Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-8
Francesco Sini
A quibus iura civibus praescribebantur
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.
Torino, G. Giappichelli Editore, 1995
pp. 172 – ISBN 88-348-4144-3
Parte
Seconda
Giuristi E
FRAMMENTI
V
Sesto eLio Peto cato
Sommario: 1. L’opera dei
giuristi nella «civitas che
cresce». – 2. I
frammenti. – 3. L’interpretatio di Sesto Elio: in tema di penus legata e di responsabilità
contrattuale. – 4. Segue:
heres e furtum antea factum. – 5. Segue: il significato di lessum. – 6. Conclusione.
[p.
131]
«Nelle nostre fonti la giurisprudenza romana emerge, a
livello delle individualità dei prudentes, proprio con Sesto Elio Peto Cato, nel momento in cui, fra
l'altro, si avvertiva il deciso prevalere della giurisprudenza laica su quella pontificale». Queste parole, tratte da
un saggio di M. Talamanca sui
rapporti tra costruzione giuridica e strutture sociali[1],
sintetizzano con indubbia efficacia il ruolo del giurista e la
centralità della sua opera nella storia del pensiero giuridico romano
dell'età repubblicana[2].
[p.
132]
Sesto Elio apparteneva ad
una ragguardevole famiglia plebea, nobilitata dall'esercizio di magistrature e sacerdozi[3]; fu
perciò quasi naturale per lui, e per il fratello Publio[4], intraprendere la
carriera politica. Edile curule nel 200 a.C.[5], console nel
[p.
133]
194 a.C.[7], il giurista percorse i diversi gradi del cursus honorum[8] grazie ai suoi profondi legami col gruppo di Scipione l'Africano, della cui politica le fonti ce lo mostrano sempre interprete fedele. Valga, come esempio, l'introduzione dei posti di teatro riservati ai senatori, attestataci da Livio a proposito dei ludi Romani celebrati nel 194 a.C., anno della censura di Sesto Elio[9]: si trattava di una decisione assai controversa, attuata dagli edili curuli su ordine dei censori[10], ma la cui ispirazione le fonti antiche attribuivano proprio a Scipione, in quel tempo al suo secondo consolato[11].
[p.
134]
Per quanto riguarda l’attività del giurista, merita attenta considerazione la testimonianza del liber singularis encbiridii di Sesto Pomponio; nella riflessione storica del giurista classico, finalizzata – com'è noto – a ipsius iuris originem atque processum demonstrare[12], l'opera di Sesto Elio Peto si presentava come evento di straordinaria rilevanza per lo sviluppo del diritto, al punto da essere citata in due diversi luoghi del lungo frammento D. 1, 2, 2.
Dal testo
pomponiano apprendiamo, anzitutto, che il giurista ebbe un ruolo
particolarmente significativo nella elaborazione di nuovi genera agendi, con una produzione letteraria
destinata alla pubblicazione: Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi [...] Sextus Aelius alias actiones composuit
et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum[13]; mentre più
avanti Pomponio sembra precisare
[p.
135]
meglio la struttura di tale “libro”: Sextum
Aelium etiam Ennius laudavit et exstat illius liber qui inscribitur
tripertita, qui liber veluti cunabula iuris continet: tripertita
autem dicitur, quoniam lege duodecim tabularum praeposita iungitur
interpretatio
deinde subtexitur legis actio[14].
Leggiamo, ora, i
frammenti superstiti. Con l'avvertenza che nella numerazione di essi ho
preferito attenermi alla disposizione del Bremer[15],
nonostante l'inadeguatezza ormai riconosciuta delle moderne ricostruzioni del
testo decemvirale[16].
[p.
136]
1
Cato
Aelio placuisse, non quae esui et potui forent, sed tus quoque
et cereos in penu esse, quod
esset eius ferme rei causa comparatum.
Gellio, Noct.
Att. 4, 1, 20: Praeterea de
penu adscribendum hoc etiam putavi: Servium Sulpicium in reprehensis Scaevolae
capitibus scripsisse Cato Aelio – comparatum.
BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, p. 15 fragm. 1a; HUSCHKE -
SECKEL - KÜBLER, Iurisprudentiae
Anteiustinianae, I, p. 1 fragm. 1.
[p.
137]
2
Sextus
autem [C]ac[ci]lius etiam tus et cereos in domesticum usum
paratos contineri legato scribit.
D. 33, 9, 3, 9 =
Ulpiano, Libro vicesimo secundo ad Sabinum: Legna et carbones ceteraque, per quae penus conficeretur, an penori legato contineantur,
quaeritur. Et
Quintus Mucius et Ofilius negaverunt: non magis quam molae, inquiunt, continentur. Idem et tus et ceras contineri negaverunt. Sed Rutilius et legna et carbones, quae non vendendi causa parata sunt,
contineri ait. Sextus - scribit.
LENEL, Palingenesia
iuris civilis, I, col. 2 fragm. 2.
3
Si per emptorem steterit, quo minus ei mancipium
traderetur, pro cibariis per arbitrium indemnitatem posse servari Sextus Aelius, Drusus dixerunt.
D. 19, 1, 38, 1 = Celso, Libro octavo digestorum: Si per emptorem – dixerunt, quorum et mihi iustissima videtur esse
sententia.
LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, col. 2 fragm. 1; BREMER, Iurisprudentiae
Antehadrianae, p. 15 fragm. 2.
4
Inluseras
heri inter scyphos, quod dixeram controversiam esse,
possetne heres, quod furtum antea factum esset, furti recte
agere. Itaque etsi domum bene potus seroque redieram, tamen id caput,
ubi haec controversia est, notavi et descriptum tibi misi, ut scires id, quod tu
neminem
[p. 138]
sensisse dicebas, Sex. Aelium, M'. Manilium, M. Brutum sensisse.
Cicerone, Ad fam. 7, 22: Cicero Trebatio suo. lnluseras
– sensisse. Ego tamen Scaevolae et Testae adsentior.
LENEL,
Palingenesia iuris civilis, I, col. 2 fragm. 3; BREMER, Iurisprudentiae
Antehadrianae, I, p. 16 fragm. 3;
HUSCHKE - SECKEL - KÜBLER, Iurisprudentiae
Anteiustinianae, I, p. 1 fragm. 2.
5
Mulieres
genas ne radunto neve lessum funeris ergo habento. Hoc veteres interpretes Sex.
Aelius, L. Acilius non satis se intellegere
dixerunt, sed suspicari vestimenti
aliquod genus funebris.
Cicerone, De leg. 2, 59: Extenuato igitur sumptu tribus reciniis et tunicula purpurea et decem tibicinibus tollit
etiam lamentationem: Mulieres – funebris,
L. Aelius lessum quasi lugubrem eiulationem, ut vox ipso
significat; quod eo magis iudico verum esse, quia lex Solonis id ipsum vetat.
