Diverse testimonianze pervenuteci per lo più nelle opere storiografiche conservano il ricordo di numerosi processi per lesa maestà, svoltisi durante il I secolo dell’Impero, nel corso dei quali l’acquisizione della prova del reato sarebbe avvenuta attraverso il ricorso ai tormenta degli imputati liberi e cittadini romani[1].
Ebbene, la dottrina (si può dire assolutamente unanime sul punto) ritiene che l’utilizzo dei tormenta sugli uomini liberi nella repressione penale, categoricamente escluso (nella legislazione come nella prassi, salvo qualche rara, arbitraria eccezione) per tutto il corso dell’età repubblicana (durante il quale la tortura sarebbe stata riservata ai soli schiavi), avrebbe cominciato a diffondersi nella realtà processuale romana proprio a seguito dell’avvento del Principato, come conseguenza da un lato del carattere autoritario che caratterizzò già ab initio (nonostante le apparenze e la propaganda) il nuovo regime e, dall’altro e soprattutto, dell’affermarsi delle cognitiones extra ordinem, che andarono via via acquisendo, almeno per i principali reati, la competenza delle corti permanenti, cognitiones nelle quali, come è noto, non operavano più i vincoli e le restrizioni della giurisdizione ordinaria, essendo lo svolgimento del processo pienamente rimesso alla discrezionalità degli organi giudicanti[2]. Tuttavia, sempre secondo l’interpretazione tradizionale, tale utilizzo, per quanto diffuso, sarebbe rimasto, almeno per tutto il I secolo del Principato, una prassi contra legem, una «illegale eccezione», di fatto attuata e tollerata nel costume giuridico, ma non supportata comunque da alcuna disposizione legislativa[3]. Questa opinione unanime della dottrina, che pur riconoscendo il frequente ricorso alla tortura del reo nella repressione penale già nell’età giulio-claudia e flavia, nega comunque ad esso qualunque legittimità, si basa fondamentalmente su un argomento principe: e cioè l’atteggiamento degli storiografi, i quali, nel riferire sui numerosi processi nel corso dei quali sarebbe stata impiegata la tortura per estorcere all’imputato libero una confessione, avrebbero manifestato la loro chiara disapprovazione al riguardo[4].
Orbene, io credo che questa interpretazione meriti di essere riveduta in quanto non trova, in effetti, reale conforto nel quadro offertoci dalle fonti.
Ai fini di valutare se il testimoniato impiego della tortura sui liberi e sui cives nei processi per lesa maestà svoltisi nel I secolo dell’Impero sia stato effettivamente solo una prassi arbitraria, come sostiene la dottrina qui considerata, dobbiamo infatti tenere presente, a mio avviso, tre circostante determinanti.
La prima è che, almeno a stare alle indicazioni forniteci dalle fonti giuridiche, il Principato si apre con due disposizioni legislative riguardanti la tortura giudiziaria dei cives.
La più risalente in ordine di tempo si colloca nel
27 a. C. (almeno secondo la datazione generalmente accolta[5]) ed è la norma contenuta nella lex Iulia maiestatis di cui ci
forniscono testimonianza un brano delle Pauli
Sententiae e una costituzione del Codice giustinianeo, e con la quale
Augusto avrebbe consentito l’utilizzo indiscriminato della tortura nelle indagini
relative ad ipotesi delittuose rientranti nell’ambito del crimen maiestatis[6]. Il sicuro
riferimento della disposizione alla legge augustea è provato con certezza
dall’inserimento dei brani nei corrispondenti titoli ad legem Iuliam maiestatis dell’opera pseudo-paolina e del Codice
di Giustiniano ed è peraltro comunemente sostenuto.
L’altra disposizione augustea riguardante la tortura è la clausola della lex Iulia de vi publica (emanata plausibilmente tra il 19 e il 16 a. C.[7]) con cui il Princeps punì a titolo di vis publica, sottoponendolo alla competenza di un’apposita quaestio, il comportamento del magistrato che avesse (tra l’altro) torturato un cittadino adversus provocationem, senza tener conto cioè dell’interposta provocatio: norma pervenutaci attraverso due testimonianze assai note agli studiosi del processo penale, un passo cioè delle Pauli Sententiae[8] ed un brano ulpianeo contenuto nel Digesto[9], e comunemente considerata, come è noto, facente parte del testo originario della legge, per la menzione del popolo e della provocatio presente nei passi succitati[10]. Non è qui il caso di soffermarsi sul valore da attribuire al riferimento alla provocatio in un’epoca in cui i iudicia populi erano ormai stati praticamente soppiantati dal sistema delle corti permanenti: credo sia stato sufficientemente dimostrato che la provocatio cui alludeva la legge in questione altro non fosse ormai se non l’opposizione ad una cognitio magistratuale autonoma e, dunque, la richiesta di devoluzione del caso all’organo istituzionalmente competente a conoscere del reato contestato[11].
