Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-8
Francesco Sini
A quibus iura civibus praescribebantur
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.
Torino,
G. Giappichelli Editore, 1995
pp.
172 – ISBN 88-348-4144-3
Parte Prima
IUS PUBLICUM E IUS SACRUM
NEI FRAMMENTI
«EXTRA DIGESTA TRADITA». LA LETTERATURA
GIUSROMANISTICA FINO A OTTO LENEL
II
LA PALINGENESIA IURIS CIVILIS DI OTTO
LENEL:
OMISSIONI E
IDEOLOGIA
Sommario: 1. Cultura e ideologia
delle omissioni leneliane: «Staatsrecht» e separazione di
«sacro\pubblico\privato» nella pandettistica tedesca. –
2. «Omissa
sunt quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fragmenta extra digesta
tradita»: il programma. – 3. Canoni palingenetici e logica delle omissioni.
– 4. Tra omissioni di testi ed esclusioni di
giuristi. A) I frammenti di C. Elio Gallo. – 5. B) L'esclusione di Lucio Cincio.
[p.
37]
Ancora nella prima metà dell'Ottocento, il
concetto di «Römische Altertümer» comprendeva tutto
ciò che non riguardava il diritto privato. Pertanto, anche gli studi
romanistici in materia di ius publicum
e di ius sacrum si presentavano improntati
ad un metodo d'indagine, che potremo definire "antiquario'': di norma,
mancava in tali studi l'analisi dei fattori che presiedevano alla formazione
del diritto, a cominciare dalle forze sociali; generalmente mancava anche, o si
presentava fortemente limitata, la scansione temporale dello sviluppo storico;
infine, l'esposizione delle materie procedeva seguendo un sistema ordinatorio,
improntato a quella che Yan Thomas chiama «logique de la
contiguïté»[1].
[p. 38]
Per quanto temperato dalla rinnovata storiografia
critica del Niebuhr[2],
il metodo "antiquario" influenzava
[p. 39]
ancora
in larga parte il più grande trattato sulle istituzioni romane pubbliche
e private, prodotto dalla scienza romanistica tedesca anteriormente alla
fondazione del «Römisches Staatsrecht»: intendo riferirmi al Handbuch der römischen Alterthümer
di W. A. Becker e J. Marquardt, nove densi volumi pubblicati tra il 1843 e il
1867, in cui i due grandi studiosi lumeggiarono con mirabile sintesi gli
immensi campi della topografia antica, delle istituzioni politiche di Roma,
dell'amministrazione dell'Italia e delle province, dell'organizzazione fiscale
e finanziaria, delle strutture militari, della religione romana e delle
“antichità private”[3].
Del resto, neppure il contemporaneo fiorire della
"Scuola storica del diritto''[4],
che proprio in quegli anni
[p. 40]
andava
rimodellando contenuti e metodi per lo studio del diritto privato romano, aveva
contribuito ad avviare nuovi processi culturali verso la conoscenza storica
moderna del diritto pubblico romano.
Sulle cause di questo ritardo mi sembrano convincenti
le ragioni addotte da V. Giuffrè, il quale imputa la scelta dei
romanisti di privilegiare la storia del diritto privato (a differenza dei
germanisti, che invece rivolsero i loro interessi anche alla storia del diritto
pubblico), al fatto che «la "Scuola storica'', malgrado il suo nome,
non ebbe esclusivamente, e neppure in via primaria, un indirizzo storico.
Subordinò anch'essa il suo interesse per la storia a scopi pratici. E la
realtà presentava come oggetto di recezione nei paesi europei soltanto
il diritto privato»[5].
Da condividere anche una riflessione di Franz Wieacker:
laddove l'illustre studioso rimarca l'assoluta mancanza della dimensione
storica nei giuristi della "Scuola storica del diritto", i quali si
caratterizzarono piuttosto per «il tentativo, profondamente antistorico,
di utilizzare per la rappresentazione della dogmatica romana quella stessa
sistematica e quelle stesse categorie di cui essa si andava servendo per il
rinnovamento della scienza del diritto»[6].
[p. 41]
Ed è esattamente questo il metodo prescelto da
Theodor Mommsen nell'edificare il superbo sistema del «Römisches
Staatsrecht»[7].
