Il primo tra i moderni ad intuire le possibilità di un ‘metodo etimologico’ fu Gianbattista Vico, il quale, nel 1710 partiva dalla seguente constatazione: «il latino abbonda di locuzioni abbastanza dotte, mentre la storia attesta che fino ai tempi di Pirro gli antichi Romani non si occuparono che di agricoltura e di guerra»[1]. Da questa premessa il filosofo arrivava a concludere: «che quei vocaboli provenissero da un’altra dotta nazione e che essi le avessero usate senza capirne il senso»[2].
Con il metodo etimologico quindi si sarebbe potuto
arrivare fino alla ricostruzione dell’antico sapere italico riposto, secondo
Vico, nel popolo degli Etruschi e in quello degli Ioni[3].
Un altro grande intellettuale settecentesco, Vincenzo Cuoco, pur riservando qualche critica al metodo etimologico di Vico (che avrebbe dovuto decadere da ruolo di principale strumento euristico ad uno più modesto di supporto verificativo) elaborava la sua ipotesi storiografica immaginando (come il suo illustre predecessore) un popolo progenitore di quelli italici e di quello greco[4].
Insieme al Cuoco vanno ricordati personaggi come Filangieri, Genovesi, Pagano e lo stesso maestro di Cuoco, Giuseppe Maria Galanti. Per tutti si concretizzava ciò che Rosario Diana ha definito di recente «una grande congettura politica e storiografica» che fu l’idea di un modello italico di società preromano contrapposto a quello universalistico latino[5].
Sarebbe facile a questo punto un accostamento con le più moderne teorie dei comparativisti che si dicono persuasi di una migrazione indoeuropea in Italia a partire da una certa epoca, ma che considerano, pur con qualche voce dissenziente, gli Etruschi un popolo pre-indoeuropeo[6]; o, perché no?, un accostamento con la famosa teoria di D’Arbois de Jubainville per cui i Liguri, in età preindoeuropea, avrebbero dominato in Europa occidentale dalle estreme propaggini del Portogallo all’Arno[7].
Ma vorrei spingermi oltre.
La rivendicazione di una remota civiltà italica autoctona rivolta non solo contro la presunzione degli antichi sapienti greci, ma anche a rivalutare il suo valore culturale, politico e sociale, devo riconoscerlo, esercita su di me un certo fascino. Pensiamo al problema dell’ambasceria in Grecia per la redazione delle XII tavole, ovvero all’impostazione metodologica della Romaiké archaiologhía dionisiana su cui Domenico Musti e Jacques Poucet hanno regalato pagine intensissime[8].
Mi chiedo allora in che misura il metodo etimologico possa aiutarci a comprendere il mondo italico arcaico, se non altro, per tentare di capire attraverso quali meccanismi la civiltà preesistente indoeuropea abbia consegnato il suo lascito ai suoi eredi storici[9].
Oggi forse non basta più sapere come la tradizione letteraria (giuridica e antiquaria) latina e greca abbia trasmesso la memoria delle cd. leges regiae; ovvero cosa sapevano delle dodici tavole gli eruditi latini e i giuristi a partire dall’ultimo secolo della repubblica[10]. Sappiamo che si tratta soltanto di verità parziali perché filtrate attraverso le versioni modernizzate e canonizzate degli intellettuali romani e greci della media età repubblicana, i quali, a loro volta, partivano proprio dal presupposto metodologico che Vico e la scuola di Cuoco e Genovesi contestavano.
Personalmente penso che valga la pena di valutare l’impostazione storica appena ricordata e vedere se esiste un legame verificabile tra l’archetipo ancestrale dei giuristi romani e l’antico sapere del mondo italico prima ancora che con il sapere greco. Insomma, rivalutare anche da questo punto di vista il valore di una koinhv italica, una realtà storica che forse ha ancora molte cose da dirci.
Facciamo qualche esempio concreto cominciando dagli imprestiti (o derivazioni parallele) dal ceppo linguistico osco/sabino[11].
Sappiamo attraverso Festo e le sue fonti che il vocabolo familia deriverebbe dall’osco famel nel significato di ’servo’ ed è molto probabile che tale vocabolo in questo significato fosse presente nella versione canonizzata del versetto delle XII tavole dedicato alla cd. successione legittima[12]. In questo senso, forse, un significato ‘effettivamente’ patrimoniale: D. 50. 16. 195 (Ulp. 46 ad ed.): ‘Familiae’ appellatio (…) varie accepta est: nam et in res et in personas deducitur. in res, ut puta in lege duodecim tabularum his verbis ‘adgnatus proximus familiam habeto’.
Ancora, il vocabolo multam che in osco aveva il significato di pena lo ritroviamo nel lessico giuridico latino di età storica proprio in tale significato[13]. Basti ricordare un frammento della famosissima orazione de dote di Catone (Cato Orat. 75 fr. 200) dove il marito: si quid perverse taetreque factum est a muliere, multatur.
Sappiamo infine che nel campo delle obbligazioni l’idea della solidarietà, basata sull’etimo di solidum come derivato dall’osco sollum nel significato di ‘intero’, attinge sì, all’antichissimo patrimonio di conoscenza dei sabini, ma rivela ascendenze ancora più remote[14]. Nel rito dei Suovetaurilia, infatti, così come nei piacula, le vittime dovevano essere ‘intere’, cioè non castrate. Insomma, dovevano essere ‘solide’ perché in osco questo concetto era reso con la parola sollum[15].
Esistono dunque indizi inequivocabili del fatto che i Romani per la loro terminologia giuridica attinsero anche al patrimonio linguistico osco/sabino (o da un contesto a questo parallelo). Lo stesso Sesto Elio fu definito da Ennio (anche lui un osco proveniente dalla città apula di Rudiae), Catus, perché nel ceppo linguistico osco/sabino era questo il termine per definire una persona ‘acuta’ e ‘penetrante’[16].
Il discorso può essere allargato anche al mondo etrusco.
Esiste la parola indoeuropea *teuta (nota anche ai giuristi), che si ritrova in irlandese antico come tuath nel significato di ‘tribù, popolo’; in lituano come tautà sempre nel significato di ’popolo’; in gotico come piuda, ancora nel significato di ’popolo’, e naturalmente in osco come touto e in etrusco come tuti-[17]. Fra l’altro, è per questa parola che i tedeschi chiamano sè stessi Deutsch ed altri popoli chiamano i Tedeschi Téutoni come di recente è stato ribadito dall’indoeuropeista spagnolo F. Villar[18].
Nel linguaggio giuridico latino la radice ancestrale *teuta ha seguito invece uno sviluppo diverso. Si è conservata cioè come un aggettivo qualificativo generico nel latino totus, corrispondente all’italiano ‘tutto’. Solo così si arriva al termine tota nel significato di ’popolo di Roma’[19]. Al suo posto, invece, la parola tecnica per designare il popolo in latino, è populus che, molto probabilmente, è un derivato dall’etrusco *puple nel significato di ’atto alle armi’, se vogliamo prestare fede alla plausibilissima ricostruzione di C. De Simone[20] che tuttavia raccoglie l’eredità di una numerosa e autorevole tradizione di studi[21].
Le ragioni di questo imprestito linguistico sono intuitive. Basti ricordare che il campo Marzio, prima ancora che diventasse la sede del comizio centuriato, era la sede dell’esercito. E si può dire che lo stesso comizio, prima ancora che diventasse assemblea deliberante, fu costituito dal popolo in armi (exercitus centuriatus). In questo quadro si spiega anche il significato del magister populi quale capo dell’esercito in età storica e, del resto, anche la strana etimologia del praetor (da *prai-itor) che alle origini rispecchiava una funzione militare, ma in età storica appare invece nelle funzioni di ius dicere, come un omologo del meddix osco e dello zilaq /(mac) etrusco[22].