Comunque sia, io credo che queste due disposizioni, lette correlate tra loro, forniscano un quadro abbastanza chiaro della politica legislativa di Augusto in ordine all’utilizzo della tortura giudiziaria degli uomini liberi e dei cittadini romani nella repressione penale. Augusto, infatti, da un lato ammise la possibilità di impiegare indiscriminatamente la tortura nelle indagini relative a quei reati che minacciavano la salvezza dello Stato, dall’altro attribuì però al cittadino sospettato di un crimen maiestatis il diritto ad opporsi ad una quaestio per tormenta disposta autonomamente dal magistrato nell’ambito dei poteri di coercitio di cui era titolare. Ora, non c’è dubbio che il Princeps, pur ammettendone espressamente l’impiego in rerum maiestatis, nell’aggiungere la tortura ai tradizionali comportamenti tutelati da provocatio (peraltro presto sostituita dall’appellatio all’Imperatore) e nel ricondurre la violazione magistratuale alla competenza della quaestio de vi, abbia in sostanza avocato a sé e ai suoi tribunali il diritto a investigare senza limiti su quei fatti e su quelle persone che mettevano in pericolo la maiestas populi romani[12] e si sia assicurato al tempo stesso e soprattutto un efficace strumento di controllo dell’operato dei magistrati, esposti adesso non più al rischio (in vero assai platonico) del giudizio popolare, ma a quello, assai più concreto (soprattutto col diffondersi delle pratiche delatorie) dell’accusa pubblica de vi, attraverso cui si attivava l’omonima quaestio[13].
Resta da chiedersi, per chiudere sul punto, se l’ammissione della tortura nelle indagini relative a reati di lesa maestà costituisca una novità della legge augustea. Io francamente credo di no, credo che Augusto si sia sul punto solo limitato a recepire una norma già presente in effetti nella lex Cornelia maiestatis di Silla[14]. E in questo senso determinante mi sembra una testimonianza di Ammiano Marcellino (Rer. Gest. 19. 12. 17), il quale, nel riferire sui processi di lesa maestà svoltisi sotto il regno di Costanzo a Scitopoli, processi condotti con estrema durezza, commenta come non sia in sé criticabile il fatto che si indagasse attraverso la tortura nelle indagini relative a fatti che mettevano in pericolo la vita del sovrano, da cui dipendeva la salvezza di tutti, tant’è che – aggiunge – già la lex Cornelia, quando si trattava di difendere la maiestas populi romani, non aveva sottratto nessuno alla possibilità di indagini cruente (ubi maiestas pulsata defenditur, a quaestionibus vel cruentis, nullam Corneliae leges exemere fortunam)[15]. Una testimonianza, questa, che non ha mai goduto in vero di particolare fiducia tra gli studiosi, i quali, basandosi sul fatto che la norma è nelle fonti giuridiche riferita alla lex Iulia maiestatis, ritengono che lo storico sia sul punto caduto in errore citando invece l’omonima legge sillana[16]. Ma, innanzitutto la circostanza che la lex Iulia maiestais contenesse una norma di tal tipo non esclude affatto in linea di principio che un’analoga clausola fosse già stata inserita nella lex Cornelia, giacché è ben possibile che la legge augustea si sia appunto limitata a recepire in proposito la preesistente disciplina. Inoltre, vero è che nelle fonti giuridiche la disposizione sull’utilizzo della tortura in causa maiestatis è imputata alla legge di Augusto. Tuttavia, questo non necessariamente implica che Ammiano sia caduto in errore, giacché non si può non considerare che diversi erano in effetti gli scopi delle citazioni. Mentre infatti i giuristi, nelle loro opere, non potevano ovviamente che far riferimento alla legge più recente, che era appunto la legge giulia, è evidente invece, dal contesto del discorso, che ad Ammiano non interessava affatto richiamare la disciplina vigente, ma dimostrarne, attraverso il ricordo dell’analoga norma prevista già dall’età di Silla, la sostanziale ragionevolezza: la citazione ha qui pertanto chiaramente un valore solo storico[17].
Ciò considerato, io credo che si possa sostenere con buona probabilità che la possibilità di acquisire la prova del reato di lesa maestà attraverso la tortura dell’imputato, anche se libero e cittadino (e addiritura nobile o senatore), fosse stata dunque legislativamente esplicitata già in epoca sillana: tuttavia, anche ammesso che non si voglia dar credito allo storico del tardo antico, resta comunque certo che, quanto meno la lex Iulia maiestatis aveva in effetti autorizzato l’impiego indiscriminato dei tormenta sugli uomini liberi a fini istruttori; come può ulteriormente desumersi, d’altronde, dalla lex Iulia de vi, che, nel riconoscere al cittadino il diritto di opporsi ad una quaestio per tormenta disposta autonomamente dal magistrato, conferma comunque indirettamente la possibilità di ricorrervi legittimamente, sia pure da parte degli organi competenti a conoscere del reato contestato.
La seconda circostanza da tenere presente ai fini di una corretta valutazione dei dati fornitici dalle fonti sulla tortura degli uomini liberi accusati di lesa maestà nel I secolo dell’Impero è costituita dalla progressiva riconduzione del crimen maiestatis nella esclusiva competenza dei tribunali imperiale e senatorio, che si era andata affiancando e poi sostituendo, come è noto, a quella della corrispondente corte permanente: una riconduzione che appare già definitivamente avvenuta, per altro, nella prima età tiberiana, come può desumersi inequivocabilmente dal fatto che è proprio in questo periodo che la quaestio de maiestate cessa definitivamente di funzionare[18].
