Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-8
Francesco Sini
A quibus iura civibus praescribebantur
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.
Torino, G. Giappichelli Editore, 1995
pp. 172 – ISBN 88-348-4144-3
Parte
Seconda
Giuristi E
FRAMMENTI
III
L. Cornelio Lentulo
Sommario: 1. Premessa. –
2. I frammenti. – 3. Populus e religio. – 4. La formula del ver sacrum.
[p.
101]
Di
questo pontefice-giurista abbiamo davvero poche essenziali notizie: console nel 237[1],
censore nel 236, ascese
al pontificato massimo dopo la morte di L. Cecilio Metello nell'anno 221[2],
morì nel 213 a.C.[3].
Fu,
naturalmente, un personaggio politico di primo
piano negli anni cruciali della seconda guerra punica: la storiografia
antica ce lo presenta come «il principale sostenitore della guerra»[4],
dichiarato avversario del gruppo "pacifista”
[p.
102]
che faceva capo a Fabio Massimo, al punto da restarne poi nella memoria di quella tradizione unico antagonista[5].
I due
frammenti di Lentulo, discussi qui di seguito, si presentano legati ad un grave momento della guerra annibalica,
quando, dopo tremende e ripetute sconfitte, parve unico rimedio possibile il
soccorso divino, da propiziare con
cerimonie straordinarie e riti inusitati desunti dai libri sibillini[6].
Tratti
da un testo liviano, i frammenti offrono dei magnifici esempi di interpretatio iuris e di
perizia cautelare del pontefice
massimo; il quale si mostrò severo custode delle prerogative del
popolo nella tradizione giuridico-religiosa, in
[p.
103]
occasione del solenne ver sacrum[7] votato agli dèi nel 217 a.C., dopo la rovinosa battaglia del Trasimeno.
1
[L.
Cornelius Lentulus] omnium primum populum consulendum de vere sacro censet:
iniussu populi voveri non posse.
Livio 22, 10, 1: His senatus
consultis
perfectis L. Cornelius Lentulus
pontifex maximus consulente collegium praetore omnium —
posse.
2
Si res publica populi Romani
Quiritium ad
[p.
104]
quinquennium proximum, sicut velico eam salvam, servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano cum Carthaginiensi est, quaeque duella cum Gallis sunt, qui cis Alpis sunt, tum donum duit populus Romanus Quiritium: quod ver attulerit ex suino, ovino, caprino, bovino grege, quaeque profana erunt, Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit. Qui facies, quando volet quaque lege volet, facito; quo modo faxit, probe factum esto. Si id moritur, quod fieri oportebit, profanum esto neque scelus esto; si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto; si quis clepsit, ne populo scelus esto, neve cui cleptum erit; si atro die faxit insciens, probe factum esto; si nocte sive luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto; si antidea <quam> senatus populusque iusserit fieri, faxitur, eo populus solutus liber esto.
Livio 22, 10, 2-6: Rogatus in
haec verba populus: Velitis iubeatisne
haec sic fieri? Si res
publica — liber esto.
B.
BRISSONII, De formulis et solennibus populi Romani verbis libri VIII, ed.
Francofurti et Lipsiae 1754, p. 88 CLXI; P. PREIBISCH, Fragmenta
librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 10 fragm. 47; G. APPEL, De Romanorum precationibus, Gissae 1909, pp. 8 s. fragm. 5.
L'intervento
di L. Cornelio Lentulo si inserisce in un più
ampio contesto di cerimonie religiose ordinate dai libri
[p. 105]
sibillini[8],
fra le quali il ver sacrum costituiva il rito più ri levante e significativo, il più
straordinariamente inusuale[9]. Pur essendo legati nel testo liviano allo
stesso oggetto, i due frammenti meritano discussioni separate,
poiché attengono a questioni
differenti: riguardando il primo i poteri del popolo, il secondo la
peculiarità del testo della solenne formula giuridico-religiosa
sottoposta ad approvazione popolare.
Nell'analisi
del testo liviano gli studiosi, vuoi storici della
religione vuoi giuristi, hanno incentrato la loro attenzione per lo
più sul contenuto e sulla struttura linguistica della formula;
sicché è passata quasi inosservata l'interpretatio iuris sottesa alla prima parte di quel testo, dove L. Cornelio Lentulo negava al magistrato il
potere di votare il ver sacrum, iniussu populi, senza una formale espressione di volontà da parte del popolo romano[10].
Insomma, l'interesse per la formula del ver sacrum, splendido documento della sapienza teologica e giurisprudenziale del
suo autore, ha finito per farne dimenticare l'indispensabile premessa.