Fin dai primi approcci al diritto pubblico romano[8],
[p. 42]
il
giovane Mommsen aveva manifestato tutta la propria insoddisfazione nei
confronti dell'allora usuale definizione dei rispettivi ambiti tra storici e
giuristi, sulla base della quale lo ius
publicum e lo ius sacrum venivano
considerati pertinenza degli studi storici[9].
Aveva deplorato, inoltre, la totale mancanza di strumenti testuali, elaborati e
affidabili, per la ricostruzione dello ius
publicum, come avveniva ormai da secoli per lo ius privatum; ritenendo, tuttavia, che non potesse spiegarsi in
alcun modo l'organizzazione statuale dei Romani senza ricorrere ai lumi della
giurisprudenza romana[10].
Scrivendo l'«avant-propos» per la recente
riedizione di Droit public romain, C.
Nicolet ha sostenuto che non si potrebbe in alcun modo comprendere lo
«Staatsrecht» mommseniano se non lo si ponesse in stretto rapporto
«à une triple tradition qu'éblouis par l'éclat de
Mommsen nous oublions trop souvent»: da una parte gli studi storici sulle
istituzioni di Roma, dall'altra le costruzioni giuridiche del diritto delle
Pandette, infine le nuove teorie della «Staatslehre»[11].
[p. 43]
In ragione della raffinata cultura interdisciplinare,
che permea l'immenso ed esaustivo apparato critico, il Römisches Staatsrecht poteva, per un verso, presentarsi come
la sublimazione della scienza antiquaria del suo tempo; nel cui solco peraltro
si collocava anche formalmente, essendo stato concepito in sostituzione dei tre
volumi sulla «Staatsverfassung» di Roma antica precedentemente
curati dal Becker, nel progetto di riedizione del Handbuch der römischen Alterthümer, che vide coinvolto il
Mommsen proprio a fianco del Marquardt. Per altro verso, il Römisches Staatsrecht ha
significato soprattutto il superamento definitivo, nella forma e nella
sostanza, di tale scienza antiquaria[12];
poiché il Mommsen si proponeva
[p. 44]
la
riforma radicale dei metodi tradizionali di trattazione della materia, come
provano le dichiarazioni del «Vorwort» alla prima edizione: presa
di distanza dall'opera del Becker[13]
e assunzione dei canoni metodici della
[p. 45]
sistematica
pandettistica del diritto privato[14].
Non è certo questo il luogo per svolgere lunghi
e articolati discorsi critici intorno al Römisches
Staatsrecht di Theodor Mommsen; discorsi peraltro già fatti, e con
ben altra autorevolezza, nel corso dell'ultimo secolo di studi romanistici[15].
[p. 46]
Basterà pertanto rilevare che nel complesso il
rapporto «così instaurato tra "materiale'' romano e
sistematica contemporanea»[16],
quel voler ridurre la concreta realtà dello ius publicum all'astratto sistema dello «Staatsrecht»,
ha prodotto risultati a dir poco unilaterali, inadeguati e parziali. Appaiono
in tutta evidenza i gravi limiti di un metodo che, oltre a prospettare un'interpretazione
[p. 47]
"statualista''[17]
del sistema giuridico-religioso romano[18],
pretendeva di ricondurre le molteplicità di forme e di tempi storici ad
astrazioni concettuali generalizzanti, "Grundbegriffe''[19];
fra i quali primeggiava il “Grundbegriff”
[p. 48]
di
Magistratura, concepito come perno dell'intero sistema[20],
quantunque il Mommsen non ignorasse che
[p. 49]
presso gli antichi «eine zusammenfassende
Behandlung der Magistraturen nur ausnahmsweise stattfindet» [21].
Come abbiamo appena
accennato, con la concettualizzazione sistematica del «Römisches
Staatsrecht» la Pandettistica tedesca acquisisce «pour le droit
théorique un nouveau territoire, en érigeant en "science du
droit public'' tout cette espace institutionell laissé aux antiquaires,
aux historiens, ou aux juristes»[22]. Ciò non avviene senza effetti
profondi e duraturi nella dottrina romanistica contemporanea, su due dei quali
conviene soffermarsi brevemente.
