L. PEPPE*
1. Il titolo del presente contributo è volutamente generico;
ovviamente esso aveva fin dall’inizio un oggetto abbastanza determinato,
che però era difficile condensare in un titolo. Si tratta infatti di
considerazioni circa alcune formule e categorie attribuite al diritto romano ed
aggregabili intorno alla nozione di iustitia:
considerazioni che sembravano confluire in una riflessione su quelle formule e
sulla loro utilizzazione nella tradizione romanistica e più in generale
nella storia europea. Una riflessione in realtà condotta con una
particolare prospettiva, quella della valenza di quei significanti cd.
‘romani’ sullo sfondo storico e storiografico del nazismo.
Quanto qui si dirà verterà quindi sulla storia di alcune
formule e sintagmi determinati, sui quali per ragioni e in momenti diversi
è caduta la mia attenzione negli anni più recenti, talvolta al
margine di argomenti che con quel nucleo centrale problematico avevano punti di
contatto esili, oppure anche per occasioni fortuite. Ricordo questo percorso al
fine di evidenziare come quanto segue non costituisca il risultato definitivo
di una ricerca sistematica, ma solo una riflessione d’insieme nella quale
vengono collocati e riletti alcuni risultati di diverse ricerche particolari,
già pubblicate o in corso di pubblicazione[1].
2. Prenderò avvio dal particolare interesse che ancora in anni
recentissimi ha conosciuto una domanda angosciosa: com’è stato
possibile, nella cultura europea, arrivare dal romano cuique suum al motto nazista jedem
das Seine apposto all’ingresso del lager di Buchenwald[2]. Da ultimo si è posto, nel 2005, questa
domanda lo storico olandese del diritto intermedio, Govaert
van den Bergh, trovando la risposta nelle moderne concezioni razionalistiche e
positivistiche del diritto.
Altri studiosi, come il filosofo
tedesco del diritto Hermann Klenner, hanno ribadito la convinzione già
kelseniana (e poi di Ernst Topitsch) circa il sintagma cuique suum che esso, così come jedem das Seine, di per se
stesso non esprima in realtà un contenuto, ma sarebbe una formula vuota
che di volta in volta lo riceve dai concreti ordinamenti. Analoga
considerazione è stata espressa nel 2001 da Jutta Limbach, allora
Presidente della Corte Costituzionale della RFT.
È di questo avviso anche Gustavo Zagrebelsky,
costituzionalista italiano, ex presidente della Corte Costituzionale, il quale
nel novembre 2004, introducendo una sua riflessione sulla giustizia nel
contesto delle “Lezioni
Norberto Bobbio”, così scriveva: “Prendiamo la più
famosa e comprensiva tra le formule della giustizia, l'unicuique suum tribuere,
il” a ciascuno il suo” dei giureconsulti romani, o la sua riformulazione
“tratta gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso”. [
… ] Formule come queste possono essere accolte da chiunque [ … ]. I
campi di sterminio, per esempio, sono in regola con questa massima della
giustizia. Il motto di benvenuto al campo di Buchenwald [ … ] era, per
l'appunto, jedem das Seine, a ciascuno il suo, … ”. Così
Zagrebelsky.
3. L’accostamento
tra il principio di diritto romano e il “motto” nazista appare a
prima vista pienamente pertinente; essi sembrano due enunciati convergenti o
addirittura sovrapponibili sia nella loro formulazione lessicale sia nel loro
significato ultimo: in taluni autori è infatti esplicita l’ipotesi
di un rapporto di discendenza l’uno dall’altro (sia pure con la
consapevolezza della molteplicità di contesti nel tempo); in altri
invece il motto di Buchenwald è utilizzato come momento di verifica
(“per l’appunto”, dice Zagrebelsky)
dell’interpretazione data alla formulazione costruita dai giureconsulti
romani.
Questa utilizzazione di principi giuridici romani
può apparire “continuista” oppure decontestualizzata: ma in
realtà anche la decontestualizzazione è una forma di continuismo
(sia pure realizzata attraverso l’atemporalità). Una siffatta
utilizzazione può provocare nel giusromanista una reazione di cautela
circa la legittimità della sovrapposizione e quindi della
rappresentazione data; nel mio caso, tale reazione potrebbe essere anche
conseguenza dell’esperienza precedentemente fatta in una concreta
vicenda, nella quale si è verificato che un brocardo (Societas delinquere non potest) spesso
attribuito al diritto romano in realtà aveva certamente una storia molto
interessante, ma assai più recente[3]. Infatti, anche se forse in diritto
romano si può trovare qualche testo che in effetti nella tradizione
romanistica è stato utilizzato in quella direzione, il brocardo non
è romano, è di origine sconosciuta (e piuttosto recente) e probabilmente
deriva dall’adattamento ottocentesco di una regola di diritto canonico,
in una complessa mediazione pandettistico/penalistica.
Non è questo certo il caso di cuique suum, che ha una storia molto
più documentata e sicura nelle sue origini romane. Vi è
però un punto di stretto contatto con la problematica e il tempo che qui
ci interessa; infatti il brocardo societas
delinquere non potest è stato utilizzato nel processo di Norimberga
dal difensore della Gestapo, Rudolf
Merkel, che lo ha ricordato – attribuendolo appunto al diritto romano
– al fine di sostenere l’impossibilità della
responsabilità dell’organizzazione in quanto tale, perché
la responsabilità penale può essere esclusivamente personale: non
si tratta qui di un uso “nazista” di un principio di diritto
romano, al contrario si tratta dell’uso – si potrebbe dire
illuminista – di un principio asserito come dell’intera
umanità e del diritto romano in particolare, a difesa del più
indifendibile degli imputati, in un processo fortemente ispirato al diritto
naturale.
In altri e più generali
termini, in un contesto drammatico della storia europea i principi del diritto
romano sembrano emergere, in vario modo, come un punto di riferimento ideale,
nel bene e nel male; questo ruolo, che evidentemente è parte integrante
della cultura europea (e non solo), deve però essere da una parte
esaminato nel suo contesto di utilizzazione e dall’altra studiato nella
sua portata originaria, con la miglior consapevolezza possibile di quanto
è intercorso nel frattempo. Del resto, proprio nell’esperienza
dell’area tedesca il diritto romano ha conosciuto ripetutamente (e
conosciuto ripetutamente (e ciclicamente) i due estremi dell’adozione
piena (dalla Rezeption alla Pandettistica)
e del rifiuto più netto (da Lutero al nazismo).