LENEL, Palingenesia
iuris civilis, I, col. 3 fragm. 4; BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, p. 16 fragm. 4; FUNAIOLI, Grammaticae Romane fragmenta, I,
p. 15; HUSCHKE – SECKEL - KÜBLER, Iurisprudentiae
Anteiustinianae, I, p. 1 fragm. 3.
Questi
miseri testi sono le uniche testimonianze a noi pervenute dell'opera di Sesto
Elio Peto. Dai testi si può appena intravvedere la complessità
degli interessi e l'acume
[p.
139]
della dottrina di un giurista che Cicerone, certo con più cognizione di causa, non esitava a definire: iuris civilis omnium peritissimus[17].
I primi due frammenti[18]
riportano l'opinione di Sesto Elio Peto sul contenuto del legato di penus[19], nel senso che l'antico
giurista includeva fra gli oggetti di tale legato anche cose non commestibili,
come tus et cereos. L'importanza dei
passi non è sfuggita ad A. Ormanni, per il quale le «scarne, ma non meno sicure, testimonianze sulle
vedute di Sesto Elio [...] confermano, anche sul
[p.
140]
terreno dell'esperienza giuridica, lo svolgimento che abbiamo riscontrato nelle valutazioni sociali dell'età repubblicana: fra il terzo secolo e i primi anni del primo, dunque, la penus conserva ancora certe attribuzioni di carattere cultuale»[20].
Nel
corso dell'età repubblicana, quando al più antico contributo di Sesto Elio venne a contrapporsi la diversa opinione di Q. Mucio
Scevola[21],
si sviluppò un serrato
[p. 141]
dibattito che vide interessati, a vario
titolo, importanti giuristi quali P. Rutilio Rufo e Aulo Ofilio, nonché Servio Sulpicio
Rufo, aspro critico di Scevola[22].
Forse
si deve proprio all'autorità di Servio, se nella giurisprudenza classica finì per prevalere la soluzione eliana[23]
(non quae esui et potui forent, sed
tus quoque et
[p. 142]
cereos
in penu esse), di cui possiamo leggere la
formulazione conclusiva, accettata in
maniera pressoché unanime dai giuristi
posteriori, nel iuris civilis secundo di Masurio Sabino[24].
Il terzo frammento di Sesto Elio, un brano del
[p. 143]
giurista Celso dal suo libro octavo
digestorum, ci presenta
uno straordinario «parere in materia di
compravendita»[25], a cui aderiva anche Druso. In caso di compravendita di uno schiavo – sentenziava l'antico giurista –
quel compratore che, per sua colpa, non avesse consentito
la consegna dell'uomo da parte del venditore, poteva
essere condannato, per arbitrium[26], al pagamento di un'indennità pro cibariis a favore di quest'ultimo[27]. Ma il valore di questo testo ha una portata più generale rispetto al caso concreto
ivi discusso: la sententia di Sesto Elio
costituisce, infatti, una prova sicura per datare i contratti
consensuali: «Quale sia stata l'origine
e la tutela primitiva di ciascuno di essi – scrive M. Talamanca – è comunque sicuro che il loro
apparire sulla scena della prassi
negoziale fra cives va posto tra la fine del III a.C. (ne fa fede
la sententia di Sesto Elio Peto Cato ricordata, con l’omologo parere di Druso, in Cels. 8 dig. D.
19. 1. 38. 1) e la seconda
metà del secolo successivo»[28].
[p. 144]
Veniamo al quarto frammento, una lettera di Cicerone del
Apprendiamo dalla lettera che, nel corso di una
conversazione quasi conviviale, il giurista non solo aveva mostrato di ignorare
quanto affermava invece l'oratore: controversiam esse, possetne
heres, quod furtum antea factum esset, furti recte agere; ma sul punto
lo aveva anche preso in giro bonariamente[30]. Colto di sorpresa dalla decisa
[p. 145]
reazione
del giurista, Cicerone non seppe controbattere immediatamente alle obiezioni di Trebazio; pertanto, appena
tornato a casa, cercò l'opera da cui aveva tratto l'informazione: quasi certamente i libri iuris civilis di Quinto
Mucio Scevola; ne trascrisse il capitolo relativo alla controversia e lo inviò a Trebazio insieme alla lettera[31].
La questione giuridica, che si prospetta nella lettera
ciceroniana, presenta non pochi elementi di incertezza, né appaiono del
tutto chiari i termini della controversia[32]:
[p. 146]
se da una parte non sussistono dubbi
sull'oggetto, il quesito se l'erede potesse promuovere l'actio furti per un furto antea factum[33], restano invece da comprendere le ragioni del contrasto
che opponeva Quinto Mucio e
Trebazio a Sesto Elio, Manlio e Bruto.
Tuttavia, è abbastanza probabile che Scevola e Testa sostenessero già, nella sostanza,
il principio poi affermatosi
nella giurisprudenza posteriore; cioè l'ammissione della trasferibilità dell'azione
penale all'erede, in presenza di un accertato danno patrimoniale[34].
Per individuare la fattispecie, la dottrina ha discusso in particolare sul valore dell'espressione antea factum: se debba intendersi furto commesso prima della
morte del de cuius[35],
oppure dopo la morte del de
cuius, ma prima
[p. 147]
dell'adizione ereditaria[36].
Quale che sia la soluzione adottata, non influisce comunque sulla ricostruzione della dottrina di Sesto Elio e
della sua età in materia di furto: è quasi
certo, infatti, che il giurista sostenesse l'intrasmissibilità attiva e
passiva dell'actio furti[37];
da qui il contrasto con la dottrina di Quinto Mucio e Trebazio Testa.
Il quinto frammento di Sesto Elio può dividersi in due parti. La prima contiene l'antico testo di una norma
[p. 148]
decemvirale
in materia funeraria, «che gli editori pongono concordemente nella decima
tavola»[38],
espressa, come le altre aventi lo stesso oggetto, in forma di divieto: alle
donne, durante i funerali, era vietato sia graffiarsi vistosamente le guance,
sia lessum habere[39].
La
seconda parte del frammento offre, invece, un saggio di interpretatio eliana,
dove l'analisi linguistica del documento arcaico non si risolve in pura
erudizione, ma persegue lo scopo di rendere anzitutto comprensibile il dettato
decemvirale, «di chiarire i nuclei più lontani (e inattuali)
dell'antica legge»[40].
Questo spiega l'interesse
[p. 149]
di Sesto Elio a interpretare la parola lessum; la cui «inattualità»,
tuttavia, non fu possibile superare, se il giurista finì per ammettere dubbi e
incertezze sul significato proposto[41].
