ds_gen Università di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-8

 

Sini-A-quibus-1Francesco Sini

 

A quibus iura civibus praescribebantur

Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.

 

Torino, G. Giappichelli Editore, 1995

 

pp. 172 – ISBN  88-348-4144-3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte Seconda

Giuristi E FRAMMENTI

 

III

L. Cornelio Lentulo

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. I frammenti. – 3. Populus e religio. – 4. La formula del ver sacrum.

 

 

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1. – Premessa

 

Di questo pontefice-giurista abbiamo davvero poche essenziali notizie: console nel 237[1], censore nel 236, ascese al pontificato massimo dopo la morte di L. Cecilio Metello nell'anno 221[2], morì nel 213 a.C.[3]. Fu, naturalmente, un personaggio politico di primo piano negli anni cruciali della seconda guerra punica: la storiografia antica ce lo presenta come «il principale sostenitore della guerra»[4], dichiarato avversario del gruppo "pacifista”

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che faceva capo a Fabio Massimo, al punto da restarne poi nella memoria di quella tradizione unico antagonista[5].

I due frammenti di Lentulo, discussi qui di seguito, si presentano legati ad un grave momento della guerra annibalica, quando, dopo tremende e ripetute sconfitte, parve unico rimedio possibile il soccorso divino, da propiziare con cerimonie straordinarie e riti inusitati desunti dai libri sibillini[6].

Tratti da un testo liviano, i frammenti offrono dei magnifici esempi di interpretatio iuris e di perizia cautelare del pontefice massimo; il quale si mostrò severo custode delle prerogative del popolo nella tradizione giuridico-religiosa, in

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occasione del solenne ver sacrum[7] votato agli dèi nel 217 a.C., dopo la rovinosa battaglia del Trasimeno.

 

 

2. – I frammenti

 

1

 

[L. Cornelius Lentulus] omnium primum populum consulendum de vere sacro censet: iniussu populi voveri non posse.

 

Livio 22, 10, 1: His senatus consultis perfectis L. Cornelius Lentulus pontifex maximus consulente collegium praetore omnium — posse.

2

 

Si res publica populi Romani Quiritium ad

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quinquennium proximum, sicut velico eam salvam, servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano cum Carthaginiensi est, quaeque duella cum Gallis sunt, qui cis Alpis sunt, tum donum duit populus Romanus Quiritium: quod ver attulerit ex suino, ovino, caprino, bovino grege, quaeque profana erunt, Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit. Qui facies, quando volet quaque lege volet, facito; quo modo faxit, probe factum esto. Si id moritur, quod fieri oportebit, profanum esto neque scelus esto; si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto; si quis clepsit, ne populo scelus esto, neve cui cleptum erit; si atro die faxit insciens, probe factum esto; si nocte sive luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto; si antidea <quam> senatus populusque iusserit fieri, faxitur, eo populus solutus liber esto.

 

Livio 22, 10, 2-6: Rogatus in haec verba populus: Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica — liber esto.

 

B. BRISSONII, De formulis et solennibus populi Romani verbis libri VIII, ed. Francofurti et Lipsiae 1754, p. 88 CLXI; P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 10 fragm. 47; G. APPEL, De Romanorum precationibus, Gissae 1909, pp. 8 s. fragm. 5.

 

 

3. – Populus e religio

 

L'intervento di L. Cornelio Lentulo si inserisce in un più ampio contesto di cerimonie religiose ordinate dai libri

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sibillini[8], fra le quali il ver sacrum costituiva il rito più ri levante e significativo, il più straordinariamente inusuale[9]. Pur essendo legati nel testo liviano allo stesso oggetto, i due frammenti meritano discussioni separate, poiché attengono a questioni differenti: riguardando il primo i poteri del popolo, il secondo la peculiarità del testo della solenne formula giuridico-religiosa sottoposta ad approvazione popolare.

Nell'analisi del testo liviano gli studiosi, vuoi storici della religione vuoi giuristi, hanno incentrato la loro attenzione per lo più sul contenuto e sulla struttura linguistica della formula; sicché è passata quasi inosservata l'interpretatio iuris sottesa alla prima parte di quel testo, dove L. Cornelio Lentulo negava al magistrato il potere di votare il ver sacrum, iniussu populi, senza una formale espressione di volontà da parte del popolo romano[10]. Insomma, l'interesse per la formula del ver sacrum, splendido documento della sapienza teologica e giurisprudenziale del suo autore, ha finito per farne dimenticare l'indispensabile premessa.