Si può fare un altro esempio. Prendiamo il morfema indoeuropeo per indicare la parola ‘re’: *reks. Gli indoeuropeisti non si nascondono un certo imbarazzo nel riconoscere che sebbene ci siano attestazioni in sanscrito (rat), irlandese antico (ri), gallico (rix) e latino (rex), risulta abbastanza difficile capire la funzione espressa da tale figura. Ci si chiede, infatti, quali fossero le modalità e l’estensione del potere di tale soggetto nella società indoeuropea[23]. Il *rex, tanto per fare un solo esempio, era il capo della *touta? Non possiamo dirlo. Sappiamo però che in ambiente osco (dove siamo certi che ci fosse l’organizzazione della touta) il magistrato maggiore era il meddix touticus, mentre a Roma (dove vigeva il sistema per tribù) risulta attestato un rex (v. il recei o il re[x] del lapis Niger, o il morfema rex inciso sul bucchero rinvenuto nella regia del Foro romano)[24], ma non la touta. Al riguardo si rileva una labile traccia del rapporto tra la divinità celtica Teutates e la divinità romana Marte o Mercurio[25].
E’ evidente che il problema delle prerogative della regalità in Roma arcaica non può essere affrontato in questa sede in extenso[26]. Si sa, tuttavia, che attraverso la radice *reg-, che per i linguisti nel suo significato primario significherebbe ‘retto’, il morfema può essere collegato in senso metaforico ad un idea di ciò che è ‘corretto’, e quindi anche ad un’idea di ‘legge’, di ‘norma’. Pur senza essere esperti linguisti, né tanto meno degli indoeuropeisti, ci si rende perfettamente conto del fatto che in italiano, come in inglese (right), in francese (droit) ed in tedesco (recht), il vocabolo ‘diritto’ indica una direzione geometrica e, nello stesso tempo, dà l’idea di un ‘qualcosa’ che è giuridico. Ed allora, se si intende il vocabolo ‘re’ nel significato metaforico della sua radice indicato dai linguisti, si potrebbe concludere che il *reks indoeuropeo avesse la funzione di dettare la legge e di garantirne l’osservanza[27]. Cosiderando invece il significato primario della parola, suggerito sempre dagli esperti di linguistica (‘tendere una linea retta’)[28], potremmo pensare che il re avrebbe potuto anche essere colui che, ad esempio, aveva le cognizioni necessarie per tracciare le linee di fondazione di una città, i termini di un campo o sapeva come tracciare la direzione di un canale di irrigazione o di scolo. Non oso proseguire oltre. Viene alla mente, tuttavia, l’oscura paretimologia della parola latina pontifex, da pons facere che ancora oggi non trova una spiegazione soddisfacente[29].
Per motivi di tempo devo fermarmi qui. Ma si può fare un altro esempio.
Abbiamo accennato in apertura all’etnìa ligure: gens antiqua, come dice Livio; e ad un possibile contatto riscontrabile tra queste popolazioni e i primi abitanti dell’area di Roma. Il discorso si sposta in epoca pre-etrusca, e quindi preistorica.
Corrispondenze toponomastiche di nomi geografici derivati dalla radice indoeuropea *albho- tra numerose località di area ligure come ad esempio Albium Ingaunum (Albenga), Albium Intemelium (Ventimiglia), il nome originario dell’isola d’Elba (Albis) o la stessa Alba Longa, e il nome più antico del Tevere (Albula), sembrerebbero suggerire che l’area di Roma abbia conosciuto, prima ancora della dominazione etrusca, una fase di influenza culturale da parte delle popolazioni del nord Italia cisalpino[30].
La stessa leggenda di Ascanio, un re elettivo che avrebbe fondato Alba Longa dopo aver sconfitto l’etrusco Mesenzio (il re di Agyilla=Caere/Cerveteri)[31], e la circostanza che, ai tempi dell’arrivo del mitico arcade Evandro in Italia, il Tevere si sarebbe chiamato ancora Albula, sono circostanze che fanno riflettere[32].
Lasciamo da parte adesso le suggestioni ancestrali e proviamo a spostarci su un terreno di verifica più solido.
Esaminiamo ad esempio la cerimonia di lustratio, un rito diffusissimo a Roma, che consisteva nella purificazione apotropaica (ossia nella liberazione da potenziali pericoli) dell’oggetto della dedica. Qualcosa di non tanto dissimile dai nostri gesti scaramantici, sebbene molto più complessa e articolata[33]. Sembrerebbe che tale rituale sia stato introdotto da Servio Tullio il quale secondo la tradizione stabilì per primo la consuetudine di procedere al lustrum del census (di qui la cadenza quinquennale del lustrum)[34].
Non era questa però l’unica applicazione di tale pratica cultuale. Oltre al rituale della lustratio aquae si sa, ad esempio, che nel campo Marzio, animali sacrificali venivano condotti intorno all’esercito in armi o al popolo in assemblea in funzione di purificazione apotropaica[35]. Questo rituale, come è noto, veniva chiamato lustrum da cui la forma verbale lustrare impiegata da Virgilio, ad esempio, (lustrabo) nel significato di ‘portare in circolo’ (circumire): Verg. eclog. 10. 55: interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis,/ aut acris venabor apros, non me ulla vetabunt/ frigora Parthenios canibus circumdare saltus.
Il circumagi aveva la funzione di processione/deambulazione sacra allo scopo di creare intorno ad un determinato oggetto una barriera protettiva contro ogni tipo di malanno. Se gli animali sacrificali avevano l’età per procedere da soli venivano condotti (circumagi), altrimenti venivano portati in altro modo (si pensi all’espressione circumferenda=’portare di peso’).
Si capisce l’importanza di questo rituale se si pone mente alla cerimonia degli Ambarvalia che a Roma, in età risalente, consisteva nella ricognizione in circolo delle terre coltivabili (arvae). Si tratta quindi di un rituale antichissimo fra l’altro presente anche in area umbra come dimostrano precise attestazioni nelle tavole di Gubbio[36].
Ad ogni buon conto la formula prevista dal cerimoniale applicato ai vari tipi di possedimenti privati di terreno è riportata dalla nostra fonte nel de agri cultura[37]:
Cato de agri c. 141: [1] Agrum lustrare sic oportet: impera suovitaurilia circumagi: «Cum divis volentibus quodque bene eveniat,/ mando tibi, Mani,/ uti illace suovitaurilia/ fundum agrum terramque meam,/ quota ex parte sive circumagi sive circumferenda censeas,/ uti cures lustrare». [2] Ianum Iovemque vino praefamino, sic dicito:/ «Mars pater,/ te precor quaesoque/ uti sies/ volens propitius/ mihi domo familiaeque nostrae:/ quoius rei ergo/ agrum terram fundumque meum/ suovitaurilia circumagi iussi;/ uti tu/ morbos visos invisosque,/ viduertatem vastitudinemque,/ calamitates intemperiasque/ prohibessis defendas averruncesque;/ utique tu/ fruges frumenta,/ vineta virgultaque / grandire dueneque evenire siris;/ [3] pastores pecuaque/ salva servassis/ duisque duonam salutem valetudinemque/ mihi domo familiaeque nostrae;/ harunce rerum ergo/ fundi terrae agrique mei lustrandi/ lustrique faciendi/ ergo,/ sicuti dixi/ macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto;/ Mars pater,/ eiusdem rei ergo/ macte hisce suovitaurilibus lactentibus esto». Item [esto item]. [4] Cultro facito; struem et fertum uti adsiet, inde obmoveto. Ubi porcum immolabis. agnum vitulumque, sic oportet: «Eiusque rei ergo macte suovitaurilibus immolandis esto». Nominare vetato Martem neque agnum vitulumque. Si minus in omnis litabit, sic verba concipito: «Mars pater,/ si quid tibi in illisce suovitaurilibus lactentibus neque satisfactum est,/ te hisce suovitaurilibus piaculo». Si uno duobusve dubitabit, sic verba concipito: «Mars pater, quod tibi illoc porco neque satisfactum est, te hoc orco piaculo».