Il primo effetto consiste nella definitiva reciproca
alterità tra «Privatrecht» e «Staatsrecht» anche
negli studi romanistici[23]:
al punto che poi, identificata tale alterità
[p. 50]
col
binomio ius publicum/ius privatum, se
ne sosterrà l'appartenenza agli originari «principi del diritto
romano»[24];
da cui consegue l'attrazione dell'antico diritto giurisprudenziale, ratione materiae, al
«römisches Privatrecht»[25].
Il secondo può invece sintetizzarsi come segue:
a fronte dell'elevazione a dignità di scienza giuridica positiva della
“confusa materia” dell'antico ius
publicum, confusione determinata anche dall'apparente mancanza di metodo da
parte dei giuristi romani nel trattarla, l'esigenza di sistematizzazione e di
uniformizzazione dell' "antico'' al "moderno'' ha finito per
determinare l'esclusione dello ius sacrum
sia dal campo dello «Staatsrecht» [26],
sia da quello del «Privatrecht»[27].
[p. 51]
Nel paragrafo iniziale della Praefatio alla sua Palingensia
iuris civilis, Otto Lenel[28]
dava conto in maniera articolata dei criteri adottati per la scelta dei
frammenti giurisprudenziali, soffermandosi ampiamente anche sulle esclusioni
operate.
[p. 52]
Al
fine di cogliere appieno le implicazioni metodologiche ivi esplicitate o
sottese, sarà utile prendere le mosse proprio da quella pagina
leneliana, rileggendone il testo:
«Exceptis igitur iis
fragmentis quae mox enumerabuntur – scriveva il grande giurista tedesco
– omnia recepi quae Iustiniani digestis continentur quaeque praeterea e
civili Romanorum iuris prudentia servata sunt. Gai autem institutiones, Pauli
sententias, Ulpiani regularum librum singularem, Dositheana quae vocantur
fragmenta, fragmentum de iure fisci propterea exclusi, quod molem per se iam
satis amplam huius collectionis inutiliter auxissent. Omissa sunt praeterea
quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fagmenta extra digesta
tradita: quod invitus et quodam modo coactus feci, cum propter difficultatem
satis accurate discernendi quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad
antiquitates refenda sint, tum ob miseram condicionem, qua longe maxima pars
fragmentorum quae huc faciunt - ea praesertim quae Festo debentur - tradita
sunt. Nec tamen nimis anxius fui in excludendis huius generis fragmentis, cum
tres illae iuris partes - ius sacrum publicum privatum - arta saepe necessitate
inter se connexa sint: eorum librorum, in quibus et de iure sacro vel publico
et de iure privato quaeritur, omnia fragmenta recepi vel saltem indicavi»[29].
[p. 53]
Il Lenel passa, quindi, ad illustrare i criteri
adottati nella disposizione dei singoli giureconsulti, nella restituzione delle
loro opere e nell'esegesi dei frammenti ad essi attribuiti. Quanto al primo
punto, dichiara di aver preferito seguire l'ordine alfabetico, non solo
«quod ad usum maiorem commoditatem praebet», ma soprattutto
perché non sempre la sucessione cronologica dei giureconsulti risulta
determinabile con assoluta certezza[30];
nella restituzione delle opere giurisprudenziali prevale invece l'esigenza di
individuare «ratio et conexus totius operis», da cui la conseguente
collocazione dei relativi frammenti; solo quando ciò sia risultato
impossibile, si è seguito il criterio di anteporre i frammenti dei Digesta a quelli reperito «in
ceteris de iure libris» e a quelli «quae alibi tradita sunt»[31].
[p. 54]
Dalla lettura della citata pagina leneliana emergano
dati di rilevante ed immediato interesse metodologico, quali ad esempio l'
estremo rigore professato nella scelta dei testi[32]
e nella loro esegesi[33];
o ancora, la manifesta
[p. 55]
intenzione
di utilizzare in maniera quasi esclusiva, quale strumentario di base per la
ricostruzione dei frammenti, l'edizione mommseniana dei Digesta Iustiniani[34].
Tuttavia, sono le ragioni addotte a sostegno della lista delle omissioni che
rivelano con più chiarezza le motivazioni culturali e metodologiche, che
hanno determinato la linea di condotta del Lenel nella sua impresa
palingentica.
