di una particolare condizione della donna rispetto alle regole della successione ereditaria (ma direi anche rispetto ad un’idea di capacità giuridica più generale) che trova conferma anche nel principio per cui non fu mai richiesto che la donna dovesse essere diseredata nominatim, ma soltanto inter ceteros, e in quello per cui la sua preterizione non importava inesistenza del testamento per le regole della successione pretoria[37]. Si può arrivare quindi alla seguente conclusione: la donna, grosso modo fino all’ultimo secolo della repubblica, non ebbe per il ius civile, e tanto meno per la mentalità dei giuristi, una piena capacità successoria, anche guardando alla sola capacità di succedere[38].

Nello stesso ordine d’idee dobbiamo porci anche rispetto alla facoltà di fare testamento[39]. Le persone di sesso femminile, in linea di principio, non potevano fare testamento senza l’auctoritas del tutore. Si badi, non solo dei tutori legittimi (agnati o gentili) come sarebbe la regola (Gai. 1. 192), ma anche di un tutore dativo (testamentario o decretalis). Siamo forse al punto più significativo del sistema probabilmente elaborato dai giuristi su questo tema: la necessità, come presupposto ineludibile, che la donna subisse innanzi tutto una deminutio capitis, che uscisse, cioè, dalla sua famiglia d’origine[40]; che è quanto mi pare si possa dedurre dal frammento di Cicerone che segue: Cic. top. 4. 18: Si ea mulier testamentum fecit, quae se capite numquam deminuit, non videtur ex edicto praetoris secundum eas tabulas possessio dari. Se capite deminuta (questo è un dato poco equivocabile), al testamento della donna, nel sistema successorio del pretore, veniva riconosciuto lo stesso valore di quello fatto dai servi, dagli esuli, o dagli impuberi (Adiungitur enim, ut secundum servorum. secundum exulum, secundum puerorum tabulas possessio videatur ex edicto dari). Come si vede, la posizione della donna sotto il profilo della capacità testamentaria, sembrerebbe assimilata, nel sistema dei giuristi della fine della Repubblica, a quella dell’heres extraneus e non a quella dei fili familias puberi (sui heredes)[41].

In un contesto sociale di stretta applicazione della regola della tutela agnatizia, un’unione matrimoniale accompagnata dalla costituzione di manus poteva permettere alla donna di rompere il legame con la sua famiglia di origine, cioè di liberarsi dalla manus paterna e/o dai parenti in linea maschile del padre (tutori legittimi); e nello stesso tempo di entrare nella famiglia del marito filiae loco; quindi, attraverso quest’artifizio probabilmente di matrice giurisprudenziale[42], consentirle di avere accesso alla sua successione e stabilire la premessa perchè, una volta diventata vedova, potesse anche disporre delle sostanze di cui diventava proprietaria[43].

Per descrivere nel migliore dei modi il tipo di soggettività giuridica che poteva riguardare la fanciulla dell’epigrafe del Quirinale è forse bene ricordare che a favore della tesi di una quasi totale incapacità delle persone di sesso femminile per il diritto romano più risalente c’è anche il dato della sopravvivenza di altre forme d’incapacità fino all’età imperiale[44]. In campo negoziale, e guardando al possibile apporto che la donna poteva dare alla gestione della familia, le fonti ci dicono che il rapporto di soggezione giuridica della mulier in manu rispetto al marito non impediva – anche con riferimento all’epoca in cui il marito aveva a disposizione strumenti molto incisivi per controllare il suo comportamento[45] – che questa potesse partecipare in modo più o meno paritario alla gestione della domus[46].

Se guardiamo all’esercizio da parte delle donne di un’attività economicamente rilevante, conseguenza necessaria della disposizione di un patrimonio, seppure rilevante soltanto in via di fatto[47], le fonti documentano una significativa attività negoziale delle donne – nel sistema economico di mercato dell’età postannibalica – non prima dell’epoca tardo repubblicana, mentre, abbiamo visto che risale soltanto al segmento temporale 210/186 a. C., la notizia dell’intervento dello Stato a favore delle donne per supplire alla mancanza di una figura tutelare necessaria per la ratifica, sia pure nella maggior parte dei casi meramente formale, dei negozi compiuti per l’esercizio dei loro affari[48]. Ma tutto ciò riguarda la figura delle donne in età, direi, medio-tardo repubblicana[49].

Su queste basi, se la questione del riconoscimento da parte dell’ordinamento di una capacità giuridica per le donne (e quindi della titolarità di un patrimonio e della sua gestione da parte di queste) fino alla metà della repubblica si pone con estrema difficoltà[50], non vedo come possa giustificarsi un’esistenza molto risalente (età predecemvirale o anche le dodici tavole) di un istituto giuridico quale la tutela, dal carattere oltretutto perpetuo, difeso dal gruppo agnatizio al fine di conservare la sua unità e il suo patrimonio.

 

 

4. Segue: l’emersione della tutela mulierum quale istituto giuridico autonomo.

 

Si diceva prima del fatto che il termine tutela sembra riscontrarsi con una certa frequenza soltanto nelle fonti giuridiche di età repubblicana. Si tratta di un’ulteriore indizio contro l’impostazione dumeziliana. Il vocabolo tutela, accogliendo la lezione varroniana in l. L. 7. 12, deriverebbe dalla radice tueor. Da cui le espressioni intueor e intuitus,-us; obtueor,-eris; e, ancora, contueor, contuitus,-us ovvero obtutus,-us (optutu quasi obtuitu, a verbo tueor, quod significat video) nel significato di ‘guardare’, ‘osservare’:

 

Varro l. L. 7. 12: Tueri duo significat, unum ab aspectu ut dixi, unde est/ Enni illud …tueor te senex? Pro Iupiter! Et Quis pater aut cognatus volet vos contra tueri?Alterum a curando ac tutela, ut cum dicimus/bell <um> et villam tueri a quo etiam quidam dicunt illum qui curat/aedes sacras <a>edituum, non aeditumum; sed tamen hoc ipsum ab/eadem est profectum origine, quod quem volumus domum curare /dicimus ‘tu domi videbis’, ut Plautus cum ait: Intus para, cura, vide./Quod opus<t> fiat. Sic dicta vestis<pi>ca, quae vestem spiceret, id est/ videret vestem ac tueretur. Quare a tuendo et templa et tesca dicta/cum discrimine eo quod dixi./

 

Non quindi, ‘protezione’ o ‘custodia’ come nel senso più tardo dei giuristi (D. 26. 1. 1 pr.: Tutela est, ut Servius definit, vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem, sua sponte se defendere nequit, iure civili data ac permissa). L’interpretazione varroniana che probabilmente è più vicina all’originaria radice etimologica del termine, è perfettamente compatibile, fra l’altro, con l’originaria natura potestativa della funzione tutelare, ancor prima che questa acquistasse il significato giuridico, più tecnico[51], di ‘protezione’ o ‘custodia’.

Già da queste poche indicazioni appare subito chiaro che il termine tutela nella lingua latina non può certo essere considerato una prerogativa esclusiva delle persone[52] e che la sua utilizzazione in senso giuridico non sia da considerare comunque originaria[53]. Quindi, anche volendo dare per buona l’ipotesi della riconoscibilità del segmento toitesiai (ma si dovrebbe dare per presupposto un errore dell’incisore), c’è il problema, a mio avviso ancora più difficile da superare, l’eventuale presenza del vocabolo tutela nell’epigrafe del ‘triplo-vaso’ non troverebbe giustificazione guardando alla storia dell’istituto giuridico. In altre parole, ammesso e non concesso che nell’epigrafe del Quirinale il segmento possa essere tradotto come TOITESIAI, a questo stesso termine non sembra potersi attribuire comunque un significato giuridico.

In realtà il vocabolo tutela sembra acquistare un significato più tecnico di ‘protezione’, ‘custodia’ o ‘sorveglianza’ soltanto a partire dalla fine del terzo secolo a. C. La stessa età presunta (210/186 a. C.) della lex Atilia de tutore dando. Del resto, l’uso della forma verbale tuere per descrivere la particolare funzione cui erano preposti gli edili plebei in ordine alla cura e manutenzione dei cimiteri[54], che è prerogativa certamente ascrivibile a tale magistratura minore sin dall’età dell’alta repubblica, appare in una fonte tecnica della tarda repubblica la quale, evidentemente, in sede di costruzione definitoria dell’istituto giuridico assimila le funzioni degli edili a quelle dei tutores in un’epoca in cui il carattere prevalentemente assistenziale dell’istituto è stato ormai recepito dall’ordinamento[55].

Inoltre, è sempre di quest’epoca la notizia sicura più risalente che abbiamo sulla tutela mulierum (conferimento della tutoris optio nel SC. de Bacchanalibus). Curiosamente – ma poi a pensarci, neanche tanto, visto che il linguaggio comune recepisce sempre in ritardo le innovazioni linguistiche – nel latino di Plauto i riferimenti giuridici sono ancora sporadici[56]. Quasi coeva alla lex Plaetoria è l’introduzione della tutela Atiliana concessa dai Pretori e i tribuni della plebe, in mancanza di altra forma di tutela[57]. L’emanazione di questa legge vale senza dubbio come riferimento temporale per riconoscere il momento del definitivo passaggio dalla dimensione potestativa della funzione alla considerazione assistenziale dell’istituto giuridico[58] costruito sul principio dell’incapacità di minori e donne di essere titolari di ius potestatis (Gai. 2. 161)[59]. Un segnale molto forte della presenza nell’ordinamento romano della tutela ormai qualificata come istituto giuridico autonomo si rinviene anche nella disciplina della lex Cincia de doniis et muneribus del 204 a. C., la quale vietando le donazioni ultra modum con l’eccezione dei parenti entro il sesto grado in linea collaterale e gli affini, includeva anche i tutori tra le persone per le quali non vigeva il divieto. Ciò perchè i tutori erano reputati alla stregua di un genitore (parentis loco): Vat. Frag. 229: Parentibus licet liberis suis in potestate manentibus testamento tutores dare, masculis quidem inpuberibus, feminis vero etiam puberibus, et tam iam natis quam etiam postumis.[60] Diversamente, è interessante notare come fosse consentito al pupillo di donare solo nei limiti posti dalla legge. Segno della considerazione da parte dell’ordinamento del concetto d’incapacità meramente fisiologica. In ogni caso il primo segnale forte della considerazione di una capacità successoria della donna sarà soltanto l’emanazione della lex Voconia del 169 a. C.[61]

Solo di qualche decennio più recente è infine la famosa regola muciana riportata nel Digesto, in cui la precedente unità strutturale del modo di designazione del tutore legittimo per gli impuberi – che credo avvenisse in modo esattamente analogo, se non coincidente, rispetto a quanto previsto per la successione ab intestato[62]appare orientata più praticamente e decisamente verso l’interesse del minore[63]. Essa dimostra come agli occhi della giurisprudenza romana, l’originaria vis ac potestas in capite libero si sia ormai trasformata, in una sorta di surrogato della patria potestas (prevista ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere nequit, iure civili data ac permissa). Tutto ciò a conferma dell’impostazione di coloro che ritengono la storia arcaica della tutela caratterizzata per l’epoca più risalente dalla vigenza del principio d’identità tra eredità e tutela[64].

Una lettura senza pregiudizi (mi riferisco soprattutto all’idea di un’origine decemvirale dell’istituto) dei vari indizi ricavabili dalle fonti (tecniche e non) giustifica a mio avviso l’idea di una comparsa tarda della tutela mulierum come istituto giuridico autonomo. Fino ad una certa epoca, come ben spiegano i fautori della cd. teoria potestativa[65], la tutela mulierum potrebbe non essere stata altro che la potestà del pater familias (ovvero il marito titolare di manus maritalis o l’avente potestà su di lui) esercitata sui soggetti a lui sottoposti (il problema dell’eventuale rilevanza in questo contesto del consortium lo vedremo più avanti). Successivamente (metà/fine terzo secolo a. C.), ossia da quando le donne sembra abbiano cominciato a svolgere un’attività negoziale e quindi gradatamente guadagnato, specie nel diritto pretorio, una sorta di capacità successoria e negoziale, è possibile che l’ordinamento romano abbia regolamentato un costume (anche di rilevanza giuridica) per andare incontro forse a due esigenze convergenti: da un lato, regolamentare l’attività delle donne che ormai cominciavano a muoversi nella società alla stregua dei soggetti di sesso maschile (Catone in Liv. 34. 2. 11: nos, si diis placet, iam etiam rem publicam capessere eas patimur et foro prope et contionibus et comitiis immissceri). Non si spiegherebbe altrimenti perché l’autorità tutoria fosse richiesta per atti dalla natura estremamente eterogenea come: alienazione delle res mancipi, in iure cessio, acceptilatio, assunzione di obbligazioni, manumissione anche non formale, conventio in manum per via di coëmptio, costituzione di dote, autorizzazione per la liberta al contubernio, adizione di eredità, redazione di testamento, partecipazione al giudizio per legis actionem o al iudicium legitimum[66]. Dall’altro, andare in contro alle necessità del gruppo familiare di appartenenza così come è molto ben messo in evidenza dai fautori della teoria funzionale.

Il fenomeno della graduale emersione della tutela mulierum come istituto giuridico autonomo potrebbe essersi determinato in questo modo. Fino grosso modo all’epoca di Catone la funzione tutelare gradatamente emersa dall’antico coacervo potestativo del pater o del suo successore, potrebbe essere stata contemplata dall’ordinamento più risalente come il rispetto di un obbligo morale (sotto la vigilanza dei censori?) dettato dal costume antico, e se vogliamo, anche con una certa rilevanza giuridica (penso alle espressioni: muliebria iura, sanctius habuere).

In questo senso credo si possano interpretare i due famosissimi passi di Catone in Gell. 5. 13. 4: maiores sanctius habuere defendi pupillos quam clientem non fallere e Liv. 34. 2. 11: Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum.

Il primo va letto insieme a Gell. 5. 13. 5: Masurius autem Sabinus in libro iuris civilis tertio antiquiorem locum hospiti tribuit quam clienti. Verba ex eo libro haec sunt: «In officiis apud maiores ita observatum est, primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini. Come si vede, nell’opera iuris civilis di Masurio Sabino, la tutela sembrerebbe presentare chiaramente i tratti di un istituto giuridico. Il secondo passo va letto insieme (sarebbe sempre una citazione testuale di un’orazione di Catone) a Liv. 34. 3. 1: Recensete omnia muliebria iura quibus licentiam earum adligaverint maiores vestriper quaeque subiecerint viris.

