Sommario: 1. La ‘virgo’ del Quirinale e la tutela
mulierum. – 2. Donne e soggettività giuridica nel diritto
romano arcaico. – 3. Segue: donne e capacità successoria. – 4.
Segue: funzione tutelare ed emersione della tutela
mulierum quale istituto giuridico autonomo. –
5. L’esercizio della funzione tutelare e il consortium ercto non cito. – 6. Tutela ed esercizio fattuale della funzione tutelare.
___________
1. La ‘virgo’ del
Quirinale e la tutela mulierum.
Una delle ipotesi più autorevoli sul
significato storico e sociale
Anche in questo caso si pongono dei complessi
problemi di inquadramento e ricostruzione storica per un giurista. Se il
Dumézil avesse ragione avremmo una diretta conferma dell’esistenza
di una forma di tutela a Roma in età predecemvirale (fra l’altro
in virtù di una testimonianza molto più antica
dell’istituto descritto dai giuristi a partire dalla fine della
repubblica)[2].
In realtà, anche ammettendo (cosa che
sin d’ora mi sento però di escludere) che nel dettaglio epigrafico
sia riconoscibile il segmento toitesiai e
che questo possa tradursi nel termine tecnico del latino giuridico classico tutela, non credo che si possa
attribuire tout court a tale vocabolo il pieno valore semantico di potestas e inoltre collegarlo
direttamente all’istituto giuridico conosciuto in età più
tarda.
A prescindere da qualsiasi valutazione di
carattere linguistico e anche considerando la questione prendendo come riferimento
soltanto la tutela mulierum, vari
elementi portano a credere che ancor prima che l’esercizio della funzione
tutelare si qualificasse più propriamente come un istituto giuridico, questa potrebbe aver vissuto una fase
preliminare (meramente fattuale?) individuabile entro schemi giuridicamente
riconoscibili, ma riconducibili solo indirettamente (erede e tutore) ad un vero
e proprio esercizio di potestas.
Penso alla nota definizione del Gallo che descrive la signoria del paterfamilias arcaico:
«…come un potere analogo o parallelo (non identico o
consostanziale) a quello magistratuale (o regio), come un potere cioè a
carattere unitario e personale, nei cui confronti le relazioni concrete con gli
elementi ad esso sottoposti non davano luogo a figure distinte di diritti,
bensì consistevano in semplici atteggiamenti od esplicazioni del potere
medesimo…»[3].
Seguendo questa impostazione la tutela potrebbe
assimilarsi ad una facoltà la cui rilevanza poteva venire in gioco alla
morte del pater familias come parte
di un insieme di prerogative che la giurisprudenza più antica
gradatamente avrebbe riconosciuto prima ai successori del pater (agnati e gentili), poi all’heres suus et necessarius[4]. L’individuazione e
l’elaborazione giuridica dell’istituto della tutela in senso
stretto dev’essere venuta in un secondo momento[5].
Fra l’altro, nel valutare
l’attendibilità dell’ipotesi di una presenza della tutela mulierum nell’ordinamento
giuridico romano già per il VII/VI secolo a. C. bisogna tenere conto
anche
Mettendo questi dati insieme con l’idea
della vigenza del principio d’identità tra erede e tutore (fra
l’altro basata su dati testuali e non meramente teorici o soltanto
congetturali[7]) e con la tesi accolta dalla
prevalente dottrina per cui la ratio della
tutela mulierum sarebbe nella
necessità di salvaguardare l’integrità (sociale,
patrimoniale e giuridica) del gruppo agnatizio[8], viene fuori un quadro di
ricostruzione che porta decisamente in una direzione diversa rispetto a quella
indicata dal Dumézil.
Il riconoscimento della tutela delle donne come
istituto giuridico autonomo da parte della giurisprudenza medio/tardo
repubblicana (Cic. pro
In questo quadro, si comprende quanto sia
difficile accettare tout court
l’ipotesi dumeziliana sulla presenza
Questo però non vuol dire che non sia
possibile ammettere l’esistenza in capo a più ‘tutori’
di una forma di ‘tutela collettiva’ (non però
l’istituto giuridico dell’età classica) sin dalle fasi
più risalenti
In questo capitolo vorrei esporre gli argomenti
che a mio avviso confutano definitivamente la tesi
2. Donne e soggettività giuridica nell’ordinamento romano
arcaico.
Vorrei cominciare dal problema della posizione
giuridica della virgo menzionata
nella prima parte
L’impossibilità di riconoscere
l’esistenza di una piena capacità di agire per le donne prima
dell’età della media-tarda Repubblica è una convinzione che
in dottrina ha acquistato già da tempo un certo credito[11].
Interessanti studi, al di là di incerte
e molto spesso contraddittorie indicazioni nelle fonti anche giuridiche,
dimostrano che la considerazione di una sia pur relativa capacità di
agire per le donne cominciò ad evidenziarsi a Roma non prima
dell’età appena successiva alle guerre puniche, e raggiunse il suo
culmine nell’età del Principato[12]. La cosa non deve sorprendere dato
che lo stesso Pomponio, come è noto, riconduce alla seconda metà
del secondo secolo a. C. la ‘fondazione’ stessa del ius civile (D. 1. 2. 2. 39)[13] e, sul ruolo delle donne
nell’ordinamento giuridico, si esprime ancora alla sua epoca in questi termini:
D. 1. 5. 9 (Papin. 31 quaest.): in multis iuris nostri articulis deterior
est condicio feminarum quam masculorum[14].
Senonchè la situazione non è
così semplice. Perchè se è vero che la donna visse una
situazione di quasi assoluta incapacità sul piano della capacità
di agire in relazione a talune specifiche situazioni soggettive (ad es.: capacità
di succedere mortis causa, di
testimoniare in giudizio, partecipazione nelle assemblee popolari ed elettorato
attivo e passivo, il postulare per altri in giudizio, etc.) la stessa cosa non
si può dire circa l’esistenza o meno di una soggettività
giuridica lato sensu. Le donne,
infatti, pur prive di capacità successoria (attiva e passiva) fino
probabilmente ad epoca repubblicana avanzata, non si può dire che non
abbiano goduto di una certa considerazione giuridica da parte
dell’ordinamento più risalente[15].
Si rintracciano infatti nelle fonti una serie
di dati che dal punto di vista giuridico si sostanziano in tante prerogative
certamente rilevanti per il diritto più antico. Insomma le donne, pur
prive di capacità di agire, sarebbero state comunque oggetto di norme
giuridiche per l’ordinamento più risalente. Pertanto, pur entro
certi limiti, si potrebbe riconoscere alla ‘virgo’ del Quirinale una certa soggettività giuridica,
almeno nel senso che noi diamo all’espressione negli ordinamenti moderni.
Anzitutto bisogna dire che l’ordinamento
più antico riconosceva alle donne prerogative di status dal carattere
personalissimo, come il diritto di cittadinanza e il ius connubii. Così come il diritto al nomen, il diritto di appartenere alla famiglia e alla gens in qualità di filia, uxor, soror e mater, etc. Inoltre, sin dal diritto
più risalente è ravvisabile una parziale capacità di agire
che trova piena ragione di essere nel diritto sacro/pontificale più
antico anche nella partecipazione delle donne laiche ai riti sacri più
antichi. Si pensi alla celebrazione delle nuptiae
e alla partecipazione attiva (però in epoca molto più
recente) alle forme di costituzione della manus
maritalis (usus, confarreatio, coëmptio) o ai culti cittadini (Mater Matuta, Vesta, Bona Dea, i giochi romùlei,
etc.). Su un altro versante bisogna poi considerare la capacità di
diritto sacro di cui era titolare ciascuna sacerdotessa (Vestali, flaminicae, sacerdotesse di Bona Dea,
etc.). Infine, l’aes hordearium in
base al quale sembrerebbe che alle vedove fosse stata riconosciuta dal
Tarquinio Prisco una sorta di soggettività giuridica passiva dal punto
di vista fiscale.
Prendiamo il diritto al nomen. Emilio Peruzzi sembra credere al dato tradizionale per cui
l’uso caratteristico dell’onomastica romana di identificare le
donne con il solo nomen gentilicium sarebbe
una prerogativa riconducibile fino ai sabini dell’età romulea[16]. Si tratta di una regola che ha
indubbia rilevanza giuridica come mostra la testimonianza di Dionigi sul dovere
di ogni pater familias di iscrivere i
membri della propria famiglia nelle liste
Quanto alla prerogativa di partecipare ai riti
pubblici si deve riconoscere che le donne romane in celebritate versatur già da età molto risalente.