La terza circostanza da non sottovalutare concerne, infine, le trasformazioni che l’avvento del principato apportò alla configurazione del crimen maiestatis, che, nella nuova realtà politico-costituzionale, assunse soprattutto i caratteri di reato contro il Principe, sostituito al popolo come oggetto di possibile violata maiestas[19]. Non solo: benché Augusto avesse riordinato il delitto di lesa maestà sostanzialmente confermandone la definizione e i contenuti repubblicani, si assiste, come è noto, già dai primi anni dell’Impero, nella prassi dei tribunali imperiali, alla progressiva inclusione nel concetto di maiestas di fattispecie che tradizionalmente non ne avevano mai fatto parte e che non erano state legislativamente previste: tra le quali, come è noto, avere pronunciato o scritto affermazioni ingiuriose o diffamatorie contro l’imperatore, avere violato statue o immagini del principe, avere effettuato pratiche magiche per conoscere il destino dell’Impero, etc[20]. Un’estensione, questa, resa possibile in virtù della flessibilità che caratterizzava la procedura straordinaria e della discrezionalità riconosciuta agli organi giudicanti extra ordinem[21] e che si prestò sovente a numerosi abusi, come quello testimoniatoci ad esempio da Svetonio in riguardo a Tiberio, che giunse a sospettare di qualunque innocente atto della vita quotidiana compiuto per caso davanti ad una statua del Princeps o con addosso una sua effige, processando e condannando per lesa maestà i poveri malcapitati[22].
Ebbene, se adesso riconsideriamo le testimonianze forniteci dalle fonti storiografiche relative al I secolo d. C. sull’impiego della tortura giudiziaria nei processi per lesa maestà intentati contro uomini liberi e cittadini romani alla luce dei dati e delle circostanze fin qui segnalate, io credo che l’idea comunemente sostenuta per cui il ricorso ai tormenta dei liberi nelle indagini istruttorie sarebbe stato durante il Principato dei giulio-claudi e dei flavi solo una prassi contra legem mostri chiaramente la sua debolezza.
Infatti, se è vero che esistevano prescrizioni legislative risalenti (se non addirittura a Silla, come sembrerebbe attestare Ammiano) quanto meno ai primordi dell’Impero che autorizzavano l’acquisizione della prova anche attraverso la tortura, qualunque fosse la condizione dei sospettati, almeno da parte degli organi istituzionalmente competenti a giudicare in rerum maiestatis, a cui il cittadino indagato dal singolo magistrato poteva comunque, attraverso provocatio, chiedere che fossero demandate le relative indagini; se è vero che i tribunali del Principe e del Senato erano diventati da subito i tribunali attraverso cui si procedeva comunemente alla repressione del crimen maiestatis, fino a quel momento rimesso alla competenza della corrispondente corte permanente; e se è vero che è unicamente per ipotesi delittuose rientranti comunque nel crimen maiestatis (pur nella nuova e più ampia configurazione assunta da questo reato) che la tortura degli uomini liberi venne di fatto praticata, e non solo nell’ambito delle cognitiones imperali, ma anche nei processi che si svolgevano, ad esempio, davanti ai governatori provinciali: se tutto questo è vero, insomma, come si può definire arbitrario o contra legem l’impiego dei tormenta sui liberi attestato nelle indagini relative a processi per lesa maestà svoltisi durante il I secolo dell’Impero? A me non pare affatto che questa ricostruzione corrisponda realmente al panorama offertoci dalle fonti, la cui valutazione complessiva induce chiaramente a credere che la tortura non venne affatto utilizzata contra legem, ma secundum legem: anzi, più precisamente, secundum leges, e in specie secundum leges Iulias maiestatis et de vi publica. Sono queste, infatti, le disposizione normative che senza ombra di dubbio supportavano, almeno formalmente, l’utilizzazione della tortura degli uomini liberi e dei cittadini nelle indagini istruttorie condotte dagli organi cui era devoluta la competenza a giudicare del crimine di lesa maestà: competenza ordinariamente spettante appunto, come si è detto, nel periodo qui considerato, a Roma soprattutto ai tribunali imperiale e senatorio e, in provincia, ai governatori.
Ma allora, se così fu, ciò significa dunque che tutto si è svolto secondo norma? Che nessuna anomalia è cioè da segnalare sul punto nel comportamento processuale degli organi preposti alla repressione penale nel I secolo dell’Impero?
No di certo, anzi…Ma qui si tratta di aprire un capitolo diverso della storia della tortura, che non attiene tanto alla legittimità formale del ricorso a questo strumento d’indagine processuale, quanto al modo in cui esso venne in effetti utilizzato nella realtà processuale e, soprattutto, ai fini per raggiungere i quali se ne fece sovente ricorso[23]. E su questo punto, ovviamente, c’è molto da segnalare e molto infatti ci hanno segnalato gli stessi storiografi romani, la cui tanto esaltata disapprovazione espressa al riguardo non sottintende affatto, a mio avviso, un giudizio di «illegalità» della tortura utilizzata, in causa maiestatis, come strumento istruttorio ad eruendam veritatem, come usualmente si ritiene, ma evidenzia piuttosto la dura condanna morale a cui certe specifiche condotte degenerative poste in essere nella pratica furono soggette già da parte degli intellettuali dell’epoca.
Emblematiche in questo senso sono, d’altronde, soprattutto due testimonianze, rispettivamente di Seneca e di Tacito. Nella prima, tratta dal De ira (3. 18. 3), Seneca, dopo aver riferito che Gaio Caligola torturava i senatori e i cavalieri, aggiunge significativamente che il Principe faceva ciò non quaestionis, sed animi causa, non cioè a scopo di indagine processuale, ma per pura malvagità d’animo[24].