Dalla fine del terzo secolo a. C. (lex Atilia de tutore dando, 210 a. C.) io credo che la giurisprudenza abbia cominciato ad elaborare il patrimonio del passato cominciando dal diritto esistente ed arrivando gradatamente (attraverso i cd. ‘fondatori’ che pare per primi abbiano cominciato a dividere le fattispecie giuridiche in genus e species) alla definitiva sistemazione con Q. Mucio. In altre parole, la generazione dei primi interpretes (L. Acilio, Sesto Elio, Catone padre e figlio, etc.) che cominciò ad elaborare il nuovo diritto partendo dal dato normativo (XII tavole, ma non solo, probabilmente anche le leges regiae, le leges sacratae, mores maiorum, etc.) potrebbe aver creato (o averne riconosciuto la rilevanza per il ius civile) l’istituto giuridico. I fondatori, per quello che ne sappiamo Bruto, Manilio e P. Mucio (ma è possibile che non fossero i soli), che cominciarono ad elaborare i dati normativi in genus e species potrebbero aver costruito la teoria dell’istituto giuridico. La generazione di Q. Mucio (per quanto riguarda la tutela fino a Labeone: Gai. 1. 188) che sembrerebbe aver completato il sistema secondo quanto ci viene detto da Pomponio in modo sintetico ma alquanto significativo in D. 50. 16. 120: Verbis legis duodecim tabularum his ‘uti legassit suae rei ita ius esto’ latissima potestas tributa videtur et heredis instituendi et legata et libertates dandi, tutelas quoque constituendi. sed id interpretatione coangustam est vel legum vel auctoritate iura constituentium. Perfezionato l’integrazione dell’istituto insieme agli altri nel sistema di ius civile, dando luogo alle dispute di cui Gai. 1. 188 conserva ancora una traccia indelebile. Di qui a poco Servio Sulpicio Rufo scriverà la nota definizione delle tutele che tutti conosciamo: D. 26. 1. 1 pr. (Paul. 38 ad ed.): Tutela est, ut Servius definit, vis ac potestas in capite libero.

E’ arrivato il momento di concludere. Con tutto il rispetto dovuto ad un grande accademico come il Dumézil, costituisce un argomento molto forte contro la sua proposta ricostruttiva. L’istituto così come viene descritto dalle fonti più tarde è senz’altro espressione di una società e di una cultura giuridica che non può essere quella del settimo/sesto secolo a. C.

Devo ripetermi. Anche se superassimo i problemi di natura linguistica connessi all’interpretazione dumeziliana dell’iscrizione del Quirinale[67], l’assunto che vorrebbe per quest’epoca (stiamo parlando di età predecemvirale) l’esistenza della tutela mulierum nel senso dell’istituto giuridico, sarebbe di difficile dimostrazione.

 

5. L’esercizio della funzione tutelare e il consortium ercto non cito.

Esposta, spero con sufficiente chiarezza, la mia idea sulla prima emersione della tutela (mulierum) quale istituto giuridico autonomo verso la fine del terzo secolo a. C., mi chiedo in che misura può condividersi l’ipotesi dell’esistenza di una forma di tutela esercitata collettivamente, di una sua natura potestativa – soprattutto, e con particolare riguardo, all’età predecemvirale[68]-, e in che modo gli agnati (o i gentiles), successori del de cuius, potessero eventualmente subentrare nella potestas del paterfamilias scomparso.

La domanda è a mio avviso pertinente al tema che stiamo trattando perchè l’epigrafe del Quirinale, anche scartando l’ipotesi del Dumézil, potrebbe comunque evocare uno scenario di questo tipo (mi riferisco agli eventuali destinatari del PAKARI VOIS della seconda parte del secondo grafema). Si tratta del problema della cd. potestà circolante dei consortes, riproposto dal Franciosi in un articolo dedicato all’arcaica proprietà gentilizia[69]. Essa riguarda direttamente anche un’ipotetica ricostruzione della fase più risalente[70] della tutela mulierum perchè nelle fonti, anche non soltanto relative all’età più antica, ricorre frequentemente il riferimento ad una forma di tutela esercitata in modo collettivo e il reperto da cui abbiamo preso spunto offre indubbiamente la possibilità di partire sin dall’epoca della monarchia etrusca[71].

Siamo evidentemente in una situazione diversa da quella del singolo tutore esercente l’auctoritas interpositio sull’attività negoziale e giuridica lato sensu delle donne di età più tarda. Rispetto alla storia dell’affermazione degli istituti tutelari (e massimamente per la storia della tutela muliebre), solo punto d’arrivo di un lungo processo storico[72].

Risalendo indietro nel tempo, per individuare i primi modi di manifestazione di tali funzioni in eta predecemvirale, possiamo riferirci, in alternativa alle successioni di tipo individuale, allo schema del consortium – sulla cui risalenza fino ad età predecemvirale nessuno può seriamente dubitare – che pone, insieme alle fasi più risalenti della successione legittima, la questione della successione nelle prerogative del pater familias scomparso in termini di successione collettiva. E’ forse questo, sotto il profilo della potenzialità probatoria del ritrovamento del Quirinale, uno degli aspetti che mi ha colpito maggiormente.

Il Franciosi è ritornato più volte sul tema della tutela (e cura) collettiva di agnati e gentiles ponendolo a confronto proprio con il problema dell’esercizio e della titolarità della potestas da parte dei fratres nel consortium ercto non cito. Ometto di riportare i noti frammenti del Gaio di Antinoe che hanno rivelato ai moderni l’esistenza dell’istituto e rinvio per le questioni di carattere generale ed esegetico alla copiosa mole di studi esistente in materia[73], preferisco, invece, affrontare direttamente il problema della natura giuridica della successione dei fratres. L’idea corrente è che nel consortium, sarebbe collettivo e solidale, soltanto il dominium sulle res. Mentre gli aspetti naturalistici riguardanti, ad esempio, il rapporto tra genitori e figli (come del resto quello sui servi) riguarderebbero soltanto ciascun individuo[74]. Mi convince piuttosto l’idea che con riferimento al consortium, più che di una potestà solidale o circolante, si possa parlare di potestà collettiva esercitata secondo il meccanismo della solidarietà (conosciuto in età arcaica anche in diritto pubblico) più il ius prohibendi di ognuno dei fratres nei confronti degli altri consortes[75].

Il Bretone, ritiene che nel consortium ercto non cito la posizione dei fratres sui fosse comprensiva, oltre che della posizione patrimoniale, anche di quella personale. I fratres, cioè, sarebbero stati portatori di una sorta di potestas ‘circolante’ su persone e cose[76]. Senza arrivare a questo estremo, l’ipotesi formulata di recente dal Franciosi – alla quale, mi pare, l’autore sia giunto non senza approfondita riflessione[77] – appare, allo stato delle fonti, la più plausibile[78].

Lo schema ricostruttivo che più in generale vede nella posizione del paterfamilias arcaico l’esercizio di una potestas, diciamo così, ‘allargata’ su persone o cose (ma anche con aspetti significativi di rilevanza religiosa), acquista un significato ancora più suggestivo se inserito in un quadro più ampio di ricostruzione dell’evoluzione storica dell’antica hereditas. Sul punto la dottrina negli ultimi decenni ha fatto dei progressi notevoli[79]. Il Coli, in uno scritto denso di spunti interessanti (anche considerando che dominava tra i romanisti italiani la dottrina bonfantiana), già considerava la distinzione tra l’esse in dominio e l’esse in potestate come un’ acquisizione dogmatica della giurisprudenza postdecemvirale[80]. Il Franciosi, accettando quest’ impostazione, e con ulteriori argomenti, ha provato a delimitare lo spazio cronologico entro cui si sarebbe verificato tale fenomeno: grosso modo, in un’arco di tempo oscillante tra il quarto secolo a. C. (quando, ad esempio, sembrerebbe essere nata la qualifica di liberi riferita ai fili familias[81]) e il segmento temporale limitato tra l’età di Tiberio Coruncanio (quando i pontefici si cominciarono a porre il problema dell’hereditas sine sacra) e l’epoca di Cicerone (quando il fenomeno successorio appare ormai trasformato da trapasso di potestas in mero trapasso di res)[82]. Per il Bretone, infine, la distinzione all’interno del concetto di familia tra persone e cose sarebbe nata nella mentalità dei giuristi non prima di un’età compresa tra il terzo e il primo secolo a. C.[83]

Ritornando al tema della discussione, è possibile che proprio nel regime del consortium ercto non cito, finalizzato in età storica alla conservazione dell’integrità del peso economico (e quindi sociale e politico) del gruppo familiare indiviso rappresentativo della discendenza del pater, sia possibile rinvenire le prime tracce di emergenza di una cosiderazione del rapporto tutelare (sia pure esercitato in via fattuale) in termini potestativi[84]. La questione non è così semplice perchè, ad esempio, il Burdese tende ad escludere la possibilità che vigente il regime del consortium domestico potesse sentirsi la necessità di un istituto di tutela (o cura). L’eventuale sorveglianza personale sul minore e soprattutto l’amministrazione del patrimonio familiare, dovevano essere assunte automaticamente dai consorti capaci, e quindi non ci sarebbe stato spazio per una tutela in senso tecnico[85].

Se guardiamo alla comunione solidale dei fratres come espressione di una potestà allargata dal carattere non esclusivamente patrimoniale, potremmo individuare con sufficiente approssimazione il possibile momento in cui la prassi dell’esercizio delle funzioni tutelari cominciò ad acquistare anche un rilievo potestativo. Ma si tratta, con tutta probabilità, di una fase ancora embrionale per il costituendo ordinamento romano arcaico[86].

Anche sotto questo profilo la ricostruzione del Dumézil che vedrebbe già per l’età predecemvirale l’esistenza di una tutela che fosse espressione, sia pure in forma affievolita, della potestà del pater rifessa nell’istituto giuridico va ritenuta quindi destituita di ogni fondamento. Per il caso che stiamo esaminando si potrebbe tutt’al più riconoscere l’esercizio da parte di una pluralità di soggetti (più che di tutori, parlerei a questo punto di fratres) nei confronti di una fanciulla; di una facoltà del tutto simile a quella che in età storica eserciteranno iure i tutores legitimi: cioè, di una facoltà dal carattere unitario e collettivo, nei cui confronti, le relazioni concrete con gli elementi ad essa sottoposti non poteva ancora dare luogo ad una figura distinta di diritto, ma semplicemente ad un atteggiamento e ad un’esplicazione di questa stessa facoltà. Il valore semantico del lessema TOITESIAI dovrebbe allora corrispondere a quello descritto da Varrone in l. L. 7. 12: un significato atecnico per descrivere un’attività di cura ed attenzione, molto prima di ricevere un significato di immediata rilevanza giuridica[87]. Ma, allora, lo ripeto ancora una volta, ritornerebbero di nuovo in gioco i rilevanti problemi di natura linguistica prospettati dagli specialisti.

Si diceva prima che un’eco di questa realtà sarebbe forse rintracciabile ancora nel frammento catoniano riportato da Gellio 5. 13. 4. Tale giurista definisce la difesa (=cura, assistenza, etc.) dei pupilli come un ufficio dall’altissimo valore morale (Gellio, come è noto, inserisce questa citazione in un paragrafo intitolato De officiorum gradu atque ordine moribus populi Romani observato) e nello stesso tempo sembra volerlo qualificare anche come un precetto giuridico maiores sanctius habuere. Del resto, stando a Livio (34. 3. 1), l’espressione mulebria iura sarebbe stata usata proprio da Catone per riferirsi alla condizione delle donne[88].

Come ho cercato di dimostrare siamo però ancora lontani dal vero e proprio istituto giuridico. Mi pare si possano infatti agevolmente notare già delle significative differenze rispetto al modo di trattare l’istituto della tutela da parte delle fonti tecniche della fine della repubblica. Inoltre, avrei qualche riserva sulla completa attendibilità della testimonianza liviana almeno sotto il profilo della sua fedeltà al dato testuale. Il tenore spiccatamente retorico del racconto non consente di pretendere troppo dal dato testuale. C’è poi il riferimento alla tutela in Liv. 34. 2. 11 (tutore auctore). Almeno in relazione a Livio vediamo che lo storico usa il termine tutela in maniera impropria ed anacronistica [in caso contrario si dovrebbe ammettere come fatto storico la tutela dei figli di Anco Marcio: Liv. 1. 34. 12: postremo (Tarquinio Prisco) tutor etiam liberis regis (Anco Marcio) testamento institueretur[89]]. Quindi, se non si può dire che all’età di Catone la funzione tutelare non esistesse, non si può neanche dire che in quest’epoca la tutela avesse già la dimensione di istituto giuridico così come si evince dalle fonti di età più tarda. C’è poi l’inciso di Liv. 34. 2. 11: in manu esse parentium, fratrum, virorum. Secondo Livio, Catone avrebbe detto che gli antenati (maiores=costume più antico) avrebbero voluto le donne sottoposte alla manus dei genitori, dei fratelli e dei mariti. Mi pare che, con tutte le cautele del caso, il tenore di questo passaggio liviano sarebbe inspiegabile senza pensare al rapporto consortile (come avrebbero potuto, in caso contrario, i fratelli acquistare la manus sulle donne?).

 

6. Tutela ed esercizio fattuale della funzione tutelare.

Sto ipotizzando un esercizio in via di fatto (come manifestazione di potestas) di una funzione tutelare nella sua fase più risalente (pregiuridica) da parte dei consortes. La società romana, anche in avanzata età storica, ha conosciuto forme di tutela diverse dalla tutela in senso giuridico ma non meno rilevanti in via di fatto per la gestione di taluni rapporti interpersonali. Queste si basavano sul rapporto preferenziale esistente tra soggetti legati da particolari legami di natura familiare o sociale. Si tratta certamente di qualcosa di non estraneo alla cultura romana se, ancora in età storica, pur essendo ancora in vigore (sia pure in fase di netta decadenza) il regime giuridico della tutela mulierum, le fonti ne offrono una chiara dimostrazione. Credo che non sia un’illazione pensare che situazioni di questo tipo potessero avere eguale (se non maggiore) rilevanza in epoca in cui la tutela non era ancora in vigore.

Del resto la tutela dei gentiles era una forma di tutela collettiva e, nonostante diverso parere di parte della dottrina[90], ancora nella Laudatio Turiae ne viene attestata la presenza[91]. Invece la tutela legata all’attività negoziale e alla capacità giuridica femminile sembra configurarsi prevalentemente come un istituto individuale.

