ds_gen Ius Antiquum N. 17 - 2006

 

 

 

L. PEPPE*

 

Riflessioni sulla nozione di ‘iustitia’

nella tradizione giuridica europea

 

1. Il titolo del presente contributo è volutamente generico; ovviamente esso aveva fin dall’inizio un oggetto abbastanza determinato, che però era difficile condensare in un titolo. Si tratta infatti di considerazioni circa alcune formule e categorie attribuite al diritto romano ed aggregabili intorno alla nozione di iustitia: considerazioni che sembravano confluire in una riflessione su quelle formule e sulla loro utilizzazione nella tradizione romanistica e più in generale nella storia europea. Una riflessione in realtà condotta con una particolare prospettiva, quella della valenza di quei significanti cd. ‘romani’ sullo sfondo storico e storiografico del nazismo.

Quanto qui si dirà verterà quindi sulla storia di alcune formule e sintagmi determinati, sui quali per ragioni e in momenti diversi è caduta la mia attenzione negli anni più recenti, talvolta al margine di argomenti che con quel nucleo centrale problematico avevano punti di contatto esili, oppure anche per occasioni fortuite. Ricordo questo percorso al fine di evidenziare come quanto segue non costituisca il risultato definitivo di una ricerca sistematica, ma solo una riflessione d’insieme nella quale vengono collocati e riletti alcuni risultati di diverse ricerche particolari, già pubblicate o in corso di pubblicazione[1].

 

2. Prenderò avvio dal particolare interesse che ancora in anni recentissimi ha conosciuto una domanda angosciosa: com’è stato possibile, nella cultura europea, arrivare dal romano cuique suum al motto nazista jedem das Seine apposto all’ingresso del lager di Buchenwald[2]. Da ultimo si è posto, nel 2005, questa domanda lo storico olandese del diritto intermedio, Govaert van den Bergh, trovando la risposta nelle moderne concezioni razionalistiche e positivistiche del diritto.

Altri studiosi, come il filosofo tedesco del diritto Hermann Klenner, hanno ribadito la convinzione già kelseniana (e poi di Ernst Topitsch) circa il sintagma cuique suum che esso, così come jedem das Seine, di per se stesso non esprima in realtà un contenuto, ma sarebbe una formula vuota che di volta in volta lo riceve dai concreti ordinamenti. Analoga considerazione è stata espressa nel 2001 da Jutta Limbach, allora Presidente della Corte Costituzionale della RFT.

È di questo avviso anche Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista italiano, ex presidente della Corte Costituzionale, il quale nel novembre 2004, introducendo una sua riflessione sulla giustizia nel contesto delle “Lezioni Norberto Bobbio”, così scriveva: “Prendiamo la più famosa e comprensiva tra le formule della giustizia, l'unicuique suum tribuere, il” a ciascuno il suo” dei giureconsulti romani, o la sua riformulazione “tratta gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso”. [ … ] Formule come queste possono essere accolte da chiunque [ … ]. I campi di sterminio, per esempio, sono in regola con questa massima della giustizia. Il motto di benvenuto al campo di Buchenwald [ … ] era, per l'appunto, jedem das Seine, a ciascuno il suo, … ”. Così Zagrebelsky.

 

3. L’accostamento tra il principio di diritto romano e il “motto” nazista appare a prima vista pienamente pertinente; essi sembrano due enunciati convergenti o addirittura sovrapponibili sia nella loro formulazione lessicale sia nel loro significato ultimo: in taluni autori è infatti esplicita l’ipotesi di un rapporto di discendenza l’uno dall’altro (sia pure con la consapevolezza della molteplicità di contesti nel tempo); in altri invece il motto di Buchenwald è utilizzato come momento di verifica (“per l’appunto”, dice Zagrebelsky) dell’interpretazione data alla formulazione costruita dai giureconsulti romani.

Questa utilizzazione di principi giuridici romani può apparire “continuista” oppure decontestualizzata: ma in realtà anche la decontestualizzazione è una forma di continuismo (sia pure realizzata attraverso l’atemporalità). Una siffatta utilizzazione può provocare nel giusromanista una reazione di cautela circa la legittimità della sovrapposizione e quindi della rappresentazione data; nel mio caso, tale reazione potrebbe essere anche conseguenza dell’esperienza precedentemente fatta in una concreta vicenda, nella quale si è verificato che un brocardo (Societas delinquere non potest) spesso attribuito al diritto romano in realtà aveva certamente una storia molto interessante, ma assai più recente[3]. Infatti, anche se forse in diritto romano si può trovare qualche testo che in effetti nella tradizione romanistica è stato utilizzato in quella direzione, il brocardo non è romano, è di origine sconosciuta (e piuttosto recente) e probabilmente deriva dall’adattamento ottocentesco di una regola di diritto canonico, in una complessa mediazione pandettistico/penalistica.

Non è questo certo il caso di cuique suum, che ha una storia molto più documentata e sicura nelle sue origini romane. Vi è però un punto di stretto contatto con la problematica e il tempo che qui ci interessa; infatti il brocardo societas delinquere non potest è stato utilizzato nel processo di Norimberga dal difensore della Gestapo, Rudolf Merkel, che lo ha ricordato – attribuendolo appunto al diritto romano – al fine di sostenere l’impossibilità della responsabilità dell’organizzazione in quanto tale, perché la responsabilità penale può essere esclusivamente personale: non si tratta qui di un uso “nazista” di un principio di diritto romano, al contrario si tratta dell’uso – si potrebbe dire illuminista – di un principio asserito come dell’intera umanità e del diritto romano in particolare, a difesa del più indifendibile degli imputati, in un processo fortemente ispirato al diritto naturale.

In altri e più generali termini, in un contesto drammatico della storia europea i principi del diritto romano sembrano emergere, in vario modo, come un punto di riferimento ideale, nel bene e nel male; questo ruolo, che evidentemente è parte integrante della cultura europea (e non solo), deve però essere da una parte esaminato nel suo contesto di utilizzazione e dall’altra studiato nella sua portata originaria, con la miglior consapevolezza possibile di quanto è intercorso nel frattempo. Del resto, proprio nell’esperienza dell’area tedesca il diritto romano ha conosciuto ripetutamente (e conosciuto ripetutamente (e ciclicamente) i due estremi dell’adozione piena (dalla Rezeption alla Pandettistica) e del rifiuto più netto (da Lutero al nazismo).