Un'ultima
cosa resta ancora da dire: né l'analisi testuale del frammento, né le
difficoltà interpretative di Sesto
Elio paiono, di per sé, sufficienti a sostenere – come pure qualcuno ha fatto di recente[42]
– che, per quel lungo arco di
tempo che separa la compilazione decemvirale dai primi anni del II secolo
a.C., non vi sarebbe stata
[p. 150]
«alcuna elaborazione scientifica del collegio (pontificale)
sul testo delle XII Tavole», anzi la giurisprudenza pontificale avrebbe
operato «in modo peculiare, probabilmente disancorandosi dal dato
normativo decemvirale e non proponendone alcun commento organico»[43].
Non
rientra nella prospettiva del presente lavoro formulare delle ipotesi circa
l’esatta identificazione delle opere da cui provengono gli sparuti
frammenti del corpus eliano. Non si affronterà quindi, in questa
sede, la questione se lo ius Aelianum e
i tripertita debbano essere considerati semplicemente differenti
denominazioni della stessa opera di Sesto Elio, come sostiene oggi la maggior
parte della dottrina[44];
oppure se non si tratti, forse, di
opere
[p.
151]
distinte dello stesso giurista[45];
o, infine, se non siano piuttosto due opere di autori diversi[46].
[p.
152]
Di certo,
può invece concludersi che l'attività del giurista si esplicava a
tutto campo sulle XII Tavole, «nel senso
di una ricerca interpretativa sulle dodici tavole»[47], per indagare, e riflettere, attraverso l'interpretatio iuris sulla pluralità degli «insiemi normativi»[48]
che, nella augescens civitas del suo tempo, facevano capo al
popolo romano[49].
Non è dunque azzardato affermare, che per Sesto Elio Peto le XII Tavole
furono la principale fonte del suo sapere giuridico e, al tempo stesso,
l'oggetto quasi esclusivo della sua indagine giuridica[50].
Doveva valere anche
per lui quanto affermava Cicerone, qualche secolo più tardi: essere,
cioè, un unico
[p.
153]
XII tabularum libellus di
gran lunga superiore per utilità e prestigio a tutta la sapienza contenuta
nelle bibliothecae omnium philosophorum [51].
[1] M. TALAMANCA, Costruzione giuridica e strutture sociali fino a Quinto
Mucio, in
A. GIARDINA - A. SCHIAVONE (a cura di), Società romana e produzione schiavistica, III. Modelli
etici, diritto e trasformazioni sociali, Roma-Bari
1981, p. 15.
[2] Sussistono pochi dubbi sul fatto che
l'opera di Sesto Elio abbia
costituito un «Wendepunkt in der Geschichte des römischen Rechts» (la frase è di M. SCHANZ, Geschichte
der römischen Literatur, I, zweite Aufl., München 1898,
p. 146 = vierte Aufl., 1927, p. 236): cfr.,
per tutti, F. D. SANIO, Varroniana in den Schriften der
römischen Juristen, Leipzig 1867, pp. 166 ss.; P.
JÖRS, Römische Rechtswissenschaft
zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen,
Berlin 1888, pp. 99 ss.; P.
KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, Leipzig 1888,
pp. 54 s. (= Histoire des sources du droit romain, trad. franc.
di M. Brissaud, Paris 1894, pp. 71 ss.); L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, p. 480; F. SCHULZ, Storia
della giurisprudenza romana, trad. it. di G. Nocera, Firenze
1968, p. 69; A. WATSON, Law making in the Later Roman Republic, Oxford 1974,
pp. 135 ss.; F. D'IPPOLITO, I giuristi e la città. Ricerche sulla
giurisprudenza romana della repubblica, Napoli 1978 (ma 1979), pp. 67 ss.; R. A. BAUMAN, Lawyers
in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in
their political setting, 316-82 BC, München 1983, pp. 129 ss.; F. WIEACKER, Römische
Rechtsgeschichte, I, München
1988, pp. 535 ss.; A. SCHIAVONE, Pensiero giuridico e razionalità aristocratica, in AA.VV., Storia di Roma, 2 [L'impero mediterraneo].
I [La repubblica imperiale], direz. di A. S., Torino 1990,
pp. 421 s.
[3] Il padre del giurista, Q. Elio Peto, morto a Canne nel
[4] Per una esauriente analisi sulla figura di Publio Elio
Peto, con particolare riferimento alla carriera e al suo ruolo politico, vedi
per tutti R A. BAUMAN, Lawyers in Roman
republican politics, cit., pp. 110 ss.
Sul carattere filoscipionico della condotta politica di Publio Elio, vedi anche A. J. TOYNBEE, L'eredità di Annibale, trad. it., II, Torino 1983, pp. 237 s.
[5] Cfr.
Livio 31, 50, 1-2: Annona quoque eo anno pervilis fuit; frumenti
vim magnam ex Africa advectam aediles curules M. Claudius Marcellus
et Sex. Aelius Paetus binis aeris in modios populo diviserunt. Et
ludos Romanos magno apparatu fecerunt; diem unum instaurarunt; signa aenea quinque ex multaticio argento
in aerario posuerunt.
[6] Livio 32, 7, 12: In auctoritate
patrum fuere tribuni. Creati consules Sex. Aelius
Paetus et T. Quinctius Flamininus.
[7] Livio 34, 44, 4: Censorum inde comitia sunt habita.
Creati censores Sex.
Aelius Paetus et C. Cornelius Cethegus.
Principem senatus P. Scipionem consulem,
quem et priores censores legerant, legerunt. Tres omnino senatores, neminem curuli honore usum, praeterierunt; cfr. Livio 35, 9, 1.
[8] Sulla carriera politica di Sesto Elio vedi, per tutti, F. MÜNZER, Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart 1920, pp. 219 ss.; E. KLEBS, Aelius, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft 1, 1, cit., col. 527; T.R.S. BROUGHTON,
The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., pp. 323, 329 s., 343;
F. D'IPPOLITO, I
giuristi e la città, cit., pp. 54 ss.; R A. BAUMAN, Lawyers in Roman republican politics, cit., pp. 126 ss.
[9] La censura del 194 è oggetto di un denso paragrafo di F. D'IPPOLITO, I giuristi
e la città, cit.,
pp. 57 ss.
[10] Livio 34, 44, 5: Gratiam quoque ingentem apud eum
ordinem pepererunt,
quod ludis Romanis aedilibus curulibus imperarunt ut loca senatoria
secernerent a populo; nam antea in promiscuo spectarant. Equitibus quoque perpaucis
adempti equi, nec in ullum ordinem saevitum. Atrium Libertatis et villa publica ab iisdem refecta
amplificataque.
In altra prospettiva, il testo liviano appare degno della massima considerazione a F. CANCELLI, Studi sui censores e sull'arbitratus della lex contractus, ristampa corretta, Milano 1960, pp. 9 s.; il quale lo colloca tra le «Fonti attestanti l’imperium dei censori»: «L'uso del verbo imperare riferito ai censori, sarebbe per sè assai significativo; ma più attrae l'attenzione, perchè il comando è rivolto a un'altra magistratura, e per giunta, alla più elevata delle minori».