Perché non guardare anche alle forme di tutela collettiva sopravvissute in età storica per capire la consistenza di quelle più antiche come quella che poteva essere esercitata nell’ambito del regime consortile?

L’idea di una tutela collettiva degli individui del gruppo familiare (gli adgnati di Gai. 1. 155?) verso le donne sembra ben radicata nell’immaginario culturale delle fonti antiche. Viene in mente un famoso passaggio di Livio dove lo storico fa osservare che l’asservimento delle donne non ha fine finchè vivono i loro maschi. Liv. 34. 7. 12: Namquam salvis suis exuitur servitus muliebris, et ipse libertatem quam viduitas et orbitas facit detestantur.

Un esempio molto calzante, anche se da valutare in senso molto relativo, si rinviene invece in un passaggio di Seneca[92]:

Sen. de consol. ad Marcia 24. 1: Incipe virtutibus illum, non annis aestimare: satis diu vixit. Pupillus relictus sub tutorum cura usque ad quartuum decimum annum fuit, sub matris tutela semper.

Siamo di fronte ad una duplicazione di fatto di una gestione tutelare. Da un lato rileva una tutela reale esercitata di fatto da una madre nei confronti di suo figlio (sub matris tutela semper); dall’altro quella meramente formale spettante, ovviamente, ai legittimi tutori (Pupillus relictus sub tutorum cura usque ad quartuum decimum annum fuit). Non vorrei che mi si fraintendesse. Il contesto retorico in cui va collocato il discorso di Seneca non consente di andare molto lontano. Tuttavia l’immagine fornita dal precettore di Nerone aiuta molto bene a descrivere l’idea che a mio parere sarebbe possibile farsi della funzione tutelare durante la sua fase più antica[93].

Sulle possibili finalità dell’esercizio collettivo della funzione esercitata in via di fatto da parte dei fratres (agnati o gentiles) in sostituzione del pater scomparso, i fautori della teoria funzionale, come abbiamo visto, individuano la ratio di tale prerogativa in una ragione di ordine patrimoniale. Per le ragioni già prima evidenziate tale impostazione per l’età più antica mi pare improponibile[94] e abbiamo anche visto perchè può ritenersi questa tesi un anacronismo storico. Penso, piuttosto, che al di là di un’ovvia necessità di provvedere all’educazione e al sostentamento materiale delle donne superstiti (qui il discorso può valere anche per i soggetti di sesso maschile), uno spazio entro il quale un’attività del genere avrebbe potuto rendersi necessaria (qui invece si limita alle sole fanciulle in condizione di essere viripotentes[95]), mi pare possa essere rappresentato principalmente da un supporto a fini matrimoniali. Una fanciulla rimasta orfana di padre non avrebbe potuto avere facile accesso al sistema di scambio matrimoniale vigente in età arcaica senza il supporto di uno o più soggetti capaci che la rappresentassero per la gestione degli strumenti predisposti dall’uso e dal costume per la realizzazione degli scambi matrimoniali intergentilizi[96].

 

О.САККИ

 

VIRGO КВИРИНАЛА И TUTELA MULIERUM: ГИПОТЕТИЧЕСКАЯ РЕКОНСТРУКЦИЯ

 

(РЕЗЮМЕ)

 


Толчком к написанию этого краткого исследования послужило открытие в тексте Квиринальской надписи слова virco. Одна из самых авторитетных гипотез об историческом и социальном значении Квиринальской находки была сформулирована Жорж Думецил, который считает, что во второй части первой графемы надписи можно выделить слоговую группу toitesiai и распознать в ней технический термин, означающий институт tutela mulierum в древнейшем значении potestas. Даже если Думецил и прав, у нас есть прямое подтверждение существования формы опеки в Риме в период до децемвиров (кроме всего прочего, в силу гораздо более древнего свидетельства об этом институте, описываемом юристами начиная с конца республики).

Вне зависимости от всякой оценки лингвистического характера, а также рассматривая этот вопрос, обращаясь только к tutela mulierum, различные факторы заставляют думать, что еще до того, как исполнение опекунских функций определилось собственно как правовой институт в смысле, описанном Кв. Муцием и Сервием Сульпицием Руфом, и дало повод к longa disputatio, следы которой мы находим в Gai 1.188, она могла прожить длинную  подготовительную фазу (неписанного закона?), которую можно определить в рамках схем юридически узнаваемых, но лишь косвенно (наследник и опекун) сводимых к настоящему осуществлению potestas.

Обособление и юридическая разработка института опеки в узком смысле слова, должно быть, произошло лишь впоследствии. Вероятно, это произошло именно в результате перехода от действительности «неписанного права» к другой, более поздней, «кодифицированного права». Кроме того, чтобы оценить достоверность гипотезы о наличии tutela mulierum в римском правопорядке уже в VII-VI в.в. до н.э., необходимо также учитывать проблему признания за женщинами завещательной способности до определенного периода, то есть до эпохи ранней республики. Если сопоставить эти данные с идеей о том, что до определенного времени действовал принцип идентичности наследника и опекуна (основанной, кроме прочего, на литературных свидетельствах и не просто теоретических или предположительных) и с тезисом, принятым большинством исследователей, согласно которому ratio tutela mulierum состояла в необходимости оберегать целостность (социальную, имущественную и юридическую) агнатской группы, складывается картина, которая не позволяет согласиться с решением, к которому склоняется Думецил.

В этом кратком исследовании, которое я посвящаю памяти Дженнаро Франчози, написанном для номера журнала Ius Antiquum, посвященного ему, изложены аргументы, которые, по мнению автора, опровергают тезис Думецила и, в то же самое время, предложена гипотеза реконструкции юридического положения женщины в Риме, которая является плодом почти двадцатилетнего наставничества моего учителя Дженнаро Франчози.

 

 



[1] J. Poucet, Réflexions sur l’écrit et l’écriture dans la Rome des premiers siécles, in Latomus 48 (Bruxelles 1989) 292 considera molto attentamente la proposta del Dumézil. V. anche infra nt.

[2] Al di là della possibilità concreta d’individuare nel famoso passo di Livio (1. 34. 12) sulla tutela dei figli di Anco Marcio un riferimento attendibile per il riconoscimento della presenza della tutela a Roma in età predecemvirale e nonostante gli sforzi compiuti in tale direzione da un autorevole studioso come V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano14 (Napoli 1960=rist. 1998) 494, nt. 1; Id., Erede e tutore, in Rariora (Roma rist. 1970) 151 ss. L’unica fonte cui la dottrina riconosce un certo grado di plausibilità è un famosissimo passaggio di Plutarco tratto dalla vita di Numa a proposito dell’esenzione dalla tutela per le Vestali. Secondo Plutarco (Numa 10. 5) risalirebbe all’età regia la norma sull’esenzione dalla tutela delle Vestali. Al di là della sicura risalenza di tale principio normativo, dubbi notevoli restano sull’attendibilità in generale di tale fonte e sulla sua attitudine a costituire da sola una valida dimostrazione circa la paternità della norma e l’epoca in cui sarebbe stato per la prima volta introdotto. Sul punto v. F. Guizzi, Aspetti giuridici del sacerdozio romano 3 ss. Altra fonte famosissima, però risalente al V secolo a. C. e comunque relativa ad una donna non romana, è un passo di Livio (4. 9) sulla vicenda della vergine di Ardea, orfana di padre e sottoposta alla tutela di più tutori. Sull’episodio con bibl. e probl. v. E. Volterra, Sul diritto familiare di Ardea nel V secolo A. C., in Scritti giuridici 3 (Napoli 1991) 109 ss. Sempre a proposito della tutela mulierum ora è possibile cercare la prova di tale assunto anche in altre direzioni. Trovo corretta l’impostazione dello Zannini – per uno sguardo generale sulle sue posizioni in merito alla tutela mulierum, cfr. P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum. 1. Profili funzionali (Torino 1976); Id., Studi sulla tutela mulierum. 2. Profili strutturali e vicende storiche dell’istituto (Milano 1979) – che in P. Zannini, sv. tutela (dir. rom.) in ED. 45 (Milano 1992) 306 ribadisce chiaramente la necessità di considerare e studiare la tutela mulierum come istituto autonomo rispetto alla tutela impuberum. Tesi già espressa in Studi 2. 4 ss. e difesa in P. Zannini, Ancora sulla tutela mulierum (Brevi note in margine a una recensione), in IURA. 32 (Napoli 1981) 148.

[3] F. Gallo, Osservazioni sulla signoria del pater familias in epoca arcaica, in St. De Francisci 2 (Milano 1956) 234–35; Id., ‘Potestas’ e ‘dominium’ nell’esperienza giuridica romana, in Labeo 16 (Napoli 1970) 17 ss.; Id., in Idee vecchie e nuove sui poteri del ‘pater familias’, in Aa. Vv., Poteri ‘negotia’ actiones’ nell’esperienza romana arcaica, in Atti Copanello 1982 (Napoli 1984) 29 ss. e 101 e ss. Spunti critici in L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ nell’età repubblicana 1 (Milano 1969) 349 ss.; Id., Ancora sui problemi del ‘pater familias’, in BIDR. 73 (Roma 1970) 357 ss.; Id., in Idee vecchie e nuove sui poteri del ‘pater familias’, in Aa. Vv., Poteri ‘negotia’ actiones’ nell’esperienza romana arcaica, cit., 53 ss.; Id., Modelli di stato e di famiglia nella storiografia dell' ‘800 (Roma 1997) passim. Propone una visione unitaria ma ‘funzionalmente’ frammentata in ragione della ‘causa’ negoziale A. Corbino, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica, in Scritti catanzaresi A Falzea (Napoli 1987) 60 ss.; Id., in E. Cortese (a cura di), La proprietà e le proprietà (Milano 1988) 3 ss. Cfr. anche M. Kaser, Geteiltes Eigentum älteren Römischen Recht, in Festschrift P. Koschaker 1 (Weimar 1939)=Ausgewählte Schriften 2 (Napoli 1976) 73 ss. Non entro in merito alla questione della cd. ‘signoria unitaria’ del pater familias su cui, con bibl. e probl., rimando a G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al principato3 (Torino 1995) 43 ss.

[4] Questa idea sembrerebbe confortata da indizi di vario genere. In primo luogo il dato etimologico, dato che il termine tutela non sembra originario. E’ molto probabile infatti che il significato più risalente del vocabolo fosse ‘guardare’ o ‘osservare’ nell’accezione di Varrone e non ‘protezione’ o ‘custodia’ come nel senso più tecnico, e tardo, dei giuristi. Cfr. G. Franciosi, Famiglia e persone3 79. Nè sembra originario il carattere assistenziale che qualifica l’istituto in età classica. In secondo luogo, le difficoltà di riconoscere nel ruolo svolto dagli agnati e dai gentili (gli antichi consortes) nei confronti degli orfani incapaci, uno spazio autonomo per qualsiasi forma di tutela autonomamente identificabile in senso giuridico se non altro per effetto dell’incidenza del principio d’identità tra erede e tutore. Dato intimamente connesso con quello dell’impossibilità di riconoscere una significativa capacità di agire per le donne fino all’età della media Repubblica. Si può presumere che storicamente sia stata l’affermazione di una parziale capacità giuridica delle donne a determinare la necessità di porre un argine con la tutela e non viceversa.

[5] Per la verità segnali in questo senso già venivano dall’esame comparato di altre esperienze giuridiche coeve. Ad esempio il diritto di Caronda, che F. De Martino, Storia della costutuzione romana 1 (Napoli 1956) 250 considera molto vicino all’humus culturale dei decemviri. Ma v. anche F. Cornelius, Untersugungen zur fruhen roemischen Geschichte (1940) 29, nt. 63; E. Pais, Storia di Roma 1 (Roma 1898) 596; Id., Storia critica 2 (Roma 1915) 269; F. Wieaker, Vom romischen Staat als Rechtsordnung (1949) 40 ss. – secondo Diodoro Siculo (12. 15) il mitico legislatore avrebbe sottratto ai parenti in linea maschile la gestione dei beni materiali dei minori, affidandola, insieme alla cura materiale e spirituale a quelli in linea femminile. Dunque si deve presupporre che ab initio, prima dell’intervento legislativo, tutto restasse sotto il controllo della linea di discendenza per parte maschile (para toix suggeneusi).

[6] V. infra.

[7] Cfr. sul punto G. Franciosi, Famiglia e persone3 86 ss. Mi permetto di rinviare sul punto anche a O. Sacchi, L’antica eredità e la tutela. Elementi a favore del principio di identità, in corso di stampa per la rivista Studia et Documenta Historiae et Iuris (Roma 2002).

[8] Cfr. da ultima L. Monaco, Hereditas e mulieres 75 ss.

[9] La tutela mulierum potrebbe aver trovato accesso nell’ordinamento giuridico romano in uno spazio temporale intercorrente tra l’età delle XII tavole e i libri tres iuris civilis di Q. Mucio. L’istituto sembra già conosciuto da Catone come sembrerebbero attestare Liv. 34. 2. 11 e Gell. 5. 13. 4 (ma v. infra). Un ruolo di primissimo piano per la divulgazione del diritto civile ‘laicizzato’ può averlo svolto anche Elio Stilone Preconiano, maestro di Cicerone e Varrone, anche lui autore di un commento alle XII tavole, forse quello che aveva imparato a memoria Cicerone. Cfr. Cic. Brut. 56; Rhet. ad Herenn. 4. 12.

[10] Mi permetto di rinviare sul punto a O. Sacchi, Il privilegio dell’esenzione dalla tutela per le vestali. (Un’ipotesi di interpretazione formatrice in Gai. 1. 145) Elementi per una datazione tra innovazioni legislative ed elaborazione giurisprudenziale, in corso di stampa per la Revue internationale des droits de l’Antiquité di Bruxelles.

[11] Seguo A. Guarino, Notazioni romanistiche. II La «lex XII tabularum» e la «tutela», in Studi Solazzi (Napoli 1948) 35=Le Origini Quiritarie (Napoli 1973) 237 ss. Anche A. Guarino, Diritto Privato Romano11 (Napoli 1997) 623 ss. quando afferma che soltanto in epoca postdecemvirale, formatosi il concetto della incapacità di agire, agli impuberi e alle donne sarebbe stata riconosciuta la capacità giuridica e quindi la posizione di persone sui iuris. Così anche E. Costa, Cicerone giureconsulto2 (Roma rist. 1964) 71, per il quale, il distacco dalla potestas familiare e la corrispondente denominazione di tutela sarebbero fenomeni verificatisi non all’età decemvirale ma al tempo della creazione della tutela dativa.