In tempi recentissimi ho avuto l’opportunità di verificare in un altro, ma analogo, contesto quanto l’uso di una categoria romana possa sembrare a prima vista affascinante ed utile per spiegare una realtà del nostro tempo, salvo risultare successivamente – ad un esame critico – fondato su un’interpretazione delle fonti romane inaccettabile da parte di un giusromanista[4]. Si tratta della rappresentazione dei perseguitati dal nazismo, in primo luogo degli ebrei, nei termini della figura romana arcaica dell’homo sacer, cioè di esseri umani che sarebbero stati esclusi dalla sfera del diritto; questa rappresentazione è elaborata nell’opera di un filosofo italiano, Giorgio Agamben, sviluppatasi a partire dal suo volume del 1995 Homo sacer: una costruzione molto fortunata, anche al di fuori dell’Italia, ma che invece non ha incontrato fortuna presso i giusromanisti. Luigi Garofalo ha scritto nel 2005 un lungo saggio originato dalla ricostruzione di Agamben, dimostrando l’infondatezza di questo richiamo dell’esperienza giuridica romana da parte di Agamben; personalmente sono del tutto d’accordo, con due ulteriori considerazioni critiche: da una parte la stessa rappresentazione dell’Olocausto in Agamben è fortemente discutibile, dall’altra – è questo è il punto che qui rileva – sta di fatto che con operazioni come quella compiuta da Agamben uno spunto romanistico, magari discutibile, può diventare quasi una categoria indiscussa di uso comune. In una certa misura è quanto è avvenuto con homo sacer, grazie alla cultura, l’intelligenza e la passione di Agamben: in altri termini, l’homo sacer – una figura propria dell’esperienza giuridica romana in primo luogo arcaica – diviene una categoria astratta, un tipo concettuale all’interno di rappresentazioni complesse della modernità.

Nell’ultimo decennio è stata rivolta ad alcuni giusromanisti l’accusa di neopandettismo: vi sarebbe stata cioè da parte loro la volontà di riproporre il diritto romano e soprattutto le sue categorie dogmatiche di origine ottocentesca come sostrato unificante di un nascente diritto europeo giurisprudenziale, con un’operazione che da una parte avrebbe dovuto coinvolgere gli studiosi di altre discipline giuridiche, in primo luogo i civilisti, dall’altra avrebbe dovuto far sorgere un nuovo polo egemone all’interno della romanistica italiana. Detta così brutalmente, l’accusa non può che essere priva di fondamento e ormai le cose si sono chiarite e non si parla più del neopandettismo di alcuni giusromanisti.

Mi chiedo invece se non si possa parlare di neopandettismo in un modo del tutto diverso: riferendolo cioè non ai giusromanisti, bensì a studiosi di altre discipline che utilizzano il diritto romano ai fini dei loro specifici contesti. I giusromanisti non possono certamente disconoscere la legittimità di queste operazioni, spesso condotte con buona padronanza degli strumenti tecnici necessari e talvolta conseguenti alle concrete vicende della tradizione romanistica; un atteggiamento siffatto da parte loro sarebbe veramente ingiustificato e impedirebbe importanti nuovi risultati. Personalmente ho potuto constatare come ciò sia assai utile nelle molteplici occasioni scientifiche organizzate dall’ARISTEC[5] (fin primo luogo in materia di obbligazioni e contratti, ma non solo) oppure nello studio del fenomeno fiduciario[6].

Ma è innegabile che i rischi su accennati in relazione all’uso del diritto romano (e più in generale della cultura classica) siano ben presenti, anche ai livelli più alti, ad es. quello del costituente europeo, che fino quasi al momento della firma a Roma, il 29 ottobre 2004, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, aveva posto all’inizio del Trattato stesso un’infelicissima citazione da Tucidide[7], eliminata solo il 18 giugno 2004[8], a proposito della forma democratica.

In conclusione, questa cautela a mio avviso indispensabile nell’uso dei materiali “romani” e classici deve essere inquadrata nel più ampio e complesso contesto dei rapporti tra la storia del diritto (intesa anche come parte della “cultura classica”) e diritto positivo[9], nel quale inoltre non è secondario l’aspetto del ruolo della storia del diritto nella formazione del giurista, sempre più necessariamente europeo[10]. E ciò è tanto più necessario quando la formazione di questo giurista guarda alla iustitia, ai suoi ideali, ai suoi parametri.

4. Tutto ciò premesso, il discorso può proseguire soffermandosi in primis su Jedem das Seine, il motto posto all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald; il pensiero ovviamente va subito all’analogo e ben più noto motto Arbeit macht frei posto all’ingresso di Auschwitz I. Quale l’origine di questi motti? In estrema sintesi può dirsi che Arbeit macht frei nasce a Dachau: le ragioni non sono certe, ma il motto sembra trarre origine comunque da matrici ideologiche recenti.

Solo una parte dei campi ha ricevuto (o si ha notizia abbia ricevuto) un motto per il suo ingresso, 6, forse 7. Quanto a Buchenwald, in Turingia, vicino a Weimar, questo campo sembra essere l’eccezione rispetto alla diffusione del motto Arbeit macht frei.

La storia del campo inizia nel luglio del 1937; assai probabilmente nel febbraio/marzo del 1938 viene realizzato il motto Jedem das Seine.

Mancano dati certi idonei a spiegare la scelta di questo motto per questo (e solo questo) campo, in quel momento. Sono state fatte molte congetture, ma un dato è sicuro: a differenza del motto Arbeit macht frei, il motto Jedem das Seine ha nella storia del linguaggio e della cultura tedeschi una vicenda plurisecolare, complessa e articolata; certamente – negli strati più colti della società – corrisponde al cuique suum romano (ovviamente ben presente in quella cultura, come si vedrà tra breve negli esempi sommi di Leibniz e Kant). Si può altresì ricordare che “suum cuique” era il motto del massimo ordine prussiano, “Der Hohe Orden von Schwarzen Adler”, fondato nel 1701 da Federico I di Prussia; oppure si ricordi che nella liturgia protestante uno dei canti è la Cantata BWV 163, Nur jedem das Seine, composta da J. S. Bach nel 1715, su testo di Salomo Franck, che aveva studiato diritto a Jena.

