Cari Colleghi,
in un primo tempo avevo indicato come argomento della mia relazione «II
problema della gens romana», sapendo
che i miei studi in materia non vi sono sconosciuti.
Ma appreso il tempo a disposizione, ho preferito puntare su un altro
argomento, che a mio avviso riveste notevole interesse, vista anche la vasta
letteratura su due dei tre frammenti delle Dodici Tavole che io esaminerò nella
versione retorica e in quella giuridica[1].
La prima delle tre disposizioni è, per ragioni di organicitа di esposizione, Tab.
5. 4–5, che la versione cd. giuridica riferisce nel modo che tutti sapete,
e cioè: Si intestato moritur cui suus
heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escit
gentiles familiam[2]. «Habento»
è solo un’aggiunta di noi moderni, per ragioni di euritmia. Quindi, alla cd.
versione giuridica abbiamo contribuito anche noi moderni.
Nella versione della Rhetorica ad Herennium[3] e di Cic. de
inventione[4], la disposizione suona invece: Si paterfamilias intestato moritur, familia
pecuniaque eius adgnatum gentiliumque esto.
La maggior parte degli autori dа una netta preferenza alla versione giuridica, sul
presupposto che i giuristi classici (ed oltre) avessero una migliore conoscenza
della versione autentica delle Dodici Tavole rispetto ai retori, pur se questi
scrivono prima.
E questo è appunto il primo argomento a favore della versione retorica:
come ha sottolineato il Guarino (che pure sposa la versione giuridica), l’Auctor ad Herennium e Cicerone sono
anteriori di due secoli almeno agli autori giuridici[5].
Né ha senso, dimenticando la Rhetorica
ad Herennium, invocare la giovane etа di Cicerone all’epoca della redazione del De inventione[6].
Lo stesso Cicerone, come è noto, afferma che da giovinetto era costretto ad
imparare a memoria il testo delle Dodici Tavole, quale «carmen necessarium»[7].
II secondo argomento si basa sulla puntuale, letterale coincidenza delle
due versioni retoriche. L’idea che Cicerone abbia saccheggiato Cornificio[8] (se è lui l’autore della Rhetorica) meriterebbe almeno un abbozzo di dimostrazione.
Esattamente ha affermato un autore spagnolo, Esteban Varela Mateos: «їPueden ambos autores,
si de verdad no repiten las palabras de los doce tablas, coincidir en la forma
de ricordarlas? їPueden ambos autores omitir el mismo inciso de la norma – cui suus heres nec escit – siendo йste, al menos en йpoca posterior, de
capital importancia?».
Conclude l’autore: «La conclusiуn ha de ser la atendibilidad de ambas fuentes»[9].
Ancora: la presenza dell’endiadi familia
pecuniaque, che Gaio riporta anche nella formula della mancipatio familiae[10], sembra maggiormente aderente ad una formulazione
più antica, sicuramente più antica di quella della versione giuridica.
È stato giustamente osservato a questo riguardo (Guarino) che la formula familia pecuniaque, inspiegabile per il diritto classico, è viceversa ben
collocata nel diritto arcaico[11].
Ma un argomento che a mio avviso deve far propendere per la maggiore
esattezza della versione retorica (e che trova molteplici riscontri, tra cui
quello fondamentale della terza disposizione che andremo ad esaminare)[12] è dato dal fatto che il giurista è colui che
adegua le vecchie norme alla realtа in mutamento. Il rispetto quasi religioso di
fronte alla realtа di un precetto che si assume sempre identico a sй nella forma e nella sostanza, dal 5° secolo a.
C. all’etа postclassica, contraddice tutti i discorsi (che allora diventano puramente
astratti) sulla funzione interpretatrice della giurisprudenza romana, e
contraddice tanti altri evidenti casi di mutamento. Tra l’altro, ignora i Tripertita di Sesto Elio.
Al contrario, l’atteggiamento del retore e dell’erudito prescinde dal
mutamento della realtа sociale, perchй non è questa l’oggetto del suo interesse, ma piuttosto la norma in sé.
Lo scopo del retore (a differenza di quello interpretativo e applicativo
del giurista) è quello di conservare a fini eruditi un testo decemvirale il più
possibile aderente al supposto dettato originale delle norme[13].