La seconda attestazione è contenuta nel brano assai noto e studiato degli Annali di Tacito relativo alla persecuzione dei cristiani ad opera di Nerone (15. 44. 2–5)[25]. Ebbene, Tacito, come è noto, non nutre alcuna simpatia verso la dottrina cristiana (che definisce una exitiabilis superstitio)[26]: cionondimeno, pur affermando che i cristiani erano meritevoli di castighi esemplari (unde quamquam adversus sontes et novissima exempla meritos miseratio oriebatur), accusa ugualmente Nerone di avere agito tuttavia nei loro confronti non utilitate publica, sed in saevitiam unius, non cioè per la salvezza dello Stato, ma unicamente per saziare la sua crudeltà d’animo[27].
Ebbene, si tratta, come si vede, di due testimonianze particolarmente eloquenti ai nostri fini: per Seneca e Tacito, infatti, non erano i supplicia utilizzati quaestionis causa (a scopo cioè di indagine processuale, per estorcere al reo una confessione o una testimonianza) ed utilitate publica (al fine cioè di salvaguardare la salvezza dello Stato) ad essere in discussione, ma il fatto che i Principes ne avessero fatto ricorso animi causa ed in saevitiam unius, cioè unicamente per soddisfare la loro malvagità d’animo.
Affermazioni, queste, che peraltro si presentano sostanzialmente analoghe a quelle con cui già Cicerone, nell’Actio secunda in Verrem, aveva prudentemente cercato di parare una assai probabile obiezione di Ortensio, il difensore di Verre (in Verr. 2. 5. 133). A proposito della vicenda dei capitani della flotta romana catturata dai pirati, che Verre accusò di tradimento facendoli torturare ed uccidere[28], Cicerone chiarisce infatti espressamente di non rimproverare a Verre il metus e la severitas dimostrati, né i crudeli supplicia disposti nella repressione di un reato infamante come quello da lui contestato agli imputati, ricordando – e implicitamente approvando – anzi il fatto che già in passato assai spesso fossero stati giustamente trattati con analoga severità ed energia non solo i socii, ma anche i cittadini ed i soldati romani macchiatisi di simili reati: lo accusa però di avere imputato a degli innocenti fatti di cui egli era invece il solo responsabile (ego culpam non in navarchis sed in te fuisse demonstro, te pretio remiges militesque dimississe arguo)[29]. Come poi faranno Seneca e Tacito, già Cicerone, dunque, non contestava la necessità di ricorrere ai supplicia nella repressione dei reati più gravi, richiamando anzi a proposito il mos dei maiores: contestava invece l’uso arbitrario del processo e degli strumenti processuali per il raggiungimento di fini personali e per colpire degli innocenti, come erano appunto i navarchi falsamente accusati da Verre di tradimento. Una testimonianza, questa, assai significativa e che getta una nuova luce, peraltro, sul brano precedentemente menzionato di Ammiano Marcellino e, più in generale, sull’idea di un’assoluta inibizione, in età repubblicana, dell’uso della tortura dei liberi. Ma su questo credo di avere già espresso altrove la mia opinione[30].
Comunque sia, per l’arco temporale che in questo momento ci interessa più specificamente, risulta evidente, mi sembra, che, contrariamente a quanto comunemente sostenuto in dottrina, ciò su cui si incentrava la critica degli storiografi non era l’utilizzo della tortura in sé, come mezzo di indagine processuale per fatti in cui era in gioco la salvezza dello Stato, ma l’uso strumentale del processo e degli strumenti processuali per scopi diversi da quelli a cui avrebbero dovuto essere indirizzati. Più in specie, l’uso distorto dell’accusa di lesa maestà e, conseguentemente, l’impiego della tortura nelle relative indagini, fatti non al fine di individuare e punire chi fosse realmente sospettato di un sì grave crimine contro lo Stato (nel qual caso i tormenta apparivano ai loro occhi pienamente legittimi), ma unicamente per eliminare gli avversari politici o i personaggi non allineati alla politica imperiale, o per coprire le proprie responsabilità. Uso distorto certo agevolato soprattutto dalla già segnalata estensione che il concetto di maiestas subì nella pratica dei tribunali imperiali e che portò ad includere nell’ambito del relativo crimen nuove e più effimere fattispecie che tradizionalmente non ne avevano fatto parte; estensione a sua volta discendente, come si è detto, dalla discrezionalità riconosciuta agli organi giudicanti e dalla flessibilità che caratterizzarono le procedure estraordinariae. Ciò che consentì appunto ad alcuni imperatori e funzionari imperiali di servirsi più facilmente – e in questi casi sì arbitrariamente – del reato di maiestas per accusare, torturare ed eliminare i propri nemici o per procurarsi dei capri espiatori.
(РЕЗЮМЕ)
Статья
К. Руссо
Руджери
посвящена
проблеме
применения
пыток в ходе
следствия по
многочисленным
судебным
делам об
оскорблении
величия,
имевшим
место в I в. н. э.
Автор
отмечает, что
в
современной
историографии
сложилась
устойчивая
точка зрения,
согласно которой
пытки,
применяемые
в отношении
свободных
римских
граждан в
начале I в. н. э.,
совершались
вопреки
существовавшим
законам.
Однако
автор
подвергает
сомнению
правильность
такой точки
зрения,
предлагая
обратиться к
данным
источников.
Она отмечает
три основных
аспекта.
Во-первых,
юридические
источники
указывают на
существование
законов Юлия
конца I
в. до н. э.,
разрешавших
применение
пыток в отношении
не только
рабов, но и
граждан в
делах,
касающихся
государственных
преступлений.