Alla fine del 1800 e primi anni del ‘900 Jedem das Seine è utilizzato nei contesti culturali più diversi: ad es., ricorre (1872 e 1892) in Nietzsche, nel 1901 nelle parole di un cabaret-lieder di Arnold Schönberg, nel 1904 è il titolo di un romanzo di intrattenimento di una nota scrittrice, Nataly von Eschstruth. Fortemente anticristiana è la poesia Jedem das Seine di Ludwig Fahrenkrog, pittore e poeta che nel 1900 abbandona il Cristianesimo; la prima traccia pubblica di un uso esplicitamente razzista del motto è in un articolo di Arthur Rosenberg nel nazista Völkischer Beobachter, del 14 sett. 1921, nel quale Rosenberg fa proprie le parole del pastore Ebert di Amburgo, in un contesto di discriminazione contrario agli Ebrei e di poco successivo al Programma del partito nazista (NSDAP) del 24 febbraio 1920; nel 1936, a Lipsia, viene pubblicato da un autore sconosciuto, Herbert Buhl, il libro ovviamente nazista Jedem das Seine (Suum cuique).

Non è questa la sede (né è veramente necessario), per scegliere una congettura piuttosto che un’altra; ci si può limitare a concludere con la constatazione che nel 1938, quando il motto viene adottato a Buchenwald, ciò avviene all’interno di una cultura nazista che aveva fatto proprio quello che era un vecchio modo di dire tedesco, accentuandone la possibile valenza discriminatoria e facendolo divenire uno ‘slogan’ per una politica sociale e soprattutto (dato il nostro contesto) giuridica che sottendeva non un’attribuzione di diritti o almeno aspettative, ma l’esclusione di alcuni dai diritti, da quei diritti che ora spettano solo ai puri ariani tedeschi, soggetti solamente al volere del Führer. Agli altri spetta la totale esclusione, poi Vernichtung, come cittadini, lavoratori, credenti.

Ma si tratta pur sempre diritto, al di là dell’infame contenuto concreto del precetto: in questo senso Zagrebelsky ha alla fin fine ragione ricordando il motto di Buchenwald.

Ciò sul versante dell’età moderna, del motto Jedem das Seine, che evidentemente ormai ha perso qualsiasi riferibilità ad un’origine precisa e nei Paesi di lingua tedesca trova il suo significato fondamentale nella sua utilizzazione a Buchenwald. Ma cosa dire per quanto riguarda la formula romana unicuique suum tribuere ricordata da Zagrebelsky e da lui accostata al motto tedesco? A questo punto è già evidente come questa formula romana ricorra in due differenti versioni, in una appunto unicuique, nell’altra cuique.

 

5. – Questa diversità lessicale potrebbe essere irrilevante, ma come è ben noto, è nelle piccole differenze che talvolta si può trovare la traccia di qualcosa di più importante. Non ci si sofferma qui sull’origine del cuique suum nella filosofia greca, con la sua concezione della giustizia distributiva, ciò che qui rilevano sono i testi romani, testi notissimi e studiatissimi. Alcuni di essi si trovano nella compilazione giustinianea, in posizione iniziale e perciò privilegiata; si tratta ovviamente di Inst. 1.1.1[11] e 3[12]; D. 1.1.10[13].

Ricordate così le testimonianze giustinianee e tralasciando una citazione da Catone il Censore[14], a mio avviso estranea al nucleo semantico “iustitia”di cuique suum, può dirsi che la vera storia di questa formula inizia a Roma con la Rhetorica ad Herennium (che per molti secoli sarà considerata opera giovanile di Cicerone) e il De inventione di Cicerone, databili intorno agli anni 84–3 a. C.

Rhet. ad Her. 3.2.3: Rectum est, quod cum virtute et officio fit. It dividitur in prudentiam, iustitiam, fortitudinem, modestiam. … Iustitia est aequitas ius uni cuique retribuens pro dignitate cuiusque.

CIC. De inv. 2.53.160: iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem[15].

In entrambi i testi è centrale la dignitas dell’individuo, il valore dell’individuo nella società. Ma già nel De inventione la dignitas non è più il criterio dell’attribuzione, diventa una parola che riassume l’intera posizione individuale, anche se ovviamente rimane sempre una parola ancóra profondamente romana e perciò adeguatamente evocativa della complessità dell’attribuzione.

Il passo successivo sarà l’eliminazione della menzione della dignitas: infatti, circa trent’anni dopo, in un tempo del tutto diverso della società romana e della vita di Cicerone, vi è una serie di testi ciceroniani[16]: qui rimane solo il suum, ciò che è suo, aprendo una via che molti seguiranno, come Seneca[17] o scrittori cristiani quali Agostino[18] o Ambrogio[19].

Poi, più di due secoli dopo, vi sarà (in D. 1.1.10 pr.[20]) la ridefinizione dell’oggetto dell’attribuzione della iustitia da parte del giurista Ulpiano: non più la sua dignitas, non più il suum, ma il ius suum.

 

6. Ma soffermiamoci ora su un dato linguistico già accennato, l’esistenza di due versioni della ‘formula’ qui esaminata: unicuique suum o cuique suum, quest’ultima – finora – apparsa assai ricorrente. In realtà ancora oggi la versione unicuique suum è utilizzata, in modo ben visibile: essa appare infatti nella testata de L’Osservatore romano, il giornale ufficiale della Santa Sede: a queste parole seguono le chiavi incrociate, il triregno (il copricapo extraliturgico solenne del Papa[21], abolito da Paolo VI) e, con gli stessi caratteri maiuscoli, non praevalebunt. Perché qui ricorre unicuique e non cuique?