Ho usato l’aggettivo «supposto» perché le varie norme decemvirali citate in
senso letterale, non sono certo redatte nel latino del 5° secolo, che doveva
(con i pochi decenni di differenza, in una societа ancora abbastanza statica) avvicinarsi piuttosto
a quello del Cippo del foro romano o del Lapis
Satricanus, o del vaso di Duenos.
Ed allora, per avere un punto di riferimento connesso ad una redazione
fissa, ma più moderna, il pensiero corre naturalmente a Sesto Elio.
La mancanza dell’inciso relativo al suus
heres nella versione retorica ha
molto scandalizzato i romanisti di ieri e di oggi.
Tralascio i miei dubbi sulla esattezza grammaticale della espressione suus heres, che ho manifestato in altra
sede[14].
Voglio anche prescindere dalla ipotesi di un’antica successione collettiva
degli adgnati[15].
Se ci muoviamo in via di interpretazione, possiamo giungere alla
conclusione che, nella sostanza (dico: nella sostanza), le due versioni non
dicono cose diverse.
Il filius in potestate, quello che
la giurisprudenza definisce, in via interpretativa, suus heres (si pensi al vivo
patre quodammodo domini existimantur)[16], è l’agnato di primo grado, l’adgnatus proximus. Un famoso brano del
trentesimo libro di Pomponio ad Quintum Mucium
(D. 38. 16. 12) dice chiaramente; «filius patri adgnatus proximus est».
La scansione in gradi è opera della giurisprudenza[17], non è regolata dalla legge. Il posto a sй riservato
esplicitamente al suus heres si
inquadra perfettamente nell’emersione della logica della piccola famiglia,
propria dell’ultima repubblica, di fronte alla logica della grande famiglia
agnatizia (si pensi, ad esempio, alla famiglia degli Scipioni)[18].
Nй è
vero che i genitivi adgnatum gentiliumque
rappresentino una sorta di guazzabuglio cumulativo: un famoso testo di Paolo
(D. 50. 16. 53 pr.: Paul. 59 ad
ed.) dice esplicitamente che: saepe
ita comparatum est, ut coniuncta pro disiunctis accipiantur, e chiarisce
con l’esempio: «nam cum dicitur apud veteres
(evidentemente, i redattori delle Dodici Tavole) “adgnatorum gentiliumque», pro
separatione accipitur».
La cosa più clamorosa, è che qui Paolo cita la versione retorica, e nulla
(dico nulla) prova che il riferimento sia al versetto 5. 7a sul furiosus. Anzi, la sequenza tra
Tab. 5. 4–5 e 5. 7a (intervallata, nelle due opere retoriche,
solo dalla nostra seconda disposizione sull’uti
legassit) è estremamente significativa. La norma sul furiosus, infatti, suona testualmente cosм: Tab. 5. 7a: Si furiosus escit (est
nel de inventione) adgnatum gentiliumque in eo pecuniaque eius
potestas esto.
In questo caso, secondo la communis
opinio, adgnatum gentiliumque va
bene, non è uno scandalo, perchй, purtroppo, per gli amanti a tutti i costi del
«giuridico», non vi è una versione «giuridica» da contrapporre a quella
retorica: Et de hoc satis.
Passiamo alla seconda disposizione oggetto della mia relazione. Si tratta
di Tab. 5. 3, sull’uti legassit.
Di questa abbiamo diverse versioni, che possono raccogliersi in tre gruppi.
Procedendo cronologicamente, la prima versione è, come sempre, quella retorica,
di Rhetorica ad Herennium
1. 13. 23 e di Cic. de
inventione 2. 50. 48: pater
familias uti super familia pecuniaque sua legassit, ita ius esto.
La seconda versione è quella di Gai. 2. 224 e di Pomponio
(D. 50. 16. 120: 5 ad Q. Mucium): ‘uti legassit suae rei, ita ius esto’
La terza è di Paolo (D. 50. 16. 53 pr.) e dei Tituli ex corpore Ulpiani
(Ulp. 11. 14), ma nelle due testimonianze vi è qualche variante.
Nei Tituli il tenore della
disposizione è: uti legassit super
pecunia tutelave suae rei, ita ius esto. In Paolo ricorrono le parole «super pecuniae tutelaeve suae», dove
l’uso del genitivo è assolutamente fuori luogo.