Si
tratterà, a questo punto, di comprendere quali
[p. 106]
principi-guida
abbiano ispirato il citato responso nella temperie politica di quel terribile
217 a.C.
Bisogna respingere,
subito, la tentazione di collegare, in maniera schematica, l'interpretatio del pontefice
massimo alle vicende politiche di quegli anni, caratterizzati da un generale
rilancio e da una rinnovata iniziativa del movimento popolare romano[11].
La cui linea politica, è pur vero,
mirava con determinazione costante, ad una sempre maggiore
subordinazione dell'imperium dei
magistrati al potere popolare; come ben
dimostra l’innovazione di far eleggere dal popolo il dittatore e
l'estensione dei limiti della provocatio anche al suo imperium[12].
Una simile
prospettiva porterebbe, infatti, a concludere che la “politica
religiosa” di L. Cornelio Lentulo
[p. 107]
sarebbe
stata determinata dalla sua ideologia di «patricien de tendence
modérée», come lo definisce J.-Cl. Richard[13], giudicando in tal
senso l'atteggiamento, apparentemente disimpegnato, che il pontefice tenne in
occasione della nota controversia che, nel
Ma pare più
congruo accedere all'opinione sostenuta, di recente, da R. A. Bauman[15],
il quale non ritiene di poter trarre dall'episodio alcun indizio sul pensiero
del giurista, anche perché l'opposizione di Fabio impedì
l'elezione del flamine e rese nei fatti inutile ogni ulteriore discussione.
Nello
stabilire soggetti e procedure per il ver sacrum, piuttosto da credere che l'interpretatio iuris di L.
Cornelio Lentulo abbia fatto ricorso
alla tradizione documentaria del collegio, che «une étude
sérieuse des
[p. 108]
Commentaires»[16] gli permetteva di padroneggiare. Il
pontefice-giurista certo non ignorava la
casistica della più antica giurisprudenza pontificale sui publici vota,
dona, dedicationes; da cui
lo iussum populi risultava, ab antiquo, requisito indispensabile per la validità di tali atti
di culto[17].
Dalle
[p. 109]
fonti, peraltro, abbiamo conferma della
vigenza di tale regola già alla fine del V secolo a.C.; come si apprende da
un passo di Tito Livio: Dictator coronam auream libram pondo ex publica pecunia a populi iussu in
Capitolio Iovi donum posuit[18].
Mi pare
fuor di dubbio che Livio, seppure non attinga a
documenti originali, ricavi la notizia da una buona fonte: forse l'annalista
Licinio Macro, citato più avanti nel § 8 dello stesso capitolo, il
quale utilizzava di prima mano alcuni non meglio definiti veteres
annales, ma soprattutto documenti
ufficiali di qualità eccellente: i magistratuum libri, qui
lintei in aede repositi Monetae[19].
Passiamo ora al secondo frammento. Va subito detto, che si tratta di un testo «dont l'armature, sinon
tous les mots, paraît authentique»[20];
certo assai risalente nella forma linguistica,
che, pur rammodernata, lascia trasparire arcaismi
tipici delle formule solenni del più conservativo linguaggio
sacerdotale[21].
L'eccezionale rifinitura del testo
[p. 110]
non è sfuggita alla dottrina più avvertita:
«Ce document fair honneur à la
science théologíque de son auteur – scriveva nel suo libro
sui pontefici A. Bouché-Leclercq – Tout ce qui pourrait alarmer la conscience du peuple romain et invalider l'accomplissement du voeu y
est prévu et excusé d'avance»[22];
a cui faceva eco, un secolo più tardi,
un altro grande studioso francese, G. Dumézil: «Cette
formule est un beau monument de la prudence, du bon sens que les experts
sacrés de Rome apportaient à la réglementation des choses
les plus artificielles»[23].
[p. 111]
Una
breve riflessione merita anche la struttura giuridica della formula dettata dal pontefice massimo per il votum
del ver sacrum.
Alla
circostanziata precisazione delle cose offerte in voto, segue una serie di clausole liberatorie, in cui la perizia teologica
e giurisprudenziale dell'autore è protesa ad assicurare che la pax
deorum[24]
non sia turbata da comportamenti delittuosi di privati cittadini, siano essi
intenzionali o preterintenzionali; insomma che lo scelus e l'inscientia dei singoli non sia di nocumento al popolo romano.