Non ho motivo di dubitare infatti della notizia di Dion. 2. 22. 1 dove lo
storico greco afferma che le mogli dei sacerdoti sarebbero state chiamate da
Romolo(=età molto antica) alla celebrazione dei riti sacri deputati alle
donne. La qual cosa almeno è indice
Abbiamo visto, inoltre, come nel culto dei Matralia le ragazze offrissero al
momento
Infine, connesso allo status di appartenente al
gruppo familiare, non va dimenticata la detestatio
sacrorum che ogni donna uscendo dal proprio gruppo doveva forse celebrare
in occasione
Il costume più antico contemplava anche
altre prerogative come quelle ricordate da Plutarco che parla
In questo quadro collocherei anche le
prescrizioni delle cerimonie nuziali più antiche che attestano
un’attenzione dell’ordinamento più risalente difficilmente
compatibile con l’idea di un’assoluta incapacità delle donne
(Fest. sv. Senis crinibus, L. 454,
23–27; Gell. 10. 15. 30)[21]. E’ vero che in età
arcaica e per buona parte dell’età repubblicana lo scambio
matrimoniale veniva gestito principalmente (per i profili di rilevanza
giuridica) dal soggetto, o dai soggetti, aventi potestà sulla donna e
dal futuro marito o dall’avente potestà su di lui. Tanto è
vero che la virgo non aveva il
diritto di pronunciare nupta verba
come ricordano la glossa festina (Fest. sv. Nupta
verba, L. 174, 17–20) e l’epitome di Paolo Diacono (Paul.-Fest.
sv. Nupta verba, L. 175, 1–3).
Ma è altrettanto vero che il discorso si fa diverso per gli aspetti
cultuali
Di alcuni aspetti riguardanti la condizione
giuridica delle Vestali mi sono occupato in altra sede[22] ma, così come per tutte le
altre sacerdotesse e la Flaminica –
il cui status giuridico sarebbe stato equiparato alle altre donne solo con
una legge (promulgata dal Senato?) voluta dall’imperatore Tiberio (Tac. ann. 4. 16. 3: sed lata lex, qua flaminica Dialis sacrorum causa in potestate viri,
cetera promisco feminarum iure ageret) – c’è da credere
che le prerogative riguardanti la loro condizione giuridica, magari non nei
termini che si renderanno evidenti in età più avanzata, fossero
antiche quanto il sacerdozio stesso.
La questione relativa al cd. aes hordearium è invece
più complessa[23]. Secondo Cicerone, Tarquinio
Prisco, conformemente ad un uso vigente a Corinto, avrebbe fatto gravare sulle vidue (e gli orfani) un obbligo fiscale
relativo all’aes hordearium,
cioè un soldo (contributo) annuale per le donne senza marito per
mantenere i cavalli dell’esercito romano[24]. Livio riprende la notizia ma
soltanto con riferimento alle donne e attribuendo la tassa a Servio Tullio[25]. Il problema si complica ancor di
più considerando che Gaio collega l’aes hordearium ad una procedura per
pignoris capionem sancita moribus[26]. La qual cosa certamente non depone
per una rilevante antichità della tassa stessa. In ogni caso mi pare
significativo che Cicerone, che pure non trascura di darci notizie precise
sulla storia della tutela mulierum (pro
Probabilmente, guardando alla questione in
sè, potrebbe anche darsi che si sia trattato di un’anticipazione
storica. Non vedo infatti come si possa concepire l’esistenza di un
diritto alla tassazione da parte dello Stato, prima che lo Stato romano
raggiungesse un livello di organizzazione costituzionale e fiscale
sufficientemente evoluto[27]; e prima che i giuristi
incominciassero a considerare le cose in possesso di vedove e orfani come beni
appartenenti a patrimoni autonomi separati. Sotto questo profilo la notizia di
Gaio relativa ad una procedura per
pignoris capionem moribus mi pare deponga per una relativa
recenziorietà
3. Segue: donne e capacità successoria.
Sotto il profilo della capacità
successoria (ed è la critica più profonda da fare alla teoria
funzionale[28]) credo sia invece da respingere
fermamente l’idea di una capacità femminile prima
dell’età post-decemvirale[29]. Anzi, direi che non si possa
parlare di capacità successoria della donna a Roma prima almeno della
metà
Non è mia intenzione approfondire
particolarmente l’argomento in questa sede[32], mi limito soltanto a ricordare che
tra gli argomenti opponibili alla dottrina dominante si possono citare fra gli
altri[33]: a) un passaggio del testo dello
Gnomon dell’Idiologo (l. 28) secondo il quale il ius liberorum istituito dalla lex
Papia avrebbe previsto per le donne con un numero di figli sufficiente,
anche l’esenzione dalla normativa della lex Voconia che, secondo Dione Cassio (41. 10. 2), seppure
sistematicamente aggirata, sarebbe stata ancora in vigore all’età
di Augusto[34]; b) l’estensione, sempre da
parte della legge istitutiva del ius
liberorum, alle madri ingenue con più di tre figli della
facoltà di avere accesso alla successione legittima dei liberti e delle
regole della successione pretoria poste a favore dei patroni sui liberti anche
alle patrone ingenue e libertine rispettivamente con due e tre figli[35]; c) l’abolizione, solo con
Marco Aurelio, della auctoritatis
interpositio del tutore per il testamentum
per aes et libram della donna; d) l’abolizione, solo con
l’imperatore Adriano, della necessità per le donne di adoperare il
meccanismo descritto da Gai 1. 115a per conseguire la facoltà di fare
testamento. Tutti indizi chiari di una emancipazione giuridica della donna
sotto il profilo successorio non ancora
Tutto ciò è sintomatico di una
particolare condizione della donna rispetto alle regole della successione
ereditaria (ma direi anche rispetto ad un’idea di capacità
giuridica più generale) che trova conferma anche nel principio per cui
non fu mai richiesto che la donna dovesse essere diseredata nominatim, ma soltanto inter ceteros, e in quello per cui la
sua preterizione non importava inesistenza del testamento per le regole della
successione pretoria[37]. Si può arrivare quindi alla
seguente conclusione: la donna, grosso modo fino all’ultimo secolo della
repubblica, non ebbe per il ius civile, e
tanto meno per la mentalità dei giuristi, una piena capacità successoria, anche guardando alla sola
capacità di succedere[38].
Nello stesso ordine d’idee dobbiamo porci
anche rispetto alla facoltà di fare testamento[39]. Le persone di sesso femminile, in
linea di principio, non potevano fare testamento senza l’auctoritas
In un contesto sociale di stretta applicazione
della regola della tutela agnatizia, un’unione matrimoniale accompagnata
dalla costituzione di manus poteva
permettere alla donna di rompere il legame con la sua famiglia di origine,
cioè di liberarsi dalla manus paterna
e/o dai parenti in linea maschile del padre (tutori legittimi); e nello stesso
tempo di entrare nella famiglia del marito filiae
loco; quindi, attraverso quest’artifizio probabilmente di matrice
giurisprudenziale[42], consentirle di avere accesso alla
sua successione e stabilire la premessa perchè, una volta diventata
vedova, potesse anche disporre delle sostanze di cui diventava proprietaria[43].
Per descrivere nel migliore dei modi il tipo di
soggettività giuridica che poteva riguardare la fanciulla dell’epigrafe
del Quirinale è forse bene ricordare che a favore della tesi di una
quasi totale incapacità delle persone di sesso femminile per il diritto
romano più risalente c’è anche il dato della sopravvivenza
di altre forme d’incapacità fino all’età imperiale[44]. In campo negoziale, e guardando al
possibile apporto che la donna poteva dare alla gestione della familia, le fonti ci dicono che il
rapporto di soggezione giuridica della mulier
in manu rispetto al marito non impediva – anche con riferimento all’epoca
in cui il marito aveva a disposizione strumenti molto incisivi per controllare
il suo comportamento[45] – che questa potesse
partecipare in modo più o meno paritario alla gestione della domus[46].
Se guardiamo all’esercizio da parte delle
donne di un’attività economicamente rilevante, conseguenza
necessaria della disposizione di un patrimonio, seppure rilevante soltanto in
via di fatto[47], le fonti documentano una
significativa attività negoziale delle donne – nel sistema
economico di mercato dell’età postannibalica – non prima
dell’epoca tardo repubblicana, mentre, abbiamo visto che risale soltanto
al segmento temporale 210/186 a. C., la notizia dell’intervento dello
Stato a favore delle donne per supplire alla mancanza di una figura tutelare
necessaria per la ratifica, sia pure nella maggior parte dei casi meramente
formale, dei negozi compiuti per l’esercizio dei loro affari[48]. Ma tutto ciò riguarda la
figura delle donne in età, direi, medio-tardo repubblicana[49].
Su queste basi, se la questione del riconoscimento
da parte dell’ordinamento di una capacità giuridica per le donne
(e quindi della titolarità di un patrimonio e della sua gestione da
parte di queste) fino alla metà della repubblica si pone con estrema
difficoltà[50], non vedo come possa giustificarsi
un’esistenza molto risalente (età predecemvirale o anche le dodici
tavole) di un istituto giuridico quale la tutela, dal carattere oltretutto
perpetuo, difeso dal gruppo agnatizio al fine di conservare la sua unità
e il suo patrimonio.
4. Segue: l’emersione della tutela mulierum quale istituto giuridico
autonomo.