In tempi recentissimi ho avuto
l’opportunità di verificare in un altro, ma analogo, contesto
quanto l’uso di una categoria romana possa sembrare a prima vista
affascinante ed utile per spiegare una realtà del nostro tempo, salvo
risultare successivamente – ad un esame critico – fondato su
un’interpretazione delle fonti romane inaccettabile da parte di un
giusromanista[4]. Si tratta della rappresentazione dei perseguitati
dal nazismo, in primo luogo degli ebrei, nei termini della figura romana
arcaica dell’homo sacer,
cioè di esseri umani che sarebbero stati esclusi dalla sfera del
diritto; questa rappresentazione è elaborata nell’opera di un
filosofo italiano, Giorgio Agamben, sviluppatasi a partire dal suo volume del
1995 Homo sacer: una costruzione molto
fortunata, anche al di fuori dell’Italia, ma che invece non ha incontrato
fortuna presso i giusromanisti. Luigi Garofalo ha scritto nel 2005 un lungo
saggio originato dalla ricostruzione di Agamben, dimostrando
l’infondatezza di questo richiamo dell’esperienza giuridica romana
da parte di Agamben; personalmente sono del tutto d’accordo, con due
ulteriori considerazioni critiche: da una parte la stessa rappresentazione
dell’Olocausto in Agamben è fortemente discutibile, dall’altra
– è questo è il punto che qui rileva – sta di fatto
che con operazioni come quella compiuta da Agamben uno spunto romanistico,
magari discutibile, può diventare quasi una categoria indiscussa di uso
comune. In una certa misura è quanto è avvenuto con homo sacer, grazie alla cultura,
l’intelligenza e la passione di Agamben: in altri termini, l’homo sacer – una figura propria
dell’esperienza giuridica romana in primo luogo arcaica – diviene
una categoria astratta, un tipo concettuale all’interno di
rappresentazioni complesse della modernità.
Nell’ultimo decennio è stata rivolta
ad alcuni giusromanisti l’accusa di neopandettismo: vi sarebbe stata
cioè da parte loro la volontà di riproporre il diritto romano e soprattutto
le sue categorie dogmatiche di origine ottocentesca come sostrato unificante di
un nascente diritto europeo giurisprudenziale, con un’operazione che da
una parte avrebbe dovuto coinvolgere gli studiosi di altre discipline
giuridiche, in primo luogo i civilisti, dall’altra avrebbe dovuto far
sorgere un nuovo polo egemone all’interno della romanistica italiana.
Detta così brutalmente, l’accusa non può che essere priva
di fondamento e ormai le cose si sono chiarite e non si parla più del
neopandettismo di alcuni giusromanisti.
Mi chiedo invece se non si possa parlare di
neopandettismo in un modo del tutto diverso: riferendolo cioè non ai
giusromanisti, bensì a studiosi di altre discipline che utilizzano il
diritto romano ai fini dei loro specifici contesti. I giusromanisti non possono
certamente disconoscere la legittimità di queste operazioni, spesso
condotte con buona padronanza degli strumenti tecnici necessari e talvolta
conseguenti alle concrete vicende della tradizione romanistica; un atteggiamento
siffatto da parte loro sarebbe veramente ingiustificato e impedirebbe
importanti nuovi risultati. Personalmente ho potuto constatare come ciò
sia assai utile nelle molteplici occasioni scientifiche organizzate dall’ARISTEC[5] (fin primo luogo in materia di obbligazioni e
contratti, ma non solo) oppure nello studio del fenomeno fiduciario[6].
Ma è innegabile che i rischi su accennati in relazione all’uso
del diritto romano (e più in generale della cultura classica) siano ben
presenti, anche ai livelli più alti, ad es. quello del costituente
europeo, che fino quasi al momento della firma a Roma, il 29 ottobre 2004, del
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, aveva posto
all’inizio del Trattato stesso un’infelicissima citazione da
Tucidide[7], eliminata solo il 18 giugno 2004[8], a proposito della forma democratica.
In conclusione, questa cautela a mio avviso indispensabile nell’uso
dei materiali “romani” e classici deve essere inquadrata nel
più ampio e complesso contesto dei rapporti tra la storia del diritto
(intesa anche come parte della “cultura classica”) e diritto
positivo[9], nel quale inoltre non è secondario
l’aspetto del ruolo della storia del diritto nella formazione del
giurista, sempre più necessariamente europeo[10]. E ciò è tanto più
necessario quando la formazione di questo giurista guarda alla iustitia, ai suoi ideali, ai suoi
parametri.
4. Tutto ciò premesso, il discorso
può proseguire soffermandosi in
primis su Jedem das Seine, il
motto posto all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald; il
pensiero ovviamente va subito all’analogo e ben più noto motto Arbeit macht frei posto
all’ingresso di Auschwitz I. Quale l’origine di questi motti? In
estrema sintesi può dirsi che Arbeit
macht frei nasce a Dachau: le ragioni non sono certe, ma il motto sembra
trarre origine comunque da matrici ideologiche recenti.
Solo una parte dei campi ha ricevuto (o si ha notizia
abbia ricevuto) un motto per il suo ingresso, 6, forse 7. Quanto a Buchenwald,
in Turingia, vicino a Weimar, questo campo sembra essere l’eccezione
rispetto alla diffusione del motto Arbeit
macht frei.
La storia del campo inizia nel luglio del 1937; assai
probabilmente nel febbraio/marzo del 1938 viene realizzato il motto Jedem das Seine.