Ma veniamo a queste ragioni. Argomenti di carattere
squisitamente editoriale («quod molem per se iam satis amplam huius
collectionis inutiliter auxissent») giustificano un primo gruppo di
esclusioni: perciò restarono fuori dalla Palingenesia le Istituzioni di Gaio, le Pauli Sententiae, il Liber
singularis regularum di Ulpiano, i fragmenta
Dositheana e il Fragmentum de iure
fisci.
Più discutibile appare, invero, la scelta di
escludere dalla raccolta «quaecumque sive ius publicum sive sacrum
spectant fragmenta extra digesta tradita». Non si possono di certo
condividere le motivazioni che indussero il Lenel a omettere, seppure a suo
dire «invitus et quodam modo coactus», da una parte la quasi
totalità dei testi in materia di ius
publicum e di ius sacrum, dall'
altra i frammenti di opere giuridiche citati nell'epitome festina[35].
[p. 56]
Anche a proposito di queste motivazioni conviene
distinguere. Mentre per i frammenti giurisprudenziali contenuti nel De verborum significatu si adducevano
ragioni di critica filologica, legate in gran parte alla consapevolezza della misera condicio delle principali
edizioni dell'opera allora esistenti[36];
alla praticabilità (e utilità) di una Palingenesia iuris publici il Lenel opponeva obiezioni
metodologiche e "fattuali'' ritenute veramente insuperabili. Non a caso lo
studioso sottolineava con vigore le immani difficoltà che avrebbe dovuto
affrontare colui che avesse voluto distinguere, con buona approssimazione, fra
le
[p. 57]
variegate
fonti di ius publicum e di ius sacrum «quaenam ad ius proprie
sic dictum spectent quaeve ad antiquitates referenda sint»[37].
Prevaleva, insomma, nella valutazione del Lenel un radicato pessimismo sulla
qualità delle fonti, in gran parte "letterarie'', da utilizzare per
la raccolta di questo tipo di materiali; dovendo muoversi più tra fonti
storico-antiquarie che giuridiche, il giurista moderno rischiava di smarrire in
quel terreno infido e senza confini la dimensione stessa del "giuridico''[38].
Mette conto, infine, formulare un'ultima notazione
riguardo all'assunto leneliano che nello «ius proprie sic dictum»
non potessero trovare collocazione sia lo ius
publicum, sia lo ius sacrum;
segnalandone, in particolare,
[p. 58]
l'omogeneità
con le posizioni dottrinali di quella parte della storiografia romanistica
ottocentesca - peraltro di gran lunga maggioritaria -, che identificava il
diritto romano esclusivamente nel Corpus
iuris civilis di Giustiniano. Il pensiero del Lenel non si discostava,
dunque, dalla communis opinio della
pandettistica del suo tempo, nel considerare oggetto dell'indagine giuridica
unicamente quello che, parafrasando il titolo di un celebre manuale di A.
Heimberger[39],
potrebbe definirsi «il diritto romano privato e puro»; sarà
facile perciò intendere come, in questa prospettiva, ius publicum e ius sacrum non fossero ritenuti riconducibili al «vero
diritto romano», ma alla «parte storica e archeologica del
medesimo»[40].
Per chiarire quanto i criteri di esclusione del Lenel
abbiano pesato concretamente nella Palingenesia,
sarà opportuno, a questo punto, discutere di alcuni giuristi, le cui
opere siano state parzialmente omesse o del tutto ecluse dalla raccolta.
Iniziamo con un esempio di parziale omissione: il caso
di C. Elio Gallo. Autore di un'opera dedicata alla
[p. 59]
significatio verborum
nello ius civile[41],
il giurista figura nella raccolta leneliana, ma nei suoi lo studioso tedesco ha
praticato una vistosa censura per quanto riguarda gli oltre venti frammenti
pervenuti al di fuori della tradizione giustinianea, adducendo questa scarna
annotazione: «Ex eo auctore, cum incertissimum sit, num in iuris
consultorum numero sit referendus, nil recipiendum putavi nisi duo illa
fragmenta, quae in D. servantur»[42].