Si diceva prima
Varro l. L. 7. 12: Tueri duo
significat, unum ab aspectu ut dixi, unde est/ Enni illud …tueor te senex? Pro Iupiter! Et Quis pater aut cognatus volet vos contra tueri?Alterum
a curando ac tutela, ut cum dicimus/bell <um> et villam tueri a quo etiam
quidam dicunt illum qui curat/aedes sacras <a>edituum, non aeditumum; sed
tamen hoc ipsum ab/eadem est profectum origine, quod quem volumus domum curare
/dicimus ‘tu domi videbis’, ut Plautus cum ait: Intus para, cura, vide./Quod opus<t>
fiat. Sic dicta vestis<pi>ca,
quae vestem spiceret, id est/ videret vestem ac tueretur. Quare a tuendo et
templa et tesca dicta/cum discrimine eo quod dixi./
Non quindi, ‘protezione’ o ‘custodia’
come nel senso più tardo dei giuristi (D. 26. 1. 1 pr.: Tutela est, ut Servius definit, vis ac
potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem, sua sponte se
defendere nequit, iure civili data ac permissa). L’interpretazione
varroniana che probabilmente è più vicina all’originaria
radice etimologica
Già da queste poche indicazioni appare
subito chiaro che il termine tutela
nella lingua
In realtà il vocabolo tutela sembra acquistare un significato
più tecnico di ‘protezione’, ‘custodia’ o
‘sorveglianza’ soltanto a partire dalla fine del terzo secolo a. C.
La stessa età presunta (210/186 a. C.) della lex Atilia de tutore dando. Del resto, l’uso della forma
verbale tuere per descrivere la
particolare funzione cui erano preposti gli edili plebei in ordine alla cura e
manutenzione dei cimiteri[54], che è prerogativa
certamente ascrivibile a tale magistratura minore sin dall’età
dell’alta repubblica, appare in una fonte tecnica della tarda repubblica
la quale, evidentemente, in sede di costruzione definitoria dell’istituto
giuridico assimila le funzioni degli edili a quelle dei tutores in un’epoca in cui il carattere prevalentemente
assistenziale dell’istituto è stato ormai recepito
dall’ordinamento[55].
Inoltre, è sempre di quest’epoca
la notizia sicura più risalente che abbiamo sulla tutela mulierum (conferimento della tutoris optio nel SC. de
Bacchanalibus). Curiosamente – ma poi a pensarci, neanche tanto,
visto che il linguaggio comune recepisce sempre in ritardo le innovazioni
linguistiche – nel latino di Plauto i riferimenti giuridici sono ancora
sporadici[56]. Quasi coeva alla lex Plaetoria è
l’introduzione della tutela
Atiliana concessa dai Pretori e i tribuni della plebe, in mancanza di altra
forma di tutela[57]. L’emanazione di questa legge
vale senza dubbio come riferimento temporale per riconoscere il momento
Solo di qualche decennio più recente
è infine la famosa regola muciana riportata nel Digesto, in cui la
precedente unità strutturale
Una lettura senza pregiudizi (mi riferisco
soprattutto all’idea di un’origine decemvirale dell’istituto)
dei vari indizi ricavabili dalle fonti (tecniche e non) giustifica a mio avviso
l’idea di una comparsa tarda della tutela
mulierum come istituto giuridico autonomo. Fino ad una certa epoca, come
ben spiegano i fautori della cd. teoria potestativa[65], la tutela mulierum potrebbe non essere stata altro che la
potestà
Il fenomeno della graduale emersione della tutela mulierum come istituto giuridico
autonomo potrebbe essersi determinato in questo modo. Fino grosso modo
all’epoca di Catone la funzione tutelare gradatamente emersa
dall’antico coacervo potestativo del pater
o del suo successore, potrebbe essere stata contemplata dall’ordinamento
più risalente come il rispetto di un obbligo morale (sotto la vigilanza dei
censori?) dettato dal costume antico, e se vogliamo, anche con una certa
rilevanza giuridica (penso alle espressioni: muliebria iura, sanctius
habuere).
In questo senso credo si possano interpretare i
due famosissimi passi di Catone in Gell. 5. 13. 4: maiores sanctius habuere defendi pupillos quam clientem non fallere
e Liv. 34. 2. 11: Maiores nostri nullam,
ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu
esse parentium, fratrum, virorum.
Il primo va letto insieme a Gell. 5. 13. 5: Masurius autem Sabinus in libro iuris
civilis tertio antiquiorem locum hospiti tribuit quam clienti. Verba ex eo
libro haec sunt: «In officiis apud maiores ita observatum est, primum
tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini. Come si vede, nell’opera iuris civilis di Masurio Sabino, la
tutela sembrerebbe presentare chiaramente i tratti di un istituto giuridico. Il
secondo passo va letto insieme (sarebbe sempre una citazione testuale di
un’orazione di Catone) a Liv. 34. 3. 1: Recensete omnia muliebria iura quibus licentiam earum adligaverint
maiores vestriper quaeque subiecerint viris.
Dalla fine
E’ arrivato il
momento di concludere. Con tutto il rispetto dovuto ad un grande accademico
come il Dumézil, costituisce un argomento molto forte contro la sua
proposta ricostruttiva. L’istituto così come viene descritto dalle
fonti più tarde è senz’altro espressione di una
società e di una cultura giuridica che non può essere quella del
settimo/sesto secolo a. C.
Devo ripetermi. Anche se superassimo i problemi
di natura linguistica connessi all’interpretazione dumeziliana
dell’iscrizione del Quirinale[67], l’assunto che vorrebbe per
quest’epoca (stiamo parlando di età predecemvirale)
l’esistenza della tutela mulierum nel
senso dell’istituto giuridico, sarebbe di difficile dimostrazione.
5. L’esercizio della funzione tutelare e il consortium ercto
non cito.
Esposta, spero con sufficiente chiarezza, la
mia idea sulla prima emersione della tutela (mulierum) quale istituto giuridico autonomo verso la fine del terzo
secolo a. C., mi chiedo in che misura può condividersi l’ipotesi
dell’esistenza di una forma di tutela esercitata collettivamente, di una
sua natura potestativa – soprattutto, e con particolare riguardo,
all’età predecemvirale[68]-, e in che modo gli agnati (o i gentiles), successori del de cuius, potessero eventualmente
subentrare nella potestas del paterfamilias scomparso.
La domanda è a mio avviso pertinente al
tema che stiamo trattando perchè l’epigrafe del Quirinale, anche
scartando l’ipotesi del Dumézil, potrebbe comunque evocare uno
scenario di questo tipo (mi riferisco agli eventuali destinatari
Siamo evidentemente in una situazione diversa
da quella
Risalendo indietro nel tempo, per individuare i
primi modi di manifestazione di tali funzioni in eta predecemvirale, possiamo
riferirci, in alternativa alle successioni di tipo individuale, allo schema del
consortium – sulla cui
risalenza fino ad età predecemvirale nessuno può seriamente
dubitare – che pone, insieme alle fasi più risalenti della
successione legittima, la questione della successione nelle prerogative del pater familias scomparso in termini di
successione collettiva. E’ forse questo, sotto il profilo della
potenzialità probatoria
Il Franciosi è ritornato più
volte sul tema della tutela (e cura) collettiva di agnati e gentiles ponendolo a confronto proprio
con il problema dell’esercizio e della titolarità della potestas da parte dei fratres nel consortium ercto non cito. Ometto di riportare i noti frammenti
Il Bretone,
ritiene che nel consortium ercto non
cito la posizione dei fratres sui fosse
comprensiva, oltre che della posizione patrimoniale, anche di quella personale.
I fratres, cioè, sarebbero
stati portatori di una sorta di potestas ‘circolante’
su persone e cose[76]. Senza arrivare a questo estremo,
l’ipotesi formulata di recente dal Franciosi – alla quale, mi pare,
l’autore sia giunto non senza approfondita riflessione[77] – appare, allo stato delle
fonti, la più plausibile[78].
Lo schema ricostruttivo che più in
generale vede nella posizione
Ritornando al tema della discussione, è
possibile che proprio nel regime del consortium
ercto non cito, finalizzato in età storica alla conservazione
dell’integrità del peso economico (e quindi sociale e politico)
del gruppo familiare indiviso rappresentativo della discendenza del pater, sia possibile rinvenire le prime
tracce di emergenza di una cosiderazione del rapporto tutelare (sia pure
esercitato in via fattuale) in termini potestativi[84]. La questione non è
così semplice perchè, ad esempio, il Burdese tende ad escludere
la possibilità che vigente il regime
Se guardiamo alla comunione solidale dei fratres come espressione di una
potestà allargata dal carattere non esclusivamente patrimoniale,
potremmo individuare con sufficiente approssimazione il possibile momento in
cui la prassi dell’esercizio delle funzioni tutelari cominciò ad
acquistare anche un rilievo potestativo. Ma si tratta, con tutta
probabilità, di una fase ancora embrionale per il costituendo ordinamento
romano arcaico[86].