Certamente anche unusquisque è lemma pienamente romano, pur se non appare utilizzato in frasi celebri (e risalenti); esso non ricorre – in particolare come unicuique – altresì in nessuno dei testi ed autori qui presi sinora in considerazione: in essi si trova sempre e solo cuique, con l’unica eccezione di Rhet. ad Her. 3.2.3, che è anche l’unico testo nel quale in luogo di suum ricorre ius (ma non ius suum, il sintagma che ricorre invece nel Corpus iuris).

Tra le fonti cristiane a suo avviso utilizzabili il Klenner cita Paolo, Ad Gal. 6.5, ove ricorre in effetti unusquisque, ma il contesto non è affatto omogeneo al nostro contesto, mentre lo è sicuramente il già citato AUG. De civitate Dei, 19, 21, 1 (cit. in nt. 18), una evidente derivazione da Cicerone. Ed allora è necessario approfondire il discorso.

 

7. Si inizi dalla testata de L’Osservatore romano. Questo giornale inizia ad uscire il 1° luglio 1861, i due motti vengono aggiunti successivamente nel n. 1 dell’anno seguente, dove si spiega che non praevalebunt è una citazione: Portae inferi non praevalebunt, cioè Matt. 16.18, il testo evangelico fondativo della Chiesa di Roma. Quanto all’unicuique suum, esso non viene ancorato ad una citazione ma viene spiegato calando la dimensione umana in quella dell’ordine naturale divino. I due motti sono uniti (“il nesso logico e morale che li congiunge in un solo concetto”) nella funzione di baluardo della Chiesa romana contro la rivoluzione, in primo luogo la “rivoluzione italiana”. C’è appena stata l’unificazione dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia.

In realtà unicuique suum è espressione che appartiene alla più profonda tradizione cristiana e cattolica, nella sua costruzione aristotelico-tomistica in particolare, ma non solo; più volte è stata utilizzata da papa Giovanni Paolo II.

Il punto fermo non può che essere Tommaso d’Aquino; in particolare, nella Summa Theologiae, è possibile rinvenire– molti loci nei quali ricorre la terminologia che qui interessa, in specie nelle quaestiones II, II, 57–60.

Ma già (a. 1234, quindi ben prima di Tommaso) è dato leggere una frase di grande interesse e della massima autorevolezza, all’inizio della Bulla “Rex pacificus” preposta ai Decretalium Gregorii Papae IX Compilationis libri V: Ideoque lex proditur, ut appetitus noxius sub iuris regula limitetur, per quam genus humanum, ut honeste vivat, alterum non laedat, ius suum unicuique tribuat, informatur.

In realtà è possibile procedere ulteriormente all’indietro nel tempo, nella tradizione cristiana; infatti unicuique ricorre costantemente in questo contesto di “attribuzione di ciò che è suum/ius suum” già in un anonimo monaco cistercense degli inizi del XIII sec. dell’abbazia di S. Maria della Ferrara a Vairano (in provincia di Caserta), in Abelardo, in Gregorio VII, ma in Isidoro di Siviglia, agli albori del Medio Evo, si ritrova cuique[22].

 

8. – Già lo si è visto in Tommaso, ma è evidente come ancora oggi i testi antichi siano letti nella forma unicuique dagli ecclesiastici. Particolarmente interessante è come ciò avvenga anche a proposito di un testo di Sant’Ambrogio, la cui edizione corretta è invece AMBROS. De off. 1.24.115: Quarum [virtutum] primo loco constituerunt prudentiam [ … ]; secundo iustitiam quae suum cuique tribuit, alienum non vindicat, utilitatem propriam neglegit ut communem aequitatem custodiat.

In sintesi conclusiva può dirsi che, poiché l’unico unicuique, del nostro contesto, di età romana sembra essere Rhet. ad Her. 3.2.3 (dove comunque però ricorre ius e non suum), appare plausibile che ci si trovi davanti ad una tradizione cristiana relativamente tarda, già formatasi – come si è visto – nei secoli precedenti Tommaso e che nella sua opera risulta definitivamente acquisita.

Probabilmente non è però una forzatura trovare in questa formulazione unicuique suum qualcosa di più e diverso rispetto alla tradizione (sia pure con qualche incertezza) cuique suum delle scuole civilistiche, una diversa valenza semantica (nel contesto della tradizione cristiana e poi cattolica, ormai, come si potrebbe evincere dall’uso invece tradizionale in Melantone, nel 1543[23]): se in cuique suum il suum è ciò che spetta (=che altri, l’ordinamento, etc., dicono che spetta), in unicuique quod suum est il suum è ciò che è già suum, il diritto ne prende atto, ne prende le difese, la iustitia è, come dice più volte Tommaso D’Aquino, actus iustitiae oppure, prima ancora – come nel già citato ISYD. Etym. 2.24.6 –, qua recte iudicando sua cuique distribuunt; non a caso si legge appunto non praevalebunt – insieme con UNICUIQUE SUUM – nella testata de L’Osservatore romano.

Chiudo queste considerazioni “linguistiche” con due ultime osservazioni: in primo luogo la dizione unicuique è comunque assai diffusa; a partire da qualche edizione della Glossa ordinaria, ma è attestata anche, ad es., più volte in breve volgere di tempo, nella Dalmazia medievale più volte in breve volgere di tempo, nella Dalmazia medievale (Statuti di Ragusa, 1272; Brac, 1305; Spalato, 1312; Hvar, 1331)[24].

In secondo luogo vorrei ricordare, in relazione a questa plausibile tradizione ‘ecclesiastico/romana’, un testo che mi sembra assai interessante per la sua originalità. Si tratta di un provvedimento giurisdizionale (un investimentum) del Senato Romano del 1162 d. C.[25], che si può inserire nel quadro della prima fase della storia del senato romano medievale e inizia con la seguente formula: Nos senatores pro iustitia cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio costituti. Il Senato romano in questo caso è chiamato a decidere della controversia circa la proprietà della chiesetta di S. Nicola ai piedi della Colonna Traiana tra il presbitero della chiesa Angelo e la badessa di San Ciriaco in Via Lata. Il Senato attribuisce la chiesa e la colonna alla badessa, ma salvo honore publico urbis: infatti al contempo la colonna deve essere preservata così com’è in eterno ad honorem ipsius ecclesie et totius populi Romani finchè mundus durat, sic eius stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ultimum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur. Vengono così tutelati l’interesse privato e l’utilità pubblica, si potrebbe dire conformemente al già citato CIC. De inv. 2.53.160 (iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem …) e con anticipatrice consapevolezza dell’importanza oggi attribuita ai “beni culturali” privati ed alla loro conservazione.