Al di la dell'incertezza se Elio Gallo fosse o no da
includere nel «numerus iurisconsultorum», non sarà comunque
difficile individuare l'intrinseca logica omissiva, che ha determinato la
censura del Lenel, se si considera che la maggior parte dei frammenti
superstiti, di indiscutibile contenuto civilistico, si legge in glosse del De verborum significatu di (Verrio
Flacco e) Pompeo Festo[43].
[p. 60]
Siamo dunque in presenza di uno dei canoni omissivi
dichiarati nella Praefatio.
Vissuto quasi per certo nel I secolo a. C., Elio Gallo[44],
risulta essere autore di un'opera di almeno due libri intitolata,
probabilmente, De verborum, quae ad ius
civile pertinent, significatione[45];
opera pervenutaci – come si
[p. 61]
è
appena detto – in un buon numero di frammenti conservati nell'epitome
festina. Questa circostanza, peraltro, ha indotto qualche studioso
(Reitzenstein) a ipotizzare che proprio il De
verborum, quae ad ius pertinent, significatione abbia costituto uno dei
modelli del lavoro lessicografico di Verrio Flacco[46].
Nel corso del biennio appena trascorso, all'opera di
Elio Gallo sono stati dedicati due saggi di rilevante interesse da F. Bona e G.
Falcone[47].
Nel primo, F. Bona concentra la sua attenzione
soprattutto sul «criterio o, se si vuole, lo schema seguito da Elio Gallo
nell'impianto dell'opera»[48];
percorrendo con fine esegesi l'analisi dei frammenti superstiti, lo studioso
patavino ci offre un quadro vivido delle significationes
eliane, del loro concatenarsi, al di là della divisione alfabetica
dell'opera festina, in un ordine logico, da cui traspaiono interpretazioni
più generali, come ad esempio sono quelle di sacrum, di sanctum, di religiosum «che Elio espose
congiuntamente nell'opera De verborum,
quae ad ius civile pertinet significatione»[49].
Nel secondo saggio, la prospettiva di G. Falcone si
presenta in apparenza più limitata. Lo scopo professato è quello
di stabilire attraverso l'analisi testuale una precisa cronologia dell'opera
eliana, che finora ha oscillato nelle
[p. 62]
ipotesi
degli studiosi tra la metà del II secolo a. C. e l'età di Augusto[50].
Il puntuale esame di alcuni fra i più significativi frammenti, o meglio
per dirla con l'autore - «di quei (pochi) frammenti dell'opera eliana per
i quali è possibile rinvenire elementi esterni di raffronto», ha
consentito al giovane studioso di formulare una precisa proposta di datazione:
«non pare azzardato ipotizzare che Elio Gallo abbia composto il lessico
non dopo l'inizio del I secolo»[51].
Anche alla luce di questi studi recenti, non resta che
ribadire il carattere arbitrari della logica omissiva del Lenel. Leggendo i
frammenti del giureconsulto si acquisisce l'immediata convinzione di un suo
interesse spiccato a definire, sempre, nel modo più breve possibile i
concetti giuridici oggetto della sua indagine[52];
non appaiono altresì prevalenti nelle sue definizioni interessi
etimologici, anche se talvolta non mancano accenni all'etimologia; infine
– ulteriore conferma di metodo giuridico – si ha la
[p. 63]
sensazione
che l'opera fosse ordinata non alfabeticamente ma seguendo il criterio della
distribuzione per materie[53].
In conclusione, pare difficile non convenire con le
osservazioni di H. Bardon [54],
quando scrive che in Elio Gallo «Le juriste y avait le pas sur le
grammairien», al punto da condizionarne anche lo stile di scrittura, che
infatti «porte la marque du style du droit» [55].
[p. 64]
La decisione di omettere nella Palingenesia i frammenti di contenuto non strettamente privatistico,
extra Digesta tradita, ha determinato
l'esclusione da essa di un buon numero di giuristi.
Ai giuristi del III secolo a.C., esclusi o omessi nella
quasi totalità dei casi, è dedicata la seconda parte di questo
lavoro, con l'esame dei frammenti superstiti della giurisprudenza romana
più antica; mentre, qui di seguito, tratteremo di un'altra esclusione
emblematica: quella del giurista L. Cincio[56].