Con il testo di questo rituale ci muoviamo su un terreno più solido perché fu proprio nell’epoca di Catone (il secolo degli Scipioni) che molto probabilmente si determinò, insieme a tante altre cose, il definitivo superamento dell’arcaismo, e non solo in campo giuridico.
Cicerone nel de oratore descrive molto bene il fervore intellettuale di quei tempi. Era l’epoca di Elio Stilone (un contemporaneo di Sesto Elio): de or. 1. 193: Nam, sive quem haec Aeliana studia delectant, plurima est et in omni iure civili et in pontificum libris et in XII tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum vetustas prisca cognoscitur et actionum genera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant.
Potremmo forse capire dove, e come, nel secondo secolo a. C., la scienza dei giuristi romani può essere intervenuta nel testo di questo antichissimo rituale per adeguarlo alle necessità dei contemporanei, ma anche in che modo il processo di modernizzazione può aver lasciato traccia nella formazione culturale stessa dei giuristi romani. Il testo della lustratio è infatti un testo ricco di riferimenti tecnici che ci riporta al linguaggio giuridico dell’età catoniana e quindi può forse aiutarci a capire anche qualcosa in più dell’epoca più risalente.
Elementi di sicura arcaicità sono indubbiamente l’uso di –que finale, di illace (da illa + ce) e di praefamino. Anche le espressioni visos invisosque, quoius rei ergo, prohibessis per prohibeas e averrunces nel significato di ‘spazzare via’ (come nel rituale ‘ab extra verrendo’) sono sicuramente antichissime[38]. Ancora, i morfemi duene e duonom, appaiono conservati intatti come nell’iscrizione di Duenos che è un documento epigrafico di circa quattro secoli più antico[39]. Aggiungo alla lista anche la forma verbale esto frequentemente riscontrabile nella ricostruzione antiquaria di numerosissimi precetti normativi arcaici ed un impiego di res forse non ancora utilizzato in senso tecnico (harunce rerum ergo, eiusque rei ergo) come nel versetto di cui alla Tab. 5. 3: uti legassit suae rei[40].
Diamo uno sguardo tuttavia alla formula ‘mihi domo familiaeque nostrae’ e alla presunta iterativa sinonimica trimembre ‘agrum terram fundumque meum’. Forse sono espressioni impiegate da Catone in valore semantico disgiuntivo e non cumulativo.
Cominciamo dalla seconda. Nel lungo testo della precatio catoniana questa ritorna tre volte: in 141. 1, 6 (fundum agrum terramque meam); in 141. 2, 8 (agrum terram fundumque meum) e in 141. 3, 6 (fundi terrae agrique mei lustrandi).
E’ noto agli studiosi che anche in altre antiche preghiere si trovano spesso ripetizioni triple in funzione enfatica come ad esempio nel caso di precor veneror veniamque peto, o di metum formitudinem obliuionem, ovvero di fuga formidine terrore[41]. Si può fare l’esempio del carmen di evocatio di Cartagine[42] e lo stesso Gellio dice che Catone usava impiegare tre vocaboli dallo stesso significato per dare l’idea di una grande prosperità: Gell. 13. 25. 13: Item M. Cato in orationis principio, quam dixit in senatu pro Rodiensibus, cum vellet res nimis prosperas dicere, tribus vocabulis idem sententibus dixit.
Non credo però sia questo il caso.
Nel lessico dei giuristi dell’età classica sappiamo che ager, fundus e terra avevano dei significati ben precisi e diversi.
In un frammento tratto dal 17 libro ad edictum di Ulpiano leggiamo ad esempio che (D. 50. 16. 27): Ager est locus, qui sine villa est. Ancora, in D. 50. 16. 60 (lib. 69 ad edictum), leggiamo che per i più: Locus est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus. Mentre il giurista dell’età dei Severi dimostra di avere un’idea diversa: ceterum adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separat, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio.
Attraverso Ulpiano risaliamo anche a Labeone dal quale deduciamo che il termine locus si applicava di regola ai terreni rustici (anche se poteva essere usato per indicare i praedia urbana) e che la nozione di fundus veniva assimilata alla moderna nozione di ‘particella’ (sed fundus quidem suos habet fines). Il locus, inoltre, come espressione di un possesso immobiliare, sembra che per Labeone riguardasse in genere estensioni di terreno senza confini (locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur)[43]. Di qui l’espressione locupletes ampiamente usata nelle fonti della tarda repubblica/età augustea[44].
Il quadro si chiude con Florentino il quale definisce il fundus come un’ager su cui c’era anche una costruzione. Mentre il locus, è considerato un terreno senza costruzione che si definiva ‘area’ in città e ager nelle campagne:
D. 50. 16. 211 (Florent. 8 inst.): ‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur. sed in usu urbana aedificia ‘aedes’, rustica ‘villae’ dicuntur. locus vero sine aedificio in urbe ‘area’, rure autem ‘ager’ appellatur. idemque ager cum aedificio ‘fundus’ dicitur.
Come si vede, nella tradizione giuridica romana (a partire da Labeone), i vocaboli ager e fundus presentano dei significati affatto diversi. Inoltre, si può notare che nella costruzione dogmatica dei giuristi classici, mentre il concetto di terra tende a scomparire, quello di locus sembra assumere un ruolo sempre più centrale.
Quest’ultima circostanza forse dipende dal fatto che il legislatore del 111 a. C. per indicare i possedimenti di terra in Italia (ma anche in Africa e Grecia) scelse di adoperare insieme a quello di ager anche i concetti di locus e di aedificium[45].
La lustratio agri però appartiene all’epoca di Catone ed è un testo che come abbiamo visto si proietta nel passato. Quindi il principale referente per noi non può essere che Varrone, il quale, fu allievo di Elio Stilone. Esperto, come è noto, anche di diritto augurale e autore di quegli Aeliana studia che rappresentano uno dei modi attraverso i quali l’antico sapere italico (etrusco?) si trasmise nella scienza dei giuristi dell’ultimo secolo della repubblica[46].
Poiché è molto probabile che Stilone abbia scritto anche un commento alle XII Tavole di poco successivo ai Tripertita, è altrettanto possibile che le definizioni di Varrone esprimano dei concetti che risalgono almeno all’epoca di Sesto Elio. Aggiungerei che l’assenza del termine locus nel lessico della lustratio forse è indice del fatto che la redazione del testo della formula sia anteriore all’epoca dell’affermazione della villa in Italia[47].
Ed allora, in Varrone (l. L. 7. 2. 18) leggiamo che: ‘ager non est terra’ perché il concetto di ager era un concetto tecnico che derivava dal diritto augurale (Varro l. L. 5. 5. 33)[48]. Anche il concetto di terra, come dice Stilone, era presente negli scritti degli àuguri, ma in un significato più generico: Varro l. L. 5. 4. 21: Terra dicta ab eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno. A proposito dell’ager invece leggiamo: l. L. 5. 6. 34: Ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa. Ed anche il fundus è descritto in Varro l. L. 5. 6. 37 già come una porzione di terreno produttiva di frutti, sia come un terreno adibito al pascolo (ager quod videbatur pecudum ac pecuniae esse fundamentum), il fundus sembra un terreno adibito alla coltivazione prevalentemente arbicola (fundus dictus, aut quod fundit quotquot annis multa).