Da
notare, poi, come alcune clausole della formula attestino uniformità e
continuità nell'interpretazione del collegio pontificale: intendo
riferirmi, più precisamente, alla
clausola «Si atro die faxit insciens, probe factum esto»,
che sembra improntata al decreto reso dai pontefici circa trent'anni
prima, per assolvere Tiberio Coruncanio da un simile comportamento[25].
[p. 112]
Mi
pare riduttiva, infine, sempre a proposito della citata formula, l'osservazione
più generale di F. Schulz sul formalismo
interpretativo romano arcaico, che sarebbe stato caratterizzato
dall'esistenza di un rapporto causale costante tra «paura della
divinità» e «interpretazione strettissima» dei
sacerdoti romani[26].
[2] Vedi C. BARDT, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer Zeit, Berlin 1871, pp. 4 nr. 10, 10 nr. 28; F. MÜNZER, Cornelius (nr. 211), in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft
4, 1, Stuttgart 1900, col. 1377 s.; G. J.
SZEMLER, Pontifex, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, Suppl. 15, Stuttgart 1978, col. 376.
[3] Livio 25, 2, 2: Aliquot
publici sacerdotes mortui eo anno sunt, L. Cornelius Lentulus pontufex maximus et
C. Papirius C F. Maso pontifex et P. Furius Philus augur et C. Papirius
L. F. Maso decemvir sacrorum.
[4] F. CASSOLA, I gruppi
politici romani nel III secolo a. C., Trieste
1962, p. 420;
vedi anche pp. 275
s.: «la causa della
guerra fu difesa
soprattutto da L. Cornelio Lentulo, cos. 237 e princeps
senatus».
[6] Cfr. Livio 22, 9, 7-10: Q. Fabius
Maximus dictator iterum, quo die magistratura
iniit, vocato senatu, ab dis orsus, cum edocuisset patres plus neglegentia caeremoniarum auspiciorumque quam
temeritate atque inscitia peccatum a C. Flaminio
consule esse, quaeque piacula irae deum essent
ipsos deos consulendos esse, pervicit, ut, quod non ferme decernitur, nisi cum taetra prodigia nuntiata sunt, decemviri libros
Sibyllinos adire iuberentur. Qui inspectis fatalibus
libris rettulerunt patribus, quod eis belli causa votum Marti foret, id non rite factum de
integro atque amplius faciendum
esse, et Iovi ludos magnos et aedes Veneri Erucinae ac Menti vovendas
esse et supplicationem lectisterniumque habendum et ver sacrum vovendum, si bellatum
prospere esset resque publica in eodem,
quo ante bellum fuisset, statu permansisset.
Per una
visione d'insieme sui libri Sibyllini, rinvio
a G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed.,
München 1912, pp. 536 ss. (con ampia
rassegna della bibliografia precedente); W. HOFFMANN, Wandel und Herkunft
der sibyllinischen Bücher in Rom, Leipzig
1933; R. BLOCH, Les origines
étrusques des Livres Sibyllins, in Mélanges A. Ernout, Paris 1940, pp. 21 ss.; J.
GAGÉ, Apollon romain. Essai
sur le culte d'Apollon et sur le devéloppement du «ritus
Graecus» à Rome, Paris 1955, pp. 21 ss.; K. LATTE, Römische
Religionsgeschichte, München 1960, pp. 160 s.; G.
RADKE, Die Götter altitaliens, Münster 1965, pp. 39 ss.
[7] Per altre fonti sul ver sacrum vedi
Paolo, Festi ep., p. 519 L.: Ver sacrum vovendi
mos fuit Italis. Magnis enim periculis adducti vovebant,
quaecumque proximo vere nata essent apud se, animalia
immolaturos. Sed cum crudele videretur pueros ac
puellas innocentes interficere, perductos in
adultam aetatem velabant atque ita extra fines suos exigebant; Festo,
p. 424 L: Sacrani appellati sunt Reate orti, qui ex Septimontio Ligures
Siculosque exegerunt; nam vere sacro nati erant; Servio,
Ad Aen. 7, 796: Sacranae Acies
dicunt quendam Corybantem de Creta venisse ad Italiam et tenuisse
loca, quae
nunc urbi vicina sunt, et ex eo populos ducentes originem Sacranos
appellatos; nam sacrari sunt matri deum Corybantes. Alii Sacranas acies Ardeatum
volunt, qui aliquando cum pestilentia laborarent, ver sacrum voverunt, unde Sacrani dicti sunt; cfr. Strabone 5, 4,
12.