[11] Livio 34, 54, 1-8; Cicerone, De har. resp. 24;
Pro Corn.
I, frag. 26;
Valerio Massimo 2, 4, 3; 4, 5, 1; Asconio 69-70. Cfr. F. CASSOLA, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962,
pp. 402 s.; M. BRETONE, Tecniche
e ideologie dei giuristi romani,
2a ed., Napoli 1982, p. 76, n. 38.
[12] D. 1, 2, 2 pr.-1 = Pomponio, Libro
singulari enchiridii: Necessarium itaque nobis videtur ipsius iuris originem
atque processum demonstrare. Et
quidem initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum
agere instituit omniaque manu a regibus gubernabantur.
Per una puntuale
analisi del passo pomponiano, con particolare riferimento al senso dei termini origo e processus, vedi D.
NÖRR, Pomponius oder “Zum
Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 563 ss.; ma sull'impostazione del Nörr, vedi M. TALAMANCA, Per la storia
della giurisprudenza romana, in
Bullettino dell'Istituto di diritto romano 80, 1977, pp. 261 ss.
[13] D. 1, 2, 2, 7 = Pomponio, Libro
singulari enchiridii: Postea cum Appius Claudius proposuisset et ad formam
redegisset has actiones, Gnaeus Flavius scriba eius libertini filius
subreptum librum populo tradidit. Et adeo gratum fuit id munus populo, ut tribunus
plebis fieret et senator et
aedilis curulis. Hic liber, qui actiones continet, appellatur ius civile Flavianum, sicut ille ius civile Papirianum:
nam nec Gnaeus Flavius de suo quicquam adiecit libro. Augescente
civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium
Sextus Aelius alias actiones composuit et
librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum.
[14] D. 1, 2, 2, 38 = Pomponio, Libro singulari enchiridii: Deinde Sextus Aelius et frater eius Publius
Aelius et Publius Atilius maximam scientiam in profitendo habuerunt, ut duo Aelii etiam consules
fuerint, Atilius autem primus a populo Sapiens appellatus
est (segue il passo citato nel testo).
[15] BREMER, Iurisprudentiae
Antehadrianae quae supersunt, I,
Lipsiae
1896, pp. 15 s. («Fragmenta
ad XII tabularum ordinem iam receptum disposui»); sulla base di questo
criterio lo studioso tedesco dispone i
cinque frammenti come segue: attribuisce Gellio, Noct. Att. 4, 1, 20 e D.
33, 9, 3, 9 al commento di Tab. V, 3 (Uti legassit super pecunia
tutelave suae rei, ita ius esco); D. 19, 1, 38, 1 al commento di Tab. VII,
11 (De
rebus emptis venditis); Cicerone,
Ad fam. 7, 22 a Tab. VIII, 16 (De furto nec manifesto); Cicerone, De leg. 2,
[16] Per le critiche
alla ricostruzione più seguita, quella proposta da R. SCHOELL (Legis duodecim tabularum reliquiae, Lipsiae
1866), vedi M. LAURIA, Ius
Romanum I. 1, Napoli 1963, pp. 23 ss., il quale sottolinea con forza il fatto
che, pur utilizzandola, «tutti gli studiosi, concordi [...] la ritengono
ipotetica e priva di ogni dimostrazione relativa
alla sua corrispondenza all'ordine generale della lex xii tabularum, come già Schoell la
riconobbe». Tre i motivi che inducono lo studioso napoletano a ritenere inaccettabile tale ricostruzione (pp. 24-26): «a) trascura, anzi sovverte
l’ordine offerto dal procedere degli argomenti nei fr.
superstiti... b) raggruppa e riordina gli argomenti secondo criteri
preconcetti, a priori, privi
di conforto storico e di indicazioni testuali, sicché la completezza nel
riordinare i dati va a scapito della correttezza, della solidità della
ricostruzione; c) trascura il raffronto tra
le linee generali della ricostruzione prospettata e quella dello schema
che i commenti posteriori all'editto pretorio seguono concordi, unanimi».
Proprio
muovendo dalle critiche del Lauria, più di recente, alcuni studiosi
(L. Amirante, O. Diliberto, F. D'Ippolito, F. Bona e S. Tondo) hanno
intrapreso, sotto l'egida del CNR, una ricerca “Sulle XII Tavole”; vedine
la presentazione di L. A(MIRANTE) («Eppure tutti continuiamo a utilizzare
palingenesi della legge decemvirale giudicate unanimemente insufficienti
e del tutto lontane probabilmente dall'ordine decemvirale, un
ordine nato quando la scienza del diritto era ancora di là da
venire») e i primi saggi (uno dello stesso AMIRANTE, Per una
palingenesi delle XII Tavole; il secondo
di O. DILIBERTO, Considerazioni
intorno al commento di Gaio alle XII Tavole; il terzo di F. D'IPPOLITO, XII Tab. 2.2) in Index 18,
1990, pp. 389 ss.; a cui aggiungi Sulle XII Tavole, in Index 20, 1992, pp.
205 ss. (con i contributi di L. AMIRANTE, Un'ipotesi di lavoro: le «sequenze»
e l'ordine delle norme decemvirale, pp. 205 ss.; F. BONA, Il «de
verborum significatu» di Festo e le XII Tavole, I. Gli
«auctores» di Verrio Flacco, pp. 211 ss.; O. DILIBERTO, Contributo
alla palingenesi delle
XII Tavole. Le «sequenze» nei testi gelliani, pp.
229 ss.; F. D'IPPOLITO, Gaio e le XII Tavole, pp. 279 ss.).
[17] Cicerone, Brutus 78:
Numeroque eodem fuit Sex. Aelius, iuris quidem civilis omnium peritissimus, sed etiam ad
dicendum paratus; cfr. De
orat. 1,
212: Sin autem quaereretur quisnam iuris
consultus vere nominaretur, eum dicerem, qui legum et consuetudinis eius, qua
privati in civitate uterentur, et ad
respondendum et ad agendum et ad cavendum peritus esset, et ex eo genere Sex. Aelium, M' Manilium, P. Mucium nominarem.
[18] La correzione in D. 33, 9, 3, 9 di Caecilius in Aelius, accolta ormai da tutti gli editori,
fu formulata per primo, sulla base di Gellio, Noct. Att. 4, 1, 20, da A. AGUSTIN (AUGUSTINUS), De Nominibus propriis "tou
pandéktou" Florentini, cum
Antonii Augustini, Episcopi Tarraconensis, notis, 1579, di cui si cita
l’edizione settecentesca in Thesaurus
Juris Romani, cum Praefatione Everardi Ottonis. Tomus I, Lugduni Batavorum
1725, p. 209: «Gellius lib 4 c.
I. vide 33. 9. 3. 5 ubi Sextus Caecilius fortasse pro Sexto
Aelio est».