Anche in questo caso seguire la linea evolutiva è abbastanza agevole.
La versione retorica, più antica e non soggetta ad adattamenti, parla di familia pecuniaque, ossia l’espressione tecnica per indicare il patrimonio[19].
Nei giuristi dell’etа degli Antonini (Gaio e Pomponio) l’espressione familia pecuniaque viene sostituita dal più moderno «sua res», ove legassit
sta sempre ad indicare, genericamente, il disporre.
Senonché Pomponio, volendo trovare un appiglio testuale unico per le varie
disposizioni testamentarie, afferma che 1’uti
legassit suae rei attribuisce al testatore una latissima potestas, cioè et
heredis instituendi et legata et libertates dandi, tutelas quoque constituendi.
La chiusa del passo, che non riporto, desta non poche perplessitа[20].
Cosм
finalmente Pomponio ha trovato (o crede) il dato legislativo unico per tutte le
manifestazioni di volontа del testatore, anche di taluna palesemente più
recente[21]. Ma, in particolare, egli ha trovato il
fondamento della tutela testamentaria (istituto autonomo, con tutta probabilitа, ben più tardi delle
Dodici Tavole: all’identitа antica tra erede e tutore io credo fermamente,
anche se non posso dimostrarlo in questa sede)[22].
Trovata l’origine della tutela testamentaria, nell’etа dei Severi, Paolo (e diciamo pure Ulpiano,
saltando ogni questione sulla natura dei Tituli)[23] fa parlare le Dodici Tavole di tutela, tra
l’altro in un contesto grammaticalmente scorretto, mentre la versione dei Tituli è a sua volta ben lontana
dall’essere quella originaria, ma almeno è grammaticalmente corretta.
È appena il caso di accennare che tutela
suae rei nei Tituli, andrebbe tradotto: custodia del suo patrimonio.
È chiaro che valgono qui molti degli argomenti addotti per la prima
disposizione.
La terza disposizione è Tab. 4. 3, relativa ai termini per
l’usucapione. Qui voglio partire all’inverso, dalla versione «giuridica» che è
Gai. 2. 42: (Usucapio autem)
mobilium quidem rerum anno completur,
fundi vero et aedium biennio; et ita lege XII Tabularum cautum est.
Se avessimo solo questa testimonianza «giuridica» sull’usucapione, saremmo
tutti convinti che le Dodici Tavole distinguevano i beni mobili dai beni
immobili, applicando agli ultimi il più lungo termine di usucapione, quello
biennale.
Per fortuna abbiamo il sussidio prezioso di una versione «retorica», quella
duplice di Cicerone: Cic. top. 4. 23: quoniam
usus auctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. At in lege aedes non appellantur et sunt ceterarum rerum omnium quarum
annuus est usus;
Cic. pro Caec. 19. 54: Lex usum et auctoritatem fundi iubet esse
biennium; at utimur eodem iure in aedibus, quae in lege non appellantur[24].
Quindi, a quanto riferisce Cicerone, il termine dell’usucapione era di due
anni per i soli fondi rustici (et in lege aedes non appellantur), di un
anno per tutte le altre cose, ossia per tutte le altre situazioni giuridiche
suscettibili di consolidamento in virtù dell’usus. A rigore le case rientravano nella categorie delle ceterae res (et sunt ceterarum rerum omniun quarum annuus est usus); ad esse
perciò si sarebbe dovuta applicare la normale usucapione annuale. Solo
successivamente la giurisprudenza interpretò estensivamente la disposizione,
riferendo anche alle costruzioni l’usus
biennale (at utimur eodem iure in aedibus).
I motivi dell’estensione possono forse essere intuiti. Anzitutto è
probabile che abbia giocato il principio dell’accessione; in secondo luogo la
casa spesso costituiva la sede della famiglia, intesa come unitа lavorativa agricola,
senza un rilievo economico e giuridico autonomo rispetto al fondo. Cicerone
riporta ben distinti la sostanza del precetto decemvirale e l’interpretatio successiva; Gaio incorpora
l’interpretatio nel precetto,
modificando cosм la norma decemvirale sull’usus
biennale dei fundi[25].