[12] Cfr. L. Monaco, Hereditas e mulieres 3 ss. Al termine, cioè, della lunga fase di trasformazione della società romana da una dimensione ristretta di civitas, a vera e propria espressione di un assoluto ed incontrastato dominio sulla penisola e sulle popolazioni insediate lungo tutto il perimetro del bacino circostante. Sguardo d’insieme in A. H. Tohynbee, Hannibal’s Legacy. The hannibalic War’s effects on Roman Life (in due voll.) (London 1965)=L’eredità di Annibale (Torino tr. it. 1976) (in due voll.) passim.

[13] Sul significato dell’espressione ius civile in Pomponio v. in part. con bibl. ult. M. Bretone, Publius Mucius et Brutus et Manilius 5.

[14] Sulla condizione della donna a Roma v. con bibl. e fonti G. Franciosi, Famiglia e persone3 36 ss.

[15] Contro tale impostazione ha senz’altro influito un certo pregiudizio su una presunta ‘primordialità’ o arretratezza del diritto romano arcaico alimentato da posizioni certamente eccessive e preconcette come questa di G. Bonfante, Il nome della donna 7: «In realtà la mancanza di nome significa mancanza di capacità giuridica, inferiorità enorme; è qualcosa di antichissimo, di primitivo, di barbàrico, come primitiva e barbàrica è tutta la legislazione romana dei tempi regii e dei primi sècoli della Repubblica (senza esclùdere del tutto i sècoli posteriori)». E’ sempre difficile condividere giudizi così generalizzanti senza un’attenta riflessione. Soltanto a titolo di esempio, basti dire che nei codici mesopotamici la teoria del risarcimento (certamente più avanzata e più ‘civile’), precede nel tempo la legge del taglione. Lo si evince chiaramente dal confronto tra i codici sumerici e i codici semitici, entrambi molto più antici del codice decemvirale. Cfr. C. Saporetti, Antiche leggi. I Codici del Vicino Oriente Antico (Milano 1998) 30 e passim.

[16] E. Peruzzi, Origini di Roma I. La famiglia (Firenze 1970) 55 e 57 ss., deduce questo anche dal riscontro di una serie di attestazioni epigrafiche rinvenute nel cimitero di Preneste. Le epigrafi sono datate dal IV al II secolo a. C. ma v. la critica di G. Bonfante, Il nome delle donne nella Roma arcaica, in RAL. 35 (Roma 1980) 6, nt. 9. Sul punto v. I. Kajanto, Onomastique latine (Paris 1977) 148 ss.; W. Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen (Berlin-Zürich rist. 1966) 49. Cfr. sul punto ampiamente anche G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche6, cit., 89 ss.; Id., Preesistenza della ‘gens’ e ‘nomen gentilicium’, in G. Franciosi (a cura di) Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana 1 (Napoli 1984) 3 ss.

[17] Chiaramente in tal senso W. Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen (Berlin-Zürich rist. 1966) 49, nt. 5 che parla esplicitamente di regola giuridica.

[18] E. Peruzzi, Origini di Roma 106. Contra Th. Mommsen, Römischen Forschungen I (Berlin 1864) 33.

[19] Cfr. G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche6 97. Sulla detestatio sacrorum v. M. Careddu, La ‘sacrorum detestatio’ nel diritto romano, in St. Fadda 1 (Napoli 1906) 391 ss.; F. Daverio, Sacrorum detestatio, in SDHI. 45 (Roma 1979) 530 ss.; J. Zablocki, Appunti sulla ‘sacrorum detestatio’, in BIDR. 92–93 (Roma 1989–1990) 525 ss.; L. Monaco, Hereditas e mulieres 71 s.

[20] Per la arrogazione delle donne in età classica v. con ampio ragguaglio di fonti e critica C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari I (Roma 1994) 306 ss. Sul problema della coëmptio sacrorum interimendorum causa v. con bibl. e fonti L. Monaco, Hereditas e mulieres 72 s.

[21] Condivido l’impostazione di I. Piro, Usu in manum convenire (Napoli 1994) 156 e 157, dove si mette in evidenza la rilevanza della volontà della donna di essere nupta e del protrarsi per un anno continuo di tale volontà nel convenire in manu usu.

[22] O. Sacchi, Il privilegio dell’esenzione dalla tutela per le Vestali, cit., passim.

[23] Senonchè in Plut. Popl. 12. 3 lo storico riferisce di un’esenzione per vedove ed orfani dalle liste dei soggetti tenuti all’imposta per la costituzione dell’aerarium Saturni. Lo stesso Plut. Cam. 2. 2 riferisce di una norma voluta da Furio Camillo che avrebbe sottoposto a tassazione gli orfani in precedenza esentati. C. Nicolet, L’ordre équestre a l’époque républicaine 1 (Paris 1966) 36 ss. ritiene inattendibile la notizia di Cicerone sulla considerazione che all’epoca di Tarquinio prisco non vi era un’economia monetaria tale da giustificare la notizia. Ma la l’osservazione si bilancia con il fatto che la discussa tassazione sarebbe stata possibile in base all’aes signatum ritenuto esistente già per l’epoca della monarchia etrusca da F. Serrao, Diritto privato, economia e società 1 (Napoli 1984) 144 ss. Cfr. anche G. Finazzi, La sostituzione pupillare (Napoli 1997) 48 s. e ntt. 56 e 57.

[24] Cic. de rep. 2. 20. 36: Atque etiam Corinthios video publicis equis adsignandis et alendis orborum et viduarum tributis fuisse quondam diligentis.

[25] Liv. 1. 43. 9: viduae attributae quae bina milia aeris in anno singulos penderent.

[26] Gai. 4. 27: Item propter eam pecuniam, ex qua hordeum equis erat comparandum; quae pecunia dicebatur aes hordiarium.

[27] V. retro in nt.

[28] La teoria potestativa difesa dalla dottrina dominante è accolta senza riserve dal Dumézil, che si appoggia all’autorità di P. F. Girard, Manuel élémentaire de Droit Romain (Paris 1911) 204 ss., nt. 2. La teoria funzionale, risalente alla seconda metà degli anni settanta, è formulata da P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 1. 145 ss. Studi sulla tutela mulierum passim; Id., Quelque observations sur la tutelle aus femmes à Rome, in AG. (Modena 1984) 204; Id., sv. Tutela 306 s. V. anche C. Hermann, Le ròle juduciaire et politique des femmes sous la rèpublique romaine, in Latomus 67 (Bruxelles 1964) 67, che afferma: «l’institution de la tutele fèminine est d’ordre uniquement patrimonial». Cfr. le critiche di F. Sitzia, Rec. a P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 1 (Torino 1976) e 2 (Milano 1979), rispettivamente in IURA. 27 (Napoli 1976) 176 e IURA. 30 (Napoli 1979) 173. V. però, anche P. Zannini, Ancora sulla tutela mulierum (Brevi note in margine a una recensione), in IURA. 32 (Napoli 1981) 146. I propugnatori della teoria potestativa – oltre il Bonfante e gli appartenenti alla sua scuola, v. significativa bibl. in C. Fayer, La familia romana 389, nt. 33invece sostengono che in epoca arcaica impuberi e donne in nessun caso erano suscettibili di divenire soggetti sui iuris. Le donne pertanto restavano sempre assoggettate in una condizione giuridica analoga a quella delle filiae familias. Ad una potestas familiare, quindi, esercitata dagli agnati, dai gentiles o dal soggetto destinato dal pater familias alla sua successione. Questo al fine di salvaguardare l’unità e il patrimonio del gruppo familiare. La tutela sarebbe nata solo dopo l’affievolirsi dei vincoli agnatizi e gentilizi, nel momento in cui si sarebbe riconosciuta la possibilità alle donne di divenire sui iuris alla morte del pater familias. Il rilievo da fare alla teoria potestativa è di natura sostanziale. Anche se è conseguenza di una visione del diritto ereditario arcaico ormai superata, non si può attribuire alla legislazione decemvirale l’istituzione delle tutelae in base alla versione giuridica della Tab. 5. 3=FIRA. 1. 37–38 riportata da Ulp. 11. 14: Uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto. Per una chiara esposizione dei problemi allo stato attuale della dottrina si possono consultare i rilievi espositivi (con amplia bibl. e fonti in nota) di C. Fayer, La familia romana 379 ss. Anche coloro che considerano come versione corrispondente all’originale una delle due versioni giuridiche, propendono per quella di Gaio (2. 224) e di Pomponio (D. 50. 16. 120=Inst. 2. 22 pr. e v. anche Nov. 22. 2 pr.: Uti legassit quisque de sua re. ita ius esto): Uti legassit suae rei, ita ius esto. Ampia discussione con bibl. recente in M. Bretone, Sesto Elio e le Dodici Tavole, in Labeo 41. 1 (Napoli 1995) 66 ss., ora in M. Bretone, I fondamenti del diritto romano 26 ss. Propendono per la cd. versione retorica – Cic. de inv. 2. 148 e Rhet. ad Herenn. 1. 23: Pater familias uti super familia pecuniaque sua legassit, ita ius esto – E. Costa, Cicerone giureconsulto2 71; A. Guarino, Notazioni romanistiche. II La «lex XII tabularum» e la «tutela», in Studi Solazzi (Napoli 1948) 35; S. Tondo, Note esegetiche 41, nt. 21; G. Franciosi, Famiglia e persone3 81. Cfr. anche C. Feuvrier-Prèvotat, Le concept de la familia pecuniaque dans la loi des XII tables 59 ss.

[29] Da ultima E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia (Milano 1996) 64. Ma v. anche E. Cantarella, La vita delle donne, in Storia di Roma 4 (Torino 1989) 600; J. Crook, Women in Roman Succession, in The Family in ancient Rome. New Perspectives (Ithaca New York 1986) 58 ss.; J. Gardner, Women, Roman Low and Society (London & Sidney 1986) 163 ss. Cfr. anche P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 1. 145 ss. Y. Thomas, La divisione dei sessi in diritto romano, in G. Duby – M. Perrot, Storia delle donne. L’Antichità (a cura di P. Schmitt Pantel) (Roma-Bari tr. it. 1990) 122. Poco convincente J. Zablocki, Appunti sul ‘testamentum mulieris’ in età arcaica, in BIDR. 3. 33–34 (Roma 1991–92) 159, 169, 174, che cerca di ricostruire un’improbabile capacità testamentaria delle donne in età arcaica, addirittura predecemvirale, ribadendo vecchie argomentazioni quali i testamenti di Gaia Taracia e Acca Larentia. Il famoso passo di Gellio (1. 12. 18) sulla facoltà di fare testamento delle Vestali non credo possa, di per sè, essere addotto come una prova della possibilità femminile di fare testamento già da età regia. Nè convincono le argomentazioni poste a favore di una presunta facoltà per le donne di fare testamento attraverso il meccanismo del testamentum kalatis comitiis. Su tutto v. diffusamente G. Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano2 (Torino 1995) 253 ss.

[30] G. Franciosi, Usucapio pro herede 74 ss.

[31] Plaut. Bacch. 975 ss.; Cic. ad fam. 7. 29. 1; pro Mur. 12. 27. V. anche retro.

[32] Sono questioni già ampiamente discusse secondo la prospettiva che condivido in G. Franciosi, Famiglia e persone3 36 ss., 79 ss.; L. Monaco, Hereditas e mulieres 201 ss.

[33] Nella scia del P. Bonfante, Corso di diritto romano. 5 (Milano 1930) 96, ma con nuove argomentazioni: G. Franciosi, Corso istituzionale2 253; A. Manzo, Un’ipotesi sull’origine della dote, in Index (Napoli 1996) 11 ss. Mi limito a menzionare in primo luogo l’impossibilità della donna di partecipare al comizio, il che rendeva incapace la donna, anche solo formalmente di essere nominata erede o nominare eredi nel testamentum kalatis comitiis. Considerazione decisiva per l’età arcaica è l’interdizione per le donne di avere accesso al Campo Marzio sede del comizio (Gell. 5. 19. 10). In secondo luogo, il riferimento nella successione intestata esclusivamente a soggetti di sesso maschile: suus heres, adgnatus proximus e gentiles, che si chiarisce con: Coll. 16. 3. 13 (agnati autem sunt cognati virilis sexus per virilem sexum descendentes). Ancora, l’allusione di Gaio, con riferimento al consortium ercto non cito, solo ai fratres e non alle sorores. Gai. 3. 154a; 154b. Sotto questo profilo C. Fayer, La familia romana 26, facendo riferimento ai due passi del Gaio di Antinoe appena citati, afferma: «Da Gaio apprendiamo che, in un’epoca non precisabile, ma sicuramente abbastanza antica, gli heredes sui del pater familias, in pratica i figli, le figlie in senso stretto che erano in sua potestà e la moglie che, se sottoposta alla sua manus, era loco sororis nei confronti dei suoi figli, una volta divenuti sui iuris in seguito alla morte del pater familias, anzichè dividere il patrimonio ereditato – il fondo, la casa, gli schiavi, gli animali e gli strumenti di lavoro – preferivano lasciarlo indiviso ed utilizzarlo e goderlo in comune». Il giurista fa solo riferimento ai fratres (Gai. 3. 154b) e ai suos heredes (Gai. 3. 154a). Allargare il significato di heres fino a ricomprendere anche le figlie e la moglie, per il diritto arcaico, mi pare una forzatura. Cfr. G. Franciosi, Famiglia e persone 11. Ancora, l’impossibilità fino ad una certa epoca (età classica) per le donne di avere sui heredes: Gai. 2. 161: quia feminae liberos in potestate non habent; la notizia di Aulo Gellio sull’esenzione dalla tutela per le Vestali (Gell. 1. 12. 9) che implica che la donna comune, almeno, non potesse testare; l’esclusione della donna dalla prima classe di aventi diritto nella successione pretoria, sancita dalla lex Voconia del 169 a. C. e le limitazioni poste per l’accesso alle altre classi del censo, dimostrano che ancora in quest’epoca si ponevano degli argini verso un ‘nuovo’, cioè verso il riconoscimento di una piena capacità di succedere alla donna. Ancora, sembra che la lex Voconia de hereditatibus mulierum proibiva l’istituzione di una donna come erede: Cic. in Verr. 1. 42: ne quis heredem virginem neque mulierem faceret. Inoltre proibiva di fare dei legati che fossero più consistenti della quota ereditaria spettante all’erede, o agli eredi: Cic. in Verr. 1. 43; de Senect. 5; Balbo 8. Secondo Gellio a difesa dell’integrità patrimoniale delle famiglie più ricche: Gell. 7. 13. Ancora, la sottoposizione delle donne a tutela perpetua e la notizia dell’istituzione di una capacità di succedere della madre al figlio (quindi di una successione legittima femminile) solo per il secondo secolo d. C. mediante il SC Tertulliano: D. 26. 6. 2. 1. Ulp. 26. 8; D. 38. 17; CI. 6. 57. 6; 6. 58. 14; 8. 59. 2. Forse un precedente di tale disposizione è nella legislazione di Claudio. Cfr. Inst. 3. 3. 1. Per ragguagli dottrinali cfr. C. Sanfilippo, «Di una interpretazione giurisprudenziale dei Senatoconsulti Orfiziano e Tertulliano, in Fest. Schulz 1 (1951) 368 ss.; A. Del Castillo, La emancipacion de la mujer 69, nt. 133.