 

9. Finora, con quanto si è detto, si è solo chiarito qualche aspetto della storia del sintagma latino che costituisce l’oggetto di questo mio intervento. Vorrei ora tentare di precisare meglio il significato di quel sintagma; l’affermazione della inadeguatezza della ‘formula’ è un dato ricorrente nella teoria generale del diritto, non da oggi: è sufficiente ricordare la critica kelseniana al suum cuique come tautologica riduzione (“inhaltsleer“) del diritto di ciascuno all’ordinamento giuridico positivo che ne costituisce il presupposto. Ma già Spinoza, in modo esemplare, diceva che, proprio perché in natura il diritto di ciascuno alla fin fine è funzione ed espressione del suo potere, può dirsi che il ius suum di ciascuno non può esistere nello stato di natura, bensì solo nello stato civile: è la feroce similitudine dei pesci nel Trattato teologico-politico: pisces summo naturali iure aqua potiuntur, et magni minores comedunt.

Insomma, la ‘formula’, in sé considerata, avulsa da un qualsiasi punto di riferimento, si esaurisce nel diritto positivo, in qualsiasi diritto positivo. Si potrebbe anche affermare che mai sarebbe stato possibile porre cuique suum/jedem das Seine all’ingresso di Buchenwald se, come canta Bach nella già citata Cantata BWV 163, c’è Dio a cui guardare e l’uomo non è solo con Cesare: ma le concrete vicende della storia non confortano quest’affermazione. Al tempo stesso, è possibile un’alternativa laica, un punto di riferimento laico che impedisca la riduzione del cuique suum e del diritto al diritto positivo? È ciò che cercano tutti coloro che aspirano a collegare norme e valori, anche oggi.

A questo punto ovviamente il discorso qui si ferma, con un’ultima osservazione: come si è visto, la ‘formula’ cuique suum nelle fonti romane ricorre sia isolatamente sia all’interno di una triade di regole, affiancandosi all’alterum non laedere ed all’honeste vivere. Le tre regole possono essere considerate separatamente, ma anche unitariamente, almeno con la forza enorme di un modello tralatizio imprescindibile, fino a potersi porre come i tre indispensabili praecepta di un ius che non sarebbe più tale se solo uno dei tre fosse mancante. Su questa possibilità interpretativa per quanto riguarda le fonti romane, si tornerà tra poco; tale possibilità certamente è stata seguita in età moderna. Si potrebbero fare molti esempi, ne ricordo solo due sommi, il Leibniz della Nova Methodus e il Kant de Die Metaphysik der Sitten. In particolare, nella Rechtslehre Kant individua nei tre praecepta ulpianei (da lui espressamente ricordati ma riformulati) i Rechtspflichte; si deve entrare nello stato civile perché solo in esso è legalmente determinato ciò che per ognuno è suo; è “il potere giudiziario (che assegna a ciascuno secondo la legge) nella persona del giudice”.

 

10. A questo punto si dovrebbe tornare alle fonti romane, giuridiche ed extragiuridiche, per tentare di cogliere più approfonditamente ciò che esse effettivamente dicevano, nel loro tempo, e per così meglio comprendere il significato di queste utilizzazioni moderne del motto cuique suum.

 

10.1. Alle fonti giuridiche evidentemente appartengono i già citati Inst. 1.1.1, Inst. 1.1.3, D. 1.1.10, ai quali viene spesso accostato D. 50.17.144 pr. (Paul. l. 62 ad ed.): Non omne quod licet honestum est. Questo collegamento è certamente suggestivo, ma conferisce alla frase una qualità programmatica che non ha nel Digesto, né tanto meno poteva avere nel suo contesto originario, di commento all’editto, quali che fossero il suo significato e la sua sedes materiae. Anche volendo conferire maggiore “isolamento” alla frase rispetto alla fattispecie originaria, rimane il fatto che la riflessione ulpianea si colloca in posizione quasi iniziale nel Digesto giustinianeo ed è regula non solo per il contesto, bensì perché nasce come regula, provenendo dal primo dei Regularum libri VII di Ulpiano: per la natura stessa della regula, quella riflessione si sostanzia in regole astratte, principi giuridici; non a caso, nella terminologia del Common Law, saranno poi assunte come “legal maxims”.

Com’è ovvio, su questi testi i giusromanisti hanno sempre discusso, con esiti molto diversificati, per differenti ragioni, ma soprattutto per il ruolo, comunque venga inteso, assolutamente centrale attribuito ai giuristi in quei testi: una tradizione di legittimazione che arriverà fino all’età moderna, nell’Europa continentale coniugando nelle fortune e nelle disgrazie la figura del giurista professionale con l’uso del diritto romano; vi è anche da chiedersi quanto abbia inciso nello studio di questi testi la proiezione su di essi di una concezione formale, “isolata” (alla Schulz) ed autoreferenziale della scienza del diritto, e persistente ancora oggi (senza soluzione di continuità rispetto a ieri) da una parte nella ricostruzione dell’esperienza giuridica romana dall’altra nella riflessione giuspositivistica.

Quanto agli iuris praecepta vi è stato chi ha ritenuto che Ulpiano riassume “positivamente i fondamenti della convivenza civile, gli iuris praecepta”; all’opposto alcuni li riducono al rango di “Leerformeln”, mere enunciazioni; infine, una posizione mediana colloca sul piano delle enunciazioni di principio sia l’alterum non laedere sia l’honeste vivere, affermando invece la validità (in senso giuridico) della regola suum cuique proprio per il ruolo del giurista nel sistema romano di produzione del diritto.