Probabilmente la legislazione decemvirale pose per la prima volta per
iscritto i termini dell’usus, giа consolidati in
precedenza nella prassi del collegio pontificale. Il termine ordinario era di
un anno, unitа di misura elementare basata sul periodico ripetersi di fenomeni naturali
come l’alternarsi delle stagioni: si pensi anche alla durata annuale delle
magistrature romane. Il termine più lungo stabilito in via eccezionale per i fundi (in origine per i soli fondi
rustici), fu probabilmente una necessitа scaturita dal ciclo biennale della coltura
rotativa italiota, a parte, forse, la maggiore importanza di essi come beni
produttivi[26].
Le Dodici Tavole dovettero stabilire (o confermare) solo il più lungo
termine per l’usucapione dei fondi rustici, in quanto la durata annuale dell’usus costituiva una regola fondamentale,
cristallizzatasi nella tradizione da lungo tempo. Il punto di partenza e
l’evoluzione successiva dell’interpretatio,
che estende il termine di due anni fissato solo per gli agri anche alle aedes,
risulta evidente dal raffronto dei due noti passi ciceroniani col testo di
Gaio.
In sostanza, fuori dei fundi, per
i quali giocavano motivi particolari, restava in vigore il termine tradizionale
di un anno per tutte le situazioni potestative suscettibili di acquisizione
mediante l’usus, tanto su persone che
su cose.
Dobbiamo però dar atto a Gaio di aver fatto ammenda, in 2. 54,
relativo all’usucapio pro herede, ove dice, per spiegare il
perchй
dell’istituto: Lex enim XII Tabularum
soli quidem res biennio usucapi possit, ceteras vero anno.
Ma è una ritrattazione parziale per l’equivocitа dell’espressione «res soli», e per la mancata menzione della successiva estensione,
in via interpretativa, alle aedes.
Ma, anche nella sua limitata ritrattazione, come opera Gaio? Accettando in
sostanza la versione retorica, ossia quella offertaci da Cicerone.
Su questa terza disposizione, a mio avviso, il cerchio si chiude.
(резюме)
Исследование
посвящено
анализу трех фрагментов
Законов ХII
Таблиц (Tab. 5. 4–5: si
intestato moritur; 5. 3: uti legassit; 6. 3: usus auctoritas),
причем
основное
внимание
уделено сравнению
применения
данных (и
некоторых других)
выражений в
античной
юридической и
риторической
литературе.
Особо
отмечен тот
факт, что
современные
исследователи
в большей
степени
доверяют
сочинениям
классических
юристов, чем
риторам, даже
если первые
писали
позднее;
однако автор
считает, что
это не всегда
обосновано
(ср.: Таb. 5. 4–5:
(FIRA. 1. 38) и Cic. de inv. 2. 50. 148, Rhet. ad Herenn. 1. 13. 23):
риторы
достаточно
хорошо
передают содержание
Законов ХII
Таблиц,
практически
не искажая
слов и не
пытаясь
интерпретировать.
Согласно
Дж. Франчези,
«цель ритора –
сохранить
текст
Законов ХII
Таблиц в
неприкосновенности
(«для
потомков»),
тогда как
цель юриста –
интерпретировать
и применять
норму», т. е.
модернизировать
ее и
корректировать
согласно
меняющимся
социально-историческим
реалиям.
Вместе
с тем,
следует
иметь в виду,
что некоторые
пассажи
законов V в. до
н. э. были не
только
непонятны
классическим
юристам, но и
бессмысленны
с точки
зрения классического
права (ср.: Gai. 2. 104:
familia pecuniaque в формуле
mancipatio familiae). Более того,
юристы
позднего
времени не
всегда точно
передавали
грамматическую
конструкцию
цитированных
текстов (ср.: Tituli ex
crpore Ulpiani (Ulp. 11. 14): uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius
esto и у Павла
(D. 50. 16. 53 pr.: super pecuniae
tutelaeve suae);
истользование
Павлом
родительного
падежа
абсолютно
неуместно, – считает
автор.).
Сочинения
риторов
подчас
оказывают
современному
исследователю
неоценимые
услуги: они
не только
позволяют
уточнить и
верифицировать
ссылки на
Законы
Таблиц у юристов
классического
времени, но
иногда дополняют
их (ср.:Cic. top. 4. 23; Gai. 2. 42).