[34] Sul punto A. Del Castillo, La emancipacion de la mujer romana en el siglo I D. C. (Granada 1979) 40; H. Last, The Social Policy of Augustus, in CAH. 10 (1952) 448, nt. 3; A. J. M. Van deer Meer, The lex Voconia. Made for men. Mulier heres institui non potest (Eijsden 1996) 115 ss., 128.

[35] Gai. 3. 4650; Ulp. 29. 67.

[36] Una conferma quindi dell’impostazione di G. La Pira, La successione ereditaria intestata e contro il testamento in diritto romano (Milano 1930) 174 che già negli anni trenta correttamente negava ogni prerogativa successoria per le donne riconducibile alle origini del diritto romano. La posizione della donna nell’antico ius civile aveva infatti per l’autore queste caratteristiche: a) non poteva essere assimilata alla figura del pater familias: D. 38. 16. 13; Gai. 1. 104 e dunque come tale non poteva avere accesso alla forma del testamento-adozione (Gai. 1. 101); b) indipendentemente dalla possibilità di acquistare la qualifica di soggetto sui iuris, restava comunque soggetta alla tutela perpetua degli agnati (Gai. 1. 144); c) prima che si escogitasse il meccanismo della coëmptio fiduciaria testamenti faciundi gratia non potè fare testamento (Gai. 1. 115a) e, da quando fu possibile, restò comunque soggetta all’auctoritas tutoris; d) non poteva comunque essere tutrice. Per effetto poi del principio di identità tra erede e tutore: e) la donna non potè mai realizzare una vera e propria successione nella patria potestas: D. 50. 17. 73 pr.; D. 26. 4. 10 pr.; D. 26. 4. 1. 3; f) e, da quando le fu concessa la facoltà di succedere, non potè comunque ereditare ex testamento da chi avesse più di 100.000 assi e diventare erede legittima se non in ordine ai consanguinei: Gai. 2. 274; 3. 14; PS. 4. 8. 20(22).

[37] Gai. 2. 124: Ceteras vero liberorum personas si praeterierit testator, valet testamentum, ásedñ praeteritae istae personae scriptis heredibus in partem adcrescunt, si sui heredes sint, in virilem, si extranei, in dimidiam. Id est si quis tres verbi gratia filios heredes instituerit et filiam praeterierit, filia adcrescendo pro quarta parte fit heres, et ea ratione idem consequitur, quod ab intestato patre mortuo habitura esset; at si extraneos ille heredes instituerit et filiam praeterierit, filia adcrescendo ex dimidia parte fit heres.

[38] Quest’impostazione si raccorda anche con l’opinione di una autorevolissima corrente dottrinale che ritiene che la potestà degli agnati e dei gentili si sarebbe venuta configurando alla stregua di una tutela – con la conseguenza che quindi anche alle filiaefamilias si sarebbe riconosciuta la possibilità di divenire sui iuris alla morte del pater – solo nel corso dello sviluppo storico, con l’affievolirsi dei vincoli agnatizi e gentilizi. Cfr. sul punto G. La Pira, La sostituzione pupillare, in St. Bonfante 3 (Milano 1930) 293 ss.; Id., La successione ereditaria intestata e contro il testamento (Firenze 1930) 118; R. Ambrosino, Successio in ius – Successio in locum – Successio, in SDHI. 11 (Roma 1945) 177, nt. 209; A. Guarino, La «lex XII tabularum» e la «tutela» 31 ss.; M. Kaser, Ehe und «conventio in manum», in IURA. 1 (Napoli 1950) 89 ss.; F. Gallo, Osservazioni sulla signoria unitaria del pater familias in epoca arcaica 223; G. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei «iura praediorum» in età repubblicana 1. 221, nt. 133; J. Casado Candelas, La tutela de la mujer en Roma (Valladolid 1972) 19. Provvedimenti normativi come la lex Voconia non possono essere interpretati storicamente come un restringimento successivo di una più ampia capacità sancita in linea di principio dai decemviri. Piuttosto sarebbe preferibile ribaltare i termini della questione. Non dimentichiamo che al tempo dell’emanazione di questa legge le donne attraverso la coëmptio e altri strumenti similari, già potevano esercitare nei fatti una sensibile capacità testamentaria. Molto probabilmente le donne non potevano succedere, nella successione legittima dei decemviri, come filiaefamilias alla stregua dei loro fratelli. Fra l’altro, in caso contrario, non si vede che scopo avrebbe potuto avere la tutela perpetua degli agnati e, in subordine, dei gentiles. I decemviri, in altre parole, avrebbero riconosciuto alle sorores l’accesso alla successione del padre e, nello stesso tempo, si sarebbero affrettati a svuotare di ogni significato tale previsione istituendo (o soltanto non abolendo) la tutela degli agnati e dei gentili. Mi pare una costruzione inverosimile, macchinosa e soprattutto antistorica. Le fonti attestano che le donne solo a partire da una certa epoca cominciarono a ricevere beni dell’asse ereditario paterno, ad avere mezzi patrimoniali di cui disporre, e quindi fare testamento, e anche una volta raggiunto questo status sociale, ma potevano conseguire tali effetti soltanto seguendo vie indirette. Uno degli espedienti per eludere la lex Voconia era quello di nominare erede un amico che s’impegnasse poi di restituire i beni alla sposa o alla affine. Naturalmente si trattava di una disposizione fiduciaria perchè il fiduciario non poteva essere costretto al secondo trasferimento: Cic. de finib. 11. 17. La severità della legge sarebbe stata poi causa della sua caduta in desuetudine: Gell. 20. 1. Per individuare un momento significativo dell’emancipazione femminile sotto questo profilo dovremo attendere almeno l’innovativa disciplina di Augusto in tema di ius liberorum e quindi la definitiva abolizione delle tutele legittime da parte dell’imperatore Claudio (Suet. Claud. 23).

[39] Molto acutamente il E. Costa, Cicerone giureconsulto2 68 ravvisava in Cic. top. 4. 18 elementi indicativi per comprendere l’esatta dimensione di questa prerogativa secondo la dottrina prevalente tra i giuristi dell’ultimo scorcio della Repubblica.

[40] V. infra, ntt. e.

[41] In tale contesto inquadrerei la coëmptio matrimonii causa, che appare indubbiamente come strumento di determinazione di un passaggio di status (conventio in manum) per la donna, omologo alla captio della Vestale e, negli effetti, alla confarreatio per la flaminica. Tale strumento negoziale trova la sua migliore collocazione proprio nel sistema giuridico medio repubblicano, rappresentando, tra gli altri, forse il mezzo principale – in alternativa all’unione matrimoniale senza immediata costituzione di manus (situazione che, fra l’altro, in base al meccanismo della trinocti usurpatio poteva anche restare durevole) che dall’età della tarda repubblica produceva l’effetto di separare il patrimonio della donna da quello del marito. Sul trinoctium ampia bibl. e discussione in I. Piro, «Usu» in manum convenire 15 ss. Pur consapevole dell’esistenza di opinioni discordanti v. A. Watson, The origins of usus, in RIDA. 23 (Bruxelles 1976) 270 e nt. 28, interessante è la collocazione della nascita di tale istituto in epoca postdecemvirale come frutto dell’ingegno interpretativo dei giuristi. Aderisco alla posizione di B. Biondo, «Farreo coemptione usu», in Sodalitas 3 (Napoli 1984) 1307 per la quale il momento della nascita di tale istituto in età compresa tra la fine del quarto e gli inizi del secondo secolo a. C. Molto interessante l’idea di C. S. Tomulescu, Gaius 1, 111 und die Ehe usu, in Festgabe von Lubtow (Berlin 1970) 406 ss. che ritiene la trinocti usurpatio un espediente modellato sul precedente del trinoctium del flamen, introdotto in età tardo repubblicana per favorire la condizione delle donne ricche di Roma- mediante il quale le donne comuni, di fatto, potevano collocarsi in un ordinamento giuridico che le vedeva per definizione escluse, già dalla regolamentazione decemvirale, dalle regole della successione testamentaria. Gli strumenti a disposizione per conseguire tale effetto sono dettagliatamente descritti in Gai. 1. 114 dove la coemptio, che non appare prerogativa esclusiva del rapporto tra marito e moglie (Potest autem coemptionem facere mulier non solum cum marito suo, sed etiam cum extraneo), viene classificata quale negozio indiretto (modificativo di status) a causa variabile (scilicet aut matrimonii causa facta coemptio dicitur aut fiduciae), dove la causa matrimoniale è in rapporto di species a genus. Cfr. E. Volterra, Nuove ricerche 305 ss. Sul piano funzionale, il giurista inserisce l’istituto nella categoria delle alterius generis successiones (Gai. 3. 82), attribuendone la paternità al diritto unanimemente riconosciuto (eo iure quod consensu receptum est introductae sunt) ed escudendo implicitamente un origine decemvirale o edittale della sua disciplina (quae neque XII tabularum neque praetoris edicto). Sul punto R. Ambrosino, Successio in ius – Successio in locum – Successio 180. Il diritto romano conosceva altre forme di coemptio: per le sue varie applicazioni, v. Gai. 1. 114, 115, 115a. Sulla coëmptio fiduciaria B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano (Palermo 1979) 299 ss. Mediante la coëmptio fiduciaria testamenti faciundi gratia, la donna mirava a conseguire la possibilità di fare testamento.

[42] F. Lamberti, Studi sui «postumi» nell’esperienza giuridica romana (Napoli 1996) 20, commentando Gai. 1. 115b: femina… quae fiduciae causa cum viro suo fecerit coemptionem, nihilo minus filiae loco incipit esse; nam si omnino qualibet ex causa uxor in manu viri sit, placuit eam filiae iura nancisci, afferma: «A mio avviso, il «placuit» usato dal giurista ben potrebbe alludere ad un’operazione interpretativa della vetus iurisprudentia». Sono d’accordo e per ragioni analoghe mi pare che espressioni come quelle usate da Gaio a proposito ad esempio dello status giuridico della donna sposata che si trova sotto la manus del marito in Gai. 1. 111: in familiam viri transibat filiae locum optinebat appaiano più come manifestazione del pensiero evoluto di prudentes che non di un legislatore.

[43] Giunge alla stessa conclusione A. Romano, Matrimonium iustum 81 ss., tuttavia affrontando la questione da un altro punto di vista. Guardando, cioè, alla posizione del marito che mediante coemptio poteva acquistare i beni della donna per aggiungerli al suo patrimonio, cfr. Serv. ad Georg. 1. 31. La maggiore autonomia dei soggetti riscontrata da recente dottrina nella struttura del negozio (I. Piro, «Usu» in manum convenire 45 ss.) che parrebbe mettere sullo stesso piano uomo e donna è interpretata dalla Romano come una caratteristica che spiegherebbe il successo e la maggiore diffusione di tale strumento negoziale rispetto agli altri (A. Romano, Matrimonium iustum 84). Nella trattazione gaiana si rileva un collegamento strettissimo tra tale figura negoziale e lo scopo di qualificare la donna filiae loco (quae enim cum marito suo facit coemptionem <ut> apud eum filiae loco sit, dicitur matrimonii causa fecisse coemptionem). A questo punto, poteva bastare che il marito concedesse alla donna una tutoris optio ovvero che lei chiedesse al pretore una tutela dativa perchè questa, una volta vedova o remancipata, potesse rompere definitivamente ogni legame anche con gli agnati della famiglia del marito. Cfr. Gai. 1. 150. L’istituto risale agli inizi del secondo secolo a. C. (Liv. 39. 19. 3–7). Secondo lo P. Zannini, Studi sulla tutela 2. 95–96, frutto dell’attività creativa della giurisprudenza pontificale postdecemvirale. Tale facoltà era concessa (dal marito) solo alla mulier in manu, non alle figlie o nipoti in potestate). Sul legame tra tutoris optio e conventio in manum per eludere la tutela legittima degli agnati cfr. P. Zannini, Studi sulla tutela 2. 83 ss.; E. Volterra, Nuove ricerche sulla «conventio in manum» 341. La conseguenza è facilmente immaginabile. In questo modo poteva escluderli dalla sua successione redigendo, per esempio, un testamento esclusivamente a favore dei propri figli. In questo quadro una costituzione di dote dal parte del padre all’atto del matrimonio poteva anche compensare la perdita di ogni aspettativa successoria da parte della figlia sul patrimonio del genitore. Sul legame tra dote e tutoris optio v. E. Huschke, De Privilegiis Feceniae Hispalae senatuconsulto concessis (Liv. XXXIX, 19) dissertatio (1822) 55. Critica e bibl. in P. Zannini, Studi 2. 93 ss. Sulla dote come anticipata successione v. A. Manzo, Un’ipotesi 11 ss.