Si tratterà, a questo punto, di comprendere quali

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principi-guida abbiano ispirato il citato responso nella temperie politica di quel terribile 217 a.C.

Bisogna respingere, subito, la tentazione di collegare, in maniera schematica, l'interpretatio del pontefice massimo alle vicende politiche di quegli anni, caratterizzati da un generale rilancio e da una rinnovata iniziativa del movimento popolare romano[11]. La cui linea politica, è pur vero, mirava con determinazione costante, ad una sempre maggiore subordinazione dell'imperium dei magistrati al potere popolare; come ben dimostra l’innovazione di far eleggere dal popolo il dittatore e l'estensione dei limiti della provocatio anche al suo imperium[12].

Una simile prospettiva porterebbe, infatti, a concludere che la “politica religiosa” di L. Cornelio Lentulo

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sarebbe stata determinata dalla sua ideologia di «patricien de tendence modérée», come lo definisce J.-Cl. Richard[13], giudicando in tal senso l'atteggiamento, apparentemente disimpegnato, che il pontefice tenne in occasione della nota controversia che, nel 215 a.C., oppose Fabio Massimo a M. Emilio Regillo, flamen Quirinalis, sulla incompatibilità del consolato con quel sacerdozio[14].

Ma pare più congruo accedere all'opinione sostenuta, di recente, da R. A. Bauman[15], il quale non ritiene di poter trarre dall'episodio alcun indizio sul pensiero del giurista, anche perché l'opposizione di Fabio impedì l'elezione del flamine e rese nei fatti inutile ogni ulteriore discussione.

Nello stabilire soggetti e procedure per il ver sacrum, piuttosto da credere che l'interpretatio iuris di L. Cornelio Lentulo abbia fatto ricorso alla tradizione documentaria del collegio, che «une étude sérieuse des

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Commentaires»[16] gli permetteva di padroneggiare. Il pontefice-giurista certo non ignorava la casistica della più antica giurisprudenza pontificale sui publici vota, dona, dedicationes; da cui lo iussum populi risultava, ab antiquo, requisito indispensabile per la validità di tali atti di culto[17]. Dalle

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fonti, peraltro, abbiamo conferma della vigenza di tale regola già alla fine del V secolo a.C.; come si apprende da un passo di Tito Livio: Dictator coronam auream libram pondo ex publica pecunia a populi iussu in Capitolio Iovi donum posuit[18].

Mi pare fuor di dubbio che Livio, seppure non attinga a documenti originali, ricavi la notizia da una buona fonte: forse l'annalista Licinio Macro, citato più avanti nel § 8 dello stesso capitolo, il quale utilizzava di prima mano alcuni non meglio definiti veteres annales, ma soprattutto documenti ufficiali di qualità eccellente: i magistratuum libri, qui lintei in aede repositi Monetae[19].

 

 

4. – La formula del ver sacrum

 

Passiamo ora al secondo frammento. Va subito detto, che si tratta di un testo «dont l'armature, sinon tous les mots, paraît authentique»[20]; certo assai risalente nella forma linguistica, che, pur rammodernata, lascia trasparire arcaismi tipici delle formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[21]. L'eccezionale rifinitura del testo

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non è sfuggita alla dottrina più avvertita: «Ce document fair honneur à la science théologíque de son auteur – scriveva nel suo libro sui pontefici A. Bouché-Leclercq – Tout ce qui pourrait alarmer la conscience du peuple romain et invalider l'accomplissement du voeu y est prévu et excusé d'avance»[22]; a cui faceva eco, un secolo più tardi, un altro grande studioso francese, G. Dumézil: «Cette formule est un beau monument de la prudence, du bon sens que les experts sacrés de Rome apportaient à la réglementation des choses les plus artificielles»[23].

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Una breve riflessione merita anche la struttura giuridica della formula dettata dal pontefice massimo per il votum del ver sacrum.

Alla circostanziata precisazione delle cose offerte in voto, segue una serie di clausole liberatorie, in cui la perizia teologica e giurisprudenziale dell'autore è protesa ad assicurare che la pax deorum[24] non sia turbata da comportamenti delittuosi di privati cittadini, siano essi intenzionali o preterintenzionali; insomma che lo scelus e l'inscientia dei singoli non sia di nocumento al popolo romano.