Di questo giurista possediamo oltre trenta frammenti,
la maggior parte dei quali di provenienza festina, tratti da opere che –
a giudicare dai titoli – ne rivelano una solida cultura giuridica e un
campo di interessi che spaziava con eguale padronanza della materia tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum.
Basta scorrere soltanto i titoli di quelle
[p. 65]
opere,
per percepire l'eco dei molteplici interessi presenti nella riflessione del
giurista: scrisse un liber de fastis,
un liber de comitiis, un liber de consulum potestate; almeno sei de re militari libri, almeno due de officio iurisconsulti libri, e ancora
un liber de verbis priscis e dei Mystagogicon libri[57].
La trama interpretativa del giurista si misurava con i
temi più scottanti dello ius
publicum tardo-repubblicano: quali la potestas
populi, di cui non poteva non occuparsi nel liber de comitiis; o il potere dei magistrati, alla cui definizione
doveva essere dedicato il de consulum
potestate libri. Temi, dunque, legati a quel dibattito sulla definizione
dei rapporti tra poteri dei magistrati e poteri del popolo, che aveva
appassionato la giurisprudenza romana, almeno a partire dall'età dei
Gracchi[58].
Non è dato
[p. 66]
sapere
la collocazione ideologica di Cincio; forse antipopolare, stando almeno al
testo dell'unico frammento del de
comitiis in cui il giurista, per spiegare il valore del termine patricii, richiamava l'antica
identificazione tra ingenui e patricii[59].
Ugualmente legata alla ridefinizione dei poteri magistratuali della tarda
repubblica, sembra essere l'acquisita autonomia della res militaris, che L. Cincio, primo fra i giuristi, trattò
in un'opera specialistica[60].
Anche nel caso dell'esclusione di questo giurista,
è possibile delineare le ragioni interne alla logica omissiva del Lenel.
Siamo, infatti, per lo più in presenza di frammenti che «sive ius
publicum sive ius sacrum spectant», tramandati inoltre nell'epitome
festina.
[p. 67]
Ma nel complesso, l'esclusione appare immotivata:
alcuni dei frammenti omessi, per caratteristiche dei contenuti e
peculiarità delle opere di provenienza, ben si sarebbero potuti adattare
anche ai pur rigidi criteri della Palingenesia.
Penso soprattutto ai tre frammenti del De
officio iuris consulti libri e al più significativo di essi, la
glossa festina Nuncupata pecunia[61];
ma penso anche a testi del de verbis
priscis, di indubitabile contenuto civilistico[62].
[1]
Y. Thomas, Mommsen et l'«Isolierung» du droit, saggio premesso
alla riedizione della traduzione francese di Th. Mommsen, Droit public romain, I, Paris 1984, pp. 10 s. Esempio eccellente di
questo tipo di studi sarebbe, secondo lo studioso francese, la classico opera
di Carlo Sigonio De antiquo iure populi
Romani, pubblicata peraltro quasi trecento anni prima (1560), ma più
volte ripubblicata (vedine l'edizione dell'ultimo decennio del XVII secolo in J. G. Graevii, Thesaurus Antiquitatum Romanorum, I, Trajecti ad Rhenum 1694).
Nella
prospettiva di quest'opera – osserva il Thomas – si assume come
punto di riferimento il cittadino romano, con l'intento di ricostruire per suo
tramite tutte le relazioni giuridiche della civitas:
«Le plan, on le voit, obéit à un schéma circulaire:
Sigonius part du tout q'est la cité pour considérer en elle le
citoyen dans ses activités familiales et civiques. Les frontières entre vie publique et vie
privée s'effacent au profit de la structure englobante qui les contient
et les transcende».
[2]
G. Niebuhr, Römische Geschichte, I-II, Berlin 1811-1812; III, pubblicato
postumo, Berlin 1833. Dei primi due volumi si ebbero in seguito diverse
edizioni: il primo fu ripubblicato una seconda volta nel 1827, una terza nel
1828, una quarta nel 1833; il secondo fu invece riedito nel 1830 e poi una
terza volta nel 1836.