Так, по Гаю
срок
приобретения
недвижимости
по давности
владения (usucapio)
установлен в
2 года, причем
он ссылается
на
децемвиров. А
Цицерон для
своего
времени
отмечает, что
двухлетний
срок для usucapio
применялся
только в отношении
fundi rustici, тогда как in
lege aedes non appellantur, и, таким
образом, срок
usucapio для городской
недвижимости –
1 год.
Очевидно, что
срок usucapio в
2 года для
недвижимости
получил всеобщее
распространение
в период
после Цицерона
и до Гая.
Следовательно,
сравнение
риторических
и
юридических
пассажей
позволяет
проследить
динамику
развития
правовых
институтов и
заодно
уточнить
первоначальный
смысл
Законов ХII
Таблиц;
пренебрегать
подобными
компаративными
исследованиями
вряд ли
стоит.
* Дженнаро
Франчози –
ординарный
профессор
римского
права, декан
юридического
факультета
II университета
г. Неаполя
(Италия), крупнейший
специалист
по римскому
родовому
праву и
вообще по
архаическому
римскому
праву, автор
многих
монографий,
статей и
учебников. Представленный
текст
является
докладом проф.
Дж. Франчози
на
II международной
конференции
по римскому
праву
«Римское
частное и
публичное
право:
многовековой
опыт развития
европейского
права»,
проходившей
в Москве –
Санкт-Петербурге
25–30 мая 2000 г.
[1] Le tre
disposizioni sono tab. 5. 4–5 (FIRA. 1. 38: si intestato moritur); tab. 5. 3 (FIRA. 1. 3 s.: uti legassit); tab. 6. 3 (FIRA. 1. 44: usus auctoritas).
Sulle prime due, e sui
rapporti tra la versione retorica e quella giuridica, la letteratura è
vastissima: mi limiterò a citare LEPRI, Saggi
sulla terminologia e sulla nozione del patrimonio in diritto romano. 1. Appunti sulla formulazione di alcune
disposizioni delle XII tavole secondo Cicerone (Firenze 1942) e la rec.
contraria di Guarino, in SDHI. 10 (1944)
409 ss.; LEPRI, Ancora qualche parola a
proposito di «sui» e di «adgnati», in St. Solazzi (1948) 299 ss.; GUARINO, Notazioni romanistiche. 2. La lex XII tabularum e la tutela, in St. Solazzi (1948) 31 ss.; ID., «Sui» e
«adgnati» nelle «XII Tabulae», in AUCT. 3 (1943) 204 ss., ora in Pagine di diritto romano 4 (1994) 128 ss.; LEVY– BRUHL, La tutelle des XII Tables, in St. Solazzi (1948) 318; ALBANESE, La successione ereditaria in diritto romano
antico (1949) 149 ss.; 208 s.; ID., Osservazioni
su XII tab. 5. 3, in AUPA.
45. 1 (1938) 35 ss.; VOCI, Diritto
ereditario romano 11 (1967) 9 ss.; AMIRANTE, Sulle XII tavole. Un’ipotesi di lavoro: le «sequenze» e l’ordine delle
norme decemvirali, in Index 20
(1992) 205 ss.; DILIBERTO, Materiali per
la palingenesi delle XII tavole (1992) 97 ss.; BRETONE, I fondamenti del diritto romano. Le cose e
la natura (1999) 26 ss. (sull’uti
legassit); 36 ss. (sul si intestato,
ma di sfuggita). Di recente il TALAMANCA nel suo cospicuo contributo a L’acquisto dell’ereditа da parte dei ‘gentiles’ in XII tab. 5. 5, in Hommage а la mйmoire de Andrй Magdelain (1998) 447 ss., a p. 448 pone a
base della sua interpretazione la cd. versione giuridica, rinviando la
discussione del problema testuale all’annunciato lavoro su L’acquisto dell’ereditа ed il problema della struttura della successione
ereditaria dal periodo arcaico alla fine della repubblica, in via
di stesura. Sul problema v. pure Ancient
Roman Statutes, a cura di M. H. CRAWFORD (1961) 555 ss.
[2] La base
testuale della disposizione è Coll. 16. 4. 1 = Ulp. 26. 1.