Da notare, poi, come alcune clausole della formula attestino uniformità e continuità nell'interpretazione del collegio pontificale: intendo riferirmi, più precisamente, alla clausola «Si atro die faxit insciens, probe factum esto», che sembra improntata al decreto reso dai pontefici circa trent'anni prima, per assolvere Tiberio Coruncanio da un simile comportamento[25].

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Mi pare riduttiva, infine, sempre a proposito della citata formula, l'osservazione più generale di F. Schulz sul formalismo interpretativo romano arcaico, che sarebbe stato caratterizzato dall'esistenza di un rapporto causale costante tra «paura della divinità» e «interpretazione strettissima» dei sacerdoti romani[26].

 

 



 

[1] Cfr. T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, p. 221.

 

[2] Vedi C. BARDT, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer Zeit, Berlin 1871, pp. 4 nr. 10, 10 nr. 28; F. MÜNZER, Cornelius (nr. 211), in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 4, 1, Stuttgart 1900, col. 1377 s.; G. J. SZEMLER, Pontifex, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. 15, Stuttgart 1978, col. 376.

 

[3] Livio 25, 2, 2: Aliquot publici sacerdotes mortui eo anno sunt, L. Cornelius Lentulus pontufex maximus et C. Papirius C F. Maso pontifex et P. Furius Philus augur et C. Papirius L. F. Maso decemvir sacrorum.

 

[4] F. CASSOLA, I gruppi politici romani nel III secolo a. C., Trieste 1962, p. 420; vedi anche pp. 275 s.: «la causa della guerra fu difesa soprattutto da L. Cornelio Lentulo, cos. 237 e princeps senatus».

 

[5] Cfr. Silio Italico 1, 676-677. 682-689; Cassio Dione 55, 5; Zonara 8, 22, 1-4.

 

[6] Cfr. Livio 22, 9, 7-10: Q. Fabius Maximus dictator iterum, quo die magistratura iniit, vocato senatu, ab dis orsus, cum edocuisset patres plus neglegentia caeremoniarum auspiciorumque quam temeritate atque inscitia peccatum a C. Flaminio consule esse, quaeque piacula irae deum essent ipsos deos consulendos esse, pervicit, ut, quod non ferme decernitur, nisi cum taetra prodigia nuntiata sunt, decemviri libros Sibyllinos adire iuberentur. Qui inspectis fatalibus libris rettulerunt patribus, quod eis belli causa votum Marti foret, id non rite factum de integro atque amplius faciendum esse, et Iovi ludos magnos et aedes Veneri Erucinae ac Menti vovendas esse et supplicationem lectisterniumque habendum et ver sacrum vovendum, si bellatum prospere esset resque publica in eodem, quo ante bellum fuisset, statu permansisset.

Per una visione d'insieme sui libri Sibyllini, rinvio a G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, pp. 536 ss. (con ampia rassegna della bibliografia precedente); W. HOFFMANN, Wandel und Herkunft der sibyllinischen Bücher in Rom, Leipzig 1933; R. BLOCH, Les origines étrusques des Livres Sibyllins, in Mélanges A. Ernout, Paris 1940, pp. 21 ss.; J. GAGÉ, Apollon romain. Essai sur le culte d'Apollon et sur le devéloppement du «ritus Graecus» à Rome, Paris 1955, pp. 21 ss.; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 160 s.; G. RADKE, Die Götter altitaliens, Münster 1965, pp. 39 ss.

 

[7] Per altre fonti sul ver sacrum vedi Paolo, Festi ep., p. 519 L.: Ver sacrum vovendi mos fuit Italis. Magnis enim periculis adducti vovebant, quaecumque proximo vere nata essent apud se, animalia immolaturos. Sed cum crudele videretur pueros ac puellas innocentes interficere, perductos in adultam aetatem velabant atque ita extra fines suos exigebant; Festo, p. 424 L: Sacrani appellati sunt Reate orti, qui ex Septimontio Ligures Siculosque exegerunt; nam vere sacro nati erant; Servio, Ad Aen. 7, 796: Sacranae Acies dicunt quendam Corybantem de Creta venisse ad Italiam et tenuisse loca, quae nunc urbi vicina sunt, et ex eo populos ducentes originem Sacranos appellatos; nam sacrari sunt matri deum Corybantes. Alii Sacranas acies Ardeatum volunt, qui aliquando cum pestilentia laborarent, ver sacrum voverunt, unde Sacrani dicti sunt; cfr. Strabone 5, 4, 12.