Che
l'opera del Niebuhr rappresenti, pur con le sue contraddizioni, il vero punto
di partenza della metodologia e delle tematiche proprie della dottrina romanistica
contemporanea, è opinione generalmente condivisa: vedi, in tal senso, C. Barbagallo, Il problema delle origini di Roma da Vico a Noi, Milano 1926 (rist.
an. Roma 1970), pp. 12
ss.; E. Kornemann, Niebuhr und die Aufbau der altrömischen
Geschichte, in Historische
Zeitschrift 145, 1932, pp. 277 ss.; S.
Mazzarino, Storia romana e
storiografia moderna, Napoli 1954, pp. 32 s.; A. Momigliano, Perizonius,
Niebuhr and the Character of Early Roman Tradition, in Journal of Roman Studies 47, 1957, pp. 104 ss. (=
Id., Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp.
68 ss.); Id., Alle origini dell'interesse su Roma arcaica:
Niebuhr e l'India, in Rivista storica
italiana 92, 1980, pp 561 ss. (= Id., Roma arcaica, Firenze 1989, pp. 479 ss.); H. Bengtson, Barthold
Georg Niebuhr und die Idee der Universalgeschichte des Altertums,
Rektoratsrede, Würzburg 1960 (= Id.,
Kleine Schriften zur alten Geschichte,
München 1974, pp. 26 ss.); A. Heuss,
Niebuhr und Mommsen, in Antike und Abendland 14, 1968, pp. 1
ss.; K. Christ, Römische Geschichte und Universal
Geschichte bei Barthold Georg Niebuhr, in Saeculum 19, 1969, pp. 172 ss.; Id.,
Römische Geschichte und deutsche
Geschichtswissenschaft, München 1982, pp. 35 ss.
Fondamentale,
per quanto riguarda la biografia intellettuale e politica del Niebuhr, resta
sempre il lavoro di S. Rytkönen,
Barthold Georg Niebuhr als Historiker und
Politiker. Zeitgeschehen und Zeitgeist in den geschichtlichen Beurteilungen von
B. G. Niebuhr, Helsinki 1968; per il rapporto tra le ideologie politiche
del grande storico e la sua ricostruzione delle istituzioni romane, cfr. P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 21 ss.; seguito da G. Lobrano, Il tribunato della plebe, Milano 1982, pp. 51 ss. (relativamente al
fondamento e al contenuto del potere tribunizio).
[3]
Sul piano dell'opera e la divisione delle singole materie tra i due autori,
vedi brevemente G. Humbert, Introduction générale du
Manuel d'Antiquités romaines, in Th.
Mommsen, Droit public romain, I,
Paris 1892, pp. XVI ss.
[4]
La vastissima mole di letteratura esistente sulla Scuola storica del diritto,
esime dal fornire in questa nota referenze bibliografiche, seppure parziali;
rimando perciò ad alcune valutazioni sintesi di F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte
der Neuzeit, II, neubearb. Aufl., Göttingen 1967; cit. in trad. it., Storia del diritto privato moderno, II,
Milano 1980, pp. 3 ss.; e R. Orestano,
Introduzione allo studio del diritto
romano, Bologna 1987, pp. 239 ss.
[5]
V. Giuffrè, Il «diritto pubblico»
nell'esperienza romana. Appunti di parte generale del corso, Napoli 1977,
p. 24: «Il diritto penale - continua lo studioso - aveva trovato nella
"Constitutio criminalis Carolina'' un regolamento legislativo imperiale,
che non si fondava sul diritto romano (a sua volta, per il processo criminale
era assai più inportante il diritto canonico che quello romano). Il
diritto pubblico contenuto nel Corpus iuris era troppo scarso e troppo legato a
particolari condizioni di tempo per poter servire di base ad una scienza
giuridica pubblicistica (ancora in nuce, del resto)».
[6]
Così F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II,
cit., p. 108; sempre nella stessa pag., il Wieacker sottolinea, assai
acutamente, come per i giuristi della "Scuola storica'', «una
più accentuata concezione storica avrebbe infatti compromesso una
interpretazione delle Pandette che potesse esser valida anche per il presente;
una critica testuale completamente libera avrebbe finito per minacciare
quell'ingegnoso edificio di risultati sicuri che si era venuto costruendo sulla
base delle Pandette».