Anche sotto questo profilo la ricostruzione del
Dumézil che vedrebbe già per l’età predecemvirale
l’esistenza di una tutela che fosse espressione, sia pure in forma
affievolita, della potestà
Si diceva prima che un’eco di questa
realtà sarebbe forse rintracciabile ancora nel frammento catoniano
riportato da Gellio 5. 13. 4. Tale giurista definisce la difesa (=cura,
assistenza, etc.) dei pupilli come un ufficio dall’altissimo valore
morale (Gellio, come è noto, inserisce questa citazione in un paragrafo
intitolato De officiorum gradu atque
ordine moribus populi Romani observato) e nello stesso tempo sembra volerlo
qualificare anche come un precetto giuridico maiores sanctius habuere.
Come ho cercato di dimostrare siamo però
ancora lontani dal vero e proprio istituto giuridico. Mi pare si possano
infatti agevolmente notare già delle significative differenze rispetto
al modo di trattare l’istituto della tutela da parte delle fonti tecniche
della fine della repubblica. Inoltre, avrei qualche riserva sulla completa attendibilità
della testimonianza liviana almeno sotto il profilo della sua fedeltà al
dato testuale. Il tenore spiccatamente retorico
6. Tutela ed esercizio fattuale della funzione tutelare.
Sto ipotizzando un esercizio in via di fatto
(come manifestazione di potestas) di
una funzione tutelare nella sua fase più risalente (pregiuridica) da
parte dei consortes. La
società romana, anche in avanzata età storica, ha conosciuto
forme di tutela diverse dalla tutela in senso giuridico ma non meno rilevanti
in via di fatto per la gestione di taluni rapporti interpersonali. Queste si
basavano sul rapporto preferenziale esistente tra soggetti legati da
particolari legami di natura familiare o sociale. Si tratta certamente di
qualcosa di non estraneo alla cultura romana se, ancora in età storica,
pur essendo ancora in vigore (sia pure in fase di netta decadenza) il regime
giuridico della tutela mulierum, le
fonti ne offrono una chiara dimostrazione. Credo che non sia un’illazione
pensare che situazioni di questo tipo potessero avere eguale (se non maggiore)
rilevanza in epoca in cui la tutela non era ancora in vigore.
Perché non guardare anche alle forme di
tutela collettiva sopravvissute in età storica per capire la consistenza
di quelle più antiche come quella che poteva essere esercitata
nell’ambito
L’idea di una tutela collettiva degli
individui
Un esempio molto calzante, anche se da valutare
in senso molto relativo, si rinviene invece in un passaggio di Seneca[92]:
Sen. de
consol. ad Marcia 24. 1: Incipe virtutibus illum, non annis aestimare:
satis diu vixit. Pupillus relictus sub tutorum cura usque ad quartuum decimum
annum fuit, sub matris tutela semper.
Siamo di fronte ad una duplicazione di fatto di
una gestione tutelare. Da un lato rileva una tutela reale esercitata di fatto
da una madre nei confronti di suo figlio (sub
matris tutela semper); dall’altro quella meramente formale spettante,
ovviamente, ai legittimi tutori (Pupillus
relictus sub tutorum cura usque ad quartuum decimum annum fuit). Non vorrei
che mi si fraintendesse. Il contesto retorico in cui va collocato il discorso
di Seneca non consente di andare molto lontano. Tuttavia l’immagine
fornita dal precettore di Nerone aiuta molto bene a descrivere l’idea che
a mio parere sarebbe possibile farsi della funzione tutelare durante la sua
fase più antica[93].
Sulle possibili finalità
dell’esercizio collettivo della funzione esercitata in via di fatto da
parte dei fratres (agnati o gentiles) in sostituzione
О.САККИ
VIRGO
КВИРИНАЛА И TUTELA
MULIERUM:
ГИПОТЕТИЧЕСКАЯ
РЕКОНСТРУКЦИЯ
(РЕЗЮМЕ)
Толчком
к написанию
этого
краткого
исследования
послужило
открытие в
тексте Квиринальской
надписи
слова virco.
Одна из самых
авторитетных
гипотез об
историческом
и социальном
значении
Квиринальской
находки была
сформулирована
Жорж Думецил,
который
считает, что
во второй
части первой
графемы
надписи
можно выделить
слоговую
группу toitesiai и
распознать в
ней
технический
термин, означающий
институт tutela mulierum в
древнейшем
значении potestas. Даже
если Думецил
и прав, у нас
есть прямое
подтверждение
существования
формы опеки в
Риме в период
до
децемвиров (кроме
всего
прочего, в
силу гораздо
более древнего
свидетельства
об этом
институте, описываемом
юристами
начиная с
конца республики).
Вне
зависимости
от всякой
оценки лингвистического
характера, а
также
рассматривая
этот вопрос,
обращаясь
только к tutela mulierum,
различные
факторы
заставляют
думать, что еще
до того, как
исполнение
опекунских
функций
определилось
собственно
как правовой
институт в
смысле,
описанном Кв.
Муцием и
Сервием
Сульпицием
Руфом, и дало
повод к longa disputatio, следы
которой мы
находим в Gai 1.188, она
могла
прожить
длинную
подготовительную
фазу
(неписанного
закона?), которую
можно
определить в
рамках схем
юридически
узнаваемых,
но лишь
косвенно (наследник
и опекун)
сводимых к
настоящему
осуществлению
potestas.
Обособление
и
юридическая
разработка
института
опеки в узком
смысле слова,
должно быть,
произошло
лишь
впоследствии.
Вероятно, это
произошло
именно в
результате
перехода от
действительности
«неписанного
права» к
другой, более
поздней, «кодифицированного
права». Кроме
того, чтобы
оценить
достоверность
гипотезы о
наличии tutela mulierum в
римском
правопорядке
уже в VII-VI в.в. до
н.э.,
необходимо
также
учитывать
проблему
признания за
женщинами
завещательной
способности
до
определенного
периода, то
есть до эпохи
ранней
республики.
Если
сопоставить
эти данные с
идеей о том,
что до
определенного
времени
действовал
принцип
идентичности
наследника и
опекуна
(основанной,
кроме
прочего, на
литературных
свидетельствах
и не просто
теоретических
или
предположительных)
и с тезисом,
принятым
большинством
исследователей,
согласно которому
ratio
tutela mulierum
состояла в
необходимости
оберегать
целостность
(социальную,
имущественную
и юридическую)
агнатской
группы,
складывается
картина,
которая не
позволяет
согласиться
с решением, к
которому склоняется
Думецил.
В
этом кратком
исследовании,
которое я посвящаю
памяти
Дженнаро
Франчози,
написанном
для номера
журнала Ius Antiquum,
посвященного
ему, изложены
аргументы,
которые, по
мнению
автора,
опровергают
тезис
Думецила и, в
то же самое
время,
предложена
гипотеза
реконструкции
юридического
положения
женщины в
Риме, которая
является
плодом почти
двадцатилетнего
наставничества
моего
учителя
Дженнаро
Франчози.
[1] J. Poucet, Réflexions sur l’écrit
et l’écriture dans
[2] Al di là della possibilità concreta d’individuare
nel famoso passo di Livio (1. 34. 12) sulla tutela dei figli di Anco Marcio un
riferimento attendibile per il riconoscimento della presenza della tutela a
Roma in età predecemvirale e nonostante gli sforzi compiuti in tale
direzione da un autorevole studioso come V. Arangio
Ruiz, Istituzioni di diritto romano14 (Napoli 1960=rist. 1998) 494, nt.
1; Id., Erede e tutore, in Rariora (Roma
rist. 1970) 151 ss. L’unica fonte cui la dottrina riconosce un certo
grado di plausibilità è un famosissimo passaggio di Plutarco tratto
dalla vita di Numa a proposito dell’esenzione dalla tutela per le
Vestali. Secondo Plutarco (Numa 10.
5) risalirebbe all’età regia la norma sull’esenzione dalla
tutela delle Vestali. Al di là della sicura risalenza di tale principio
normativo, dubbi notevoli restano sull’attendibilità in generale
di tale fonte e sulla sua attitudine a costituire da sola una valida
dimostrazione circa la paternità della norma e l’epoca in cui
sarebbe stato per la prima
[3] F. Gallo, Osservazioni sulla signoria
[4] Questa idea sembrerebbe confortata da indizi di vario
genere. In primo luogo il dato etimologico, dato che il termine tutela non sembra originario. E’
molto probabile infatti che il significato più risalente del vocabolo
fosse ‘guardare’ o ‘osservare’ nell’accezione di
Varrone e non ‘protezione’ o ‘custodia’ come nel senso
più tecnico, e tardo, dei giuristi. Cfr. G. Franciosi, Famiglia e
persone3 79. Nè sembra
originario il carattere assistenziale che qualifica l’istituto in
età classica. In secondo luogo, le difficoltà di riconoscere nel
ruolo svolto dagli agnati e dai gentili (gli antichi consortes) nei confronti degli orfani incapaci, uno spazio autonomo
per qualsiasi forma di tutela autonomamente identificabile in senso giuridico
se non altro per effetto dell’incidenza
[5] Per la verità segnali in questo senso già venivano
dall’esame comparato di altre esperienze giuridiche coeve. Ad esempio il
diritto di Caronda, che F. De Martino, Storia della costutuzione romana 1 (
[6] V. infra.