 

10.2. A me pare, accettando l’icastica formulazione di Villey, che con queste espressioni il diritto romano non descrive “des droits, mais des statuts”. E, se si accetta questa conclusione, questo può essere probabilmente uno dei punti di maggiore diversità tra la valenza romana della ‘formula’ (il rapporto tra il quisque e il tutto) rispetto a quella moderna (il rapporto tra i singoli soggetti rispetto al tutto), anche se la forza dell’uso attuale può portare ad appiattire la differenza a favore della concezione più recente.

In questa prospettiva, il suum cuique romano non ha alcun contenuto di giustizia in termini di valori o, tanto meno, di diritti umani; ma, soprattutto, non ha come punto di riferimento il suum (un contenuto meritevole di tutela) che spetta ad un individuo, in quanto tale astratto portatore di diritti (nella versione più compiuta: tra eguali): né, del resto, la società romana (la sua filosofia, il suo diritto) poteva dis/tribuere il suum in questa prospettiva strettamente individualistica, una rivoluzione dell’età moderna e prima ancora, si deve ricordarlo a fronte di recentissime polemiche italiane, del soggettivismo cristiano.

Ed infatti ius e iustitia agli inizi del Digesto giustinianeo non sono distinti (con la significativa inversione nell’etimologia di ius, che viene fatto derivare da iustitia), bensì unificati nell’unitario ambito del bonum et aequum: il diritto deriva dalla giustizia, la giustizia non è un mondo di valori ma un parametro, un criterio, “coltivato” dai giuristi. Si è all’opposto del pensiero del glossatore Piacentino, che – nel suo commento proprio a questi testi giustinianei, accolto nella Glossa accursiana – recide il rapporto tra ius e iustitia: author iuris homo, iustitiae Deus; quel Piacentino che aveva ben presente il rapporto tra giuristi e potere politico.

 

11. Le riflessioni appena svolte mostrano la complessità e problematicità di qualsiasi tentativo di ricostruzione della storia del pensiero romano su questo tema e costituiscono in una certa misura lo sfondo necessario sul quale leggere la “vera philosophia”; ma con la consapevolezza che nello stesso pensiero romano devono essere rintracciati due diversi e successivi momenti: il primo, quello del suum cuique della società dei signori, diversi per dignitas, dell’età repubblicana; il secondo quello del suum cuique dei cives tutti uguali, ma subiecti, cioè sudditi, dell’età imperiale.

Di conseguenza Ulpiano (e con lui la compilazione giustinianea) potrebbe venire a collocarsi in questa nuova concezione della iustitia, per la quale è oggetto il suum; ma Ulpiano è giurista e la definizione di iustitia per lui non sarebbe tale se non contenesse il riferimento al diritto, tanto più che da una parte ius deriva da iustitia – come Ulpiano stesso afferma nel primo libro delle sue Institutiones – dall’altra ius può essere collegato alla iustitia rappresentata come aequitas (altro termine fondamentale del ius civile), come già in Rhet. ad Her. 3.2.3.

Vi sono poi i tre iuris praecepta, per i quali si individuano tre ambiti di azione umana, dei quali solo il terzo è suum cuique tribuere. Non ius suum cuique, ma ciò è ovvio se si guarda alla finalità secondo la quale e per la quale è costruita la frase, indicare le tre regole “auree” del diritto: esse per definizione possono avere per oggetto solo una situazione giuridica. Questa conclusione rende inutile la ripetizione di ius in ius suum ed attrae pienamente nella sfera giuridica gli altri due precetti; anzi, in questa prospettiva, ripetere ius avrebbe impoverito la forza giuridica degli altri praecepta.

Nel pensiero cristiano si può rintracciare una riflessione simile a quella ulpianea, ma differente però per molti aspetti.

AMBROS. De off. 1.24.115: Quarum [virtutum] primo loco constituerunt prudentiam [ … ]; secundo iustitiam quae suum cuique tribuit, alienum non vindicat, utilitatem propriam neglegit ut communem aequitatem custodiat.

I motivi di interesse sono più d’uno, anche se il confronto con il De officiis ciceroniano mostra una semplificazione problematica.

In primo luogo i tre praecepta sono riferiti alla iustitia e non al ius, con un’abbreviazione significativa del percorso argomentativo.

In secondo luogo, dato di notevole interesse, si può riscontrare con evidenza un’articolazione su tre praecepta, ma con alcune rilevanti differenze rispetto ai testi giustinianei: il suum cuique ricorre per primo, l’honeste vivere è sostituito con la centralità della communis aequitas, infine l’alterum non laedere è a sua volta sostituito con alienum non vindicat. Particolarmente interessante appare anche quest’ultimo punto perché il principio dell’alterum non laedere – del quale assai di frequente si afferma l’inconsistenza giuridica – viene invece rappresentato nella sua piena giuridicità: si è detto, “Ecco una interpretazione concreta, connessa a una fattispecie precisa, dell’alterum non laedere.”

In Ambrogio vi è già forse una maggiore tensione verso comportamenti concreti, aprendo così la strada verso la iustitia come actus iustitiae in Tommaso (e nell’intero pensiero cristiano): Proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est.

In conclusione, la storia degli usi di cuique suum (e unicuique suum) potrebbe essere la migliore prova del fatto che questa formula non ha un suo costante e definito contenuto concreto, tale da predeterminarne e circoscriverne gli effetti. Credo si possa concludere che si tratta di una regola destinata ad operare in modo relativo (insieme con altre regole che ne circoscrivono l’ambito), funzionale rispetto all’ordinamento nel quale essa è inserita. Perciò non si potrebbe arrivare a dire che il diritto nazista è stato orrendo in conseguenza dell’adozione di una concezione della giustizia come Jedem das Seine, è stato orrendo perché per esso alcune categorie di individui dovevano essere sterminate.