Так, она
ссылается на lex Iulia maiestatis 27 г. до
н. э. (Paul. Sent. 5. 29.
2; CI. 9. 8. 4) и
на lex Iulia de vi publica 19 или 16
г. до н. э. (Paul. Sent. 5. 26. 1; D. 48. 6. 7). Придя к
выводу о том,
что
применение
пыток по
делам о государственной
измене было
регламентировано
законами
Октавиана,
автор
отмечает, что
применение
пыток не было
нововведением
августовской
эпохи. Так,
уже закон
Корнелия
Суллы об
оскорблении
величия
римского народа,
согласно
Аммиану
Марцеллину (Res. gest. XIX. 12. 17),
регламентировал
применение
пыток в ходе
следствия по
делам о crimen maiestatis.
Во-вторых,
уже в эпоху
Тиберия,
несомненно, дела
по crimen maiestatis
рассматривались
исключительно
в постоянно
действующей
уголовной
судебной
комиссии по
делам об оскорблении
величия.
Наконец,
третьим
фактором
является то
обстоятельство,
что уже в
эпоху Юлиев –
Клавдиев это crimen maiestatis стало
рассматриваться
как
преступление
против
величия
принцепса, а
не народа. К
тому же
новые,
появившиеся
в этот период
нормы касались
именно
случаев
оскорбления
императора.
Все
эти факторы
свидетельствуют
о том, что никакой
противозаконности
в применении пыток
в делах об
оскорблении
величия не было.
Тогда чем
объяснить
суровое
моральное осуждение
применения
пыток,
которое встречается
у римских
историков
этого
периода. Речь
идет прежде
всего о двух
фрагментах:
из Сенеки (De ira. III. 18. 3) и из
Тацита (Ann. XV. 44. 2–5).
Анализируя
эти тексты,
автор весьма
убедительно
доказывает,
что в них
речь идет не о
незаконности
применения пыток
как таковых,
а об их
бесполезном
для государства
применении к
невинным
людям, тешащем
ненужную
жестокость
следствия.
Подобное
моральное
осуждение
неоправданной
жестокости
судебного
магистрата
еще
республиканской
эпохи по
отношению к
невиновным
союзникам и
даже римским
гражданам
демонстрирует
и Цицерон в
речи против
Верреса (in Verr. 2. 5.
133), что лишний
раз
подтверждает
законность
применения
пыток и по
закону
Корнелия Суллы
об
оскорблении
величия.
В
заключении
автор еще раз
подчеркивает,
что применение
пыток в делах
о crimen maiestatis в I в. н. э.
было вполне
законным,
однако
осуждалось
применение
пыток в
целях,
отличных от тех,
которые были
установлены
законами.
[1] Cfr., in specie, per il Principato di Augusto,
Svet. Aug. 19. 2, 27. 4; per Tibero,
Svet. Tib. 19, 58, 62. 1. 3; Tac. Annn. 3. 50. 1–2, 4. 45. 1–2; Dio Ca.
57. 19. 2; per Gaio Caligola, Sen. De ira
3. 18. 3, Dio Ca. 59. 25. 5 e 6, Svet. Calig.
32. 1; per Claudio, Dio Ca. 60. 15. 5–6, 16. 1–3; 31. 4–5; Tac. Annn. 11. 22. 1, Svet. Claud. 34. 1; per Nerone, Tac. Ann. 14. 24. 3, 15. 44. 2–5, 15. 56.
1–4, 57, 16. 20. 2; per Domiziano, Svet. Dom.
10. 5. Per una estesa valutazione di queste fonti rimando al mio Quaestiones ex libero homine, La tortura
degli uomini liberi nella repressione criminale romana dell’età repubblicana e
del I secolo dell’Impero, Milano, 2002, p. 137 ss.
[2] In tal senso, tra gli altri, cfr. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, p. 405 ss. (= Le droit pénal romain, II, Paris, 1907, p.
80 ss., da cui il lavoro sarà d’ora in poi citato); Lécrivain, s. v.
Testimonium, in Daremberg-Saglio, V, Paris, 1912, p.
153; Costa, Cicerone giiureconsulto, 2, Bologna, 1927, p. 147; Ehrhardt, s. v. Tormenta, in REPW, VI
A 2, Stuttgart, 1937, 1780 ss.; Mellor, La torture, son histoire, son abolition sa
réapparition au XXe siècle, Paris, 1949, p. 52 s.; Fiorelli, La tortura
giudiziaria nel diritto comune, I, Milano, 1953, p. 22 ss.; De Marini Avonzo, La funzione giurisdizionale del Senato romano, Milano, 1957, p.
110 s.; Pansolli, s. v. Tortura, in NNDI, 19, Torino, 1957, p. 425; Pugliese, La prova nel
processo romano classico, in Jus, 11, 1960, p. 405 ss. (= La preuve dans le procès romain de l’époque
classique, in Recueils de la Societé
Jean Bodin, La preuve, Bruxelles,
1964, ora anche in Scritti giuridici
scelti, I, Napoli, 1985, p. 321 s., da cui il lavoro è qui citato); Garnsey, Social Status and legal Privilege in the Roman Empire, Oxford, 1970, p. 143; Brasiello, s. v.
Istruzione del processo (dir. rom.), in ED,
23, Milano, 1973, p. 136 s.; Brunt,
Evidence given under Torture in the
Principate, in ZSS, 97, 1980, p.