Mancano dati certi idonei a spiegare la scelta di questo
motto per questo (e solo questo) campo, in quel momento. Sono state fatte molte
congetture, ma un dato è sicuro: a differenza del motto Arbeit macht frei, il motto Jedem das Seine ha nella storia del
linguaggio e della cultura tedeschi una vicenda plurisecolare, complessa e
articolata; certamente – negli strati più colti della
società – corrisponde al cuique
suum romano (ovviamente ben presente in quella cultura, come si
vedrà tra breve negli esempi sommi di Leibniz e Kant). Si può
altresì ricordare che “suum cuique” era il motto del massimo
ordine prussiano, “Der Hohe Orden von Schwarzen Adler”, fondato nel
1701 da Federico I di Prussia; oppure si ricordi che nella liturgia protestante
uno dei canti è
Alla fine del 1800 e primi anni del ‘900 Jedem das Seine è utilizzato nei
contesti culturali più diversi: ad es., ricorre (1872 e 1892) in
Nietzsche, nel 1901 nelle parole di un cabaret-lieder
di Arnold Schönberg, nel 1904
è il titolo di un romanzo di intrattenimento di una nota scrittrice,
Nataly von Eschstruth. Fortemente anticristiana è la poesia Jedem das Seine di Ludwig Fahrenkrog,
pittore e poeta che nel 1900 abbandona il Cristianesimo; la prima traccia
pubblica di un uso esplicitamente razzista del motto è in un articolo di
Arthur Rosenberg nel nazista Völkischer Beobachter, del 14 sett.
1921, nel quale Rosenberg fa proprie le parole del pastore Ebert di Amburgo, in
un contesto di discriminazione contrario agli Ebrei e di poco successivo al
Programma del partito nazista (NSDAP) del 24 febbraio 1920; nel
Non è questa la sede (né è veramente
necessario), per scegliere una congettura piuttosto che un’altra; ci si
può limitare a concludere con la constatazione che nel 1938, quando il
motto viene adottato a Buchenwald, ciò avviene all’interno di una cultura nazista che aveva fatto proprio
quello che era un vecchio modo di dire tedesco, accentuandone la possibile
valenza discriminatoria e facendolo divenire uno ‘slogan’ per una
politica sociale e soprattutto (dato il nostro contesto) giuridica che
sottendeva non un’attribuzione di diritti o almeno aspettative, ma
l’esclusione di alcuni dai diritti, da quei diritti che ora spettano solo
ai puri ariani tedeschi, soggetti solamente al volere del Führer. Agli altri spetta la totale esclusione, poi Vernichtung, come cittadini, lavoratori,
credenti.
Ma si tratta pur sempre diritto, al di là dell’infame
contenuto concreto del precetto: in questo senso Zagrebelsky ha alla fin fine
ragione ricordando il motto di Buchenwald.
Ciò sul versante dell’età moderna,
del motto Jedem das Seine, che
evidentemente ormai ha perso qualsiasi riferibilità ad un’origine
precisa e nei Paesi di lingua tedesca trova il suo significato fondamentale
nella sua utilizzazione a Buchenwald. Ma cosa dire per quanto riguarda la
formula romana unicuique suum tribuere
ricordata da Zagrebelsky e da lui accostata al motto tedesco? A questo punto
è già evidente come questa formula romana ricorra in due
differenti versioni, in una appunto unicuique,
nell’altra cuique.
5. – Questa diversità lessicale potrebbe essere irrilevante,
ma come è ben noto, è nelle piccole differenze che talvolta si
può trovare la traccia di qualcosa di più importante. Non ci si
sofferma qui sull’origine del cuique
suum nella filosofia greca, con la sua concezione della giustizia
distributiva, ciò che qui rilevano sono i testi romani, testi notissimi
e studiatissimi. Alcuni di essi si trovano nella compilazione giustinianea, in
posizione iniziale e perciò privilegiata; si tratta ovviamente di Inst.
1.1.1[11] e 3[12]; D. 1.1.10[13].
Ricordate così le testimonianze giustinianee e tralasciando una
citazione da Catone il Censore[14], a mio avviso estranea al nucleo semantico
“iustitia”di cuique suum, può dirsi che la
vera storia di questa formula inizia a Roma con
Rhet. ad Her. 3.2.3: Rectum est, quod cum virtute et officio fit. It dividitur in
prudentiam, iustitiam, fortitudinem, modestiam. … Iustitia est aequitas
ius uni cuique retribuens pro dignitate cuiusque.
CIC. De
inv. 2.53.160: iustitia est habitus
animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem[15].
In entrambi i testi è centrale la dignitas dell’individuo, il valore dell’individuo nella
società. Ma già nel De
inventione la dignitas non
è più il criterio dell’attribuzione, diventa una parola che
riassume l’intera posizione individuale, anche se ovviamente rimane
sempre una parola ancóra profondamente romana e perciò
adeguatamente evocativa della complessità dell’attribuzione.
Il passo successivo sarà l’eliminazione della menzione della dignitas: infatti, circa
trent’anni dopo, in un tempo del tutto diverso della società
romana e della vita di Cicerone, vi è una serie di testi ciceroniani[16]: qui rimane solo il suum, ciò che è suo, aprendo una via che molti
seguiranno, come Seneca[17] o scrittori cristiani quali Agostino[18] o Ambrogio[19].
Poi, più di due secoli dopo, vi sarà (in D. 1.1.10 pr.[20]) la ridefinizione dell’oggetto
dell’attribuzione della iustitia
da parte del giurista Ulpiano: non più la sua dignitas, non più il suum,
ma il ius suum.
6. Ma soffermiamoci ora su un dato linguistico già accennato,
l’esistenza di due versioni della ‘formula’ qui esaminata: unicuique suum o cuique suum, quest’ultima – finora – apparsa
assai ricorrente. In realtà ancora oggi la versione unicuique suum è utilizzata, in modo ben visibile: essa
appare infatti nella testata de L’Osservatore
romano, il giornale ufficiale della Santa Sede: a queste parole seguono le
chiavi incrociate, il triregno (il copricapo extraliturgico solenne del Papa[21], abolito da Paolo VI) e, con gli stessi caratteri
maiuscoli, non praevalebunt.
Perché qui ricorre unicuique e
non cuique?
Certamente anche unusquisque
è lemma pienamente romano, pur se non appare utilizzato in frasi celebri
(e risalenti); esso non ricorre – in particolare come unicuique – altresì in
nessuno dei testi ed autori qui presi sinora in considerazione: in essi si trova
sempre e solo cuique, con
l’unica eccezione di Rhet. ad Her.
3.2.3, che è anche l’unico testo nel quale in luogo di suum ricorre ius (ma non ius suum, il
sintagma che ricorre invece nel Corpus
iuris).