[44] Sguardo d’insieme in E. Cantarella, Storia delle donne 596 ss. Sull’incapacità di adottare Gai. 1. 104; 1. 103; Gell. 5. 19. 9; 5. 19. 7. La prima volta che fu consentito ad una donna di adottare un parente come consolazione di un figlio premorto risale al 291 d. C. (CI. 8. 47. 5). Sul punto problemi ricostruttivi e bibl. in E. Nardi, Poteva la donna nell’impero romano adottare un figlio?, in Studi Biscardi 1 (Milano 1982) 197 ss. Sull’incapacità di essere tutrici v. D. 26. 1. 1; D. 26. 1. 16; CI. 5. 35. 1 (a. 224). V. anche D. 50. 17. 73. Sull’esercizio di fatto di tale facoltà v. Liv. 39. 11; Cic. pro Cluent. 9. 27; Tac. ann. 6. 49. Per il riconoscimento alla donna divorziata in età antonina del diritto di occuparsi dei figli anche contro il parere del marito v. D. 43. 30. 1. 3. Già però Mucio Scevola sentiva il problema cfr. D. 33. 1. 7. Sulla duplicazione della tutela che vede contrapposta la tutela formale dei tutori da un lato mentre dall’altro quella di fatto di una donna v. Sen. cons. ad Mar. 24. 1. Sul punto P. Frezza, La donna tutrice e la donna amministratrice di negozi tutelari nel diritto romano classico e nei papiri greco-egizi, in Studi Ec. Giur. della Regia Univ. di Cagliari 12 (1933–34) (estr.) 3–37; G. Crifò, Sul problema della donna tutrice, in BIDR. 67 (Roma 1964) 87 ss.; T. Masiello, Modelli culturali e prassi giuridica fra gli Antonini e i Severi (Napoli 1979) 67 ss. La donna non poteva postulare pro alio: D. 50. 17. 2 pr.; D. 3. 3. 54; CI. 2. 12. 4. Ampiamente sul punto Y. Thomas, La divisione dei sessi in diritto romano 116 ss.

[45] Cfr. Plut. Rom. 22. 3; Plin. n. h. 14. 13. 89; Gell. 10. 23. 5. Per la dottrina G. Franciosi, Clan gentilizio e struture monogamiche6 38 ss.; Id., Famiglia e persone3 30 ss.; P. Giunti, Adulterio e leges regiae. Un reato tra storia e propaganda (Milano 1990).

[46] Sul punto v. Colum. r.r. 12 praef. 7–8; Dion. 2. 25. 5. Uno studio interessante sull’apporto economico della donna sotto la manus del marito è di R. Laprat, «Le role economique et les prérogatives de la femme mariée dans l’ancien droit romain, in Mél. Econ. dédié a R. Gonnard (1946) 173 ss. Cfr. anche J. A. Crook, «His and Hers»: what degree of financial responsability did husband and wife have for the matrimonial home and their life in common, in a roman marriage?, in Parenté et stratégies Fam. dans l’antiquité romain (1990) 153 ss. La partecipazione della uxor all’economia domestica, sia pure esprimendo un ruolo di primissimo piano, non può certo significare contitolarità giuridica in un epoca caratterizzata da un accentuato sistema patriarcale nella articolazione dei rapporti familiari.

[47] Certamente la donna sposata poteva disporre di beni personali. Si tratta di ciò che le fonti definiscono res extra dotem. Fonti atecniche ne testimoniano l’esistenza anche in età repubblicana: Gell. 17. 6; Liv. 41. 29. Tali beni venivano amministrati direttamente dalla donna o da persona di sua fiducia. A volte, non infrequentemente, il marito. Comprendevano oggetti di uso comune che la donna portava con sé nella casa coniugale e di essi si redigeva un inventario sottoscritto dal marito (D. 23. 3. 9. 3). Se filia familias, i cd. beni extra dotali integravano il peculium che in genere il padre forniva loro in prossimità del matrimonio (D. 23. 3. 24) o lasciava mediante legato testamentario (D. 39. 5. 31. 2; Vat. Frag. 255; Suet. Tib. 50. 1). Su questo tipo di disponibilità patrimoniale cfr. M. Garcia Garrido, Ius Uxorium. El régimen patrimonial de la mujer casada en el Derecho Romano (Madrid 1958) 31 ss. Sull’argomento, negli ultimi decenni si è formata una letteratura consistente. Per l’epoca repubblicana L. Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana (Milano 1984) tenta un’indagine sulla possibilità di individuare nelle fonti elementi per riconoscere una sia pure fattuale capacità giuridica delle donne. Anche E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana2 (Roma 1985), in più riprese, ha affrontato il problema provando a raccogliere i dati biografici di donne famose ricordate dalla tradizione annalistica. Recentissima, ma significativa anche rispetto alle pubblicazioni precedenti. Il quadro abbastanza retorico sul ruolo della donna che ne scaturisce, tuttavia, risente ancora dell’enfasi con cui gli intellettuali dell’età augustea dipingevano il ritratto della donna ideale e virtuosa verso la fine della Repubblica. Emblematica è la cd. Laudatio Turiae, v. FIRA. 3. 209. Sull’emancipazione del ruolo femminile nella società romana, si deve citare il lavoro di A. Del Castillo, La emancipacion de la mujer romana en el siglo I D. C., cit.; N. Kampen, Image and status. Roman working women in Ostia (Berlin 1981); R. Scuderi, Mutamenti nella condizione femminile a Roma nell’ultima età repubblicana, in Civ. Class. e Crist. 3 (1982) 60; L. Storoni Mazzolani, Una moglie4 (Palermo 1983); V. Sirago, Femminismo a Roma nel primo impero (Catanzaro 1983). Contributi ancora più recenti provengono della storiografia di marca anglosassone. Anche attraverso la raccolta di dati da fonti non tradizionali, si delinea un quadro dell’affermazione femminile nella società romana che non va indietro nel tempo oltre l’età della tarda Repubblica. Per un orientamento di massima, cfr. Y. Thomas, La divisione dei sessi in diritto romano 103 ss.; J. A. Crook, Woman in roman succession, in B. Rawson (ed.) The Family in Ancient Rome. New Perspectives (New York 1987) 58 ss.; S. Dixon, The Roman Mother (London-Sidney 1988); Id., Infirmitas sexus: womanly weakness in roman law, in TR. 52 (Paris 1984) 343–71.

[48] Questo provvedimento era necessario certamente per le vedove e le figlie ereditiere prive di tutore testamentario. Ma si deve comunque presupporre una capacità di accesso alla successione legittima del marito (loco filiae) o del padre (come gli altri filifamilias). Queste facoltà, che dimostrano un riconoscimento abbastanza rilevante del ruolo femminile nella famiglia romana, possono essere soltanto frutto di un’ elaborazione a livello giurisprudenziale di tale ruolo, a mio avviso, difficilmente ascrivibile all’attività pontificale anteriore (od anche solo immediatamente posteriore) alle dodici tavole. Argomenti del genere meriterebbero una discussione molto più approfondita, tuttavia, anche soltanto limitandoci al tema della capacità negoziale femminile, quando Gaio ci dice (Gai. 1. 190–1) che le donne romane ipsae sibi negotia tractant e che molto spesso il tutore doveva interporre la propria autorità solo pro forma (dicis gratia), può far riferimento evidentemente soltanto alla realtà del suo tempo. Cioè all’epoca degli Antonini, ossia alla società romana del secondo secolo d. C.

[49] Indipendentemente da come si voglia intendere il significato storico della lex Voconia, ossia come prima apertura verso la condizione giuridica delle donne, ovvero come significativa riduzione di una capacità successoria più ampia, si tratta comunque di un provvedimento normativo del 169 a. C. Sulla questione v. con bibl. L. Monaco, Hereditas e mulieres 185 ss.

[50] Mi riferisco alla nozione di incapacità di agire e non a quella di mancanza di soggettività giuridica. Sul punto v. retro.

[51] Lo scarto tra i valori semantici dei due termini, derivanti dalla stessa radice (tueor), è ben evidenziato anche in un testo giuridico: D. 26. 1. 1–3 (Paul. 38 ad ed.): Tutela est, ut Servio definit, vis ac potestas in capite libero ad tuendum eu, qui propter aetatem sua sponte defendere nequit, iure civili data ac permissa. Tutorers autem sunt qui eam vim ac potestatem habent, exque re ipsa nomen ceperunt: itaque appellantur tutores quasi tuitores atque defensores, sicut aeditui dicuntur qui aedes tuentur che a mio parere dimostra il nesso strettissimo tra la formazione culturale giuridica di Servio e l’opera di Varrone. L’etimologia di Varrone si appoggia sull’autorevolezza di due autori molto antichi quali Ennio e Plauto e, del resto, G. Devoto, Storia della lingua di Roma 34 definisce il verbo tueor come «un relitto lessicale indoeuropeo sopravvissuto soltanto in latino». Dato confermato da E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee xx che collega la parola tutela (però intesa già in senso giuridico) all’indoeuropeo *tut-ela o *tu-tela. Infine, A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étimologique 706 considerano tutela nel senso giuridico di ‘défense’ o ‘protection’ come derivato della più antica radice di tueor,-eris nel senso di ‘voir, regarder’, conservato nel latino classico solo nelle espressioni poetiche. Nella lingua latina esistono tracce inequivocabili dell’uso della parola tutela nell’accezione più ampia e non giuridica di ‘guardare’ o ‘osservare’, certamente più antica dell’istituto giuridico. Tra tanti esempi, si può citare Livio: (1. 16. 6) petens precibus ut contra intueri fas esset e (9. 6. 8): ut… consolantes amicos contra intuerentur, che usa l’espressione intueri nel senso di ‘fissare in volto’; o il tragediografo Accio che l’usa in senso molto generico (trag. 538): quem neque tueri contra neque affari queas. Si può ricordare che gli astrologi con il termine tutela designavano il sidus sive felix sive infelix in hominum genitura. Cfr. Manil. Astron. 4. 697. In alcune fonti letterarie si parla di tutela a proposito della cura di animali. Colum. r.r. 6. 2; 7. 1; 9 praef. In qualche caso addirittura la tutela poteva avere ad oggetto anche delle cose: villae, sepulchra, res militari. Plin. n.h. 18. 5. 6. (31); 35. 3. 4. (14). In senso figurato di luogo v. D. 31. 1. 30. WIL. 773: DARE CERTAM PECUNIA IN TUTELAM SEPULCRI. La stessa previsione della tab. 5. 3 nella versione giuridica accreditata da Ulpiano probabilmente reca l’uso del vocabolo tutela in un accezione non tecnica, nel significato comune di ‘custodire’ il patrimonio oggetto della mancipatio familiae. Così B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano 437, nt. 25; G. Franciosi, Famiglia e persone3 81.

[52] Fest. sv. Terminio (L. 505, 1921).

[53] E. Costa, Cicerone giureconsulto2 72. Un segno evidente del successivo allargamento semantico del significato di tale vocabolo si coglie nel tardo Gellio, in cui il sostantivo tutor, vien fatto derivare direttamente dalla forma verbale tuendo, evidentemente inteso nel senso più specifico di ‘custodire’: Gell. 12. 3. 4: Nam sicut a ‘ligando’ ‘lictor’, et a ‘legendo’ ‘ lector’ et a ‘viendo’ ‘vitor’ et ‘tuendo’ ‘tutor’ et ‘struendo’ ‘structor’ productis, quae corripiebantur, vocalibus dicta sunt.

[54] Cfr. M. Morel, Le «sepulchrum». Etude de Droit Romain, in AUG. 5 (1918) 103.

[55] D. 26. 1. 1. 1 (Paul. 38 ad ed.): Tutores autem sunt, qui eam vim ac potestatem habent: ex qua re ipsa nomen coeperunt: itaque appellantur tutores, quasi tuitores atque defensores, sicut aeditui dicuntur qui aedes tuentur. Cfr. retro nt.

[56] A parte l’uso generico riscontrabile in Plaut. Aul. 429–430 (Quid tu, malum, curas/ utrum crudum an coctum ego edim, nisi tu mi es tutor?); Trin. 870 (ecquis his foribus tutelam gerit?); e Truc. 254–255 (huic tutelam ianuae gerit?). Scarsi ed imprecisi riferimenti giuridici – con qualche accenno anche al lato patrimoniale – si rilevano in: Trin. 139 (crede huic tutelam: suam melius rem gesserit); Truc. 859 (video eccum qui amans tutorem med optavit suis bonis); Truc. 967 (Veneris causa adplaudite: eius haec in tutelast fabula); e Vidul. 23 (Quáid tñu istuc curas? an mihi tutor additu’s ?). Viceversa, nella maggior parte dei casi, il termine tutela sembra utilizzato nel senso di ‘aiuto’, ‘appoggio’, senza alcun valore giuridico. Ciò potrebbe significare che nell’età di passaggio tra gli anni della seconda guerra punica e quelli delle conquiste orientali, nel linguaggio comune, l’uso del termine per designare l’istituto giuridico nella sua accezione più tecnica fosse ancora in una fase di assestamento. Molto più numerosa è la presenza nei comici latini di riferimenti relativi alla cura dei minori di venticinque anni. Il dato che colpisce è la frequente volontà di sfuggire alle disposizioni della lex (P)laetoria che richiedeva particolari garanzie per l’espletamento dell’attività negoziale da parte dei minori così qualificati. Cfr. Cic. de off. 3. 15. E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto (Roma rist. 1968) 223 ss. Potrebbe essere un segno, tra gli altri, della sensibilità del tempo al problema del riconoscimento di una capacità negoziale nei minori, a dimostrazione anche del sorgere di un’attenzione specifica alla distinzione tra soggetti impuberi e soggetti puberi ai fini del riconoscimento di una loro capacità giuridica in senso più generale. Sulla lex (P)laetoria o Quina Vicennaria v. Plaut. Pseud. 294. S. Di Salvo, Lex Laetoria (Napoli 1979); F. Pastori, Gli Istituti Romanistici come Storia e Vita del Diritto (Milano 1988) 217.

[57] G. Rotondi, Leges publicae populi romani (Hildesheim-Zürich-New York rist. 1990) 275, v. anche 333 e 439.

[58] Si occupa della tutela, in uno dei suoi capita, anche la lex Cincia de doniis et muneribus del 204 a. C., su cui v. G. Rotondi, Leges publicae populi romani 261.

[59] Non sono un mistero i fattori che spinsero il legislatore all’introduzione di questa rivoluzionaria riforma degli istituti tutelari. Ragguaglio completo della dottrina in P. Zannini, Studi sulla tutela 2. 12, nt. 15. L’intervento legislativo che ne ridisegnò lo schema disciplinatorio, ritagliò uno spazio autonomo per una funzione, certamente presente nei mores arcaici, ma credo senza la forza e la dimensione di una prerogativa giuridica a sè stante. Per restare nell’ambito specifico della tutela del sesso, Y. Thomas, La divisione dei sessi in diritto romano 103 ss., individua delle figure di donna che senza la possibilità di procurarsi un tutore dativo non avrebbero potuto esercitare in età medio-repubblicana alcuna attività giuridicamente rilevante. Si tratta dei casi, non certo infrequenti, di matrone divorziate e liberate dalla manus, ovvero di donne affrancate dalla patrona, oppure di impuberi prive di agnati se il testamento non aveva supplito alla mancanza di un tutore. Emblematico, del resto, è l’episodio di Ispala Fecennia che dimostra l’opportunità e l’attualità della tutoris optio, facoltà che lo Stato soltanto pochi anni prima concesse alle donne comuni con una legge ad hoc. Sul punto diffusamente Franciosi, Clan gentilizio6 40 ss.