259; Robinson, Slaves and the
criminal Law, in ZSS, 98, 1981,
p. 223; Marotta, Multa de iure sanxit, Aspetti della politica
del diritto di Antonino Pio, Milano, 1988, p. 321 ss.; Vincenti, Duo genera sunt testium, Contributo
allo studio della prova testimoniale nel processo romano, Padova, 1989, p.
120 ss.; Cerami, Tormenta pro poena adhibita, in AUPA, 41, 1991, p. 33 ss.; Lévy, La
torture dans le droit romain de la preuve, in Collatio iuris romani, Études Dédiées à Hans Ankum, I, Amsterdam,
1995, p. 241 s.; Fasano, La torture judiciaire en droit romain,
Neuchâtel, 1997, p. 131 s.; Giuffré, La repressione criminale nell’esperienza
romana5, Profili, Napoli, 1998, p. 160; Santalucia, Diritto e
processo penale nell’antica Roma2, Milano, 1998, p. 246; Lucrezi, Postfazione a V. Giuffrè, La passione di S. Potito, in Quaestiones,
Momenti di vita processuale romana
(Collana diretta da F. Amarelli e F. Lucrezi), 3, Napoli, 2001, p. 63 ss.
[3] Di «illegali eccezioni» parla espressamente il Fiorelli, La tortura giudiziaria, cit., p. 27. Per la De Marini Avonzo, La funzione giurisdizionale, cit., p. 111 si tratterebbe di un
«abusivo atto d’arbitrio»; in termini di «abuse of power», di «prassi contra legem» e di «pratique…contraire
au droit» si esprimono invece rispettivamente il Brunt, Evidence,
cit., p. 260, il Marotta, Multa de iure sanxit, cit., p. 322 e il
Fasano, La torture judiciaire, cit., p. 135. Il Pansolli, s. v.
Tortura, cit., p. 425, infine, qualifica gli episodi attestatici come
«violazioni dell’antica regola».
[4] Così, tra i più espliciti, cfr. Fiorelli, La tortura giudiziaria, cit., p. 27 e De Marini Avonzo, La
funzione giurisdizionale, cit., p. 111.
[5] Per questa datazione v. Bauman, The Crimen
Maiestatis in the Roman Republic and Principate, Johannesburg, 1967, p. 275
ss., che fa leva principalmente sul confronto tra D. 48. 4. 3 e la normativa
riferita da Dio Ca. 53. 15. 6 per l’anno 27 a. C.
[6] Cfr. P. S. 5.
29. 2 (In rerum maiestatis……nulla
dignitas a tormentis excipitur) e CI. 9. 8. 4 (= CTh. 9. 35. 1) (excepta tamen maiestatis causa, in qua sola
omnibus aequa condicio est).
[7] È questa la data più comunemente accolta in
dottrina (in tal senso v., ad esempio, Coroi,
La violence en droit criminel
romain, Paris, 1915, cit., p. 141 ss. e, tra gli ultimi, Cloud, Lex Iulia de vi: Part I,
in Atheneaum, 76, 1988, p. 586 ss.;
dubbioso invece il Santalucia, Diritto e processo, cit., p. 198 nt.
37).
[8] P. S. 5. 26. 1 Lege Iulia de vi publica
damnatur, qui aliqua potestate praeditus civem romanum antea ad populum, nunc
imperatorem appellantem necaverit necarive iusserit, torserit verberaverit
condemnaverit inve publica vincula duci iusserit. Cuius rei poena in humiliores
capitis in honestiores insulae deportatione coercetur.
[9] D. 48. 6. 7 (18 de off. proc.) Lege Iulia de
vi publica tenetur, qui, cum imperium potestatemve haberet, civem romanum
adversus provocationem necaverit verberaverit iusseritve quid eorum quae supra
scripta sunt fieri aut quid in collum iniecerit, ut torqueatur.
[10] Tra i molteplici autori che ritengono il caso in
questione sicuramente rientrante tra le ipotesi ab origine incluse nella previsione legislativa, cfr. Pugliese, Appunti sui limiti dell’imperium nella repressione penale, Torino,
1939, p. 67 s.; Orestano, L’appello civile in diritto romano,
Torino, 1966, p. 144 ss.; Garnsey, The lex Julia
and the appeal under the Empire, in JRS,
1966, p. 168 ss.; Lintott, Violence in Republican Rome, Oxford,
1968, p. 265 ss.; Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina
nel diritto romano, Padova, 1969, p. 206; s. v. Violenza (dir. rom.), in ED,
46, Milano, 1993, p. 838 e nt. 78; Santalucia,
Diritto e processo, cit., p.
199. Contra, Costa, Sul crimen vis
nel diritto romano, in RAIB, 2,
1917–18, p. 31 ss. e, di recente, Venturini,
Pomponio, Cicerone e la provocatio,
in Nozione formazione e interpretazione
del diritto dall’età romana alle esperienze moderne, Ricerche dedicate al
Professor Filippo Gallo, II, Napoli, 1997, p. 561 ss., per il quale il
nucleo originario della legge andrebbe circoscritto al necare e al verberare,
mentre l’inserimento della tortura sarebbe frutto di aggiunte posteriori.
[11] Così Pugliese,
Appunti, cit., p. 79, la cui opinione
è espressamente accolta dall’Orestano,
L’appello civile, cit., p. 145 nt. 1.
Sulla questione v. anche Santalucia,
Diritto e processo, cit., p. 220 e Russo Ruggeri, Quaestiones, cit., p. 98 ss.