Tra le fonti cristiane a suo avviso utilizzabili il Klenner cita Paolo, Ad Gal. 6.5, ove ricorre in effetti unusquisque, ma il contesto non è
affatto omogeneo al nostro contesto, mentre lo è sicuramente il
già citato AUG. De civitate Dei,
19, 21, 1 (cit. in nt. 18), una evidente derivazione da Cicerone. Ed allora
è necessario approfondire il discorso.
7. Si inizi dalla testata de L’Osservatore romano. Questo giornale inizia ad uscire il
1° luglio 1861, i due motti vengono aggiunti successivamente nel n. 1
dell’anno seguente, dove si spiega che non praevalebunt è una citazione: Portae inferi non praevalebunt, cioè Matt. 16.18, il testo
evangelico fondativo della Chiesa di Roma. Quanto all’unicuique suum, esso non viene ancorato
ad una citazione ma viene spiegato calando la dimensione umana in quella
dell’ordine naturale divino. I due motti sono uniti (“il nesso
logico e morale che li congiunge in un solo concetto”) nella funzione di
baluardo della Chiesa romana contro la rivoluzione, in primo luogo la
“rivoluzione italiana”. C’è appena stata l’unificazione
dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia.
In realtà unicuique suum è espressione che appartiene alla più
profonda tradizione cristiana e cattolica, nella sua costruzione
aristotelico-tomistica in particolare, ma non solo; più volte è
stata utilizzata da papa Giovanni Paolo II.
Il punto fermo non può che essere Tommaso
d’Aquino; in particolare, nella Summa
Theologiae, è possibile rinvenire– molti loci nei quali ricorre la terminologia che qui interessa, in specie
nelle quaestiones II, II,
57–60.
Ma già (a. 1234, quindi ben prima di
Tommaso) è dato leggere una frase di grande interesse e della massima
autorevolezza, all’inizio della Bulla
“Rex pacificus” preposta ai Decretalium
Gregorii Papae IX Compilationis libri V: Ideoque lex proditur, ut appetitus
noxius sub iuris regula limitetur, per quam genus humanum, ut honeste vivat,
alterum non laedat, ius suum unicuique tribuat, informatur.
In realtà è possibile procedere
ulteriormente all’indietro nel tempo, nella tradizione cristiana; infatti
unicuique ricorre costantemente in
questo contesto di “attribuzione di ciò che è suum/ius
suum” già in un anonimo monaco cistercense degli inizi del
XIII sec. dell’abbazia di S. Maria della Ferrara a Vairano (in provincia
di Caserta), in Abelardo, in Gregorio VII, ma in Isidoro di Siviglia, agli
albori del Medio Evo, si ritrova cuique[22].
8. – Già lo si è visto in Tommaso, ma è evidente
come ancora oggi i testi antichi siano letti nella forma unicuique dagli ecclesiastici. Particolarmente interessante
è come ciò avvenga anche a proposito di un testo di
Sant’Ambrogio, la cui edizione corretta è invece AMBROS. De off. 1.24.115: Quarum [virtutum] primo loco constituerunt prudentiam [
… ]; secundo iustitiam quae suum
cuique tribuit, alienum non vindicat, utilitatem propriam neglegit ut communem
aequitatem custodiat.
In sintesi conclusiva può dirsi che, poiché l’unico unicuique, del nostro contesto, di
età romana sembra essere Rhet. ad
Her. 3.2.3 (dove comunque però ricorre ius e non suum), appare
plausibile che ci si trovi davanti ad una tradizione cristiana relativamente
tarda, già formatasi – come si è visto – nei secoli
precedenti Tommaso e che nella sua opera risulta definitivamente acquisita.
Probabilmente non è però una forzatura trovare in questa
formulazione unicuique suum qualcosa
di più e diverso rispetto alla tradizione (sia pure con qualche
incertezza) cuique suum delle scuole
civilistiche, una diversa valenza semantica (nel contesto della tradizione
cristiana e poi cattolica, ormai, come si potrebbe evincere dall’uso
invece tradizionale in Melantone, nel 1543[23]): se in cuique
suum il suum è ciò
che spetta (=che altri, l’ordinamento, etc., dicono che spetta), in unicuique quod suum est il suum è ciò che è
già suum, il diritto ne prende
atto, ne prende le difese, la iustitia
è, come dice più volte Tommaso D’Aquino, actus iustitiae oppure, prima ancora
– come nel già citato ISYD. Etym.
2.24.6 –, qua recte iudicando sua
cuique distribuunt; non a caso si legge appunto non praevalebunt – insieme con UNICUIQUE SUUM – nella
testata de L’Osservatore romano.
Chiudo queste considerazioni “linguistiche” con due ultime
osservazioni: in primo luogo la dizione unicuique
è comunque assai diffusa; a partire da qualche edizione della Glossa
ordinaria, ma è attestata anche, ad es., più volte in breve
volgere di tempo, nella Dalmazia medievale più volte in breve volgere di
tempo, nella Dalmazia medievale (Statuti di Ragusa, 1272; Brac, 1305; Spalato,
1312; Hvar, 1331)[24].
In secondo luogo vorrei ricordare, in relazione a questa plausibile
tradizione ‘ecclesiastico/romana’, un testo che mi sembra assai
interessante per la sua originalità. Si tratta di un provvedimento
giurisdizionale (un investimentum)
del Senato Romano del 1162 d. C.[25], che si può inserire nel quadro della
prima fase della storia del senato romano medievale e inizia con la seguente
formula: Nos senatores pro iustitia
cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio
costituti. Il Senato romano in questo caso è chiamato a decidere
della controversia circa la proprietà della chiesetta di S. Nicola ai
piedi della Colonna Traiana tra il presbitero della chiesa Angelo e la badessa
di San Ciriaco in Via Lata. Il Senato attribuisce la chiesa e la colonna alla
badessa, ma salvo honore publico urbis:
infatti al contempo la colonna deve essere preservata così
com’è in eterno ad honorem
ipsius ecclesie et totius populi Romani finchè mundus durat, sic eius stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit,
persona eius ultimum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur.
Vengono così tutelati l’interesse privato e l’utilità
pubblica, si potrebbe dire conformemente al già citato CIC. De
inv. 2.53.160 (iustitia est habitus
animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem …)
e con anticipatrice consapevolezza dell’importanza oggi attribuita ai
“beni culturali” privati ed alla loro conservazione.