[60] Questo dato è confortato da una citazione di Cicerone che già attesta un uso tecnico del termine tutela nella giurisprudenza dei fondatori del ius civile o nella generazione a questi successiva: Cic. pro Mur. 12. 27: Mulieres omnes propter infirmitatem consilii maiores in tutorum potestate esse voluerunt; hi invenerunt genera tutorum, quae potestate mulierum continerentur. Con ampio ragguaglio bibl. P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 2. 89, nt. 36 considera i tutores qui menzionati come tutori optivi e non solo fiduciari.

[61] Nel quadro rivoluzionario e radicalmente innovativo della nuova società mercantile prodotta dall’esito felice delle guerre puniche, il vecchio sistema imperniato (sugli antichi schemi agro-pastorali e) sull’identità tra la figura dell’erede e del tutore e sulla natura potestativa di ogni forma di controllo sulle persone alieni iuris, si dovè dunque rivelare incapace di accogliere le nuove dinamiche negoziali rispetto alle quali il ruolo degli impuberes e soprattutto delle mulieres si presentava decisamente mutato. L’osservatorio plautino a mio avviso, sotto questo profilo, assume un rilievo emblematico. Proprio in questo quadro – la costruzione dogmatica dei giuristi è sempre più lenta rispetto alla pratica quotidiana e alle innovazioni legislative – collocherei la celebre definizione di Servio, ultimo tassello del lento ma progresivo processo di maturazione delle funzioni tutelari verso un loro pieno riconoscimento giuridico. Essa per me rappresenta il momento in cui, raggiunta una sua configurazione autonoma (attraverso, l’abbiamo visto, l’attività innovatrice del legislatore), la funzione tutelare acquistò una corretta definizione anche da un punto di vista della dogmatica giuridica. Infatti ritroviamo già in Servio lo stesso meccanismo semantico sottolineato da Gellio, quasi due secoli più tardi: tutor a tuendo = Servio: tutela a tuendum. Evidentemente, è solo da questo momento, cioè dagli inizi della seconda metà del primo secolo a. C., che il vocabolo tutela come termine giuridico comincia ad acquistare una definitiva configurazione.

[62] Sul punto v. B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano 443; G. Franciosi, Famiglia e persone3 83, nt. 117.

[63] G. Franciosi, Famiglia e persone3 83, ritiene possibile che in origine, fino al momento della trasformazione della tutela da funzione potestativa a munus assistenziale, tutore legittimo del pupillo fosse lo zio, patruus, e non il fratello come afferma Mucio Scevola in D. 50. 17. 73 pr.

[64] La teoria dell’identità tra erede e tutore fu, come è noto, per la prima volta enunciata da P. Bonfante, Corso di diritto romano. 1 Diritto di famiglia (Milano rist. 1963) 554 s. Per un’interpretazione aggiornata con bibl. e nuovi argomenti v. G. Franciosi, Famiglia e persone3 86 ss. In questo quadro la notizia di Gai. 1. 188 che fa partire il dibattito sulla natura giuridica dei genera tutelarum acquista sempre più peso. Sul principio d’identità v. O. Sacchi, L’antica eredità e la tutela. Argomenti a favore del principio d’identità, cit., passim. Tutto ciò sembrerebbe fra l’altro confermare l’intuizione di E. Costa, Cicerone giureconsulto2 71 che ravvisava, dopo un attento esame delle fonti ciceroniane sulla tutela delle donne, una vera e propria comparsa dell’istituto giuridico non prima dell’età d’introduzione della tutela dativa. Ipotesi, a mio avviso, direttamente confermata dal famoso frammento di Pomponio, contemporaneo di Gaio che, in sede di commento ad un passaggio di Quinto Mucio Scevola, a proposito del rapporto tra il versetto della Tab. 5. 3(=FIRA. 1. 37–38) e l’istituzione delle tutelae, attribuisce allo sforzo interpretativo dei commentatori del codice decemvirale la creazione dell’istituto giuridico. Cfr. sul punto anche A. Guarino, La «lex XII tabularum» e la «tutela» 35 ss. Dico questo, perchè penso che la tutela legitima mulierum (come quella dei soggetti impuberi), trovi nella funzione tutelare esercitata in via di fatto dai consortes la sua più naturale configurazione. In seguito, durante il corso dell’età repubblicana, caduto in desuetudine il regime consortile e in ogni caso mancando un tutore designato per l’incapace, è possibile che i parenti di parte maschile (agnati e gentili) avessero continuato ad esercitare tale funzione nei confronti dei soggetti incapaci, rimasti privi del loro pater, forse anche per effetto di un esplicito riconoscimento di questo regime fattuale da parte della giurisprudenza pontificale ad imitazione del regime successorio ab intestato (Gai. 1. 165: Eo enim ipso, quod hereditates libertorum libertarumque, si intestati decessissent, iusserat lex ad patronos liberosve eorum pertinere, crediderunt veteres voluisse legem etiam tutelas ad eos pertinere, quia et agnatos, quos ad hereditatem vocavit, eosdem et tutores esse iusserat). Tuttavia la tutela raggiunse, a mio parere, piena dignità di istituto giuridico, solo dopo il pareggiamento almeno in via giurisprudenziale della posizione giuridica delle filiaefamilias rispetto alla posizione dei fratelli (sui) – già nelle XII tavole qualificati come successori privilegiati – nella successione legittima del pater. Suggestive le parole di Cicerone in pro Mur. 12. 27: Mulieres omnis propter infirmitatem consili maiores in tutores potestate esse voluerunt; hi invenerunt genera tutorum quae potestate mulierum continentur.

[65] V. ampio ragguaglio in C. Fayer, La familia romana 389.

[66] Cfr. con ampio ragguaglio bibl. in G. Franciosi, Famiglia e persone3 91 ss.

[67] Cfr. in part. F. Marco Simón – G. Fontana Elboj, Sponsio matrimonial 231.

[68] Sul punto P. Zannini, Studi sulla tutela 1. 175, nega che i decemviri possano aver statuito sulla tutela mulierum testamentaria. Per questi, il regolamento normativo descritto da Gai. 1. 144, sarebbe infatti soltanto il portato di un successivo sviluppo storico, a seguito del quale, la giurisprudnza avrebbe esteso alla tutela del sesso una disciplina prevista in origine solo per la tutela dell’età. Pertanto, le origini di tale istituto, lungi dal collegarsi all’ ordinamento più risalente, sembrerebbero piuttosto identificarsi nell’attività creativa della giurisprudenza pontificale (Studi sulla tutela 2. 104), quindi in ogni caso di età postdecemvirale. Lo stesso Zannini poi afferma l’esistenza ab origine della tutela legitima mulierum individuando, come argomento più assorbente, il divieto di usucapibilità da parte di terzi delle res mancipi alienate dalla donna senza l’auctoritas tutoris, che Gaio circoscrive alle sole ipotesi di tutela legittima: Gai. 2. 47: Item olim mulieris, quae in agnatorum tutela erat, res mancipi usucapi non poterat. Una conferma ci viene da un famoso passo di Cicerone (ad Att. 1. 5. 6): De Tadiana re mecum Tadius locutus est te ita scripsisse, nihil esse iam quod laboraretur, quoniam hereditas usu capta esset. Id mirabamur te ignorare, de tutela legitima, in qua dicitur esse puella, nihil usu capi posse. Cfr. Cic. pro Flacco 34. 84; Gai. 1. 192; 2. 122. Cfr. anche T. C. de Lima, A tutela e a Patria Potestas no direito romano (Milano 1949) 34 ss. Sul consortium in età predecemvirale L. Monaco, Hereditas e mulieres 31 ss.

[69] G. Franciosi, Gentiles familiam habento. Una riflessione sulla cd. proprietà collettiva gentilizia, in G. Franciosi (a cura di), Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 3 (Napoli 1995) 38 ss.

[70] L’affermazione della auctoritatis interpositio quale prerogativa del tutore sull’attività negoziale dei minori ultrasettenni sembra affermarsi nella cultura giuridica proprio verso la fine del III secolo a. C. Sul rapporto tra concetto di auctoritas e quello di garanzia cfr. G. Franciosi, «Auctoritas» e «usucapio» (Napoli 1963) 55 e ss. Sull’auctoritas tutoris v. Gai. 2. 8081. Le fonti giustinianee collegano chiaramente questa prerogativa del tutore all’esercicio di un’attività commerciale caratterizzata da strumenti negoziali inesistenti in età anteriore alle guerre puniche. Paolo e Ulpiano la collegano all’empitio-venditio: cfr. D. 18. 5. 7. 1 (Paul. 5 quaest.); D. 19. 1. 13. 29 (Ulp. 32 ad ed.). Giustiniano, nelle sue Istituzioni (1. 21 pr.), a negozi quali il mutuo, l’emptio-venditio, la locatio-conductio e il deposito.

[71] Interessante la tesi di P. Bonfante, Corso di diritto romano 1. 553 per cui storicamente la tutela mulierum risulterebbe il tipo di tutela più arcaico. A sostegno della diversità di struttura della tutela mulierum rispetto alla tutela degli impuberi lo Zannini adduce un argomento a mio avviso convincente: ancora in età classica la tutela legittima delle donne, diversamente da quella dell’età, spettava anche ad un impubere, ad un pazzo o a un muto. Cfr. Gai. 1. 178; 1. 179; 1. 180; Ulp. 11. 20; 11. 21. Interessante rilevare da questi testi, che in sostanza stabilivano secondo la lex Iulia de maritandis ordinibus la possibilità per la donna di chiedere un tutore dativo (anche esistendo un tutore legittimo impubere, pazzo, o muto) per costituire la dote a fini matrimoniali, il contrasto esistente di fatto tra la vecchia concezione della tutela (legittima) e la nuova concezione della tutela dativa, più pragmaticamente finalizzata a favorire la donna nella sua attività giuridica. Un’altra differenza significativa riguarda la possibilità per il tutore legittimo di in iure cedere tutela. Facoltà consentita al tutor legitimus della mulier e non al tutor legitimus impuberum. Sul punto v. Gai. 1. 168; Ulp. 11. 8. Con bibl. part., v. G. Franciosi, Famiglia e persone3 83. Inoltre, l’impubere era un potenziale paterfamilias, la fanciulla no. La tutela impuberum si afferma nel ius civile romano della tarda repubblica come un munus assistenziale, la tutela mulierum, contrariamente a quanto pensano alcuni studiosi, mi pare evidenziarsi più come un meccanismo volto a formalizzare la progressiva autonomia negoziale (e quindi giuridica) della donna che non uno strumento di relegazione della stessa in una dimensione subordinata. Sul punto ampiamente con bibl. e fonti C. Fayer, La familia romana 524 ss. Ancora, dovrebbe far riflettere la diversità di motivazioni in Gellio sulla spiegazione della ragione per cui impuberi e donne non potevano essere sottoposti ad adrogatio: (Gell. 5. 19. 10): Neque pupillus autem neque mulier, quae in parentis potestate non est, adrogari possunt: quoniam et cum feminis nulla comitiorum communio est et tutoribus in pupillos tantam esse auctoritatem potestatemque fas non est, ut caput liberum fidei suae commissum aliene dicioni subuciant. Che traduco: «non possono essere ‘adrogati’ il pupillo e la donna che non sia nella potestà del padre (parentis = del genitore = padre o ascendente), poichè le donne non possono partecipare ai comizi (nulla comitiorum communio est) mentre ai tutori il fas non concedeva tanto potere ed autorità (tutoribus in pupillos tantam esse auctoritatem potestatemque fas non est) da assoggettare al potere altrui una persona libera affidata alla loro fiducia». Dunque, due modi nettamente diversi di porre la questione. Ampia discussione su questo punto in F. Sitzia, Rec. a P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 2, cit., 173 ss.

[72] Gli scrittori antichi come è noto affermano l’origine consuetudinaria delle tutelae. Gellio, citando una fonte autorevole (i libri iuris civilis di Masurio Sabino) afferma: (Gell. 5. 13. 5): In officiis apud maiores ita observandum est, primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini. Alfeno Varo, in D. 48. 22. 3, addirittura nell’ultimo scorcio della Repubblica, avrebbe sentenziato: itaque et fratres fratribus fore legitimos heredes et adgnatorum tutelas et hereditates habituros:non enim haec patrem, sed maiores eius eis dedisse. Paolo, in D. 26. 7. 12. 3, afferma esplicitamente la derivazione delle funzioni del tutore dagli antichi mores: Cum tutor non rebus dumtaxat, sed etiam moribus pupilli praeponitur. Con particolare riferimento alla tutela mulierum, Cicerone e Livio, non potrebbero essere più chiari: Liv. 34. 2. 11: …maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum…; Cic. pro Mur. 12. 27: Mulieres omnes propter infirmitatem consilii maiores in tutore potestate esse voluerunt: hi invenerunt genera tutorum quae potestate mulierum continerentur. Ma questi sono dati ormai ampiamente acquisiti dalla dottrina. A. Corbino, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica 50 ad esempio, anche negando una risalente natura potestativa della tutela, si dice convinto dell’origine consuetudinaria della tutela impuberum, mentre P. Zannini, Studi sulla tutela 2. 106, pur non riuscendo ad andare oltre una affermazione generica, ma indicativa, afferma che le origini della tutela mulierum parrebbero: «perdersi nella notte dei tempi». Credo che allora, anche al di là delle indicazioni non sempre chiare delle fonti letterarie sulla presenza dell’istituto in età predecemvirale, si possa senz’altro accettare l’idea di una possibile esistenza anche molto risalente di questa funzione. In linea generale, credo che questa si possa molto bene collocare in età storica – dalle XII tavole sino alla trasformazione dell’antica hereditas in un mero trapasso di res – nel novero di prerogative facenti capo al successore del pater familias e ricompresa nello schema più ampio dell’acquisto del suo ruolo potestativo in luogo del pater familias scomparso.