[19] Cfr., per tutti, A. ORMANNI, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con clausola penale in
età repubblicana e classica, in Studi E. Betti, IV, Milano 1962, pp. 652 ss., in
part. pp. 674 ss. (ivi n. 206 per letteratura più risalente); R. ASTOLFI, Studi sull'oggetto dei legati
in diritto romano, II, Padova
1969, pp. 79 ss.; U. JOHN, Die
Auslegung des Legats von Sachgesamtheiten im römischen Recht bis Labeo, Karlsruhe 1970, pp. 38 ss.; A. WATSON, The Law of Successions in the
Later Roman Republic, Oxford 1971, pp. 134 ss.; da
ultimo, brevemente, M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 317:
«Una questione, di cui i giuristi da Sesto Elio in poi avevano discusso,
è se la legna e i carboni, l'incenso e i “ceri”, rientrino
in un altro complesso di cose, la penus».
[20] A.
ORMANNI, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con clausola penale in età
repubblicana e classica, cit., p. 676; interessanti, e assai
convincenti, appaiono anche le riflessioni che lo studioso propone, nella stessa pagina: «Il ritenere, infatti,
comprese nella nozione di penus cose
che certamente non sono destinate all'alimentazione
– incenso cerei legna carbone – si spiega solo in un modo: richiamandosi
alla funzione strumentale che la penus aveva
avuto per la celebrazione dei culti domestici. L'incenso, infatti, trovava
applicazione soprattutto nei riti propiziatorii dedicati alle divinità
domestiche; cerei (ben diversi da cera) sono sigilla o
immagini di divinità o di vittime; legna e carbone vengono egualmente adoperati per l'accensione del fuoco
rituale, ed è da tener presente in proposito la differenza netta che in
età repubblicana si fa tra cose serbate nella cella penuaria, destinate
all'uso quotidiano, e cose serbate nel penuarius».
[21] Gellio, Noct. Att.
4, 1, 17: Nam Quintum Scaevolam ad demonstrandum penum his verbis usum audio: Penus est, inquit,
quod esculentum aut posculentum est,
quod ipsius patrisfamilias <aut matris familias> aut liberum patrisfamilias <aut
familiae> eius, quae circum eum
aut liberos eius est et opus non facit, causa paratum est. ***, ut Mucius ait,
penus videri debet. Nam quae ad edendum bibendumque in dies singulos
prandii aut cenae causa parantur, penus non sunt; sed ea potius, quae huiusce generis longae usionis gratia
contrahuntur et reconduntur, ex eo,
quod non in promptu est, sed intus et penitus habeatur, penus dicta est. D. 33, 9, 3 pr. = Ulpiano, Libro
vicesimo secundo ad Sabinum: Qui
penus legat quid legato complectatur,
videamus. Et Quintus Mucius scribit libro secundo iuris civilis penu legata contineri, quae
esui potuique sunt. D. 33, 9,
3, 6: Sed quod diximus usus sui gratia paratum accipiendum erit et amicorum
eius et clientium et universorum, quos circa se habet, non etiam eius familiae, quam neque circa se neque
circa suos habet: puta si qui sunt in villis deputati. Quos Quintus Mucius sic
definiebat, ut eorum cibaria
contineri putet, qui opus non facerent.
Per i frammenti de penu legata di Quinto Mucio, vedi LENEL, Palingenesia
iuris civilis, I, col. 757 fragmm. 2-4; BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, 1, pp. 74 s.; HUSCHKE - SECKEL - KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae, I, p. 17 fragm. 1. Analisi esegetica e stratigrafica dei due frammenti dei Digesto, con
lettura sinottica di Gellio, Noct. Att. 4, 1, 17 e
[22] La
critica di Servio alla definizione muciana di penus legata, divenuta allora punto di riferimento delle
discussioni in materia, si articolava sostanzialmente su tre aspetti. In
primo luogo, il giurista ne evidenziava
l'ambiguità, in quanto «essa sembrava comprendere qualsiasi
cibo e bevanda» (R. ASTOLFI, Studi sull'oggetto dei legati in diritto romano, II, cit., pp. 82 s.); in secondo luogo non
accettava che la definizione di Quinto Mucio comprendesse nella penus anche i viveri destinati al sostentamento di quella parte della servitù
domestica, qui opus non facit
(D. 33, 9, 3, 6: sed materiam praebuit Servio notandi, ut textorum et textricum cibaria diceret contineri); infine, Servio riprendeva l'idea di Sesto Elio ed
assegnava alla penus cose non commestibili, ma il cui consumo gli
appariva indispensabile alla vita domestica: D. 33, 9, 3, 10: Servius apud Melam et unguentum et chartas epistulares penoris esse scribit; su
quest'ultimo testo, vedi anche U. JOHN, Die
Auslegung des Legats von
Sachgesamtheiten im römischen Recht bis Labeo, cit., pp. 48 ss.
[23] Sul punto, vedi R. ASTOLFI, Studi sull'oggetto dei
legati in
diritto romano, II, cit., p. 84:
«Alla luce di questo testo, il richiamo da parte di Servio del parere di Sesto Elio Peto in Gell. 4, 1, 20, riportato precedentemente, ha il
significato di un'adesione»; nello stesso luogo, vedi anche p. 87 s.: «La giurisprudenza del I secolo dopo Cristo non solo conclude la discussione su questo singolo punto,
ma si può dire su quasi tutti
gli altri punti controversi. Il fenomeno è già visibile in
Sabino. Pur facendo riferimento alla
definizione di Quinto Mucio, egli
ricorda e non smentisce le opinioni di coloro che facevano rientrare
nella penus gli oggetti non commestibili. [...] La situazione è
sostanzialmente la stessa alla fine
dell’età classica. Il criterio fondamentale rimase quello
di non considerare la natura dell'oggetto (ad esempio se sia bevibile o meno), ma lo scopo per cui veniva usato (ad
esempio se il liquido serve per
scopo medicamentoso o per sostentamento). Prevalse l'opinione di Sesto
Elio Peto, come testimonia Ulpiano».
[24] «La interpretazione della giurisprudenza in tema di penus
legata può dirsi conclusa con Sabino»: A. ORMANNI, Penus legata. Contributi alla
storia dei legati disposti con clausola penale in età repubblicana e
classica, cit., p. 685. Fondamentale il passo di Gellio, Noct.
Att. 4, 1, 21-23: Masurius
autem Sabinus in iuris civilis secundo etiam,
quod iumentorum causa apparatum esset, quibus dominus uteretur, penori
attributum dicit. Ligna
quoque et virgas et carbones, quibus conficeretur penus, quibusdam ait videri
esse in penu. Ex his autem, quae promercalia
et usuaria isdem in locis <essent>, esse ea sola penoris putat, quae
satis sint usu annuo ( Cfr. D. 33, 9, 3 pr.).