9. Finora, con quanto si è detto, si è solo chiarito qualche
aspetto della storia del sintagma latino che costituisce l’oggetto di questo
mio intervento. Vorrei ora tentare di precisare meglio il significato di quel
sintagma; l’affermazione della inadeguatezza
della ‘formula’ è un dato ricorrente nella teoria generale
del diritto, non da oggi: è sufficiente ricordare la critica kelseniana
al suum cuique come tautologica riduzione
(“inhaltsleer“) del diritto di ciascuno all’ordinamento
giuridico positivo che ne costituisce il presupposto. Ma già Spinoza, in
modo esemplare, diceva che, proprio perché in natura il diritto
di ciascuno alla fin fine è funzione ed espressione del suo potere,
può dirsi che il ius suum di
ciascuno non può esistere nello stato di natura, bensì solo nello
stato civile: è la feroce similitudine dei pesci nel Trattato teologico-politico: pisces summo naturali iure aqua potiuntur,
et magni minores comedunt.
Insomma, la ‘formula’, in sé considerata, avulsa da un
qualsiasi punto di riferimento, si esaurisce nel diritto positivo, in qualsiasi
diritto positivo. Si potrebbe anche affermare che mai sarebbe stato possibile porre
cuique suum/jedem das Seine all’ingresso di Buchenwald se, come canta
Bach nella già citata Cantata BWV 163, c’è Dio a cui guardare
e l’uomo non è solo con Cesare: ma le concrete vicende della
storia non confortano quest’affermazione. Al tempo stesso, è
possibile un’alternativa laica, un punto di riferimento laico che
impedisca la riduzione del cuique suum
e del diritto al diritto positivo? È ciò che cercano tutti coloro
che aspirano a collegare norme e valori, anche oggi.
A questo punto ovviamente il discorso qui si ferma, con un’ultima
osservazione: come si è visto, la ‘formula’ cuique suum nelle fonti romane ricorre
sia isolatamente sia all’interno di una triade di regole, affiancandosi
all’alterum non laedere ed
all’honeste vivere. Le tre
regole possono essere considerate separatamente, ma anche unitariamente, almeno
con la forza enorme di un modello tralatizio imprescindibile, fino a potersi
porre come i tre indispensabili praecepta
di un ius che non sarebbe più
tale se solo uno dei tre fosse mancante. Su questa possibilità
interpretativa per quanto riguarda le fonti romane, si tornerà tra poco;
tale possibilità certamente è stata seguita in età
moderna. Si potrebbero fare molti esempi, ne ricordo solo due sommi, il Leibniz
della Nova Methodus e il Kant de Die Metaphysik der Sitten. In particolare,
nella Rechtslehre Kant individua nei
tre praecepta ulpianei (da lui
espressamente ricordati ma riformulati) i Rechtspflichte; si
deve entrare nello stato civile perché solo in esso è legalmente
determinato ciò che per ognuno è suo; è “il potere
giudiziario (che assegna a ciascuno secondo la legge) nella persona del
giudice”.
10.1. Alle fonti giuridiche evidentemente appartengono i già citati
Inst. 1.1.1, Inst. 1.1.3, D. 1.1.10, ai quali viene spesso accostato D.
50.17.144 pr. (Paul. l. 62 ad ed.): Non omne quod licet honestum est. Questo
collegamento è certamente suggestivo, ma conferisce alla frase una
qualità programmatica che non ha nel Digesto, né tanto meno
poteva avere nel suo contesto originario, di commento all’editto, quali
che fossero il suo significato e la sua sedes
materiae. Anche volendo conferire maggiore “isolamento” alla frase
rispetto alla fattispecie originaria, rimane il fatto che la riflessione
ulpianea si colloca in posizione quasi iniziale nel Digesto giustinianeo ed
è regula non solo per il contesto,
bensì perché nasce come regula,
provenendo dal primo dei Regularum libri
VII di Ulpiano: per la natura stessa della regula, quella riflessione si sostanzia in regole astratte,
principi giuridici; non a caso, nella terminologia del Common Law, saranno poi assunte come “legal maxims”.
Com’è ovvio, su questi testi i giusromanisti hanno sempre
discusso, con esiti molto diversificati, per differenti ragioni, ma soprattutto
per il ruolo, comunque venga inteso, assolutamente centrale attribuito ai
giuristi in quei testi: una tradizione di legittimazione che arriverà
fino all’età moderna, nell’Europa continentale coniugando
nelle fortune e nelle disgrazie la figura del giurista professionale con
l’uso del diritto romano; vi è anche da chiedersi quanto abbia
inciso nello studio di questi testi la proiezione su di essi di una concezione
formale, “isolata” (alla Schulz) ed autoreferenziale della scienza
del diritto, e persistente ancora oggi (senza soluzione di continuità
rispetto a ieri) da una parte nella ricostruzione dell’esperienza
giuridica romana dall’altra nella riflessione giuspositivistica.
Quanto agli iuris praecepta vi
è stato chi ha ritenuto che Ulpiano riassume “positivamente i fondamenti
della convivenza civile, gli iuris
praecepta”; all’opposto alcuni li riducono al rango di
“Leerformeln”, mere enunciazioni; infine, una posizione mediana
colloca sul piano delle enunciazioni di principio sia l’alterum non laedere sia l’honeste vivere, affermando invece la
validità (in senso giuridico) della regola suum cuique proprio per il ruolo del giurista nel sistema romano
di produzione del diritto.
10.2. A me pare, accettando
l’icastica formulazione di Villey, che con queste espressioni il diritto
romano non descrive “des droits, mais des statuts”. E, se si
accetta questa conclusione, questo può essere probabilmente uno dei
punti di maggiore diversità tra la valenza romana della
‘formula’ (il rapporto tra il quisque
e il tutto) rispetto a quella moderna (il rapporto tra i singoli soggetti
rispetto al tutto), anche se la forza dell’uso attuale può portare
ad appiattire la differenza a favore della concezione più recente.
In questa prospettiva, il suum cuique romano non ha alcun contenuto di giustizia in termini
di valori o, tanto meno, di diritti umani; ma, soprattutto, non ha come punto
di riferimento il suum (un contenuto
meritevole di tutela) che spetta ad un individuo, in quanto tale astratto
portatore di diritti (nella versione più compiuta: tra eguali):
né, del resto, la società romana (la sua filosofia, il suo
diritto) poteva dis/tribuere il suum in questa prospettiva strettamente individualistica, una
rivoluzione dell’età moderna e prima ancora, si deve ricordarlo a
fronte di recentissime polemiche italiane, del soggettivismo cristiano.