Potrebbe, alla fin fine, sorgere il dubbio che ci si trovi davanti ad un ‘falso amico’ lessicale, che cioè siano accostati due sintagmi per i quali la traduzione tedesca (ma anche italiana, francese, etc.) è fedele all’originale latino, ma solo alla lettera. In realtà il cuique suum della giustizia distributiva romana al singolo civis ha conservato in alcuni contesti dell’età moderna tale significato originario, ma prevalentemente è diventato ciò che spetta a ciascuno in ragione della sua individualità di essere umano, per diritto naturale umano o divino e in un determinato ordinamento giuridico, con le sue norme fondamentali (non uccidere, etc.): è rispetto a questo secondo significato della formula che l’uso del motto a Buchenwald appare incredibile e insopportabile. Ma forse non sarebbe apparso insopportabile ai Romani se si ricordano, per il 70 d. C., nel racconto di Flavio Giuseppe[26], i fuggitivi da Gerusalemme assediata crocifissi a 500 per volta ed anche più in un solo giorno: la vita di un nemico non costituiva un valore e non meritava rispetto nemmeno nella morte.

Le vicende di questa famosa “formula della giustizia” qui tratteggiate ne hanno mostrato tutta la storicità e in questo modo ne fanno un costante termine di riferimento per valutare costruzioni filosofiche, teorie giuridiche, ideologie politiche intorno alla nozione di giustizia; di qui, prima ancora che una forse impossibile risposta, viene l’interesse – sempre attuale – per il sintagma (uni)cuique suum.

 

 

Л. ПЕППЕ

 

РАЗМЫШЛЕНИЯ ПО ПОВОДУ ПОНЯТИЯ «ЮСТИЦИЯ» В ЕВРОПЕЙСКОЙ
ПРАВОВОЙ ТРАДИЦИИ

 

РЕЗЮМЕ


Представленные ниже положения не являются плодом строгого научного исследования, а скорее следствием долгих размышлений о том, как стало возможным, чтобы римское cuique suum преобразилось в jedem das Seine над входом в Бухенвальд? Тот же вопрос ставил перед собой голландский историк Говерт Ван ден Берг, и находил ответ на него в современной рационалистической и позитивистской концепции права. Немецкий философ Германн Кленнер, а затем Эрнст Топич пересмотрели мнение Кельсена о синтагме cuique suum: это выражение, как и jedem das Seine, не выражает в действительности ничего, но время от времени используется для наполнения различным содержанием. К тому же выводу пришла в 2001 г. и Ютта Лимбах, тогда Президент Конституционного суда ФРГ.

Густаво Загребельски, экс-президент Конституционного суда Италии, в ноябре 2004 г. выражает схожее мнение, прямо указывая на совпадение «unicuique suum» и нацистским «Jedem das Seine».

При сравнении двух этих высказываний можно констатировать непрерывную преемственность римских юридических принципов со времен Древнего Рима до сегодняшнего дня. Можно, напротив, указывать на то, что нацистский вариант вырван из контекста. Однако в действительности такая «деконтекстуализация» – это тоже один из методов традиционной преемственности.

Здесь уместно вспомнить броккарду «Societas delinquere non potest» (юридическое лицо не может совершать правонарушений), на которой строил свою защиту гестапо на Нюрнбергском процессе Рудольф Меркель. В данном случае речь не идет о «нацистском» использовании римского права, напротив, можно сказать, что принцип римского права использован для гуманной защиты подсудимых, оправдать которых почти невозможно, в ходе процесса, апеллирующего к естественному праву.

На протяжении всего хода европейской истории принципы римского права служили идеальным исходным пунктом для всякого рода построений, начиная с Лютера и кончая нацизмом. Однако следует рассмотреть способы использования этих принципов. Как пример использования категорий римского права учеными, не являющимися специалистами в римском праве, можно привести работу итальянского философа Джорджо Агамбена «Homo Sacer». В этом труде философ уподобляет положение евреев в нацистской Германии положению homo sacer в Древнем Риме. Такая трактовка правового положения евреев нашла сторонников и за пределами Италии. Однако большинство историков права и романистов (в их числе, например, Луиджи Гарофало) отрицательно отнеслись к такому механическому сближению современных и древних институтов. Но и в более близких к юриспруденции кругах случаются досадные промахи. Так, началу Трактата о приеме европейской конституции была предпослана мало уместная здесь цитата из Фукидида о демократической форме правления (Thuc. II, 37), которая была убрана только при пересмотре текста 18 июня 2004 г.

Возвращаясь к бухенвальдскому Jedem das Seine, можно вспомнить аналогичный девиз над входом в Освенцим IArbeit macht frei. Где источники этих девизов? Нацисты строили систему своих концлагерей, модернизируя уже имеющуюся систему Strafgefangenenlager. Первым примером такой модернизации стал лагерь Дахау, обновленный в 1936 г., где и родился девиз Arbeit macht frei. Он же использовался и в некоторых других лагерях. Причины появления рассматриваемой надписи в Дахау до конца не ясны.

Только в некоторой части концлагерей (в шести или семи) использовались «надвратные» девизы. Что касается Бухенвальда (Тюрингия, недалеко от Веймара), то его девиз выглядит исключением в сравнении с распространенным Arbeit macht frei. История лагеря начинается в июле 1937 г., а уже в феврале-марте 1938 г. над входом появилось Jedem das Seine. Ясно, что у образованной части немецкого общества это выражение должно было вызывать сильные ассоциации с cuique suum и с римским правом в целом.

Надо отметить, что девиз suum cuique был девизом высшего прусского ордена «Der Hohe Orden von Schwarzen Adler», основанного Фридрихом I Прусским; можно вспомнить также кантату BWV 163 Баха, Nur jedem das Seine, на текст Салома Франка, учившегося праву в Йене. Однако вряд ли именно здесь можно искать истоки нацистского девиза. Скорее он выражает разделение общества на полноправных арийцев и различные категории неполноправных лиц. Но каково соотношение между этим девизом и unicuique suum, процитированным Загребельским? Кстати, следует отметить две встречающиеся редакции – cuique / unicuique suum.

 

 



* Лео Пеппе – ординарный профессор римского права юридического факультета университета «Roma Tre» (Италия). Статья является публикацией текста доклада, сделанного на IV международной конференции по римскому праву Иваново (Суздаль) – Москва, 25–30 июня 2006 г.