Riferimenti in Paul. D. 28. 2. 9. 2 (haec verba: ‘si intestato
moritur’) e Ulp. D. 50. 16. 195. 1:
‘adgnatus proximus familiam habeto’.
[3] Rhet.
ad Herenn. 1. 13. 23.
[4] Cic. de inv. 2. 50. 148.
[5]
GUARINO, La lex XII tabularum e la tutela
35.
[6] Cosм,
invece, GUARINO, «Sui» e «adgnati»
nelle «XII tabulae» 133 s.
[7] Cic. de leg. 2. 50. 148.
[8]
GUARINO, «Sui» e «adgnati» nelle «XII tabulae» 134.
[9] VARELA
MATEOS, La escasa viabilidad de la sucesiуn testamentaria en йpoca arcбica, in Est. Ursicino Alvarez Suarez 552.
[10] Gai.
2. 104.
[11] Cosм,
esattamente, GUARINO, La lex XII
tabularum e la tutela 35.
[12] Tab.
6. 3.
[13] V.
DILIBERTO, Materiali per la palingenesi
delle XII tavole 106.
[14] V.
FRANCIOSI, Clan gentilizio e strutture
monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana6
(1999) 207 nt. 41.
[15] Cosм, almeno
in via di ipotesi, MONACO, Hereditas e
mulieres (2000) 44 ss.
[16]
D. 28. 2. 11 (Paul. 2 ad
Sab.). V. pure Gai. 2. 157.
[17] V.
FRANCIOSI, Clan gentilizio 350 s.
Cfr. AMIRANTE, Sulle XII tavole 208:
«La posizione del suus heres è del
tutto estranea alla legge».
[18]
FRANCIOSI, Clan gentilizio 276; ID., Preesistenza della ‘gens’ e ‘nomen gentilicium’, in AA. VV., Ricerche sull’organizzazione gentilizia
romana, a cura di G. Franciosi 1 (1984) 18.
[19] Come
visto, in tal senso decisamente GUARINO, La
lex XII tabularum e la tutela 35. V. FRANCIOSI, ‘Gentiles familiam habento’.
Una riflessione sulla cd. proprietа collettiva gentilizia, in
Ricerche 3 (1995) 45 ss.; ID., Corso istituzionale di diritto romanoі (2000)
276 ss.
[20] Essa
suona cosм:
D. 50. 16. 120 (Pomp. 5 ad
Q. Mucium): sed id interpretatione
coangustatum est vel legum vel auctoritate iura constituentium. Qui
Pomponio sembra rattristarsi per il fatto che qualcuno o qualcosa, ossia la
legge (quale?) o la giurisprudenza (auctoritate
iura constituentium) abbia finito per restringere quella latissima potestas. Sinceramente, su
questo discorso voglio meditare ancora, ma allo stato mi sembra che Pomponio
rovesci lo sviluppo storico.
[21] Il
fatto che il brano pomponiano sia estratto dai commentari ad Q. Mucium non significa automaticamente, a mio avviso, che
Pomponio abbia trovato quella interpretazione in Quinto Mucio (cosм
DILIBERTO, Materiali per la palingenesi delle XII tavole 101). Di
questo occorrerebbe una prova estremamente attendibile, che allo stato manca
del tutto.
[22] V. per
ora FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma
antica. Dall’etа arcaica al Principatoі (1995) 86 ss. V. pure Corso istituzionale di diritto romanoі (2000)
145 s.
[23] Sulla
natura dell’opera v. da ultimo, MERCOGLIANO, ‘Tituli ex corpore Ulpiani’. Storia di un testo (1997) 1 ss. Ivi la letteratura sull’opera.
[24] Su
queste fonti, v. FRANCIOSI, Usucapio pro
herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas (1965) 29 s.; ID.,
Due ipotesi di interpretazione «formatrice»: dalle dodici tavole a Gai.
2. 42 e il caso dell’usucapio pro herede, in Nozione formazione e
interpretazione del diritto dall’etа romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Pofessor Filippo Gallo 1 (1997) 247 ss.
[25] V.
FRANCIOSI, oo. ll. cc.
[26] V.
FRANCIOSI, Due ipotesi di interpretazione
«formatrice» 248.