[7] Cfr. sul punto G. Franciosi,
Famiglia e persone3 86 ss. Mi
permetto di rinviare sul punto anche a O. Sacchi,
L’antica eredità e la
tutela. Elementi a favore del principio di identità, in corso di
stampa per la rivista Studia et Documenta
Historiae et Iuris (Roma 2002).
[8] Cfr. da ultima L.
[9] La tutela mulierum potrebbe
aver trovato accesso nell’ordinamento giuridico romano in uno spazio
temporale intercorrente tra l’età delle XII tavole e i libri tres iuris civilis di Q. Mucio.
L’istituto sembra già conosciuto da Catone come sembrerebbero
attestare Liv. 34. 2. 11 e Gell. 5. 13. 4 (ma v. infra). Un ruolo di primissimo
piano per la divulgazione del diritto civile ‘laicizzato’
può averlo svolto anche Elio Stilone Preconiano, maestro di Cicerone e
Varrone, anche lui autore di un commento alle XII tavole, forse quello che
aveva imparato a memoria Cicerone. Cfr. Cic. Brut. 56; Rhet. ad Herenn. 4. 12.
[10] Mi permetto di rinviare sul punto a O. Sacchi, Il privilegio
dell’esenzione dalla tutela per le vestali. (Un’ipotesi di
interpretazione formatrice in Gai. 1. 145) Elementi per una datazione tra
innovazioni legislative ed elaborazione giurisprudenziale, in corso di stampa per la Revue internationale des droits de
l’Antiquité di Bruxelles.
[11] Seguo A. Guarino, Notazioni romanistiche. II La «lex XII tabularum» e la
«tutela», in Studi
Solazzi (Napoli 1948) 35=Le Origini
Quiritarie (Napoli 1973) 237 ss. Anche A. Guarino,
Diritto Privato Romano11 (Napoli 1997) 623 ss. quando afferma
che soltanto in epoca postdecemvirale, formatosi il concetto della
incapacità di agire, agli impuberi e alle donne sarebbe stata
riconosciuta la capacità giuridica e quindi la posizione di persone sui iuris. Così anche E. Costa, Cicerone giureconsulto2 (Roma
rist. 1964) 71, per il quale, il distacco dalla potestas familiare e la corrispondente denominazione di tutela sarebbero fenomeni verificatisi
non all’età decemvirale ma al tempo della creazione della tutela
dativa.
[12] Cfr. L.
[13] Sul significato dell’espressione ius civile in Pomponio v. in part. con bibl. ult. M. Bretone, Publius Mucius et Brutus et Manilius 5.
[14] Sulla condizione della donna a Roma v. con bibl. e fonti G. Franciosi, Famiglia e persone3 36 ss.
[15] Contro tale impostazione ha senz’altro influito un certo
pregiudizio su una presunta ‘primordialità’ o arretratezza
del diritto romano arcaico alimentato da posizioni certamente eccessive e
preconcette come questa di G. Bonfante,
Il nome della donna 7: «In
realtà la mancanza di nome significa mancanza di capacità
giuridica, inferiorità enorme; è qualcosa di antichissimo, di
primitivo, di barbàrico, come primitiva e barbàrica è
tutta la legislazione romana dei tempi regii e dei primi sècoli della
Repubblica (senza esclùdere del tutto i sècoli
posteriori)». E’ sempre difficile condividere giudizi così
generalizzanti senza un’attenta riflessione. Soltanto a titolo di
esempio, basti dire che nei codici mesopotamici la teoria
[16] E. Peruzzi, Origini di Roma I. La famiglia (Firenze 1970) 55 e 57 ss., deduce questo anche dal
riscontro di una serie di attestazioni epigrafiche rinvenute nel cimitero di
Preneste. Le epigrafi sono datate dal IV al II secolo a. C. ma v. la critica di
G. Bonfante, Il nome delle donne nella Roma arcaica, in RAL. 35 (Roma 1980) 6, nt. 9. Sul
punto v. I. Kajanto, Onomastique latine (Paris 1977) 148 ss.;
W. Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen (Berlin-Zürich rist. 1966) 49. Cfr. sul punto ampiamente anche G. Franciosi, Clan
gentilizio e strutture monogamiche6, cit., 89 ss.; Id., Preesistenza della
‘gens’ e ‘nomen gentilicium’, in G. Franciosi (a cura di) Ricerche sulla organizzazione gentilizia
romana 1 (Napoli 1984) 3 ss.
[17] Chiaramente in tal senso W. Schulze,
Zur Geschichte lateinischer Eigennamen
(Berlin-Zürich rist. 1966) 49, nt. 5 che
parla esplicitamente di regola giuridica.
[18] E. Peruzzi, Origini di Roma 106. Contra Th. Mommsen, Römischen Forschungen I (Berlin 1864) 33.
[19] Cfr. G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche6
97. Sulla detestatio sacrorum v. M. Careddu, La ‘sacrorum detestatio’ nel diritto romano, in St. Fadda 1 (
[20] Per la arrogazione delle donne in età classica
v. con ampio ragguaglio di fonti e critica C. Fayer,
La familia romana. Aspetti giuridici ed
antiquari I (Roma 1994) 306 ss. Sul problema della coëmptio sacrorum interimendorum causa v. con bibl. e fonti L.
[21] Condivido l’impostazione di I. Piro,
Usu in manum convenire (Napoli 1994)
156 e 157, dove si mette in evidenza la rilevanza della volontà della
donna di essere nupta e
[22] O. Sacchi, Il privilegio dell’esenzione dalla
tutela per le Vestali, cit., passim.
[23] Senonchè in Plut. Popl. 12.
3 lo storico riferisce di un’esenzione per vedove ed orfani dalle liste
dei soggetti tenuti all’imposta per la costituzione dell’aerarium Saturni. Lo stesso Plut.
[24] Cic. de rep. 2. 20. 36: Atque etiam Corinthios video publicis equis
adsignandis et alendis orborum et viduarum tributis fuisse quondam diligentis.
[25] Liv. 1. 43. 9: viduae attributae
quae bina milia aeris in anno singulos penderent.
[26] Gai. 4. 27: Item propter eam
pecuniam, ex qua hordeum equis erat comparandum; quae pecunia dicebatur aes
hordiarium.
[27] V. retro in nt.
[28] La teoria potestativa difesa dalla dottrina dominante è accolta
senza riserve dal Dumézil, che si appoggia all’autorità di
P. F. Girard, Manuel élémentaire de Droit
Romain (Paris 1911) 204 ss., nt. 2. La teoria funzionale, risalente alla
seconda metà degli anni settanta, è formulata da P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 1.
145 ss. Studi
sulla tutela mulierum passim; Id., Quelque observations
sur la tutelle aus femmes à
[29] Da ultima E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a
Sulpicia (Milano 1996) 64. Ma v. anche E. Cantarella,
La vita delle donne, in Storia di Roma 4 (Torino 1989) 600; J. Crook, Women in Roman Succession, in The
Family in ancient
[30] G. Franciosi, Usucapio pro herede 74 ss.
[31] Plaut. Bacch. 975 ss.; Cic. ad fam. 7. 29. 1; pro
[32] Sono questioni già ampiamente discusse secondo la prospettiva
che condivido in G. Franciosi, Famiglia e persone3 36 ss., 79 ss.; L.
[33] Nella scia del P. Bonfante,
Corso di diritto romano. 5 (Milano
1930) 96, ma con nuove argomentazioni: G.
Franciosi, Corso istituzionale2 253;
A. Manzo, Un’ipotesi sull’origine della dote, in Index (
[34] Sul punto A. Del Castillo, La emancipacion de la mujer romana en el siglo I D. C. (
[35] Gai. 3. 46–50; Ulp. 29. 6–7.
[36] Una conferma quindi dell’impostazione di G. La Pira,
La successione ereditaria intestata e
contro il testamento in diritto romano (Milano 1930) 174 che già
negli anni trenta correttamente negava ogni prerogativa successoria per le
donne riconducibile alle origini
[37] Gai. 2. 124: Ceteras vero
liberorum personas si praeterierit testator, valet testamentum, ásedñ praeteritae istae
personae scriptis heredibus in partem adcrescunt, si sui heredes sint, in
virilem, si extranei, in dimidiam. Id est si quis tres verbi gratia filios
heredes instituerit et filiam praeterierit, filia adcrescendo pro quarta parte
fit heres, et ea ratione idem consequitur, quod ab intestato patre mortuo
habitura esset; at si extraneos ille heredes instituerit et filiam
praeterierit, filia adcrescendo ex dimidia parte fit heres.