Ed infatti ius e iustitia agli inizi del Digesto
giustinianeo non sono distinti (con la significativa inversione
nell’etimologia di ius, che
viene fatto derivare da iustitia),
bensì unificati nell’unitario ambito del bonum et aequum: il diritto deriva dalla giustizia, la giustizia
non è un mondo di valori ma un parametro, un criterio,
“coltivato” dai giuristi. Si è all’opposto del
pensiero del glossatore Piacentino, che – nel suo commento proprio a
questi testi giustinianei, accolto nella Glossa accursiana – recide il
rapporto tra ius e iustitia: author iuris homo, iustitiae Deus; quel Piacentino che aveva ben
presente il rapporto tra giuristi e potere politico.
11. Le riflessioni appena svolte mostrano la
complessità e problematicità di qualsiasi tentativo di ricostruzione
della storia del pensiero romano su questo tema e costituiscono in una certa
misura lo sfondo necessario sul quale leggere la “vera philosophia”; ma con la consapevolezza che nello stesso
pensiero romano devono essere rintracciati due diversi e successivi momenti: il
primo, quello del suum cuique della
società dei signori, diversi per dignitas,
dell’età repubblicana; il secondo quello del suum cuique dei cives
tutti uguali, ma subiecti,
cioè sudditi, dell’età imperiale.
Di conseguenza Ulpiano (e con
lui la compilazione giustinianea) potrebbe venire a collocarsi in questa nuova
concezione della iustitia, per la
quale è oggetto il suum; ma
Ulpiano è giurista e la definizione di iustitia per lui non sarebbe tale se non contenesse il riferimento
al diritto, tanto più che da una parte ius deriva da iustitia
– come Ulpiano stesso afferma nel primo libro delle sue Institutiones – dall’altra ius può essere collegato alla iustitia rappresentata come aequitas (altro termine fondamentale del
ius civile), come già in Rhet. ad Her. 3.2.3.
Vi sono poi i tre iuris praecepta, per i quali si individuano tre ambiti di azione
umana, dei quali solo il terzo è suum
cuique tribuere. Non ius suum cuique,
ma ciò è ovvio se si guarda alla finalità secondo la quale
e per la quale è costruita la frase, indicare le tre regole
“auree” del diritto: esse per definizione possono avere per oggetto
solo una situazione giuridica. Questa conclusione rende inutile la ripetizione
di ius in ius suum ed attrae pienamente nella sfera giuridica gli altri due
precetti; anzi, in questa prospettiva, ripetere ius avrebbe impoverito la forza giuridica degli altri praecepta.
Nel pensiero cristiano si può rintracciare
una riflessione simile a quella ulpianea, ma differente però per molti
aspetti.
AMBROS. De off. 1.24.115: Quarum
[virtutum] primo loco constituerunt prudentiam [ … ]; secundo
iustitiam quae suum cuique tribuit, alienum non vindicat, utilitatem propriam
neglegit ut communem aequitatem custodiat.
I motivi di interesse sono più d’uno,
anche se il confronto con il De officiis
ciceroniano mostra una semplificazione problematica.
In primo luogo i tre praecepta sono riferiti alla iustitia
e non al ius, con
un’abbreviazione significativa del percorso argomentativo.
In secondo luogo, dato di notevole interesse, si
può riscontrare con evidenza un’articolazione su tre praecepta, ma con alcune rilevanti
differenze rispetto ai testi giustinianei: il suum cuique ricorre per primo, l’honeste vivere è sostituito con la centralità della communis aequitas, infine l’alterum non laedere è a sua volta
sostituito con alienum non vindicat.
Particolarmente interessante appare anche quest’ultimo punto
perché il principio dell’alterum
non laedere – del quale assai di frequente si afferma
l’inconsistenza giuridica – viene invece rappresentato nella sua
piena giuridicità: si è detto, “Ecco una interpretazione
concreta, connessa a una fattispecie precisa, dell’alterum non laedere.”
In Ambrogio vi è già forse una maggiore tensione verso
comportamenti concreti, aprendo così la strada verso la iustitia come actus iustitiae in Tommaso (e nell’intero pensiero
cristiano): Proprius actus iustitiae
nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est.
In conclusione, la storia degli usi di cuique
suum (e unicuique suum) potrebbe
essere la migliore prova del fatto che questa formula non ha un suo costante e
definito contenuto concreto, tale da predeterminarne e circoscriverne gli
effetti. Credo si possa concludere che si tratta di una regola destinata ad
operare in modo relativo (insieme con altre regole che ne circoscrivono
l’ambito), funzionale rispetto all’ordinamento nel quale essa
è inserita. Perciò non si potrebbe arrivare a dire che il diritto
nazista è stato orrendo in conseguenza dell’adozione di una
concezione della giustizia come Jedem das
Seine, è stato orrendo perché per esso alcune categorie di
individui dovevano essere sterminate.
Potrebbe, alla fin fine, sorgere il dubbio che ci si trovi davanti ad un
‘falso amico’ lessicale, che cioè siano accostati due
sintagmi per i quali la traduzione tedesca (ma anche italiana, francese, etc.)
è fedele all’originale latino, ma solo alla lettera. In
realtà il cuique suum della
giustizia distributiva romana al singolo civis
ha conservato in alcuni contesti dell’età moderna tale significato
originario, ma prevalentemente è diventato ciò che spetta a
ciascuno in ragione della sua individualità di essere umano, per diritto
naturale umano o divino e in un determinato ordinamento giuridico, con le sue
norme fondamentali (non uccidere, etc.): è rispetto a questo secondo
significato della formula che l’uso del motto a Buchenwald appare
incredibile e insopportabile. Ma forse non sarebbe apparso insopportabile ai
Romani se si ricordano, per il 70 d. C., nel racconto di Flavio Giuseppe[26], i fuggitivi da Gerusalemme assediata crocifissi
a 500 per volta ed anche più in un solo giorno: la vita di un nemico non
costituiva un valore e non meritava rispetto nemmeno nella morte.