Quanto invece alla dottrina, basterà menzionare J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, 2a ed., a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885, p. 370; G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 145 s.; N. TURCHI, La religione di Roma antica, Bologna 1939, pp. 130 s.; G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, IV. 2, 1, Firenze 1953, pp. 318 s.; W. EINSENHUT, Ver sacrum, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 8 A, 1, Stuttgart 1955, coll. 911 ss.; J. HEURGON, Trois études sur le «ver sacrum», Bruxelles 1957, pp. 35 ss.; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 124 s.

 

[8] Sulle diverse implicazioni teologiche e giuridiche di tali cerimonie, sono veramente illuminanti le magistrali pagine che vi ha dedicato G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, pp. 471 ss. (= La religione romana arcaica, trad. it., Milano 1977, pp. 407 ss.).

 

[9] Sottolinea l'eccezionalità di un simile voto J. HEURGON, Trois études sur le «ver sacrum», cit., p. 36: «En fait, dans toute l'histoire de la République, il n'y en a pas d'autre exemple: pris au piège d'un voeu imprudent, les Romains ont fini par s'en acquitter sans y laisser trop de plumes, mais en jurant de ne plus recommencer».

 

[10] Tende a sminuire la portata della norma, in adesione alla teoria mommseniana della magistratura, G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 403 n. 6.

 

[11] Invero, è tutta la seconda metà del III secolo ad essere interessata, seppure con alterni riflussi, da un forte movimento riformatore; sono databili in questo periodo, ad esempio, la riforma dell’ordinamento centuriato (su cui vedi, fra gli altri, G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, III. 1, (Torino 1916) citato nella 1a rist. della 2a ed., Firenze 1970, pp. 327 ss.) e la distribuzione viritim dell'ager Picenus Gallicus (vedi F. CASSOLA, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit., pp. 209 ss.).

Per un quadro più generale della società e delle istituzioni politiche romane negli anni tra le due guerre puniche, rimando alle finissime analisi di A. J. TOYNBEE, L'eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana, I. Roma e l'Italia prima di Annibale, trad. it., Torino 1981, pp. 353 ss.

 

[12] Sull'evoluzione della dittatura, cfr. per tutti, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, pp. 438 ss., del quale mette conto riferire il pensiero a proposito della provocatio: «Quando la provocatio ad populum fu estesa alla dittatura non è detto dalle fonti, né si può affermare con certezza che ciò sarebbe avvenuto con la terza delle leggi de provocatione, cioè nel 300. Senza dubbio, con tale riforma la dittatura perdeva molto del suo carattere eccezionale, almeno nei rapporti con i cittadini, e quindi deve presumersi che il moto democratico fosse abbastanza sviluppato, il che non può certo dirsi dell'inizio del III secolo» (op. cit., p. 447).

 

[13] J.-CL. RICHARD, Sur quelques grands pontifes plébéiens, in Latomus 27, 1968, p. 797: «Il est en tout cas significatif que la validité d'une éventuelle élection du flamine n'ait pan été mise en doute par le grand pontife du moment, L. Cornelius Lentulus Caudinus, patricien de tendence modérée. La raison de ce silence est sans doute à chercher dans la différence qui existait entre le status du flamen dialis et celui de ses collègues».

 

[14] Livio 24, 8, 10: M. Aemilius Regillus flamen est Quirinalis, quem neque mittere ab sacris neque retinere possumus, ut non deum aut belli deseramus cura. Cfr. Livio 24, 9, 3.

 

[15] R. A. BAUMAN, Lawyers in Roman republican politica: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, p. 109: «Richard attaches great importance to the apparent fact that Lentulus Caudinus, a patricien who was pontifex maximus over 221-213, offered no opposition when M. Aemilius Regillus, flamen Quirinalis, sought the consulship in 215. But there is no evidence for this alleged ideological posture of the patrician pontifex maximus».

 

[16] L'espressione, riferita a L. Cornelio Lentulo, si legge in A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 168.

 

[17] Da questo punto di vista, anche la successiva giurisprudenza pontificale non transige sull'applicazione del principio dello iussum populi: cfr. Cicerone, De domo 136: Sed, ut revertar ad ius publicum dedicandi, quod ipse pontifices semper non solum ad suas caerimonias, sed etiam ad populum iussa accommodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium Censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse rette dedicare. Quid? cum Licinia virgo Vestalis summo loco nata, santissimo sacerdozio praedita, T. Flaminio Q. Metello consulibus aram et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam rem ex auctoritate senatus ad hoc collegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola pontifex maximus pro collegio respondit: quod in loco publico Licinia Gai filia iniussu populi dedicasset, sacrum non viderier.