A questo punto mi pare difficile pensare che Catone abbia potuto usare la formula ‘agrum terram fundumque meum’ senza avere alcuna consapevolezza della diversità di significato di tali vocaboli. Questi tre termini della forma lustrale, del resto, sono rappresentativi di un epoca in cui il possesso dell’ager publicus era per definizione ancora precario e il complesso passaggio dal diritto augurale a quello laico nella riflessione dogmatica dei giuristi doveva essere appena agli inizi.
Prima di chiudere resta da esaminare brevemente la formula ‘mihi domo familiaeque nostrae’. Essa rileva in due luoghi della lustratio (141. 2, 6 e 141. 3, 4), ma anche in Cato de agri c. 134. 2, dove è riportata la liturgia del rito della porca praecidanea; e in Cato de agri c. 139, dove c’è il testo di un piaculum espiatorio[49].
In questo caso non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che il termine familia nella formula di tali rituali fosse ancora impiegato nel suo significato più antico di ‘insieme di famuli’, ovvero di familia rustica nel senso di ’addetti alla coltivazione del fondo’[50]. Si aggiunga che è molto probabile che nel lessico dei Tripertita di Sesto Elio (di pochi anni anteriore al de agri cultura la cui pubblicazione cade nel trentennio 180/150 a. C.) il testo della norma decemvirale sulla volontà testamentaria fosse reso nella forma retorica con la formula familia pecuniaque nel significato di ‘schiavi’ (=famuli) e forse anche di ‘bestiame’[51].
Quanto al vocabolo domus, esso deriva dalla radice indoeuropea *dem- (o *dom-) nel significato di ‘edificare’ o ‘costruire’, come in greco devmw=’edificare’ o dovmoV=’casa’. Per tale motivo, ad esempio, in russo, in lituano e in latino, il concetto di ‘casa’ viene reso rispettivamente con i vocaboli dom, namas, e domus[52].
Facciamo a questo punto un confronto tra l’espressione
catoniana domo familiaeque meae e la
famosa definizione ulpianea in cui il giurista definisce pater familias colui qui in
domo dominius habet, ma anche che recte
eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo et gente proditi sunt[53]. Avviandomi a concludere mi
chiedo. Perché nella formula lustrale di Catone compare l’endiadi domo et familia, mentre in Ulpiano al
vocabolo domo viene affiancato quello
di gens?
Se si tiene conto del fatto che a livello istituzionale la cd. familia proprio iure si affermerà nella società romana solo alla fine dell’età repubblicana – e che, grosso modo, solo dalla stessa epoca le fonti atecniche cominciarono ad usare sempre più spesso il vocabolo familia in luogo di gens, – possiamo pensare che, evidentemente, prima ancora che nella terminologia dei giuristi romani si consolidasse l’uso del termine familia per indicare le varie tipologie di raggruppamenti familiari (familia proprio iure e communi iure), nel linguaggio colto il termine domus venisse impiegato in un significato forse molto più ampio[54].
In un‘epoca in cui (l’epoca catoniana) con il termine familia veniva indicato molto probabilmente il ‘gruppo di persone addette alla lavorazione del fondo agricolo’, evidentemente, con domus si indicava sì, la dimora in senso materiale, ma anche in senso tecnico e figurato l’insieme degli stretti congiunti del pater. Evidentemente a causa di un processo di identificazione tra la ‘casa’ come ‘sede del gruppo’ e il gruppo stesso.
(РЕЗЮМЕ)
Джанбаттиста
Вико в 1710 г. отметил,
что
латинский
язык
изобилует
учеными
оборотами и конструкциями,
хотя
известно, что
до времени
Пирра
римляне не
занимались
ничем кроме
войны и
сельского
хозяйства.
Таким образом,
он
предположил,
что многие из
этих выражений
достались
римлянам в
наследство
от некоего
более
развитого
народа. С тех
пор попытки
реконструировать
доримское
общество,
опираясь, в
частности, на
этимологические
методы,
предпринимались
неоднократно.
На роль народа-культуртрегера
выдвигались
самые различные
кандидатуры:
от лигуров до
этрусков
(возможное
доиндоевропейское
население
Италии). В данной
работе
делается
попытка
выяснить этимологическими
средствами
наличие языковой
преемственности
у римских
юристов и их
италийских
предшественников,
а также
возможное
наличие
общеиталийского
юридического
койнэ.
Некоторые
латинские
юридические
термины
имеют
определенно
оскское
происхождение:
familia – оск. famel (слуга); multa –
оск. multa (штраф); solidum –
оск. sollum (целый). С большей
или меньшей
уверенностью
можно подозревать
и ряд
заимствований
из
этрусского
языка: populus – этр. *puple
(способный носить
оружие) и др.
Описание
процедуры
люстрации в «De agricultura» Катона
насыщено
архаической
лексикой и архаическими
языковыми
формами. В
некоторых
случаях
Катон,
похоже, употребляет
хорошо
знакомые ему
термины, не
вполне
понимая их
значение.
Так, в выражении
«agrum terram fundumque meum»
он, видимо,
подозревает
плеонастическое
употребление
слов, хотя
исследование
других источников
показывает,
что ager, terra и fundus –
разные вещи.
Также и
термин familia в
архаическое
время
обозначал,
возможно, группу
людей,
занятых
обработкой
одного fundus, а уже
позднее
получил свое
классическое
значение.
* Сакки
Освальдо –
профессор
римского
права юридического
факультета
Второго
университета
г. Неаполя (Италия).
[1] G. Vico,
De antiquissima italorum sapientia ex
linguae latinae originibus eruenda, in P. Cristofolini
(a cura di), G. Vico, Opere filosofiche (Firenze 1971) 56. Lo spunto
per il presente articolo nasce anche dalla seguente considerazione di E. A. Hoebel, The Law of Primitive Man. A Study in Comparative
Legal Dynamics
(Cambridge, Mass. Harvard University
Press 1967)=Il diritto nelle società primitive.
Uno studio comparato sulla dinamica dei fenomeni giuridici [tr. it. A.
Colajanni] (Bologna 1973) 32 s.: «Il pensiero si costituisce (…) all’interno
del quadro di un preesistente linguaggio; ma non appena il ricercatore vuole
ampliare l’ambito della sua conoscenza o approfondire un certo argomento, egli
trova inevitabilmente che i significati dei vecchi termini devono essere
modificati, o che bisogna farsi venire in mente nuovi termini per abbracciare i
nuovi fenomeni che sono troppo diversi per essere contenuti nei vecchi termini
o concetti. Comunque, per uno studioso che è anche un insegnante sarà sempre
preferibile esprimersi in termini familiari, se ciò è in qualche modo possibile
senza che si produca una distorsione dei fatti e dei loro significati». In età
post annibalica gli interpreti della cd. ‘laicizzazione’ del diritto romano
arcaico (da Sesto Elio a Catone, Elio Stilone, Bruto, Manilio e i Mucii, etc.)
potrebbero aver affrontato problemi di questo tipo.
[2] Ibidem. Sui rischi di un uso non corretto del metodo
etimologico v. però G. Semerano, Il popolo che sconfisse la morte. Gli
etruschi e la loro lingua (Milano 2003) 7 ss.
[3] Cfr. R. Diana,
Vincenzo Cuoco pensatore storico, in
V. Cuoco, Platone in Italia. Sette possibili itinerari (Napoli 2000) XXXI,
nt. 52.