Per la ricostruzione della dottrina sabiniana de penu
legata, vedi ora R. ASTOLFI, I libri tres iuris civilis di Sabino, Padova 1983, pp. 97 ss., 215 s. Sul testo
di Gellio appena citato, vedi anche O. LENEL, Das Sabinussystem, in Festgabe zum Dottor-jubiläum von R. von
Jehring, Strassburg 1892 = ID., Gesammelte Schriften, rist. an., a c. di O. Behrends e F. D'Ippolito, II, Napoli 1990, p. 49; BREMER, Iurisprudentiae Antebadrianae, II, p. 460 fragm. 38; HUSCHKE - SECKEL - KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae, I, p. 72 fragm.
1; A. ORMANNI, Op. cit., p. 621 n. 81; R. MARTINI, Le
definizioni dei giuristi romani, cit., p.
152.
[25] Così M. BRETONE, Storia del diritto romano, cit., pp. 56 s., il quale ricava dal frammento
un’osservazione più generale: «Se si deve giudicare da un
suo parere in materia di compravendita, quel solenne giureconsulto non trascurava certo i più delicati problemi
giuridici del suo tempo».
[26] Sul frammento e, più in
generale, sulla prassi giudiziale per arbitrium, considerata una prova della «somiglianza e
identità della procedura contrattuale
privata con i negozi dello
Stato», vedi F. CANCELLI,
L'origine del contratto consensuale di compravendita nel diritto romano. Appunti esegetico-critici, Milano 1963, pp. 156 s.: «Parimenti, le prime applicazioni attestate
di giudizio ex empto et vendito, si
riferiscono all'arbitrium
[...] che può rispecchiare
l'arbitramento che nei contratti
pubblici, di locazione (e di
vendita), i censori e gli altri magistrati, erano chiamati a svolgere
nelle controversie insorgentine, basando la loro decisione sulla fides».
[27] Cfr. P. JÖRS, Römische Rechtswissenschaft zur
Zeit der Republik, I. Bis auf die
Catonen, cit., p. 107.
[28] M. TALAMANCA, La tipicità dei contratti romani fra
"conventio" e
"stipulatio" fino a Labeone, in Contractus e pactum. Tipicità e
libertà negoziale nell'esperienza
tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della
"littera Florentina", a
cura di F. Milazzo, Napoli 1990, p. 40.
[29] Sul testo ciceroniano (di cui E. FRAENKEL, Some Notes on
Cicero's Letters to Trebatius, in Journal of Roman Studies 47, 1957, p.
67, scriveva che «provides us also with a small yet precious piece of
evidence for the early history of the form of Roman juristic literature»)
vedi P. HUVELIN, Études sur le furtum dans le très ancien droit romain, I. Les sources, Parte I, Paris-Lyon 1915 (rist. an. Roma 1968), pp. 319
ss.; E. COSTA, Cicerone giureconsulto,
I, Bologna 1927 (rist. an. Roma 1964), pp. 238 ss.; P. DE
FRANCISCI, Cic. ad fam. 7, 22 e i "libri
iuris civilis" di Q. Mucio Scevola,
in Bullettino dell'Istituto di diritto
romano
66, 1963, pp. 93 s.; F. BONA, Cicerone e i "libri iuris civilis" di Quinto Mucio Scevola,
in AA.VV., Questioni di giurisprudenza
tardo-repubblicana.
Atti di un Seminario - Firenze 27-28 maggio 1983,
Milano 1985, pp. 259
ss.; A. SCHIAVONE, Giuristi
e nobili nella Roma repubblicana, Roma-Bari 1987, p. 199 n. 10; L. AMIRANTE, Una storia giuridica
di Roma,
con la collaborazione di L. De Giovanni, Napoli 1992, p. 258.
Quanto invece alla
figura e all'opera del giurista Trebazio Testa, vedi da ultimo: M. TALAMANCA, Trebazio Testa fra
retorica e diritto,
in AA.VV., Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana, cit., pp. 29 ss.; R.
A. BAUMAN, Lawyers
in Roman transitional politics: a study of the Roman iurists in their political setting in the Late Republic and
Triumvirate,
München 1985, pp. 123 ss.; M. D'ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica
e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa,
Napoli 1990.
[30] Tenta
una spiegazione
dell'atteggiamento del giurista E.
COSTA, Cicerone giureconsulto, I, cit., p. 239: «Trebazio
precorreva la dottrina della trasmissibílità attiva dell'actio furti,
prevalsa più tardi, con tanta
risolutezza, da non prestar fede a quel che Cicerone gli affermava, in un amichevole discorso,
circa í dubbi che altri avesse potuto
nutrire a tal proposito».
[31] «Ho detto che bisogna
usare prudenza, perché i due dati, da cui muove quell'osservazione, non sono espressi
nella lettera. Che, però, il
caput che Cicerone ha curato di trascrivere a conferma di quanto aveva sostenuto nell'amichevole
conversazione a tavola con
Trebazio, sia
stato tratto dai libri iuris civilis di Quinto Mucio Scevola,
è un dato che sembra ormai acquisito»: F.
BONA, Cicerone e i "libri iuris civilis" di Quinto Mucio Scevola, cit., p. 259. Cfr., fra gli altri, P. HUVELIN, Études sur le furtum dans le très ancien droit
romain, I, cit., p. 321
(«Nous sommes ainsi amenés à
penser que Cicéron envoyait à Trebatius un extrait des libri iuris civilis de Q. Mucius, dans lequel celui-ci combattait une solution admise
par S. Aelius, Brutus et Manilius»);
P. DE FRANCISCI, Cic. ad fam. 7, 22 e i "libri iuris
civilis" di Q. Mucio Scevola, cit., pp. 93 s.; A. SCHIAVONE, Giuristi e nobili
nella Roma repubblicana, cit., p. 199
n. 10 (per il quale la lettera costituisce «una prova inconfutabile»
del fatto che «Quinto Mucio avesse letto e discutesse nel suo lavoro gli scritti di Sesto
Elio, di Manilio
e di Bruto»);
nello stesso senso M. D'ORTA, La
giurisprudenza tra Repubblica e Principato.
Primi studi su C. Trebazio Testa, cit., p. 111 n. 21; L. AMIRANTE, Una storia giuridica
di Roma, cit., p. 258.
[32] E. COSTA, Cicerone giureconsulto, I, cit., pp. 238: «La determinazione
dei rapporti attivi e passivi, acquistati all'erede delatario dell’hereditas per effetto della cretio, presentava, nel momento del
Nostro, qualche punto discusso ed
incerto. Tale era, singolarmente, l'esperibilità, da parte dell'erede, di azioni corrispondenti a
certi atti delittuosi patiti dal suo autore, o la responsabilità, di
fronte a cotali azioni, dell'erede di chi li avesse commessi. Se, appunto,
l'erede della vittima di un furto
potesse o meno esperire l'actio furti, non intentata peranco
dal suo autore, fu materia di dissensi appresso i giuristi di poco anteriori a quel momento».