Le vicende di questa famosa “formula della giustizia” qui
tratteggiate ne hanno mostrato tutta la storicità e in questo modo ne
fanno un costante termine di riferimento per valutare costruzioni filosofiche,
teorie giuridiche, ideologie politiche intorno alla nozione di giustizia; di
qui, prima ancora che una forse impossibile risposta, viene l’interesse
– sempre attuale – per il sintagma (uni)cuique suum.
Л. ПЕППЕ
РАЗМЫШЛЕНИЯ
ПО ПОВОДУ
ПОНЯТИЯ
«ЮСТИЦИЯ» В
ЕВРОПЕЙСКОЙ
ПРАВОВОЙ
ТРАДИЦИИ
РЕЗЮМЕ
Представленные
ниже
положения не
являются
плодом
строгого
научного
исследования,
а скорее
следствием
долгих
размышлений о
том, как
стало
возможным,
чтобы
римское cuique
suum
преобразилось
в jedem das Seine над
входом в
Бухенвальд?
Тот же вопрос
ставил перед
собой
голландский
историк
Говерт Ван
ден Берг, и
находил
ответ на него
в современной
рационалистической
и позитивистской
концепции
права.
Немецкий
философ Германн
Кленнер, а
затем Эрнст
Топич
пересмотрели
мнение
Кельсена о
синтагме cuique suum: это
выражение,
как и jedem das Seine, не
выражает в
действительности
ничего, но время
от времени
используется
для наполнения
различным
содержанием.
К тому же
выводу
пришла в 2001 г. и
Ютта Лимбах,
тогда
Президент
Конституционного
суда ФРГ.
Густаво
Загребельски,
экс-президент
Конституционного
суда Италии,
в ноябре 2004 г.
выражает
схожее
мнение, прямо
указывая на
совпадение «unicuique suum» и
нацистским «Jedem das Seine».
При
сравнении
двух этих высказываний
можно
констатировать
непрерывную
преемственность
римских
юридических
принципов со
времен
Древнего
Рима до сегодняшнего
дня. Можно,
напротив,
указывать на
то, что
нацистский
вариант
вырван из контекста.
Однако в
действительности
такая «деконтекстуализация»
– это тоже
один из
методов
традиционной
преемственности.
Здесь
уместно
вспомнить
броккарду «Societas delinquere non potest»
(юридическое
лицо не может
совершать
правонарушений),
на которой
строил свою
защиту
гестапо на
Нюрнбергском
процессе
Рудольф
Меркель. В
данном
случае речь
не идет о «нацистском»
использовании
римского права,
напротив,
можно
сказать, что
принцип римского
права
использован
для гуманной
защиты
подсудимых,
оправдать
которых
почти невозможно,
в ходе
процесса,
апеллирующего
к естественному
праву.
На
протяжении
всего хода
европейской
истории
принципы
римского
права
служили идеальным
исходным
пунктом для
всякого рода построений,
начиная с
Лютера и
кончая нацизмом.
Однако
следует
рассмотреть
способы использования
этих
принципов.
Как пример
использования
категорий
римского права
учеными, не
являющимися
специалистами
в римском
праве, можно
привести
работу
итальянского
философа
Джорджо
Агамбена «Homo Sacer». В этом
труде
философ
уподобляет
положение
евреев в
нацистской
Германии
положению homo sacer в Древнем
Риме. Такая
трактовка
правового положения
евреев нашла
сторонников
и за пределами
Италии.
Однако
большинство
историков
права и
романистов (в
их числе,
например,
Луиджи
Гарофало)
отрицательно
отнеслись к
такому
механическому
сближению современных
и древних
институтов.
Но и в более
близких к
юриспруденции
кругах
случаются
досадные
промахи. Так,
началу
Трактата о приеме
европейской
конституции
была предпослана
мало
уместная
здесь цитата
из Фукидида о
демократической
форме
правления (Thuc. II,
37), которая
была убрана
только при
пересмотре
текста 18 июня 2004
г.
Возвращаясь
к
бухенвальдскому
Jedem das Seine, можно
вспомнить
аналогичный
девиз над входом
в Освенцим I
– Arbeit macht frei. Где
источники
этих девизов?
Нацисты
строили
систему
своих
концлагерей,
модернизируя
уже
имеющуюся систему
Strafgefangenenlager.
Первым
примером
такой
модернизации
стал лагерь
Дахау,
обновленный
в 1936 г., где и
родился
девиз Arbeit macht frei. Он
же
использовался
и в некоторых
других лагерях.
Причины
появления рассматриваемой
надписи в
Дахау до
конца не
ясны.
Только
в некоторой
части
концлагерей
(в шести или
семи)
использовались
«надвратные»
девизы. Что
касается
Бухенвальда
(Тюрингия,
недалеко от
Веймара), то
его девиз
выглядит
исключением
в сравнении с
распространенным
Arbeit macht frei.
История
лагеря
начинается в
июле 1937 г., а уже в
феврале-марте
1938 г. над входом
появилось Jedem das Seine. Ясно, что у
образованной
части
немецкого общества
это
выражение
должно было
вызывать
сильные
ассоциации с cuique suum и с римским
правом в
целом.
Надо
отметить, что
девиз suum
cuique был
девизом
высшего
прусского
ордена «Der Hohe Orden von Schwarzen Adler»,
основанного
Фридрихом I
Прусским;
можно
вспомнить
также
кантату BWV 163
Баха, Nur
jedem das Seine, на
текст Салома
Франка,
учившегося
праву в Йене.
Однако вряд ли
именно здесь
можно искать
истоки
нацистского
девиза.
Скорее он
выражает
разделение
общества на
полноправных
арийцев и
различные
категории
неполноправных
лиц. Но
каково
соотношение
между этим
девизом и unicuique suum, процитированным
Загребельским?
Кстати, следует
отметить две
встречающиеся
редакции – cuique / unicuique suum.
* Лео Пеппе – ординарный профессор римского права юридического факультета университета «Roma Tre» (Италия). Статья является публикацией текста доклада, сделанного на IV международной конференции по римскому праву Иваново (Суздаль) – Москва, 25–30 июня 2006 г.
[1] A queste ricerche (successivamente citate in
nota, nella sede opportuna) si rinvia per approfondimenti e bibliografia;
perciò le note si limiteranno qui a tali rinvii o a indicazioni non date
già altrove o alla citazione dei testi essenziali.