Quanto invece alla
dottrina, basterà menzionare J. MARQUARDT, Römische
Staatsverwaltung, III, 2a ed., a
cura di G. Wissowa, Leipzig 1885, p. 370; G. WISSOWA, Religion und Kultus
der Römer, cit., pp. 145 s.;
N. TURCHI, La religione di Roma antica,
Bologna 1939, pp. 130 s.; G. DE SANCTIS,
Storia dei Romani, IV. 2, 1, Firenze 1953, pp. 318 s.; W. EINSENHUT, Ver sacrum, in
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
[8] Sulle diverse implicazioni teologiche e giuridiche di tali
cerimonie, sono veramente illuminanti le magistrali pagine che vi ha dedicato G.
DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, 2a ed.,
Paris 1974, pp. 471 ss. (= La religione
romana arcaica, trad. it.,
Milano 1977, pp. 407 ss.).
[9] Sottolinea
l'eccezionalità di un simile voto J. HEURGON, Trois études sur le «ver
sacrum»,
cit., p. 36: «En fait, dans toute l'histoire de la République,
il n'y en a pas d'autre exemple: pris au piège d'un voeu imprudent, les Romains ont fini par s'en
acquitter sans y laisser trop de plumes, mais en jurant de ne plus
recommencer».
[10] Tende a sminuire la portata della norma, in adesione alla
teoria mommseniana della magistratura, G. WISSOWA, Religion und Kultus der
Römer, cit., p. 403 n.
6.
[11] Invero, è
tutta la seconda metà del III secolo ad essere interessata, seppure con alterni riflussi, da un forte movimento
riformatore; sono databili in questo periodo, ad esempio, la riforma
dell’ordinamento centuriato (su cui vedi, fra gli altri, G. DE SANCTIS, Storia
dei Romani, III. 1, (Torino 1916) citato nella 1a rist.
della 2a ed., Firenze 1970, pp. 327 ss.) e
la distribuzione viritim dell'ager
Picenus Gallicus (vedi F. CASSOLA,
I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit.,
pp. 209 ss.).
Per
un quadro più generale della società e delle istituzioni politiche romane
negli anni tra le due guerre puniche, rimando alle finissime analisi di A. J. TOYNBEE, L'eredità
di Annibale. Le conseguenze della guerra
annibalica nella vita romana, I. Roma e l'Italia prima di Annibale, trad.
it., Torino 1981, pp. 353 ss.
[12] Sull'evoluzione
della dittatura, cfr. per tutti, F. DE MARTINO, Storia della
costituzione romana, I,
2a ed., Napoli 1972, pp. 438 ss., del quale mette conto riferire il pensiero a
proposito della provocatio: «Quando
la provocatio ad populum fu estesa alla
dittatura non è detto dalle fonti, né si può affermare con
certezza che ciò sarebbe avvenuto con la terza delle leggi de provocatione, cioè nel 300.
Senza dubbio, con tale riforma la dittatura
perdeva molto del suo carattere eccezionale, almeno nei rapporti con i
cittadini, e quindi deve presumersi che il moto democratico fosse abbastanza
sviluppato, il che non può certo dirsi dell'inizio del III secolo»
(op. cit., p. 447).
[13] J.-CL. RICHARD, Sur quelques
grands pontifes plébéiens, in Latomus 27, 1968, p.
797: «Il est en tout cas significatif que la validité d'une
éventuelle élection du flamine n'ait pan été mise
en doute par le grand pontife du moment, L. Cornelius Lentulus Caudinus,
patricien de tendence
modérée. La raison de ce silence est sans doute à chercher
dans la différence qui existait entre le status du flamen dialis et
celui de ses collègues».
[14] Livio 24, 8, 10: M. Aemilius
Regillus flamen est Quirinalis, quem neque mittere ab sacris neque retinere
possumus, ut non deum aut belli deseramus cura. Cfr. Livio 24, 9, 3.
[15] R. A. BAUMAN,
Lawyers in Roman republican
politica: a study of
the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, p. 109: «Richard attaches great importance to
the apparent fact that Lentulus Caudinus, a patricien who was pontifex maximus
over 221-213, offered no opposition when M. Aemilius Regillus, flamen
Quirinalis, sought the consulship in 215. But there is no evidence for this alleged
ideological posture of the patrician pontifex maximus».
[16] L'espressione, riferita a L. Cornelio Lentulo, si legge in
A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit.,
p. 168.