[4] Cfr. V. Cuoco,
Prefazione a una «Storia dell’umanità»,
in N. Cortese – F. Nicolini (a cura di), V. Cuoco,
Scritti vari 1 (Bari 1924) 344; Id., Necrologia
di Francesco de Attelis (1810), in D. Conte
– M. Martirano (a cura di), V. Cuoco,
Scritti giornalistici 1801–1815 2
(Napoli 1999) 311.
[5] R. Diana,
Vincenzo Cuoco pensatore storico, in
V. Cuoco, Platone in Italia. Sette possibili itinerari XXI. La cultura
meridionale di indirizzo laico e critico (il Cardinal Giovan Battista De Luca,
Francesco D’Andrea, Pietro Giannone, fino a Gianbattista Vico) era però
tradizionalmente contraria all’idea della continuità metastorica e quasi
miracolosa del diritto romano che dominò per tutto il medioevo ed oltre. Cfr.
R. Ajello, Origini e condizioni dell’attualità giuridica (Napoli 1998) 28 ss.
[6] Cfr. F. Villar,
Los indoeuropeos y los orígenes de
Europa. Lenguaje e historia (Madrid-Gredos 1996)=Gli indoeuropei e le origini d’Europa. Lingua e storia (Bologna
1997) 87 ss.
[7] Cfr. H.
D’Arbois de Jubainville, Les
premiers habitants de l’Europe2 2 (Paris 1894). Ma v. anche L. Schiparelli,
Le stirpi ibero-liguri nell’Occidente e
nell’Italia antica (Torino 1880). Dion. 1. 10. 3 [tr. it. F. Cantarelli (a eura di), Dionisio di
Alicarnasso. Storia di Roma arcaica (Le antichità romane) (Milano,
1984)]: «Altri narrano che gli Aborigeni erano coloni dei Liguri, i quali sono
confinanti degli Umbri. I Liguri infatti occupano gran parte dell’Italia ed
anche una parte della Celtica, non è però chiaro quale delle due sia la vera
patria, in quanto non si dice null’altro con certezza su di esse».
[8] D. Musti,
Tendenze nella storiografia romana e
greca su Roma arcaica, in Quaderni
Urbinati 10 (1970) 7 ss.; J. Poucet,
Recherches sur la légende sabine des
origines de Rome (Louvain-Kingshasa 1967); Id.,
Les origines de Rome. Tradition
et histoire (Bruxelles
1985). V. anche E. Gabba, Studi su Dionigi di Alicarnasso 1. La costituzione di Romolo, in Athenaeum 38 (1960); L. Fascione, Il Mondo nuovo. La costituzione romana nella storia di Roma arcaica di
Dionigi di Alicarnasso (Napoli 1988) 12 ss. Ora interessanti
indicazioni in I. L. Majak, Dionigi di Alicarnasso come fonte sulla
storia del diritto pubblico della Roma arcaica, relazione presentata il 30
giugno 2003 a Mosca, all’Accademia delle Scienze di Russia, in occasione del III Convegno Internazionale ‘Diritto Romano
pubblico e privato: l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del diritto
europeo’ Yaroslav-Mosca 25–30 giugno 2003.
[9] Così anche U. Lugli,
Miti velati. La Mitologia romana come
problema storiografico (Genova 1996) 40.
[10] V. ora per le leges
regiae G. Franciosi (a cura
di), Leges Regiae (Napoli 2003) IX
ss. Sul problema storigrafico delle XII tavole cfr. U. Agnati, Leges Duodecim
Tabularum. Le tradizioni letteraria e giuridica. Tabulae I-VI (Cagliari
2002) 9 ss.
[11] Molto suggestiva è la notizia di Strabone che
riferisce di un’origine sabellica di una parte dell’etnia sannita. Come è noto,
in 5. 4. 12, il geografo dell’età augustea riferisce di una tradizione che
vorrebbe la fondazione dei primi insediamenti sanniti (o di parte di essi) come
conseguenza di un ver sacrum: [tr.
it. N. Biffi, L’Italia di Strabone. Testo, traduzione e commento dei libri V e VI
della Geografia (Genova 1988) 119]: «Così fecero, e consacrarono ad Ares i
figli nati durante l’anno e, divenuti questi adulti, li inviarono a fondare una
colonia: fece da guida un toro. Poiché il toro si fermò a dormire nel paese
degli Opici (che vivevano komedòn), li scacciarono e si stabilirono sul
posto e sacrificarono il toro, secondo le indicazioni degli indovini, ad Ares, che lo aveva dato come guida.
Probabilmente per questo ricevettero il nome dei Sabelli, diminutivo di quello
dei loro padri». Sia Gellio – che riferisce di un frammento del ventunesimo
libro delle rerum humanarum di
Varrone: (11. 1. 5) Samnitium, qui sunt a
Sabinis orti – che l’epitome paolina di Festo [Fest.-Paul. sv. Samnites (L. 437, 1): Samnites ab hastis appellati sunt, quas
Graeci sauvnia appellant; has enim ferre adsueti
erant; sive a colle Samnio, ubi ex Sabinis adventantes consederunt] sono chiarissimi. Questa
ricostruzione trova conforto anche sul pieno linguistico perché
etimologicamente entrambi i nomi potrebbero derivare dalla radice indoeuropea *sabh che è la stessa del dio Sabus venerato dai Sabini [cfr. Cato fr.
50 (Peter)]. Cfr. E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti Torino 1985) 34 s.
Un etnico safin=sabino è attestato
epigraficamente: cfr. A. La Regina,
Appunti su entità etniche e strutture
istituzionali nel sannio antico, in Ann.
Ist. Orient. Napoli Arch. St. Ant. 3 (1981) 131 s.; N. Biffi, L’Italia di Strabone 298, nt. 488. Un topos della mitografia antica sulle origini di Roma è l’altissima
risalenza della etnìa sabina (basti pensare alla leggenda del ratto delle
Sabine) ed è noto che questa sarebbe preesistita a Roma prima ancora della
dominazione degli Etruschi.
[12] Fest. sv. Famuli (L. 77, 11): Famuli
origo ab Oscis dependit, apud quos servus famel nominabatur, unde et familia
vocata.
[13] Fest. sv. Multam (L. 126, 29): Osce dici putant poenam quidam.
[14] Fest. sv. Solitaurilia (L. 372, 31): Atque harum hostiarum omnium inviolati sunt
tauri, quae pars scilicet caeditur in castratione; Paul-Fest. (L. 373, 5): Solitaurilia hostiarum trium diversi generis
immolationem significant, tauri, arietis, verris, quod omnes eae solidi
integrique sunt corporis. Sollum enim lingua Oscorum significat totum et
solidum; Verg. Aen. 6. 253: Tum Stygio regi nocturnas incohat aras/ et
solida imponit taurorum viscera flammis. Interessante l’indicazione di F. Coarelli, Il Foro Romano (Roma 1983) passim, per cui sarebbero stati
trovati nel Foro romano resti di ossa di animali sacrificali. In particolare
capra, maiale e toro, ossia gli animali dei suovetaurilia.
[15] L’applicazione del metodo etimologico espone però
anche a rischi notevoli. Vorrei fare un esempio. La lustratio del campo (su cui v. più dettagliatamente infra n. 4)
consisteva nel sacrificio degli animali ‘suovitaurilia’.
Varrone spiega chiaramente il significato di tale espressione e quindi la sua
origine etimologica: Varro l. L. 5.
19. 96: Ex quo fructus maior, hi[n]c
est qui Graecis usus: ásusñ, quod u~V, bos, quod
Bou`V, taurus,
quod átau`roVñ, item ovis, quod o[iV: ita enim
antiqui dicebant, non ut nunc provbaton. Una sorta di neologismo sacrale derivato dall’insieme dei tre nomi degli
animali impiegati nel rito: su(s) ovi(s) taur(is)ilia.