[38] Quest’impostazione si raccorda anche con l’opinione di una
autorevolissima corrente dottrinale che ritiene che la potestà degli
agnati e dei gentili si sarebbe venuta configurando alla stregua di una tutela
– con la conseguenza che quindi anche alle filiaefamilias si sarebbe riconosciuta la possibilità di
divenire sui iuris alla morte del pater – solo nel corso dello
sviluppo storico, con l’affievolirsi dei vincoli agnatizi e gentilizi.
Cfr. sul punto G. La Pira, La sostituzione pupillare, in St.
Bonfante 3 (Milano 1930) 293 ss.;
Id., La successione ereditaria intestata e contro il testamento (
[39] Molto acutamente il E. Costa,
Cicerone giureconsulto2 68 ravvisava in Cic. top. 4. 18 elementi indicativi per
comprendere l’esatta dimensione di questa prerogativa secondo la dottrina
prevalente tra i giuristi dell’ultimo scorcio della Repubblica.
[40] V. infra, ntt. e.
[41] In tale contesto inquadrerei la coëmptio
matrimonii causa, che appare indubbiamente come strumento di determinazione
di un passaggio di status (conventio in
manum) per la donna, omologo alla captio
della Vestale e, negli effetti, alla confarreatio
per la flaminica. Tale strumento
negoziale trova la sua migliore collocazione proprio nel sistema giuridico
medio repubblicano, rappresentando, tra gli altri, forse il mezzo principale
– in alternativa all’unione matrimoniale senza immediata
costituzione di manus (situazione
che, fra l’altro, in base al meccanismo della trinocti usurpatio poteva anche restare durevole) che
dall’età della tarda repubblica produceva l’effetto di
separare il patrimonio della donna da quello del marito. Sul trinoctium ampia bibl. e discussione in
I. Piro, «Usu» in manum convenire 15 ss. Pur consapevole
dell’esistenza di opinioni discordanti v. A. Watson, The origins of
usus, in RIDA. 23 (Bruxelles
1976) 270 e nt. 28, interessante è la collocazione della nascita di tale
istituto in epoca postdecemvirale come frutto dell’ingegno interpretativo
dei giuristi. Aderisco alla posizione di B. Biondo,
«Farreo coemptione usu»,
in Sodalitas 3 (Napoli 1984) 1307 per
la quale il momento della nascita di tale istituto in età compresa tra
la fine del quarto e gli inizi del secondo secolo a. C. Molto interessante
l’idea di C. S. Tomulescu, Gaius 1, 111 und die Ehe usu, in Festgabe von Lubtow (Berlin 1970) 406
ss. che ritiene la trinocti usurpatio un
espediente modellato sul precedente del trinoctium
del flamen, introdotto in
età tardo repubblicana per favorire la condizione delle donne ricche di
Roma- mediante il quale le donne comuni, di fatto, potevano collocarsi in un
ordinamento giuridico che le vedeva per definizione escluse, già dalla
regolamentazione decemvirale, dalle regole della successione testamentaria. Gli
strumenti a disposizione per conseguire tale effetto sono dettagliatamente
descritti in Gai. 1. 114 dove la coemptio,
che non appare prerogativa
esclusiva del rapporto tra marito e moglie (Potest
autem coemptionem facere mulier non solum cum marito suo, sed etiam cum
extraneo), viene classificata quale negozio indiretto (modificativo di status) a causa variabile (scilicet aut matrimonii causa facta coemptio
dicitur aut fiduciae), dove la causa matrimoniale è in rapporto di species a genus. Cfr. E. Volterra, Nuove ricerche 305 ss. Sul piano funzionale, il giurista inserisce
l’istituto nella categoria delle alterius
generis successiones (Gai. 3. 82), attribuendone la paternità al
diritto unanimemente riconosciuto (eo
iure quod consensu receptum est introductae sunt) ed escudendo implicitamente
un origine decemvirale o edittale della sua disciplina (quae neque XII tabularum neque praetoris edicto). Sul punto R. Ambrosino, Successio in ius – Successio in locum – Successio 180.
Il diritto romano conosceva altre forme di coemptio:
per le sue varie applicazioni, v. Gai. 1. 114, 115, 115a. Sulla coëmptio fiduciaria B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano (
[42] F. Lamberti, Studi sui «postumi»
nell’esperienza giuridica romana (
[43] Giunge alla stessa conclusione A. Romano,
Matrimonium iustum 81 ss., tuttavia
affrontando la questione da un altro punto di vista. Guardando, cioè,
alla posizione
[44] Sguardo d’insieme in E. Cantarella,
Storia delle donne 596 ss.
Sull’incapacità di adottare Gai. 1. 104; 1. 103; Gell. 5. 19. 9;
5. 19. 7. La prima
[45] Cfr. Plut. Rom. 22. 3; Plin. n. h. 14. 13. 89; Gell. 10. 23. 5. Per la dottrina G. Franciosi,
Clan gentilizio e struture monogamiche6 38 ss.; Id., Famiglia e persone3
30 ss.; P. Giunti, Adulterio e leges regiae. Un reato tra
storia e propaganda (Milano 1990).
[46] Sul punto v. Colum. r.r. 12 praef. 7–8; Dion. 2. 25. 5. Uno
studio interessante sull’apporto economico della donna sotto la manus
[47] Certamente la donna sposata poteva disporre di beni personali. Si
tratta di ciò che le fonti definiscono res extra dotem. Fonti atecniche ne testimoniano l’esistenza
anche in età repubblicana: Gell. 17. 6; Liv. 41. 29. Tali beni venivano
amministrati direttamente dalla donna o da persona di sua fiducia. A volte, non
infrequentemente, il marito. Comprendevano oggetti di uso comune che la donna
portava con sé nella casa coniugale e di essi si redigeva un inventario
sottoscritto dal marito (D. 23. 3. 9. 3). Se filia familias, i cd. beni extra dotali integravano il peculium che in genere il padre forniva
loro in prossimità
[48] Questo provvedimento era necessario certamente per le vedove e le
figlie ereditiere prive di tutore testamentario. Ma si deve comunque
presupporre una capacità di accesso alla successione legittima
[49] Indipendentemente da come si voglia intendere il significato storico
della lex Voconia, ossia come prima
apertura verso la condizione giuridica delle donne, ovvero come significativa
riduzione di una capacità successoria più ampia, si tratta
comunque di un provvedimento normativo del 169 a. C. Sulla questione v. con
bibl. L. Monaco, Hereditas e mulieres 185 ss.
[50] Mi riferisco alla nozione di incapacità di agire e non a quella
di mancanza di soggettività giuridica. Sul punto v. retro.
[51] Lo scarto tra i valori semantici dei due termini, derivanti dalla
stessa radice (tueor), è ben
evidenziato anche in un testo giuridico: D. 26. 1. 1–3 (Paul. 38 ad ed.): Tutela est, ut
Servio definit, vis ac potestas in capite libero ad tuendum eu, qui propter
aetatem sua sponte defendere nequit, iure civili data ac permissa. Tutorers
autem sunt qui eam vim ac potestatem habent, exque re ipsa nomen ceperunt:
itaque appellantur tutores quasi tuitores atque defensores, sicut aeditui
dicuntur qui aedes tuentur che a mio parere dimostra il nesso strettissimo
tra la formazione culturale giuridica di Servio e l’opera di Varrone.
L’etimologia di Varrone si appoggia sull’autorevolezza di due
autori molto antichi quali Ennio e Plauto e,
[52] Fest. sv. Terminio (L. 505,
19–21).
[53] E. Costa, Cicerone giureconsulto2 72. Un segno
evidente del successivo allargamento semantico del significato di tale vocabolo
si coglie nel tardo Gellio, in cui il sostantivo tutor, vien fatto derivare direttamente dalla forma verbale tuendo, evidentemente inteso nel senso
più specifico di ‘custodire’: Gell. 12. 3. 4: Nam sicut a ‘ligando’
‘lictor’, et a ‘legendo’ ‘ lector’ et a
‘viendo’ ‘vitor’ et ‘tuendo’
‘tutor’ et ‘struendo’ ‘structor’ productis,
quae corripiebantur, vocalibus dicta sunt.
[54] Cfr. M. Morel, Le «sepulchrum». Etude de Droit
Romain, in AUG. 5 (1918) 103.
[55] D. 26. 1. 1. 1 (Paul. 38 ad ed.): Tutores autem sunt, qui eam vim ac potestatem habent: ex qua re ipsa
nomen coeperunt: itaque appellantur tutores, quasi tuitores atque defensores,
sicut aeditui dicuntur qui aedes tuentur. Cfr.
retro nt.
[56] A parte l’uso generico riscontrabile in Plaut. Aul. 429–430 (Quid tu, malum, curas/ utrum crudum an coctum ego edim, nisi tu mi es
tutor?); Trin. 870 (ecquis his foribus tutelam gerit?); e Truc. 254–255 (huic tutelam ianuae gerit?). Scarsi ed
imprecisi riferimenti giuridici – con qualche accenno anche al lato
patrimoniale – si rilevano in: Trin.