[33] Quest'aspetto era già ben
sottolineato da P. HUVELIN, Études sur le
furtum dans le très ancien droit romain, I, cit., p. 321 («Quant à la portée exacte de la question posée, il
est difficile de la préciser, à
cause de l'ambiguïté des mors. L'expression furtum antea factum est trop concise pour nous
éclairer»); ma vedi anche P. BONFANTE, Corso di diritto romano, VI. Le
successioni, Roma 1930, rist. Milano 1974,
p. 204; ed ora M.
D'ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi
studi su C. Trebazio Testa, cit., p. 112 («In verità,
dal testo non risultano i termini
della controversia»).
[34] D. 47, 1, 1, 1 = Ulpiano, Libro
quadragensimo primo ad Sabinum: Heredem autem
furti agere posse aeque constat: exsecutio enim quorundam delictorum heredibus data est: ita et
legis Aquiliae actionem heres habet.
Sed iniuriarum actio heredi non competit; cfr.
anche Pauli Sent. 2, 31, 6: Manifesti furti actio et nec manifesti et concepti et
oblati heredi quidem competit, sed in heredem non datur.
[35] Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, I. Introduzione e parte generale, 2a ed., Milano 1967,
p. 53, il quale considera impossibile l'esistenza
di un furto compiuto a danno di una
eredità giacente; aderisce alla posizione del Voci, da ultimo, M. D'ORTA, La
giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio
Testa, cit., p. 112: «Più che
attendibile allora, [...] è che l'interpretazione dell'antea non varchi i significati voluti con l'adozione
dell'avverbio temporale, e che il comportamento antigiuridico sia per
questo da riportarsi a uno stadio
precedente alla morte del de cuius».
[36] Questa tesi è sostenuta, con grande vigore
esegetico, da P. HUVELIN, Études sur le furtum dans le
très ancien droit romain, I, cit.,
pp. 320 ss., del quale vale la pena
di leggere la riflessione conclusiva (p.
329): «En résumé, le texte de Cicéron que nous avons
transcrit et analysé atteste que Sex. Aelius, M' Manilius et Iunius Brutus résolvaient dans un sens opposé à celui
qu'a fait prévaloir Q. Mucius Scaevola une question qui peut étre
soít celle de la transmissibilité active de l'action furti, soit, plus probablement, celle du furtum portant sur des choses
héréditaires». Ma sulle
posizioni dello studioso francese, vedi le critiche di G. LAVAGGI, "Iniuria" e
"obligatio ex delitto", in Studia et
documenta historiae et iuris 13-14, 1947-1948, p. 171 n. 131.
[37] Cfr. al riguardo, con tentativo di spiegarne le cause, E. COSTA, Cicerone giureconsulto, I, cit., pp. 238-239: «Sembra che tuttora Manilio
e Bruto, come già nel secolo precedente Sesto Elio, risolvessero
codesto dubbio negativamente, ispirandosi al senso della vendetta, sul
quale era informata la persecuzione dei delitti in generale e, fra essi, anche del furto»; vedi più
in generale P. DE FRANCISCI, Studi sopra le azioni penali e la loro intrasmissibilità
passiva, Milano 1912, pp. 86 ss.; P. Voci,
Risarcimento e pena
privata nel diritto romano
classico,
Milano 1939, p. 13; U. BRASIELLO, Corso di diritto romano. Atto illecito, pena
e
risarcimento del danno, Milano 1957, pp. 86 ss.
[38] F. D'IPPOLITO, Le XII Tavole: il
testo e la politica, in
AA.VV., Storia
di Roma, I. Roma in Italia, Torino 1988, p. 410:
mi pare anche da condividere, nel discorso dello studioso, la constatazione che
«Le XII Tavole documentano,
soprattutto nelle norme funerarie, la reazione di una società
contadina a usi e abitudini di sicura derivazione etrusca»; mentre non saprei dare l'assenso a quella parte, in cui
si afferma che quelle norme funerarie
evidenziano «l'invasione dei legislatori nella sfera tipica del diritto pontificale, al quale spettava di
regolare, sia pure attraverso i rituali, i modelli di comportamento del
cittadino romano, nella vita e nella morte».
[39] Sugli aspetti linguistici
delle norme decemvirali, vedi ora (ma senza riferimento a lessum)
G. RADKE, Sprachliche und historische Beobachtungen zu den leges XII tabularum, in Sein und Werden im Recht. Festgabe
für U. von Lübtow, Berlin
1970, pp. 223 ss.; e S. BOSCHERINI, La
lingua della legge delle XII Tavole, in AA.VV., Società e diritto nell'epoca decemvirale.
Atti del convegno di diritto romano. Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli
1988, pp. 45 ss. Breve cenno da parte del Boscherini (p. 49) alle apparenti
incongruenze di quella legislazione, con particolare riferimento alle norme funerarie: «il lusso funerario che è
proibito dalla legge della Tavola X
non trova riscontro nella realtà delle povere tombe del V secolo»;
nello stesso senso, su questo specifico punto, G. COLONNA, Un
aspetto oscuro del Lazio antico: le tombe del VI-V secolo a.C., in Lazio arcaico e mondo greco,
II. L'Esquilino e il Comizio = La parola del passato 32, 1977, p. 160.
[40] Sui problemi
interpretativi posti dal testo decemvirale, vedi questa e altre osservazioni di
M. BRETONE, Storia del diritto
romano, cit., p. 60. Che l'interesse di
Sesto Elio non fosse di tipo grammaticale, era già sostenuto, in adesione
allo Schoell, da H. FUNAIOLI, Grammaticae Romanae fragmenta, cit., p. 15: «forensem, non
grammaticam interpretationem
fuisse Schoell iure contendit, quamquam, ut par est, hic illic nominum
obscuriorum grammatica investigatio non defuit»; nello stesso senso, da
ultimo, L. AMIRANTE, Per una palingenesi
delle XII Tavole, cit., pp. 397-398: «D'altra parte, dei quattro
testi di Sesto Elio raccolti dal Lenel
nella sua Palingenesia, neppure quello citato da Cicerone (de leg. 2.33.59) ha l'aria di
un commento di tipo lessicale, sebbene a
essere oggetto di attenzione sia proprio e soltanto la parola lessus».