Nella tradizione filologica ed antiquaria antica viene proposta una diversa
versione. Il glossografo Festo infatti stabilisce un legame tra l’espressione suovitaurilia e l’aggettivo solidum. L’espressione usata da Catone
risulterebbe infatti formata da solidum +
taurilia che sarebbe stato il
vocabolo con cui si designavano le vittime sacrificali di tre specie occorrenti
per il cerimoniale: toro, ariete e porco. Il grammatico spiega anche che la
perdita della doppia ‘elle’ nell’uso della parola scritta sarebbe stata dovuta
ad un fenomeno di cambiamento linguistico determinatosi all’epoca di Ennio:
Paul.-Fest. sv. Solitaurilia (L. 374,
3): Quod si a sollo et tauris earum
hostiarum ductum est nomen antiquae consuetudinis, per unum l enuntiari non est
mirum, quia nulla tunc geminabantur littera in scribendo: quam consuetudinem
Ennius mutavisse fertur, ut pote Graecus Graeco more usus, quod illi aeque
scribentes ac legentes duplicabant mutas. Sembrerebbe che l’espressione solidum e i suoi derivati (solvere=‘solidale’=in solidum<obbligazioni solidali?) derivino dal morfema sollum di origine osca significante
‘intero’. Conseguentemente, il rito si sarebbe chiamato solitaurilia (di qui la voce del vocabolario festino) perché tale
parola risulterebbe formata da Sollum(=’intero’)
+ taurilia(=tauri, arietis, verris). Il discorso si chiarisce, invece, leggendo
più attentamente Fest. (L. 372, 31): Atque
harum hostiarum omnium inviolati sunt tauri, quae pars scilicet caeditur in
castratione. Dalla lettura di questo passo si evince chiaramente che i ‘suovitaurilia’ erano vittime sacrificali
non castrate, dunque per questo ‘intere’. La circostanza trova anche conferma
nella lettura del passo corrispondente dell’epitome paolina: Paul-Fest. (L.
373, 5): Solitaurilia hostiarum trium
diversi generis immolationem significant, tauri, arietis, verris, quod omnes
eae solidi integrique sunt corporis. Sollum enim lingua Oscorum significat
totum et solidum. Il dato è confermato anche da Virgilio che usa
l’espressione solidum a proposito di
un sacrificio fatto da Enea: Aen. 6.
253: Tum Stygio regi nocturnas inchoat
aras/ et solida imponit taurorum viscera flammis. Leggiamo infine Fest. sv.
Solitaurilia (L. 372, 22): Solitaurilia hostiarum trium diversi generis
immolationem significant, tauri, arietis, verris; quod omnes eae solidi integrique sint corporis; contra [aci…] verbices maialesque; quia sollum Osce totum et solidum
significat. A questo punto mi pare evidente l’equivoco in cui possono
indurre Festo o la sua fonte. L’idea che il rito antichissimo si chiamasse ‘Solitaurilia’
perché le vittime dovevano essere ‘solide’
è probabilmente una falsa pista. Preferisco seguire la versione linguistica di
Catone che chiama il rito ‘suovitaurilia’ (non solitaurilia)
perché trova un appoggio convincente in Varro l. L. 5. 19. 96 come abbiamo visto prima.
[16] Enn. ann. 331 (Vahlen 59): Egregie
cordatus homo catus Aelius Sextus; Enn. ann.
459 (Vahlen 83): Iam cata signa fere
sonitum dare voce parabant; Enn. ann.
529 (Vahlen 96): Tunc coepit memorare
simul cata dicta; Varro l. L. 7.
46: Apud Ennium: ‘Iam cata signa ferae
sonitum dare voce parabant’. Cata acuta; hoc enim verbo dicunt Sabini. Quare
‘Catus áAñelius Sextus’ non, ut aiunt,
sapiens, sed acutus, et quod est Tunc cáoñepit memorare simul cata dicta, accipienda acuta dicta.
[17] Sul morfema tuJi, tuti- nel significato ritenuto
possibile di ‘comunità’, ‘stato’, assimilato all’osco-umbro touta, cfr. M. Pallottino, Etruscologia8
(Milano 1992) 516.
[18] F. Villar, Gli
indoeuropei e le origini d’Europa. Lingua e storia 161.
[19] Ibidem.
[20] Cfr. C.
De Simone, L’aspetto linguistico, in C.
M. Stibbe, G. Colonna, C. De Simone, H. S. Versnel, Lapis Satricanus. Archaeological, epigraphical, linguistic and
historical aspects of the new inscription from Satricum
(Staatsuitgeverij-‘s-Gravenhage 1980) 81: «L’etrusco *puple è passato come imprestito in latino (poplo-; cfr. ancora omni
poplo Pl. Ps. 126; Poplo Arimenesi
[CIL. 12. 40 (Nemi)]; popli-fugia; Popli-cola [v. per il cognomen
G. Devoto in SE. 6 (1932) 255 e De Simone,
Lapis Satriacanus 81, nt. 97], dove
ha significato certo all’origine ‘gioventù atta alle armi’ (‘waffenfähige
Jugend’) come risulta ancora, oltre che dai popli-fugia,
da pilomnoe poploe (Festus 224 L.; carmen Saliare) e dal termine magister populi (:magister equitum). Lo stesso significato ha anche l’umbro poplo- (Tab. Iguv.). E’ pertanto da
questo valore (‘gioventù atta alle armi’) che si spiega, nel modo migliore,
come fu visto già da Th. Mommsen [Römisches Staatsrecht 3. 1
(Leipzig 1887) 3, nt. 2], il verbo denominativo latino populare (-ari)
(de), significante dunque all’origine
‘agire come un’armata’(<’devastare’)[…]. Questa soluzione, che collega
direttamente populare con poplo- nella sua accezione antica, è nettamente da
preferire all’ipotesi di un rapporto diretto con l’etrusco *puple (‘stirps’), che potrebbe essere spiegato sulla base del parallelismo
con exstirpare. E’ solo in età
preclassica che il latino pop(u)lus
ha assunto il significato di ‘appartenente alla comunità’, opposto a privatus (cfr. neive in poplicod neve in preivatod; SC Bacch.)». Riprende di
recente la nozione U. Lugli, Miti velati 100. V. anche L. Arcella, L’iscrizione di Satrico e il mito di Publio Valerio, in SMSR. n. s. 16 (1992) 219 ss.; G. M. Facchetti, Frammenti di diritto privato etrusco (Firenze 2000) 32.
[21] Dopo il Mommsen,
oltre agli autori citati nella nota precedente, accettano il valore del verbo
denominativo latino populare nel
significato di ‘atto alle armi’ E. Wölfflin,
ALL. 7 (1892) 512: «mit einer
Volksmasse überziehen»; W. Porzig,
in Gymnasium 63 (1956) 323 ss.; Walde-Hoffman, Lew 2. 339 (sv. populor); C. Battisti,
in SE. 27 (1959) 399; X. Mignot, Les verbes denominatifs latins (Paris 1969) 377; P. Flobert, Les verbes déponentes latins des origines à Charlemagne (Paris
1975) 72 e nt. 2.
[22] Cfr. sul punto con aggiornati
rif. bibl. G. M. Facchetti, Frammenti di diritto privato etrusco 29.
[23] F. Villar, Gli
indoeuropei e le origini d’Europa. Lingua e storia 161.