139 (crede huic tutelam: suam melius rem gesserit); Truc. 859 (video eccum qui amans tutorem med optavit suis bonis); Truc. 967 (Veneris causa adplaudite: eius haec in tutelast fabula); e Vidul. 23 (Quáid tñu istuc curas? an mihi tutor additu’s ?). Viceversa, nella maggior parte dei casi, il termine tutela sembra utilizzato nel senso di
‘aiuto’, ‘appoggio’, senza alcun valore giuridico.
Ciò potrebbe significare che nell’età di passaggio tra gli
anni della seconda guerra punica e quelli delle conquiste orientali, nel
linguaggio comune, l’uso
[57] G. Rotondi, Leges publicae populi romani
(Hildesheim-Zürich-New York rist. 1990)
275, v. anche 333 e 439.
[58] Si occupa della tutela, in
uno dei suoi capita, anche la lex Cincia de doniis et muneribus del
204 a. C., su cui v. G. Rotondi, Leges publicae populi romani 261.
[59] Non sono un mistero i fattori che spinsero il legislatore
all’introduzione di questa rivoluzionaria riforma degli istituti
tutelari. Ragguaglio completo della dottrina in P. Zannini, Studi sulla
tutela 2. 12, nt. 15. L’intervento legislativo che ne
ridisegnò lo schema disciplinatorio, ritagliò uno spazio autonomo
per una funzione, certamente presente nei mores
arcaici, ma credo senza la forza e la dimensione di una prerogativa
giuridica a sè stante. Per restare nell’ambito specifico della
tutela
[60] Questo dato è confortato da una citazione di Cicerone che
già attesta un uso tecnico
[61] Nel quadro rivoluzionario e radicalmente innovativo della nuova
società mercantile prodotta dall’esito felice delle guerre
puniche, il vecchio sistema imperniato (sugli antichi schemi agro-pastorali e)
sull’identità tra la figura dell’erede e del tutore e sulla
natura potestativa di ogni forma di controllo sulle persone alieni iuris, si dovè dunque
rivelare incapace di accogliere le nuove dinamiche negoziali rispetto alle
quali il ruolo degli impuberes e
soprattutto delle mulieres si
presentava decisamente mutato. L’osservatorio plautino a mio avviso,
sotto questo profilo, assume un rilievo emblematico. Proprio in questo quadro
– la costruzione dogmatica dei giuristi è sempre più lenta
rispetto alla pratica quotidiana e alle innovazioni legislative –
collocherei la celebre definizione di Servio, ultimo tassello
[62] Sul punto v. B. Albanese,
Le persone nel diritto privato romano
443; G. Franciosi, Famiglia e persone3 83, nt. 117.
[63] G. Franciosi, Famiglia e persone3 83, ritiene possibile che in origine, fino al momento della
trasformazione della tutela da funzione potestativa a munus assistenziale, tutore legittimo
[64] La teoria dell’identità tra erede e tutore fu, come
è noto, per la prima
[65] V. ampio ragguaglio in C. Fayer,
La familia romana 389.
[66] Cfr. con ampio ragguaglio bibl. in G. Franciosi, Famiglia e persone3 91 ss.
[67] Cfr. in part. F. Marco Simón – G. Fontana Elboj, Sponsio matrimonial 231.
[68] Sul punto P. Zannini, Studi sulla tutela 1. 175, nega che i
decemviri possano aver statuito sulla tutela
mulierum testamentaria. Per questi, il regolamento normativo descritto da
Gai. 1. 144, sarebbe infatti soltanto il portato di un successivo sviluppo
storico, a seguito del quale, la giurisprudnza avrebbe esteso alla tutela del
sesso una disciplina prevista in origine solo per la tutela
dell’età. Pertanto, le origini di tale istituto, lungi dal
collegarsi all’ ordinamento più risalente, sembrerebbero piuttosto
identificarsi nell’attività creativa della giurisprudenza
pontificale (Studi sulla tutela 2.
104), quindi in ogni caso di età postdecemvirale. Lo stesso Zannini poi
afferma l’esistenza ab origine
della tutela legitima mulierum
individuando, come argomento più assorbente, il divieto di
usucapibilità da parte di terzi delle res mancipi alienate dalla donna senza l’auctoritas tutoris, che Gaio circoscrive alle sole ipotesi di
tutela legittima: Gai. 2. 47: Item olim
mulieris, quae in agnatorum tutela erat, res mancipi usucapi non poterat.
Una conferma ci viene da un famoso passo di Cicerone (ad Att. 1. 5. 6): De Tadiana re mecum Tadius locutus est te
ita scripsisse, nihil esse iam quod laboraretur, quoniam hereditas usu capta
esset. Id mirabamur te ignorare, de tutela legitima, in qua dicitur esse
puella, nihil usu capi posse. Cfr. Cic.
pro Flacco 34. 84; Gai. 1. 192; 2. 122. Cfr. anche T. C. de Lima,
A tutela e a Patria Potestas no direito
romano (Milano 1949) 34 ss. Sul consortium
in età predecemvirale L.
[69] G. Franciosi, Gentiles familiam habento. Una riflessione
sulla cd. proprietà collettiva gentilizia, in G. Franciosi (a cura di), Ricerche sull’organizzazione
gentilizia romana 3 (
[70] L’affermazione della auctoritatis
interpositio quale prerogativa del tutore sull’attività
negoziale dei minori ultrasettenni sembra affermarsi nella cultura giuridica
proprio verso la fine del III secolo a. C. Sul rapporto tra concetto di auctoritas e quello di garanzia cfr. G. Franciosi, «Auctoritas» e «usucapio» (
[71] Interessante la tesi di P. Bonfante,
Corso di diritto romano 1. 553 per
cui storicamente la tutela mulierum risulterebbe
il tipo di tutela più arcaico. A sostegno della diversità di
struttura della tutela mulierum
rispetto alla tutela degli impuberi lo Zannini adduce un argomento a mio avviso
convincente: ancora in età classica la tutela legittima delle donne,
diversamente da quella dell’età, spettava anche ad un impubere, ad
un pazzo o a un muto. Cfr. Gai. 1. 178; 1. 179; 1. 180; Ulp. 11. 20; 11. 21.
Interessante rilevare da questi testi, che in sostanza stabilivano secondo la lex Iulia de maritandis ordinibus la
possibilità per la donna di chiedere un tutore dativo (anche esistendo
un tutore legittimo impubere, pazzo, o muto) per costituire la dote a fini
matrimoniali, il contrasto esistente di fatto tra la vecchia concezione della
tutela (legittima) e la nuova concezione della tutela dativa, più
pragmaticamente finalizzata a favorire la donna nella sua attività
giuridica. Un’altra differenza significativa riguarda la
possibilità per il tutore legittimo di in iure cedere tutela. Facoltà consentita al tutor legitimus della mulier e non al tutor legitimus impuberum. Sul
punto v. Gai. 1. 168; Ulp. 11. 8. Con bibl. part., v. G. Franciosi, Famiglia e persone3 83.
Inoltre, l’impubere era un potenziale paterfamilias,
la fanciulla no. La tutela impuberum
si afferma nel ius civile romano
della tarda repubblica come un munus assistenziale,
la tutela mulierum, contrariamente a
quanto pensano alcuni studiosi, mi pare evidenziarsi più come un
meccanismo volto a formalizzare la progressiva autonomia negoziale (e quindi
giuridica) della donna che non uno strumento di relegazione della stessa in una
dimensione subordinata. Sul punto ampiamente con bibl. e fonti C. Fayer, La familia romana 524 ss. Ancora, dovrebbe far riflettere la
diversità di motivazioni in Gellio sulla spiegazione della ragione per
cui impuberi e donne non potevano essere sottoposti ad adrogatio: (Gell. 5. 19. 10): Neque
pupillus autem neque mulier, quae in parentis potestate non est, adrogari
possunt: quoniam et cum feminis nulla comitiorum communio est et tutoribus in
pupillos tantam esse auctoritatem potestatemque fas non est, ut caput liberum
fidei suae commissum aliene dicioni subuciant. Che traduco: «non
possono essere ‘adrogati’ il pupillo e la donna che non sia nella
potestà del padre (parentis =
del genitore = padre o ascendente), poichè le donne non possono
partecipare ai comizi (nulla comitiorum
communio est) mentre ai tutori il fas
non concedeva tanto potere ed autorità (tutoribus in pupillos tantam esse
auctoritatem potestatemque fas non est) da assoggettare al potere altrui
una persona libera affidata alla loro fiducia». Dunque, due modi
nettamente diversi di porre la questione. Ampia discussione su questo punto in
F. Sitzia, Rec. a P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum 2, cit., 173
ss.
[72] Gli scrittori antichi come è noto affermano l’origine
consuetudinaria delle tutelae.