Sul valore del testo ciceroniano per la distinzione delle rispettive materie tra libri e commentarii dei pontefici, documenti che l'oratore mostra di aver consultato personalmente, vedi F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 96 s., 172.

Ritiene questo responso dei pontefici punto terminale della complessa evoluzione del regime della dedicatio, S. TONDO, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 43-44: a suo avviso, si sarebbe passati da una situazione primitiva in cui la competenza alla dedicatio era riguardata dai pontefici «come emanazione esclusiva della potestà consolare», ad una più avanzata, in cui si considerava «ormai acquisita, anche agli occhi dei pontefici», la possibilità di estendere ad altri magistrati tale competenza.

Da ultimo, in altra prospettiva, ribadisce che «le testimonianze ciceroniane sono degne di fede», F. BONA, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in La certezza del diritto nell'esperienza giuridica romana. Atti del Convegno Pavia 26-27 aprile 1985, Padova 1987, pp. 117 ss.

 

[18] Livio 4, 20, 4.

 

[19] Livio 4, 20, 8: Quis ea in re sit error, quod tam veteres annales quodque magistratuum libri, quos linteos in aede repositos Monetae Mater Licinius citat identidem auctores, decimo post demum anno cum T. Quinctio Poeno A. Cornelium Cossum consulem habeant, existimatio communis omnibus est.

 

[20] G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., p. 473 (= La religione romana arcaica, cit., p. 411).

 

[21] Significativo, in tal senso, appare l'uso dell'arcaica forma duellum per bellum, di cui restava memoria ormai solo nelle opere di eruditi e antiquari (Varrone, De ling. Lat. 7, 49: Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum: id postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona; cfr. Cicerone, Orat. 153; Quintiliano. Inst. orat. 1, 4, 15) e nelle formule solenni della lingua sacerdotale: così ancora in età imperiale, negli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto e in quelli dei Ludi celebrati da Settimio Severo, i concetti di pace e guerra vengono espressi dai sacerdoti con i termini duellum e domus (Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI, 32323, 94 = G. B. PIGHI, De ludibus saecularibus populi Romani Quiritium, Milano 1941, p. 114; Act. lud. saec. Sept. Sev. 4, 11 = C.I.L. VI, 32329, 11 = PIGHI, Op. cit., p. 157: imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit).

Del resto, altre fonti confermano che la tradizione documentaria sacerdotale conosceva e conservava arcaismi linguistici (cfr. ad esempio Festo, v. Praeceptat, p. 222 L.; v. Pilumnoe poploe, p. 224 L.) e non disdegnava l'uso di una lingua arcaizzante nella composizione di nuovi carmina. Vedi, al riguardo, ciò che ha scritto sui carmina dei salii E. PERUZZI, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, pp. 174-175: «la notizia riportata da Paolo Diacono vuol dire che almeno al tempo di Verrio Flacco i salii componevano ancora nuovi carmina. E se Cicerone formula le proprie leggi in uno stile arcaico “quo plus auctoritate habeant”, a fortiori, in quello stesso secolo, si saranno attenuti ai propri moduli arcaici i salii, nel cui ambiente vigeva la sacralità della forma linguistica».

 

[22] A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 167 s.

 

[23] G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., p. 474 (= La religione romana arcaica, cit., p. 411).

 

[24] Per la definizione di pax deorum, con ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla, vedi P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, pp. 49 ss. (=ID., Scritti di diritto romano, 1, Padova 1985, pp. 226 ss.); a cui sono da aggiungere, M. SORDI, "Pax deorum" e libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. MONTANARI, Il concetto originario di "pax" e "pax deorum", in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Ronza alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; ID., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (= Appendice 1: "Tempo della città" e pax deorum: l'infissione del clavus annalis); da ultimo F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente).

 

[25] Gellio, Noct. Att. 4, 6, 7-10. Per la discussione del passo gelliano, vedi supra pp. 92 ss.

 

[26] F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. di G. Nocera, Firenze 1968, p. 58: «In diritto sacro, la paura della Divinità era cagione di una interpretazione strettissima. Ciò si deduce dal racconto di Livio sulle riserve che si ritenne necessario fare nel voto del ver sacrum del 217 a.C.».