[24] C. M. Stibbe, G. Colonna, C. De Simone, H. S. Versnel, Lapis
Satricanus 56 e passim. Sull’iscrizione del lapis Niger v. anche F. Coarelli,
Il Foro romano 178 ss.
[25] Purtroppo non è possibile
approfondire in questa sede il discorso sulla divinità cetica Teutates sulla cui etimologia (dal
celtico *teut=’popolo’/‘tribù’) la
dottrina aveva già raggiunto una certa unanimità di consensi verso la metà del
secolo scorso. Cfr. sul punto A. Brelich,
Quirinus. Una divinità romana alla luce
della comparazione storica, in S. M.
S. R. 31 (1960) 114 e nt. 80. Si rileva tuttavia come nella interpretatio romana, l’identificazione
di questa divinità oscilli tra Mars e
Mercurius.
[26] Sulla regalità arcaica v. G.
Franciosi, Manuale di storia del diritto romano2 (Napoli 2001) 43
ss.
[27] F. Villar, Gli
indoeuropei e le origini d’Europa. Lingua e storia 162. Molto interessante
l’indicazione di E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee. 2. Potere, diritto, religione (Torino tr. it. 2001) 291 ss.
che ravvisa nel caso di rex una delle
testimonianze più importanti del fenomeno: «della sopravvivenza di termini
relativi alla religione e al diritto alle due estremità del mondo indoeuropeo
nelle società indoiranica e italoceltica».
[28] Gfr. E. Benveniste,
Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee. 2. Potere, diritto, religione 294 s. Per F. Villar, Gli indoeuropei e le origini d’Europa. Lingua e storia 162 la
parola *reks: «appartiene alla radice
*reg-, che nel suo significato primario e concreto significa ‘retto’. In senso
metaforico si utilizza per designare ciò che è ‘corretto’, la ‘legge’, il ‘diritto’,
ecc.».
[29] Ricordo ancora la tesi di G.
Bonfante, Tracce di terminologia palafitticola nel vocabolario latino?, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti 97. 2 (1937–1938) 54 ss. per il quale l’etimologia di pontifex, come ‘facitore di ponti’,
evocherebbe una civiltà palafitticola. Sul presupposto di un legame etimologico
con la radice *pont-=’sentiero’, il
ponfefice antico sarebbe stato colui che avrebbe tracciato i sentieri sotto
forme di ‘passerelle’. Condivido al riguardo la critica di R. Del Ponte, La città degli dei. La tradizione di Roma e la sua continuità
(Genova 2003) 19 che giudica l’ipotesi di G. Bonfante in questo modo: «Si
tratta, in relatà, dell’interpretazione rozzamente materiale di una espressione
che noi ben sappiamo essere collegata al mondo sacrale, in cui il «sentiero»
tracciato è in verità quello che conduce agli déi: ecco la «via romana agli
déi». L’etimologia di Varrone, ricordata insieme a quella di Q. Mucio, è
altrettanto nota: l. L. 5. 15. 83: Pontuficies, ut[a] Scáeñvola Quintus pontufex maximus
dicebat, a posse et facere, ut po[n]tifices. Ego a ponte arbitror: nam ab his
Sublicius est factus primum ut restitutus sáañepe, cum ideo sacra et uls et cis Tiberim non mediocri ritu fiant. Senonchè, neanche quella
del grande Q. Mucio (a posse et facere,
ut po[n]tifices), sembra convincente. Cfr. comunque R. Del Ponte, La religione dei romani (Milano 1992) 107 ss.; Id., La
citta degli déi 83 s.
[30] Verg. Aen. 8. 330: tum reges
asperque immani corpore Thybris,/ a quo post Itali fluvium cognomine Thybrim/
diximus; amisit verum vetus Albula nomen. F. Villar, Gli
indoeuropei e le origini d’Europa. Lingua e storia 465 ss.; R. Del Ponte, I Liguri2 (Genova 1999); G. Semerano, Il popolo
che sconfisse la morte 73 propone un’etimologia di Albus da ‘acqua’ e rifiuta l’ipotesi derivativa da ‘bianco’
proposta da A. Holder, Atlceltischer Sprachschatz 1 (Leipzig
1896) 83. V. anche retro nt. 7.
[31] Origo g. R. 14. 5: Deinde filius eius Ascanius, idem qui Euryleo, omnium Latinorum iudicio appellavit rex.
[32] Origo g. R. 6. 2: Cumque
armenta eius circa flumen Albulam pascerentur, Cacus, Evandri servus.
[33] Sul cerimoniale di lustratio v. G. Dumézil, La religione
romana arcaica (Milano tr. it. 2001) 211 ss. e passim; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica. Dal calendario festivo all’ordine cosmico
(Milano 1988) 174 ss.; Ja. V. Melniciuk,
Alcuni aspetti della cerimonia romana del
lustrum, in Ius Antiquum 2.(10)
(Mosca 2002) 73 ss.
[34] Cens. 1. 18. 13; Horat. Od. 4. 1. 6: circa lustra decem flectere mollibus; Stat. silv. 2. 6; Paul.-Fest. sv. Lustra
(L. 107, 15): Et cum eiusdem vocabuli
prima syllaba producitur, significat nunc tempus quinquennale, nunc populi
lustrationem. Secondo Livio le terre tra il Tevere e la città prima di diventare
il Campo Marzio erano le terre dei Tarquinii:
Liv. 2. 5. 3: Ager
Tarquiniorum qui inter urbem ac Tiberim fuit, consecratus Marti, Martius deinde
campus fuit. V.
sul punto Ja. V. Melniciuk, Alcuni aspetti della cerimonia romana del
lustrum 74.
[35] Sulla lustratio delle acque e dell’esercito v. G. Dumézil, La religione
romana arcaica 339 ss. e 217.
[36] D. Sabbatucci, La
religione di Roma antica. Dal calendario festivo all’ordine cosmico 174 ss.
Tab. Eguv. VIa 27 ss.; VIa 25; VI a-b 47. Cfr.
R. S. Conway, The Italic dialects (Hildesheim 1967) 399 ss. Interessanti sono la
derivazione etimologica e il legame semantico tra il lustrum e la forma verbale luendo
che nella lingua tecnica trova un corrispondente in solvendo. E’ lo stesso Varrone a dirci che in età molto risalente i
canoni di affitto della terra si diceva che venissero a publicanis luebantur o pro
solvebantur censoribus: Varro l. L.
6. 2. 11: Lustrum nominatum tempus
quinquennale a luendo, id est solvendo, quod quinto quoque anno vectigalia et
ultro tributa per censores persolvebantur. Varrone quindi offre una
paretimologia di lustrare < a luendo=solvendo perché ogni cinque anni veniva
pagato il canone per lo sfruttamento della terra. Anche se i moderni etimologisti
propongono una derivazione etimologica diversa (da lavare=purificare), se si tiene conto del fatto che che il
pagamento del canone sembrerebbe essere stato, almeno in origine, volontario, è
plausibile pensare che in origine il pagamento del vectigal fosse tributato come offerta sacrale, e quindi
spontaneamente, salvo poi ad essersi trasformato, ma solo in avanzata età
storica, in un canone obbligatorio. Ciò che interessa rilevare in questa sede è
il seguente nesso: dato che il rituale della lustratio si faceva ogni cinque anni, come il rinnovo del censo e
dei censori (secondo la tradizione a partire dal 440 a. C.), l’espressione lustrum ha finito col tempo per indicare
anche il termine di cinque anni. Come si vede, dietro l’etimologia del lustrum si coglie un processo
riconoscibilissimo di evoluzione in base al quale un precetto rituale si
trasforma in norma giuridica. Anche questo, in un certo senso, un esempio
concreto del fenomeno di laicizzazione dell’antico ordinamento romano che si
verificò durante la fase centrale dell’età repubblicana a Roma.