Gellio, citando una fonte autorevole (i libri
iuris civilis di Masurio Sabino) afferma: (Gell. 5. 13. 5): In officiis apud maiores ita observandum
est, primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea
adfini. Alfeno Varo, in D. 48. 22. 3, addirittura nell’ultimo scorcio
della Repubblica, avrebbe sentenziato: itaque
et fratres fratribus fore legitimos heredes et adgnatorum tutelas et
hereditates habituros:non enim haec patrem, sed maiores eius eis dedisse. Paolo,
in D. 26. 7. 12. 3, afferma esplicitamente la derivazione delle funzioni
[73] Sul consortium ercto non cito
per un primo approccio v. B. Albanese,
Il consorzio ercto non cito, in AUPA. 20 (Palermo 1949) 150 ss.; Id., Le persone in diritto romano 210; M. Bretone, «Consortium»
e «communio», in Labeo
6 (Napoli 1960) 169, nt. 3; M. Kaser,
La famiglia romana arcaica, in Conf. Rom. Univ. di Trieste 1 (1950) 54;
G. Franciosi, Usucapio pro herede 41, nt. 103; Id., Famiglia e persone3 11; Id., Corso istituzionale3 103;
Id., Gentiles familiam habento 38 ss.; Id.,
Ancora sul ‘consortium’, Rec. a L. Gutierrez-Masson, Dal
‘consortium’ a la ‘societas’. 1.
’Consortium’ ercto non cito’ (
[74] Liv. 4. 9; Cic. pro Flacco 34. 84; Laudatio quae dicitur Turiae(=FIRA. 3. 209). Indubbiamente non
è un rapporto naturalistico quello che s’instaura con la tutela (alla quale veniva sottoposta, in
mancanza di alternative, anche la mulier
in manu), eppure (il discorso
vale anche per gli impuberi) è innegabile che in linea di principio
agnati e gentiles esercitassero ab origine nel sistema familiare romano
(fino alla lex Claudia) questo ruolo
in forma collettiva.
[75] Si tratta di un’idea abbastanza diffusa tra i romanisti. Cfr. P. Frezza, L’istituzione della collegialità in diritto romano, in
St. Solazzi (Napoli 1948) 536; F. Gallo, Osservazioni sulla signoria
[76] M. Bretone, Consortum e communio, in Labeo 6 (
[77] Sebbene più possibilista in Usucapio
pro herede 41, nt. 103, G. Franciosi,
Corso istituzionale di diritto
romano3 103, a proposito dellla
natura del potere dei consortes, così
si esprime: «Se la titolarità in solido riguardasse solo la
proprietà sui beni materiali e sugli schiavi o si estendesse anche alla
potestà sui figli è
argomento assai discusso: allo stato delle fonti, però, nessuna traccia
sembra esservi di una potestas
solidale o ‘circolante’». Accogliendo l’ipotesi di U. Coli, Il testamento 33 ss., di una successiva emergenza del concetto
giuridico di potestas, cioè di
una formazione postdecemvirale dell’esse
in potestate – affermazione che mi sembra compatibile con il modo di
descrivere la natura dell’originario potere del pater familias descritta dal Gallo – mi pare confermi
l’idea di una formazione consuetudinaria di questo potere, un noto
frammento di Ulpiano riguardante la possibilità da parte del pater furiosus di avere figli sotto la
sua potestà, nel quale il giurista attribuisce la formazione del ius potestatis agli antichi mores: D. 1. 6. 8: Patre furioso liberi nihilo minus in patris sui potestate sunt: idem et
in omnibus est parentibus, qui habent liberos in potestate. nam cum ius
potestatis moribus sit receptum nec possit desinere quis habere in potestate,
nisi exierint liberi quibus casibus solent, nequaquam dubitandum est remanere
eos in potestate.
[78] G. Franciosi, ‘Gentiles familiam habento’
39 s.
[79] V. retro nt.
[80] U. Coli, Il testamento 33, 34 nt. 41.
[81] G. Franciosi, Usucapio 42, nt. 103; Id., Il processo di libertà in diritto romano (
[82] G. Franciosi, Usucapio 41 ss.
[83] M. Bretone, La nozione romana di usufrutto (Napoli
1962) 21 ss. Su queste basi si deve allora rivalutare il problema
dell’attendibilità del noto passo di Pomponio in cui, il famoso
giurista tardo repubblicano Q. Mucio, affermerebbe che la frantumazione della latissima potestas del paterfamilias nelle varie facoltà
conosciute in età storica come l’heredis
institutio, la facoltà di dare tutele, di conferire legati e di dare
la libertà ai servi, sarebbe stato frutto di un processo interpretativo
successivo all’età dei decemviri. Il frammento è
conosciutissimo e lo abbiamo già considerato (v. retro): D. 50. 16. 120
(Pomp. 5 ad Q. M.): Verbis duodecim
tabularum his «uti legassit suae rei, ita ius esto». latissima
potestas tributa videtur et heredis instituendi et legata et libertates dandi
tutelas quoque constituendi. sed id interpretatione coangusatum est vel legum
vel auctoritate iura constituentium. Sul punto cfr. M. T. Lepri, Saggi sulla terminologia e sulla nozione
[84] Le fonti ci dicono ancora troppo poco di questa figura giuridica,
tuttavia la coincidenza tra rapporto naturalistico e rapporto giuridico tra i fratres che si univano in consorzio e il
loro ascendende, anche (se non soprattutto) per l’età predecemvirale
quando la comunione è probabile che fosse stando a Gell. 1. 9. 12
addirittura forzosa, è piena. Addirittura si potrebbe parlare prima
ancora che di ‘successione’, di vera e propria
‘continuazione’. Quindi è ammissibile a mio parere definire
questo fenomeno in termini di trasmissione di potestas perchè i consortes,
per motivi ben noti (cfr. anche per un ragguaglio bibl. G. Franciosi, Famiglia e persone3 11–12,
nt. 8), erano i ‘continuatori’ della famiglia dell’ascendente
scomparso. In modo analogo al suus heres o
all’erede designato.
[85] A. Burdese, Diritto Privato Romano 273. In
realtà non è questione d’individuare, in questa fase
dell’evoluzione dei rapporti di successione nel diritto romano arcaico,
un’emersione più o meno netta della tutela quale istituto
giuridico autonomo. Sotto questo profilo l’impostazione del Burdese mi
pare corretta perchè, al di là di quanto già detto a
proposito
[86] La mancanza
[87] Dalla disciplina classica dell’istituto si rileva invece,
inequivocabilmente, come fosse necessario il consenso
[88] V. retro.
[89] Su tale fonte per bibl. e probl. v. retro, nt. 2.
[90] I. Piro, «Consortium»,
«Heredium» e storia dello «ius gentilicium», Rec. a Aa.
Vv., Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 3 (Napoli
1995) 275, in Labeo 45 (
[91] Laud. Turiae ll. 20–24(=FIRA. 3. 211). Cfr. CIL. 6. 1527; 31670;
37053. M. Durry, Eloge Funèbre d’une Matrone
Romaine. Eloge
dit de Turia (
[92] Per la custodia matrum di
Aurelia nei confronti
[93] In termini di stretta similitudine, potrebbe porre la custodia matris di Marcia qui descritta, sullo stesso piano della custodia fratruum astrattamente ipotizzabile per i consortes nei confronti dei soggetti
incapaci. Con la differenza che la ‘tutela’ materna del caso di
specie viene esercitata, diciamo così, praeter legem; la ‘tutela’ (probabilmente) descritta
dall’iscrizione del vaso ed astrattamente attribuibile ai membri del
consorzio, verrebbe esercitata iure e
si raccorderebbe con l’ipotizzato, più risalente, significato di tutela descrittoci da Varrone, del quale
abbiamo prima diffusamente discusso. Entrambe grosso modo consistenti nella
stessa cosa. Se la prima, veniva di fatto sottratta ai soggetti legittimati
mediante l’aggiramento di una precisa disposizione normativa, si potrebbe
ipotizzare invece che la seconda venisse esercitata da soggetti legittimati in
virtù di un potere più ampio capace di assorbire in sé
anche la funzione tutelare, e prima ancora che l’ordinamento (mediante
l’attività creativa dei giuristi) regolamentasse tale prerogativa
con una disposizione normativa specifica dopo il frazionamento in unità
autonome dei singoli elementi costituenti in avanzata età storica la
posizione dell’heres suus et
necessarius rispetto all’oggetto dell’antica hereditas.
[94] Si può sostenere, come fa P. Zannini,
sv. Tutela 312 che alla base di
questo tipo di tutela ci fossero le ragioni preminenti
[95] S. Tafaro, Pubes e viripotentes nella esperienza
giuridica romana (
[96] Soprattutto per il regime della dote. Sulle
difficoltà delle filiae indotate
in età storica v. Val. Max 4. 4. 10; Plaut. Trin. 689–694; Cas.
200–203; Asin. 85–87;
897–898; Aul. 190–192;
475–484; 489–493; 498–499; Gell. 17. 6. 1; Hor. Carm. 3. 24. 19; Varro r.r. 3. 16. 2; Cic. pro Qinct. 31. 137; ad
fam. 14. 4. 3.