[2] L. PEPPE,
‘Jedem das Seine’,«(uni)cuique suum», ‘a ciascuno
il suo’, in AA. VV., Tradizione
romanistica e Costituzione (diretto da L. LABRUNA, a cura di M. P.
BACCARI-C. CASCIONE), Napoli, 2006, t. II (Collana
„Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica
italiana“), p. 1707 ss. A questo contributo in primo luogo si
rinvia per quanto si dirà nel testo e per la letteratura di riferimento.
[3] L. PEPPE, «Societas
delinquere non potest». Un altro brocardo se ne va, in Labeo, 48, 2002, p. 370 ss. (=in AA.
VV., Persone giuridiche e storia del
diritto, a cura di L. PEPPE, Torino, 2004).
[4] L. PEPPE, Note
minime di metodo intorno alla nozione di homo sacer, in corso di
pubblicazione negli Studi in onore di
Luigi Labruna.
[5] Associazione internazionale per
[6] L. PEPPE, La
vastità del fenomeno fiduciario nel diritto romano: una prima
riflessione, in AA. VV., Le
situazioni affidanti (a cura di M. LUPOI), Torino, 2006, p. 15 ss.
[7] Tucid. 2.37.
[8] L. PEPPE, Cultura
classica e Costituzione europea, in AA. VV., Processo costituente europeo e diritti fondamentali (a cura di A.
CELOTTO), Torino, 2004, vol. I, p. 225 ss.
[9] L. PEPPE, Alcune
riflessioni sulla storia del diritto ovvero della rottura della tradizione
(giuridica), in AA. VV., Scritti in
memoria di Massimo D’Antona, Milano, 2004, vol. VI, p. 4201 ss.
[10] L. PEPPE, Intervento
Padova 26 novembre 2005, Convegno Sulla
formazione del giurista europeo, Atti
in corso di pubblicazione.
[11] Inst. 1.1.1: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens. Iuris
prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti
scientia.
[12] Inst. 1.1.3: Iuris
praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.
[13] D. 1.1.10: Iustitia
est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. 1. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere,
alterum non laedere, suum cuique tribuere. 2. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti
atque iniusti scientia.
[14] In GELL. Noct.
Att. 13.24.1.
[15] Approfondita analisi di questi due testi in
PEPPE, Jedem, cit.
[16] CIC. De
leg. 1.6.19: Itaque arbitrantur
prudentiam esse legem, cuius ea vis sit, ut recte facere iubeat, vetet
delinquere, eamque rem illi Graeco putant nomine ‘nómon’ a
suum cuique tribuendo appellatam, ego nostro a legendo;
CIC. De fin. 5.23.65: Quae animi affectio suum cuique tribuens … iustitia dicitur;
CIC. De fin. 5.23.67: Atque haec coniunctio confusioque virtutum tamen a philosophis ratione
quadam distinguitur. Nam cum ita copulatae conexaeque sint, ut omnes omnium
participes sint nec alia ab alia possit separari, tamen proprium suum cuiusque
munus est, ut fortitudo in laboribus periculisque cernatur, temperantia in
praetermittendis voluptatibus, prudentia in dilectu bonorum et malorum,
iustitia in suo cuique tribuendo. Quando igitur inest in omni virtute cura
quaedam quasi foras spectans aliosque appetens atque complectens, existit
illud, ut amici, ut fratres, ut propinqui, ut affines, ut cives, ut omnes
denique – quoniam unam societatem hominum esse volumus – propter se
expetendi sint. Atqui eorum nihil est eius generis, ut sit in fine atque
extremo bonorum;
CIC. De nat. deorum 3.15.38: Nam iustitia, quae suum cuique distribuit,
quid pertinet ad deos; hominum enim societas et communitas, ut vos dicitis,
iustitiam procreavit;
CIC. De off. 1.5.15: Sed omne quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua: aut
enim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate
tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide aut in animi …
magnitudine … aut in omnium … ordine et modo, …;
CIC. De off. 1.7.21: Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum quae natura fuerunt communia, quod
cuique obtigit, id quisque teneat;
LACT. epit.
50 [55], 5–8, dal De rep.; CIC.
De rep. 3.7.10: Plurimi quidem philosophorum, sed maxime Plato et Aristoteles, de
iustitia multa dixerunt adserentes et extollentes eam summa laude virtutem,
quod suum cuique tribuat, quod aequitatem in omnibus servet.
[17] SEN. Ep.
mor. 81.7: Hoc certe [ … ] iustitiae convenit, suum cuique reddere,
beneficio gratiam, iniuriae talionem aut certe malam gratiam. V. anche 120.7.
[18] AUG. De
civitate Dei 19.21.1: Iustitia porro
ea virus est quae sua cuique distribuit.
[19] AMBROS. De
off. 1.24.115, cit. infra, nei
parr. 8 e 11.
[20] Cit., retro,
nt. 13.
[21] Le tre corone che compongono la tiara stanno ad
indicare il triplice potere pontificio qual era espresso nella formula stessa
dell'incoronazione che, secondo il Pontificale romano del 1596, designava il
papa come «padre dei principi e dei re, rettore del mondo, vicario in
terra di Cristo».
[22] ISYD. Etym.
2.24.6: Iustitia, qua recte iudicando sua
cuique distribuunt.
[23]
MELANCHTON, Loci Communes (1543), usa
Suum cuique tribuere e collega il
motto al 7° Comandamento (‘Non rubare’; il collegamento
potrebbe essere spiegabile con i fatti intercorsi tra Loci 1521 e Loci 1543; v.
P. W. ROBINSON, ”The Most Learned
Discourses of the Philosophers and Lawyers”: Roman Law, Natural Law, and
Property in Melanchthon’s Loci Communes,
in Concordia Journal, 28, 2002, 1, p.
43).
[24] M. PETRAK, Il
diritto romano nella Croazia contemporanea, in Diritto&Storia, 2003, 2, nt. 9.
[25] Su
questo testo v. L. PEPPE, Un
‘investimentum’ del Senato Romano dell’anno 1162 d. C.,
in corso di pubblicazione negli Studi in
onore di Giovanni Nicosia.
[26] Jos. Flav. B. Jud. 5.450