[37] Il testo della lustratio agri di Catone viene studiato
da decenni per valutare il rapporto tra attività agricola e riti propiziatori
nell’esercizio dell’agricoltura a Roma. I latinisti lo studiano per capire lo
sviluppo della prosa d’arte latina in età postannibalica. Cfr. fra gli altri B.
Luiselli, Il verso saturnio (Cagliari 1967); Id.,
Il problema della più antica prosa latina
(Cagliari 1969) 50 ss.; G. Pasquali,
Preistoria della poesia romana (Firenze
1981). Esso tuttavia può anche essere preso come modello per enucleare elementi
di un’archeologia del linguaggio giuridico nel secondo secolo a. C. perché
questa è anche l’età di Sesto Elio Peto Cato, forse autore inconsapevole di ciò
che sarebbe diventato l’archetipo strutturale della tradizione giuridica sulle
XII tavole (la cd. canonizzazione del testo normativo).
[38] Cfr. sul punto con rif.
bibl. P. Cugusi – M. T. Sblendorio Cugusi
(a cura di), Opere di Marco Porcio Catone Censore 2
(Torino 2001) 224 ss. (in nota).
[39] L’uso di bonus in Ennio compare 9 volte: ann. 3. 3, 149
(Vahlen 26): lumina sis oculis bonus
Ancus reliquit; ann. 3. 8, 155
(Vahlen 27): Exin Tarquinium bona femina lavit; ann. 8. 3, 269 (Vahlen 47): Spernitur orator bonus, horridus miles
amatur; ann. (lib. inc.) 19, 480 (Vahlen
86): Hortatore bono prius quam qui finibus termo; ann. (lib. inc.) 147, 626 (Vahlen 117): Quod bonus et liber populus; Scen. Achilles 5. 7–8 (Vahlen 119): summam tu tibi pro mala/ Vita famam extolles
et pro bona paratam gloriam; Scen.
28, 413 (Valhen 198): Quam bona dicta
teneat; Varia (Hedyphagetica) 37 (Vahlen 219): Brundisii sargus bonus est; Varia (Hedyphagetica) 41 (Vahlen 220): Nestoris
ad patriam hic capitur magnusque
bonusque [scarus]. Il superlativo optimus invece compare invece otto
volte. Questo semplice riscontro numerico conferma un dato già noto; e cioè che
all’epoca di Ennio l’uso nella lingua latina di bonus si era già consolidato [cfr. A. Risicato, Lingua
parlata e lingua d’arte in Ennio2 (Messina-Firenze 1966) 33, 39
s.]. La presenza, ancora nella lustratio
agri di Catone, di tale espressione nella forma duene/duonum dimostra invece l’antichità del testo recitativo che
può anche risalire al VI secolo a. C. Cfr. sul punto O. Sacchi, Il ‘tri-vaso del Quirinale’. Implicazioni giuridico-cultuali legate
alla destinazione fruizione dell’oggetto, in RIDA. 3. 48 (2001) 277 ss.
[40] Ora sul testo decemvirale
cfr. U. Agnati, Leges Duodecim Tabularum. Le tradizioni
letteraria e giuridica. Tabulae I-VI 203 ss. e passim; ma v. anche
G. Franciosi, La versione retorica e la versione giuridica nella disposizione delle
XII tavole, in Ius Antiquum 2(10)
(Mosca 2002) 36 s.
[41] Cfr. Liv. 8. 9. 6; 9. 8.
8–10; Liv. 29. 27. 2–4; Liv. 1. 16. 3; 7. 26. 4; Serv. ad Aen. 1. 731; Liv. 31. 5. 4; 31. 7.
5; Sall. epist. 2. 13. 8; Liv. 1. 32.
8; Sall. epist. 1. 8. 10; Cic. pro Mur. 1.
[42] Macr. sat. 3. 9. 7–10.
[43] D. 50. 16. 60 pr. (Ulp. 69 ad ed.): Locus est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum
aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus: ceterum adeo opinio
nostra et constitutio locum a fundo separata, ut et modicus locus possit fundus
dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat,
sed nostra affectio […] 1. Loci appellationem non solum ad rustica. verum ad urbana quoque praedia
pertinere Labeo scribit. 2. Sed fundus quidem suos habet fines, locus vero latere potest, quatenus
determinetur et definiatur […].
[44] Sul punto mi permetto di
segnalare O. Sacchi, Il mito del pius agricola e riflessi del
conflitto agrario dell’età catoniana nella terminologia dei giuristi
medio/tardo repubblicani, in RIDA.
49 (2002) 256 ss.
[45] Lex agraria epigrafica: (FIRA. 1. 103 ss.) l. 8: utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum
privatorum est, esto; ll. 9 e 10: agrum,
locum aedificium possessionem ex lege plebeive scito; l. 12: ag er locus aedificium privatus siet.
[46] E’
la tesi di fondo di M. Guarnacci, Origini Italiche (in tre voll.) (Lucca
1772) che dedica l’opera alla rivalutazione dell’importanza del ruolo avuto
dalla cultura etrusca nell’Italia pre-romana. Su questi temi v. anche C. De Simone, I Tirreni a Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche
(Firenze 1996).
[47] Su questi temi rinvio a O. Sacchi, Il mito del pius agricola 284.
[48] Varro
l. L. 7. 2. 18: Ut ager Tusculanus, sic Calydonius ager est, non terra; sed lege
poetica, quod terra Aetolia in qua Calydon, a parte totam accipi Aetoliam
voluit; l. L. 5. 33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum
sunt genera quinque: Romanum. Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus.
[49] Cato de agri c. 134. 2: Iane
pater, te hac strue ommovenda bonas preces precor, uti sies volens propitius
mihi liberisque meis domo familiaeque meae; Cato de agri c. 139: …itu sies
volens propitius mihi domo familiaeque meae
liberisque meis: harunce rerum ergo macte hoc porco piaculo immolando esto.
[50] Per maggiori ragguagli sul
punto v. O. Sacchi, Il mito del pius agricola e riflessi del
conflitto agrario dell’epoca catoniana nella terminologia dei giuristi
medio/tardo repubblicani 264 ss.
[51] Cfr. O. Sacchi, Il mito del pius agricola 267.
[52] Cfr. F. Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa 160.
[53] D. 50. 16. 195 (Ulp. 46 ad ed.): ad personas autem
refertur familiae significatio ita, cum de patrono et liberto loquitur lex: ‘ex
ea familia’, inquit, ‘in eam familiam’: et hic de singularibus personis legem
loqui constat. Familiae appellatio refertur et ad corporis cuiusdam
significationem, quod aut iure proprio ipsorum aut communi universae cognationis
continetur […] pater autem familias
appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis
filium non habeat: […]. communi iure
familiam dicimus omnium adgnatorum: nam etsi patre familias mortuo singuli
singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte
eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo et gente proditi sunt.
[54] G. Franciosi, Clan
gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia
romana6 (Napoli 1999). Per l’uso di familia in luogo di gens
v. ad esempio Fest.-Paul. sv. Aureliam
familia (L. 22); Fest.-Paul. sv. Cloelia
familia (L. 48); Fest.-Paul. sv. M. Manilium (L. 112); Fest.-Paul. sv. Nautiorum familia (L. 165); Fest.-Paul. sv. Mamiliorum
familia (L. 116); Fest. sv. familia
(L. 76); Quint. Inst.
or. 3. 7. 20; Tac. ann.
3. 76; Plin. n. h. 33. 21; 34. 137; 7. 187. 55; Macr. sat. 1. 16. 7.