[73] Sul consortium ercto non cito per un primo approccio v. B. Albanese, Il consorzio ercto non cito, in AUPA. 20 (Palermo 1949) 150 ss.; Id., Le persone in diritto romano 210; M. Bretone, «Consortium» e «communio», in Labeo 6 (Napoli 1960) 169, nt. 3; M. Kaser, La famiglia romana arcaica, in Conf. Rom. Univ. di Trieste 1 (1950) 54; G. Franciosi, Usucapio pro herede 41, nt. 103; Id., Famiglia e persone3 11; Id., Corso istituzionale3 103; Id., Gentiles familiam habento 38 ss.; Id., Ancora sul ‘consortium’, Rec. a L. Gutierrez-Masson, Dal ‘consortium’ a la ‘societas’. 1. ’Consortium’ ercto non cito’ (Madrid 1987), in Labeo 37. 2 (Napoli 1991) 269 ss.; H. Hankum, Societas omnium bonorum and dos in classical Roman Law, in Israel Law Review 29 (Jerusalem 1995) 107 ss. Con ampio ragguaglio bibliografico v. L. Monaco, Hereditas e mulieres 32, nt. 5.

[74] Liv. 4. 9; Cic. pro Flacco 34. 84; Laudatio quae dicitur Turiae(=FIRA. 3. 209). Indubbiamente non è un rapporto naturalistico quello che s’instaura con la tutela (alla quale veniva sottoposta, in mancanza di alternative, anche la mulier in manu), eppure (il discorso vale anche per gli impuberi) è innegabile che in linea di principio agnati e gentiles esercitassero ab origine nel sistema familiare romano (fino alla lex Claudia) questo ruolo in forma collettiva.

[75] Si tratta di un’idea abbastanza diffusa tra i romanisti. Cfr. P. Frezza, L’istituzione della collegialità in diritto romano, in St. Solazzi (Napoli 1948) 536; F. Gallo, Osservazioni sulla signoria del pater familias in epoca arcaica 230; F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma 1. 76. Da ult. ribadita con nuovi argomenti in G. Franciosi, Gentiles familiam habento 40. Il punto di partenza per riconoscere l’esistenza di questo potere dei fratres è il superamento della concezione dell’antica hereditas come entità esclusivamente patrimoniale. E’ una vecchia questione che una dottrina molto attenta già verso la metà degli anni sessanta superava con argomenti molto persuasivi. Cfr. G. Franciosi, Usucapio pro herede 51 ss. Essa, in un certo senso, sviluppa un’intuizione di U. Coli, Il testamento nella Legge delle XII tavole, in IURA. 7 (Napoli 1956) 24 ss., che già negli anni cinquanta riconosceva nella fase precivica del diritto civile al paterfamilias-dominus un potere generico ed indifferenziato sulle persone e sulle cose della domus. Cfr. ora sul punto L. Monaco, Hereditas e mulieres 31 ss.

[76] M. Bretone, Consortum e communio, in Labeo 6 (Napoli 1960) 163 ss.

[77] Sebbene più possibilista in Usucapio pro herede 41, nt. 103, G. Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano3 103, a proposito dellla natura del potere dei consortes, così si esprime: «Se la titolarità in solido riguardasse solo la proprietà sui beni materiali e sugli schiavi o si estendesse anche alla potestà sui figli è argomento assai discusso: allo stato delle fonti, però, nessuna traccia sembra esservi di una potestas solidale o ‘circolante’». Accogliendo l’ipotesi di U. Coli, Il testamento 33 ss., di una successiva emergenza del concetto giuridico di potestas, cioè di una formazione postdecemvirale dell’esse in potestate – affermazione che mi sembra compatibile con il modo di descrivere la natura dell’originario potere del pater familias descritta dal Gallo – mi pare confermi l’idea di una formazione consuetudinaria di questo potere, un noto frammento di Ulpiano riguardante la possibilità da parte del pater furiosus di avere figli sotto la sua potestà, nel quale il giurista attribuisce la formazione del ius potestatis agli antichi mores: D. 1. 6. 8: Patre furioso liberi nihilo minus in patris sui potestate sunt: idem et in omnibus est parentibus, qui habent liberos in potestate. nam cum ius potestatis moribus sit receptum nec possit desinere quis habere in potestate, nisi exierint liberi quibus casibus solent, nequaquam dubitandum est remanere eos in potestate.

[78] G. Franciosi, ‘Gentiles familiam habento’ 39 s.

[79] V. retro nt.

[80] U. Coli, Il testamento 33, 34 nt. 41.

[81] G. Franciosi, Usucapio 42, nt. 103; Id., Il processo di libertà in diritto romano (Napoli 1961) 4.

[82] G. Franciosi, Usucapio 41 ss.

[83] M. Bretone, La nozione romana di usufrutto (Napoli 1962) 21 ss. Su queste basi si deve allora rivalutare il problema dell’attendibilità del noto passo di Pomponio in cui, il famoso giurista tardo repubblicano Q. Mucio, affermerebbe che la frantumazione della latissima potestas del paterfamilias nelle varie facoltà conosciute in età storica come l’heredis institutio, la facoltà di dare tutele, di conferire legati e di dare la libertà ai servi, sarebbe stato frutto di un processo interpretativo successivo all’età dei decemviri. Il frammento è conosciutissimo e lo abbiamo già considerato (v. retro): D. 50. 16. 120 (Pomp. 5 ad Q. M.): Verbis duodecim tabularum his «uti legassit suae rei, ita ius esto». latissima potestas tributa videtur et heredis instituendi et legata et libertates dandi tutelas quoque constituendi. sed id interpretatione coangusatum est vel legum vel auctoritate iura constituentium. Sul punto cfr. M. T. Lepri, Saggi sulla terminologia e sulla nozione del patrimonio in diritto romano (Firenze 1942) 43 ss. Ultimamente M. Bretone, Sesto Elio e le dodici tavole 71=I fondamenti del diritto romano 26 ss. Lo ritiene immune da interventi compilatori U. Coli, Il testamento 38. Posso solo sfiorare un tema che è molto più complesso, ma credo che l’idea dell’identità tra erede e tutore, a partire dalle prime forme di successione testamentaria, fino all’epoca della frantumazione del potere del pater, trovi in questo schema ricostruttivo forse la sua migliore collocazione. G. La Pira, La successione ereditaria intestata e contro il testamento in diritto romano 115 sul problema della natura giuridica della successione legittima (in legitimis non est successio) si esprime in questi termini: «Quando il defunto non sia un paterfamilias, o quando a lui non succeda un paterfamilias, il rapporto di successione che di fatto si attua non è quel particolare raporto di successione, consistente nel subentrare nella potestas: e si può, in questa ipotesi, affermare che questo rapporto anomalo di successione non è originario, ma derivato. Il punto su cui fermo l’attenzione è la successione della donna e alla donna, e, per altre considerazioni, la successione degli agnati e del patrono». A conclusioni non dissimili giunge G. Scialoja, in BIDR. (Roma 1890) 76 il quale, addirittura, parla di assorbimento (non successione) della famiglia dello scomparso da parte di agnati e gentili.

[84] Le fonti ci dicono ancora troppo poco di questa figura giuridica, tuttavia la coincidenza tra rapporto naturalistico e rapporto giuridico tra i fratres che si univano in consorzio e il loro ascendende, anche (se non soprattutto) per l’età predecemvirale quando la comunione è probabile che fosse stando a Gell. 1. 9. 12 addirittura forzosa, è piena. Addirittura si potrebbe parlare prima ancora che di ‘successione’, di vera e propria ‘continuazione’. Quindi è ammissibile a mio parere definire questo fenomeno in termini di trasmissione di potestas perchè i consortes, per motivi ben noti (cfr. anche per un ragguaglio bibl. G. Franciosi, Famiglia e persone3 11–12, nt. 8), erano i ‘continuatori’ della famiglia dell’ascendente scomparso. In modo analogo al suus heres o all’erede designato.

[85] A. Burdese, Diritto Privato Romano 273. In realtà non è questione d’individuare, in questa fase dell’evoluzione dei rapporti di successione nel diritto romano arcaico, un’emersione più o meno netta della tutela quale istituto giuridico autonomo. Sotto questo profilo l’impostazione del Burdese mi pare corretta perchè, al di là di quanto già detto a proposito del significato etimologico del termine, il principio d’identità tra erede e tutore comunque impedirebbe di porci in tale prospettiva. Si tratta invece di riconoscere, per quanto ciò sia consentito dalle fonti a nostra disposizione, le tappe principali di un percorso, a volte tortuoso, che gli istituti tutelari potrebbero aver compiuto fino al loro riconoscimento nel diritto della società tardo repubblicana come ceppo di prerogative facenti capo ad un istituto giuridico autonomo. Da questo punto di vista, e anche a volersi limitare al solo aspetto della tutela non volontaria, pur escludendo l’eventualità che un istituto quale il consortium ercto non cito potesse lasciare spazio alla possibilità di una prima comparsa della tutela in senso giuridico, è innegabile che tale funzione può essere stata esercitata dai soggetti appartenenti a questo tipo di societas inseparabilis.

[86] La mancanza del principio della divisione per quote nel diritto romano ci esime dal pretendere che tutti gli eventuali consortes partecipassero all’atto. Bastava uno come ci dice Gai. 3. 154b: illud proprium erat, quod vel unus ex sociis communem servum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquirebat: item unus rem communem mancipando e gli effetti giuridici si potevano realizzare. Naturalmente sempre se vogliamo prestare fede a Gellio che sottolinea il fatto che tale società fosse inseparabile: Gell. 1. 9. 12: et coibatur societas inseparabilis. Quindi prima delle XII tavole la potestà poteva essere esercitata collettivamente secondo ciascuno in base a regole assimilabili alla nostra solidarietà. Senza entrare nel problema del concorso fra i gentiles chiamati uti singuli alla successione legittima (ex tab. 5. 5 = FIRA. 1. 38: Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento) affrontato da M. Talamanca, L’acquisto dell’eredità da parte dei ‘gentiles’ in XII tab. 5. 5, in Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Homm. à A. Magdelain (Paris 1998) 460, e 461, nt. 65 mi pare che l’illustre romanista riconosca che all’interno del consortium ercto non cito vigesse la regola della comunione solidale.

[87] Dalla disciplina classica dell’istituto si rileva invece, inequivocabilmente, come fosse necessario il consenso del tutore (o dei tutori), sia per realizzare le forme di conventio in manum, che per la costituzione di una dote. E se vogliamo, l’iscrizione riportata sul reperto che stiamo esaminando, ne sarebbe una diretta conferma. Anzi potrebbe addirittura costituire – pur andando oltre il tanto controverso passo di Cicerone della pro Flacco (34. 84) – la prova della possibilità di un intervento del genere anche in caso di matrimonio sine capitis deminutione immediata della donna. In una fase della storia di tali istituti in cui la piena consapevolezza della loro portata giuridica è ancora molto di là da venire. Ma questi problemi saranno toccati nel prossimo capitolo.

[88] V. retro.

[89] Su tale fonte per bibl. e probl. v. retro, nt. 2.

[90] I. Piro, «Consortium», «Heredium» e storia dello «ius gentilicium», Rec. a Aa. Vv., Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 3 (Napoli 1995) 275, in Labeo 45 (Napoli 1999) 268 ss.

[91] Laud. Turiae ll. 20–24(=FIRA. 3. 211). Cfr. CIL. 6. 1527; 31670; 37053. M. Durry, Eloge Funèbre d’une Matrone Romaine. Eloge dit de Turia (Paris 1950); L. Storoni Mazzolani, Una moglie4 76.

[92] Per la custodia matrum di Aurelia nei confronti del figlio Cesare v. Suet. div. Jul. 1. Sul significato di tutela in senso atecnico ed il rilievo pedagogico della funzione, cfr. anche Isid. orig. 10. 264: Tutor, qui pupillum tuetur, hoc est intuetur; de quo in consuetudine vulgari dicitur: ‘Quid me mones? Et tutorem et pedagogum olim obrui’.

[93] In termini di stretta similitudine, potrebbe porre la custodia matris di Marcia qui descritta, sullo stesso piano della custodia fratruum astrattamente ipotizzabile per i consortes nei confronti dei soggetti incapaci. Con la differenza che la ‘tutela’ materna del caso di specie viene esercitata, diciamo così, praeter legem; la ‘tutela’ (probabilmente) descritta dall’iscrizione del vaso ed astrattamente attribuibile ai membri del consorzio, verrebbe esercitata iure e si raccorderebbe con l’ipotizzato, più risalente, significato di tutela descrittoci da Varrone, del quale abbiamo prima diffusamente discusso. Entrambe grosso modo consistenti nella stessa cosa. Se la prima, veniva di fatto sottratta ai soggetti legittimati mediante l’aggiramento di una precisa disposizione normativa, si potrebbe ipotizzare invece che la seconda venisse esercitata da soggetti legittimati in virtù di un potere più ampio capace di assorbire in sé anche la funzione tutelare, e prima ancora che l’ordinamento (mediante l’attività creativa dei giuristi) regolamentasse tale prerogativa con una disposizione normativa specifica dopo il frazionamento in unità autonome dei singoli elementi costituenti in avanzata età storica la posizione dell’heres suus et necessarius rispetto all’oggetto dell’antica hereditas.

[94] Si può sostenere, come fa P. Zannini, sv. Tutela 312 che alla base di questo tipo di tutela ci fossero le ragioni preminenti del gruppo familiare impersonato dagli agnati, interessati alla conservazione della familia intesa quale organismo solidale destinato a perpetuarsi attraverso i propri discendenti maschi. E’ quanto sostengono anche i fautori della teoria potestativa (v. retro nt.). Ma questa ragione è alla base stessa di tutto il sistema ereditario romano arcaico, imperniato, come è noto, sulla continuità effettiva del complesso di persone, beni, cose e aspetti di rilevanza religiosa, sinteticamente descritti a partire dalla tarda repubblica col termine familia cfr. G. Franciosi, Famiglia e persone3 25 ss., ruotanti intorno alla figura del singolo pater familias. Può quindi riferirsi alla tutela arcaica solo per relationem, ma non spiega direttamente il fenomeno.

[95] S. Tafaro, Pubes e viripotentes nella esperienza giuridica romana (Bari 1988) 139.

[96] Soprattutto per il regime della dote. Sulle difficoltà delle filiae indotate in età storica v. Val. Max 4. 4. 10; Plaut. Trin. 689–694; Cas. 200–203; Asin. 85–87; 897–898; Aul. 190–192; 475–484; 489–493; 498–499; Gell. 17. 6. 1; Hor. Carm. 3. 24. 19; Varro r.r. 3. 16. 2; Cic. pro Qinct. 31. 137; ad fam. 14. 4. 3.