[17] Da questo punto di vista, anche la
successiva giurisprudenza pontificale non transige
sull'applicazione del principio dello iussum populi: cfr. Cicerone, De domo 136: Sed, ut revertar ad ius
publicum dedicandi, quod ipse pontifices semper non solum ad suas caerimonias,
sed etiam ad populum iussa accommodaverunt, habetis in commentariis vestris
C. Cassium Censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse
eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi
eum populus Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non
videri eam posse rette dedicare. Quid? cum Licinia virgo Vestalis summo loco
nata, santissimo sacerdozio praedita, T. Flaminio Q. Metello consulibus aram
et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam rem ex auctoritate
senatus ad hoc collegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola
pontifex maximus pro collegio respondit: quod in loco publico Licinia Gai filia iniussu populi
dedicasset, sacrum non viderier.
Sul valore del testo ciceroniano per la distinzione
delle rispettive materie tra libri e
commentarii dei pontefici,
documenti che l'oratore mostra di aver
consultato personalmente, vedi F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari
1983, pp. 96 s., 172.
Ritiene questo
responso dei pontefici punto terminale della complessa
evoluzione del regime della dedicatio, S. TONDO, Leges regiae e
paricidas, Firenze 1973, pp. 43-44: a suo avviso, si sarebbe
passati da una situazione primitiva in cui la competenza alla dedicatio era
riguardata dai pontefici «come emanazione esclusiva della
potestà consolare», ad una
più avanzata, in cui si considerava «ormai acquisita, anche agli
occhi dei pontefici», la possibilità di estendere ad altri
magistrati tale competenza.
Da
ultimo, in altra prospettiva, ribadisce che «le testimonianze ciceroniane sono degne di fede», F. BONA, La
certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in La
certezza del diritto nell'esperienza giuridica romana. Atti del Convegno Pavia 26-27 aprile 1985, Padova 1987, pp. 117 ss.
[19] Livio 4, 20, 8: Quis ea in re sit
error, quod tam veteres annales quodque magistratuum libri, quos linteos in aede repositos Monetae Mater Licinius citat identidem auctores, decimo post
demum anno cum T. Quinctio Poeno A. Cornelium Cossum consulem habeant,
existimatio communis omnibus est.
[20] G. DUMÉZIL,
La religion romaine archaïque, cit., p. 473 (= La religione romana arcaica, cit., p.
411).
[21] Significativo,
in tal senso, appare l'uso dell'arcaica forma duellum per bellum, di cui restava memoria ormai solo
nelle opere di eruditi e antiquari (Varrone, De ling. Lat. 7, 49: Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic
perduellis, <a per> et duellum: id postea bellum. Ab eadem causa facta
Duell[i]ona Bellona; cfr. Cicerone, Orat. 153;
Quintiliano. Inst. orat. 1, 4, 15) e nelle
formule solenni della lingua sacerdotale:
così ancora in età imperiale, negli acta relativi
ai Ludi saeculares di Augusto e in quelli dei Ludi celebrati da Settimio Severo, i
concetti di pace e guerra vengono espressi dai sacerdoti con i termini duellum e domus (Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI, 32323, 94 = G. B. PIGHI, De ludibus
saecularibus populi Romani Quiritium, Milano 1941, p. 114; Act. lud. saec. Sept. Sev. 4, 11 = C.I.L. VI, 32329, 11 = PIGHI, Op. cit., p. 157: imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s
obtemperassit).
Del resto, altre fonti confermano che la tradizione
documentaria sacerdotale conosceva e conservava arcaismi linguistici (cfr. ad
esempio Festo, v. Praeceptat, p.
[23] G. DUMÉZIL, La
religion romaine archaïque, cit.,
p. 474 (= La religione romana arcaica, cit.,
p. 411).
[24] Per la definizione di pax deorum, con ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla, vedi P. Voci, Diritto sacro romano in
età arcaica, in
Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, pp. 49 ss. (=ID., Scritti di diritto romano, 1, Padova 1985, pp. 226 ss.); a cui sono da aggiungere, M. SORDI, "Pax deorum" e libertà religiosa nella
storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146
ss.; E. MONTANARI, Il concetto originario di "pax" e "pax deorum", in Le concezioni della pace. VIII Seminario
Internazionale di Studi Storici "Da Ronza alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; ID., Mito e
storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (= Appendice 1: "Tempo della città" e pax deorum: l'infissione
del clavus annalis); da ultimo F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del
“diritto internazionale
antico”, Sassari 1991, pp. 256
ss. (ivi fonti e letteratura precedente).
[26] F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. di G. Nocera, Firenze 1968, p. 58: «In diritto
sacro, la paura della Divinità era
cagione di una interpretazione strettissima. Ciò si deduce dal racconto di Livio sulle riserve che si ritenne
necessario fare nel voto del ver sacrum del 217 a.C.».