[12] In tal senso v., da ultimo, Lucrezi, in Quaestiones, 3, cit., p. 65 e Russo
Ruggeri, Quaestiones, cit., p.
131 s.
[13] Sottolinea l’importanza «non da poco»
dell’innovazione, che «esponeva il contravventore non più al rischio, che
l’esperienza aveva dimostrato platonico, del giudizio popolare di perduellio ma a quello, reso ben più
concreto di prima dalla specifica norma in questione, dell’accusa pubblica» in
specie il Venturini, Pomponio, Cicerone, cit., p. 561.
[14] Cfr. Russo
Ruggeri, Quaestiones, cit., p.
110 ss.
[15] Amm. Marc. Rer. Gest. 19. 12. 17 Et inquisitum in haec negotia
fortius, nemo qui quidem recte sapiat reprehendet. Nec enim abnuimus salutem
legitimi principis, propugnatoris bonorum et defensoris, unde salus quaeritur
aliis, consociato studio muniri debere cunctorum; cuius retinendae causa
validius, ubi maiestas pulsata defenditur, a quaestionibus vel cruentis, nullam
Corneliae leges exemere fortunam. Sul brano v., per tutti, Zumpt,
Das Kriminalrecht der römischen Republik, II, Berlin, 1868 (rist. Aalen, 1993), p. 390 ss.; Mommsen, Le droit pénal, II, cit., p. 83 nt. 1; Ehrhardt,
s. v. Tormenta, cit., 1783; Fiorelli,
La tortura giudiziaria, cit., p. 26 s.; Bauman, The Crimen maiestatis, cit., p. 83 s.; Garnsey, Social Status, cit., p.
143; Navarra, Riferimenti
normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle Res Gestae di Ammiano
Marcellino, Milano, 1994, p. 82 s.
[16] Così in specie Mommsen,
Le droit pénal, II, cit., p. 83 nt. 1; Ehrhardt, s. v. Tormenta, cit. 1783; Fiorelli,
La tortura giudiziaria, cit.,
p. 26 s.; Garnsey, Social Status, cit., p. 143; Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., p. 83 s.
[17] In tal senso v. già le considerazioni dello Zumpt, Das Kriminalrecht, II, cit., p. 391 e, più ampiamente, il mio Quaestiones, cit., p. 112 ss.
[18] Su ciò cfr., in specie, Santalucia, Diritto e
processo, cit., p. 236 s.
[19] Per tutti, cfr. Cloud,
The text of Digest XLVIII, 4: ad
legem Iuliam maiestatis, in ZSS, 80,
1963, p. 206 ss.; Bauman, The Crimen maiestatis, cit., p. 206 ss.;
Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il
principato, in ANRW, 14, 2,
Berlin – New-York, 1982, cit., p. 750 ss.; Fasano,
La torture judiciaire, cit.,
p. 141; Santalucia, Diritto e processo, cit., p. 256 s.
[20] Per tutti, Pugliese,
Linee generali, cit., p. 751 e Santalucia, Diritto e processo, cit., p. 256 s.
[21] Sui caratteri dei procedimenti extraordinari cfr., per tutti, Pugliese, Linee generali, cit., pp. 739 ss. e 759 ss.
[22] Cfr. Svet. Tib. 58.
[23] D’altronde, come molto opportunamente sottolinea
il Fiorelli, La tortura giudiziaria, cit., p. 20, è evidente che «la storia
della tortura non è solamente storia di leggi». Avverte come, soprattutto in riguardo
agli strumenti dell’apparato repressivo, accadesse sovente che una norma,
formalmente rispettata, venisse poi applicata, nella prassi politica, «in modo
perverso», attraverso un uso improprio delle misure coercitive «per fini
personali, o ideologici, o politici, occultati dietro la parvenza
dell’osservanza della regola giuridica, da parte degli stessi poteri pubblici»,
da ultimo, il Lovato, Il carcere nel diritto penale romano, Dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994, p.
28.
[24] Sen. De
ira 3. 18. 3 Quid antiqua perscrutor? Modo C.
Caesar Sex. Papinium, cui pater erat consularis, Betilienum Bassum quaestorem
suum, procuratoris sui filium, aliosque et senatores et equites Romanos uno die
flagellis cecidit, torsit, non quaestionis sed animi causa. Su questa testimonianza, nella prospettiva qui
considerata, cfr., tra gli altri, Mellor,
La torture, cit., p. 67; Fiorelli, La tortura giudiziaria, cit., p. 27 nt. 6; De Marini Avonzo, La
funzione giurisdizionale, cit., p. 111 nt. 145; Garnsey, Social Status,
cit., p. 144; Marotta, Multa de iure sanxit, cit., p. 322 nt.
205; Fasano, La torture judiciaire, cit., p. 209.
[25] V. Tac. Ann. 15. 44. 2–5: Sed
non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat
infamia, quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit
reos et quaesitissimis poenis affecit, quos per flagitia invisos vulgus
Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per
procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens
exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius
mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt
celebranturque. Igitur primum
correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in
crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita
ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus
adfixi atque flammati, ubi defecisset dies, in usum nocturni luminis urerentur.
Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu
aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. Unde quamquam adversus sontes
et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate
publica, sed in saevitiam unius absumerentur. Sull’incendio di Roma, sulla persecuzione dei cristiani da parte di Nerone
e sul passo degli Annali di Tacito surriportato, che costituisce la principale
fonte della vicenda, esiste una vasta letteratura: ai contributi più antichi
(per la cui elencazione rimando alle note bibliografiche contenute in Storia
Antica, X, 2, cit., p. 1213 ss. e ANRW, II, 23. 1, Berlin – New York, 1979, p.
248 s.), si aggiungano, tra gli altri, Ronconi,
Tacito, Plinio e i cristiani, in Studi Paoli, Firenze, 1956, p.
615 ss.; Beaujeu, L’incendie de
Rome en 64 et les chrétiens, Bruxelles, 1960; Capocci, Christiana I: Per il testo di Tacito, Annales 15,
44, 4 (sulle pene inflitte ai cristiani nel 64 d. Cr.), in SDHI, 28,
1962, p. 65 ss.; Christiana II: Nota sulla persecuzione neroniana contro i
cristiani in Roma l’anno 64 d. Cr. e sulla sua base giuridica, in SDHI,
36, 1970, p. 21 ss.; Koestermann, Ein
folgenschwerer Irrtum des Tacitus (Ann. XV, 44. 2 ff.), in Historia,
15, 1967, p. 456 ss.; Momigliano, Nerone,
in Storia antica, X, 2, L’impero di Augusto (44 a. C.-70 d. C.),
Milano, 1968, p. 942 ss.; Lanata, Gli
atti dei martiri come documenti processuali, Milano, 1973, p. 51 e nt. 43; Keresztes, The imperial Roman
Government and the Cristian Church, I, From Nero to the Severi, in ANRW,
II, 23, 1, cit., p. 247 ss.; Siniscalco, Il
cammino di Cristo nell’Impero romano, Bari, 1983, p. 25; Albanese, Tacito, i cristiani e
l’incendio neroniano (Ann. 15. 44), in SDHI, 48, 1982, p. 445 ss. (=
Scritti giuridici, II, Palermo, 1991, p. 1585 ss., da cui il lavoro è
qui citato).
[26] Ma in tal senso si esprimono anche Svet. Nero 16. 2 (v. la nota precedente) e
Plin. Ep. 10. 96. 8 (sed nihil aliud inveni, quam superstitionem
pravam, immodicam) e 10. 96. 9 (superstitionis
istius contagio).
[27] Sottolinea il valore di questo commento di Tacito
in specie l’Albanese, Tacito, cit., p. 1602. Va precisato in
vero che i supplizi su cui più dettagliatamente riferisce Tacito (le belve, la
croce e la vivicombustione) furono chiaramente inflitti ai cristiani pro poena. E’ assai probabile tuttavia
che non meno crudeli tormenta fossero
stati utilizzati anche nelle indagini, sia pure subdole e frettolose, che
certamente precedettero la condanna degli imputati (così v. anche Capocci, Christiana II, cit., p. 95). Diverso è invece in proposito il
parere, a mio avviso tuttavia non condivisibile, dell’Albanese, Tacito,
cit., p. 1602, per il quale non ci sarebbero stati processi di sorta, ma la
repressione sarebbe avvenuta attraverso «una crudele esibizione voluta dal
folle imperatore al di là delle forme giuridiche». Un’idea, questa, che sembra
risentire del pregiudizio assai diffuso in dottrina per cui la persecuzione dei
cristiani avrebbe avuto poco a che fare con il diritto (su cui v. le acute
osservazioni del Giuffré, La repressione, cit., p. 115 e La passione di S. Potito, in Quaestiones, 2, cit., p. 2 ss., seguito,
da ultimo, dal Miglietta, Una recente indagine storico-giuridica sul
processo contro Gesù, in AG, 221,
2001, p. 475) e che appare smentita, inoltre, nel caso di specie, da quel Nero subdidit reos con cui Tacito sembra
chiaramente alludere (come lo stesso a., op.
cit., p. 1601, d’altronde, non manca di rilevare) all’instaurazione di veri
e propri processi contro i cristiani. Peraltro, non senza valore mi pare anche
l’osservazione per cui, se l’accusa ai cristiani era – come Tacito sottolinea
espressamente (abolendo rumori!) –
finalizzata a far tacere le dicerie che cominciavano a diffondersi sempre di
più sul conto di Nerone, anche sul piano utilitaristico appare preferibile
l’idea che egli avesse cercato di mascherare la repressione attribuendole una
sia pure minima parvenza di legalità.
[28] Cfr, Cic. in Verr. 5. 2. 82 ss.
[29] Cfr. Cic. in Verr. 2. 5. 133 Etiam illud
praecidas licet, te, quod supplicium more maiorum sumpseris securique
percusseris, idcirco a me in crimen et in invidiam vocari. Non in
supplicio crimen meum vertitur; non ego nego securi quemquam feriri debere, non
ego metum ex re militari, non severitatem imperi, non poenam flagiti tolli dico
oportere; fateor non modo in socios sed etiam in civis militesque nostros
persaepe esse severe ac vehementer vindicatum. Quare haec quoque praetermittas
licet. Ego culpam non in navarchis sed in te fuisse demonstro, te pretio
remiges militesque dimississe arguo. Su questo passo, nell’ottica qui considerata, v., da ultimo, Venturini, in Quaestiones, Momenti di vita processuale romana (Collana diretta da F.
Amarilli e F. Lucrezi), 2, Il
processo contro Gesù, Napoli, 1999, p. 21 s.
[30] Per una più ampia dimostrazione rimando a Quaestiones, cit., p. 29 ss.