[1] A queste ricerche (successivamente citate in nota, nella sede opportuna) si rinvia per approfondimenti e bibliografia; perciò le note si limiteranno qui a tali rinvii o a indicazioni non date già altrove o alla citazione dei testi essenziali.

[2] L. PEPPE, ‘Jedem das Seine’,«(uni)cuique suum», ‘a ciascuno il suo’, in AA. VV., Tradizione romanistica e Costituzione (diretto da L. LABRUNA, a cura di M. P. BACCARI-C. CASCIONE), Napoli, 2006, t. II (Collana „Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana“), p. 1707 ss. A questo contributo in primo luogo si rinvia per quanto si dirà nel testo e per la letteratura di riferimento.

[3] L. PEPPE, «Societas delinquere non potest». Un altro brocardo se ne va, in Labeo, 48, 2002, p. 370 ss. (=in AA. VV., Persone giuridiche e storia del diritto, a cura di L. PEPPE, Torino, 2004).

[4] L. PEPPE, Note minime di metodo intorno alla nozione di homo sacer, in corso di pubblicazione negli Studi in onore di Luigi Labruna.

[5] Associazione internazionale per la Ricerca Storico Giuridica Comparatistica.

[6] L. PEPPE, La vastità del fenomeno fiduciario nel diritto romano: una prima riflessione, in AA. VV., Le situazioni affidanti (a cura di M. LUPOI), Torino, 2006, p. 15 ss.

[7] Tucid. 2.37.

[8] L. PEPPE, Cultura classica e Costituzione europea, in AA. VV., Processo costituente europeo e diritti fondamentali (a cura di A. CELOTTO), Torino, 2004, vol. I, p. 225 ss.

[9] L. PEPPE, Alcune riflessioni sulla storia del diritto ovvero della rottura della tradizione (giuridica), in AA. VV., Scritti in memoria di Massimo D’Antona, Milano, 2004, vol. VI, p. 4201 ss.

[10] L. PEPPE, Intervento Padova 26 novembre 2005, Convegno Sulla formazione del giurista europeo, Atti in corso di pubblicazione.

[11] Inst. 1.1.1: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia.

[12] Inst. 1.1.3: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.

[13] D. 1.1.10: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. 1. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. 2. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia.

[14] In GELL. Noct. Att. 13.24.1.

[15] Approfondita analisi di questi due testi in PEPPE, Jedem, cit.

[16] CIC. De leg. 1.6.19: Itaque arbitrantur prudentiam esse legem, cuius ea vis sit, ut recte facere iubeat, vetet delinquere, eamque rem illi Graeco putant nomine ‘nómon’ a suum cuique tribuendo appellatam, ego nostro a legendo;

CIC. De fin. 5.23.65: Quae animi affectio suum cuique tribuens … iustitia dicitur;

CIC. De fin. 5.23.67: Atque haec coniunctio confusioque virtutum tamen a philosophis ratione quadam distinguitur. Nam cum ita copulatae conexaeque sint, ut omnes omnium participes sint nec alia ab alia possit separari, tamen proprium suum cuiusque munus est, ut fortitudo in laboribus periculisque cernatur, temperantia in praetermittendis voluptatibus, prudentia in dilectu bonorum et malorum, iustitia in suo cuique tribuendo. Quando igitur inest in omni virtute cura quaedam quasi foras spectans aliosque appetens atque complectens, existit illud, ut amici, ut fratres, ut propinqui, ut affines, ut cives, ut omnes denique – quoniam unam societatem hominum esse volumus – propter se expetendi sint. Atqui eorum nihil est eius generis, ut sit in fine atque extremo bonorum;

CIC. De nat. deorum 3.15.38: Nam iustitia, quae suum cuique distribuit, quid pertinet ad deos; hominum enim societas et communitas, ut vos dicitis, iustitiam procreavit;

CIC. De off. 1.5.15: Sed omne quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua: aut enim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide aut in animi … magnitudine … aut in omnium … ordine et modo, …;

CIC. De off. 1.7.21: Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum quae natura fuerunt communia, quod cuique obtigit, id quisque teneat;

LACT. epit. 50 [55], 5–8, dal De rep.; CIC. De rep. 3.7.10: Plurimi quidem philosophorum, sed maxime Plato et Aristoteles, de iustitia multa dixerunt adserentes et extollentes eam summa laude virtutem, quod suum cuique tribuat, quod aequitatem in omnibus servet.

[17] SEN. Ep. mor. 81.7: Hoc certe [ … ] iustitiae convenit, suum cuique reddere, beneficio gratiam, iniuriae talionem aut certe malam gratiam. V. anche 120.7.

[18] AUG. De civitate Dei 19.21.1: Iustitia porro ea virus est quae sua cuique distribuit.

[19] AMBROS. De off. 1.24.115, cit. infra, nei parr. 8 e 11.

[20] Cit., retro, nt. 13.

[21] Le tre corone che compongono la tiara stanno ad indicare il triplice potere pontificio qual era espresso nella formula stessa dell'incoronazione che, secondo il Pontificale romano del 1596, designava il papa come «padre dei principi e dei re, rettore del mondo, vicario in terra di Cristo».

[22] ISYD. Etym. 2.24.6: Iustitia, qua recte iudicando sua cuique distribuunt.

[23] MELANCHTON, Loci Communes (1543), usa Suum cuique tribuere e collega il motto al 7° Comandamento (‘Non rubare’; il collegamento potrebbe essere spiegabile con i fatti intercorsi tra Loci 1521 e Loci 1543; v. P. W. ROBINSON, The Most Learned Discourses of the Philosophers and Lawyers”: Roman Law, Natural Law, and Property in Melanchthon’s Loci Communes, in Concordia Journal, 28, 2002, 1, p. 43).

[24] M. PETRAK, Il diritto romano nella Croazia contemporanea, in Diritto&Storia, 2003, 2, nt. 9.

[25] Su questo testo v. L. PEPPE, Un ‘investimentum’ del Senato Romano dell’anno 1162 d. C., in corso di pubblicazione negli Studi in onore di Giovanni Nicosia.

[26] Jos. Flav. B. Jud. 5.450