[41] Invero già
nell’antichità prevalse la diversa interpretazione proposta dal
grammatico L. Elio Stilone (H. FUNAIOLI, Grammaticae Romanae
fragmenta, cit., p. 61 fragm. 13), il quale, come risulta dal passo ciceroniano, ricollegando etimologicamente lessum
a lugere, ne spiegava il significato nel senso di lugubris
eiulatio. Lo stesso Cicerone, poi,
riteneva più accettabile questo significato, poiché vi era una
norma simile nelle leggi di Solone: quod
eo magis iudico verum esse, quia lex Solonis id ipsum vetat (De leg. 2, 59). Quanto ai moderni, vedi per tutti E. NORDEN, Aus
altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939, pp. 255 s., con
particolare insistenza sulla cultura grecanica delle XII Tavole; F. WIEACKER, Die XII Tafeln in ihrem Jahrhundert, in
Les origines de la République romaine, Entretiens Fondation
Hardt, XIII, Vandoeuvres-Genève 1966 (ma 1967), p. 312.
[43] Ma sull'interpretatio sacerdotale vedi, in altro senso, alcune illuminanti pagine di A. MAGDELAIN: Le Ius archaïque, in Mélanges
de l'École française de Rome 98,
[44] Fra la
letteratura più risalente l'ipotesi è sostenuta da F. D. SANIO, Zur Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, Königsberg 1858 (rist. an., con
nota di lettura di F. D'Ippolito, Napoli 1981 ), p. 26 n. 27; ID., Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, cit., pp. 188 ss.; G. PADELLETTI - P. COGLIOLO, Storia del diritto romano, 2a ed., Firenze 1886, p. 109 n. t; P.
KRÜGER, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, cit., p. 54 (= Histoire des sources du droit romain, cit., p. 71); O. LENEL, Das Sabinussystem, cit., p. 9; F. P. BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., p. 15.
Per la dottrina attuale, basterà citare soltanto
alcuni autori: G. GROSSO, Lezioni di storia del diritto romano, 5a ed., Torino 1965, p. 298; P. FREZZA, Corso di storia del diritto
romano, 3a
ed., Roma 1974, 369 s.; D. NÖRR, Pomponius oder “Zum
Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, cit., pp. 534
ss.; O. BEHRENDS, Les «veteres» et la nouvelle
jurisprudence à la fin de la République, in Revue historique de droit français et étranger 55, 1977, pp. 17 ss.; R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, p. 135 e n. 6; F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, cit., p. 537 s.; M. BRUTTI, in AA. VV., Lineamenti di storia del diritto romano, a cura di M. Talamanca, 2a ed., Milano 1989, p. 300, il quale
ritiene verosimile che nei due passi di
Pomponio: «si designi con due titoli diversi (Ius
Aelianum e
Tripertita) la stessa opera».
[45] Si orientava in tal senso la vecchia dottrina seicentesca
e settecentesca: cfr., ad esempio, Jo.
AUGUSTI BACHII, Historia Jurisprudentiae Romanae quattuor libri comprehensa, altera editio, Lucae 1762, pp. 124 n. q, 131; la
stessa tesi si trova espressa, oltre un secolo più tardi, nell'ormai classico lavoro di P. JÖRS,
Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, cit., pp. 108 s. Più di recente vedi, fra gli altri, L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, cit., p. 480; F. CASAVOLA, Ius Aelianum, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino 1963, coll. 376 s.; F. SCHULZ, Storia della
giurisprudenza romana, trad.
it., Firenze 1968, p. 69; S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, p. 310; dubbioso A. SCHIAVONE, Giuristi
e nobili nella Roma repubblicana, cit., p. 12; in parte diversa la tesi di A. GUARINO, Storia del diritto romano, cit., pp. 293 s.: lo studioso ritiene
che Sesto Elio abbia
scritto una sola opera, i Tripertita, in seguito variamente rielaborata da giuristi del II secolo a.C., «i quali
giudicarono opportuno di enucleare e disporre
in tre libri separati tre serie di argomenti (XII tabulae,
interpretatio, actiones). In particolare, il liber de actionibus, che
risultò da questa rielaborazione posteriore, si diffuse largamente fra i
pratici del diritto, i quali appunto perciò parlarono di un
ius Aelianum, che aveva
ormai surrogato il vecchio ius Flavianum».
[46] A. WATSON, Ius
Aelianum and Tripertita, in
Labeo 19, 1973, pp. 26 ss. (Cfr. ID.,
Law making in the Later Roman Republic, cit., pp. 134 ss.), pensa ad un altro Sesto Elio
vissuto nella prima metà del III secolo: sulla base della frase
pomponiana «non post multum
temporis spatium», ritiene infatti che sarebbe illogico riferire quello spazio
temporale all'oltre un secolo che separa Gneo Flavio dal giurista dei Tripertita. Ma, al riguardo, mi pare calzante l'osservazione di R. A. BAUMAN, Lawyers
in Roman republican politics, cit.,
p. 130: «but Pomponius is not noted for the accuracy of his
chronology».
[47] Così S. MAZZARINO, Il pensiero storico
classico, II, 1, 4a ed., Roma-Bari 1974, p. 278, il quale peraltro
sottolinea, più in
generale, «la
caratteristica storica del pensiero giuridico romano».
[48] L'espressione è tratta da P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus,
templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 1, Berlin-New York 1978, p. 445, il quale, in altro
contesto, parla di «insiemi normativi elaborati dalla
giurisprudenza sacerdotale».
[49] Che l’opera
di Sesto Elio non avesse contenuto strettamente privatistico, è felice
“congettura” di M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., p. 5: «Oltre a norme e istituti
privatistici, nell'opera eliana dovevano aver posto norme e istituti di
diritto pubblico; e, fra questi ultimi,
alcuni di importanza rilevantissima per la costituzione
cittadina».
[50] Vedi in tal senso, da ultimo, M. BRETONE, Storia
del diritto romano, cit., p. 57: «Tuttavia, egli poneva al
centro della sua ricerca le XII Tavole. Che la ricerca eliana avesse uno
scopo pratico, è lecito affermarlo;
ma è innegabile anche un suo intento filologico-antiquario. I Tripertita si collocano in un contesto storico
determinato. Essi rispondono al bisogno di
un ceto di governo che, appropriandosi della tradizione, costruisce la
sua cultura. Lontanissimi, su un piano letterario,
dalle Storie di Fabio Pittore e dagli Annali di Ennio, lo sono
meno (forse) se si considera la loro ispirazione civile»; ID., Tecniche
e ideologie dei giuristi romani, cit., pp. 5 ss.
[51] Cicerone, De orat. 1, 195: Fremant omnes
licet, dicam quod sentio: bibliothecas me hercule omnium philosophorum unus
mihi videtur XII tabularum
libellus, si quis legum fontis et capita viderit, et auctoritatis
pondere et utilisatis ubertate superare; cfr., ibid. 1, 193: sive quem civilis scientia, quam Scaevola non putat oratoris esse propriam,
sed cuiusdam ex alio genere prudentiae, totam hanc descriptis omnibus civitatis
utilitatibus ac partibus XII tabulis contineri videbit: sive quem praepotens ista et gloriosa philosophia delectat
– dicam audacius – hosce habet fontis omnium disputationum
suarum, qui iure civili et legibus continentur.