[7]
Per la pubblicazione di tutta l'opera occorsero ben diciotto anni (1871-1888),
nel mentre però i volumi già editi conobbero successive
riedizioni: Römisches Staatsrecht,
I (1ª ed. Leipzig 1871; 3ª ed. Leipzig 1887); II (1ª ed.II 1
Leipzig 1874; II 2 Leipzig 1875; 3ª ed. Leipzig 1887); III 1 (Leipzig 1887); III 2 (Leipzig
1888).
Sulle temperie politiche e culturali in cui l'opera fu
composta, vedi le rapide notazioni di Y.
Thomas, Mommsen et
l'«Isolierung» du droit, cit., pp. 16 s.: «C'est vers les
années 1860-1880 seulement que l'État, en Allemagne, devient un
objet de droit; que naît un Staatsrecht construit lui aussi, selon la
démarche des pandectistes, sur quelques principes dont se déduit
un système clos de concepts hiérarchiquement ordonnés; que
le statut scientifique de cette nouvelle discipline est assuré, en
dehors de l'histoire, par la structure logico-déductive de son discours
et par la cohérence interne de ses parties. Bref, ce sont les
contemporains de Mommsen, et Mommsen au premier chef, qui, vers le moment
où se constitue l'état bismarckien, récusent cette
marginalisation du droit public, revendiquent pour lui sa place à
l'intérieur du savoir juridique, le constituent dogmatiquement sur
la base même des définitions qui avaient d'abord servi
à l'en exclure».
Più
in generale, sul ruolo del Mommsen nella storia giuridica e politica
contemporanea vedi A. Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert,
Kiel 1956; A. Wucher, Theodor Mommsen. Geschichtsschreibung und
Politik, Göttingen 1956; G.
Liberati, Mommsen e il diritto
romano, in Materiali per una storia
della cultura giuridica 6, 1976, pp. 215 ss.
[8]
Si tratta di due "tesi'' giovanili, una in latino - come usava allora il
costume accademico delle Università tedesche - e l'altra in tedesco: De collegiis et sodaliciis Romanorum,
Kiel 1843; Die römische Tribus in
administrativer Beziehung, Altona 1844.
[10] Sul punto vedi Y.
Thomas, Mommsen et
l'«Isolierung» du droit, cit., p. 2: «Dès son
livre sur les tribus ( Die römischen Tribus in administrativer Beziehung
), il déplorait l'absence d'instruments de travail: "seule ma
convinction, écrivait-il, que l'état romain ne peut
s'éclairer qu'à la lumière de la jurisprudence romaine, me
retient de passer entièrement à une autre discipline''».
[11]
C. Nicolet, Avant-propos, alla ristampa di Th.
Mommsen, Droit public romain, I, cit., p. V: «on ne peut comprendre le
Römische Staatsrecht que par
rapport à une triple tradition qu'éblouis par l'éclat de
Mommsen nous oublions trop souvent: d'une part les historiens des institutions
de Rome, d'autre part les pandectistes (théoriciens, plus qu'historiens,
de son droit privé), enfin les théoriciens du Staatslehre, ou
Science Politique. Dès lors le Römische
Staatsrecht doit cesser d'être seulement l'instrument d'une histoire
(celle de Rome ), pour devenir à son tour objet d'histoire: un monument
de la pensée allemande, de la philosophie de l'État,
exprimée indirectement dans une réflexion qui s'applique à
Rome».
[12]
Questo fatto fu subito percepito da gran parte della dottrina, anche fuori
dalla Germania, immediatamente dopo la pubblicazione dei due tomi del primo
volume, sulla teoria generale della magistratura e sulle singole magistrature.
In
Italia, avvertì prima di altri l'importante innovazione metodologica E. De Ruggiero, Studi sul diritto pubblico romano da Niebuhr a Mommsen, Firenze
1875, pp. 133 ss.; per questo studioso la concettualizzazione del Mommsen non
era che la controparte di una «trattazione scientifica dei poteri e delle
funzioni dello Stato», che esclude del tutto la descrizione delle
istituzioni e l'esposizione della loro evoluzione: l'una, perché ha per
oggetto dei fatti positivi, dei fenomeni, mentre il Mommsen indaga sulle
categorie di pensiero giuridico che si realizzano nelle istituzioni; l'altra,
perché dietro le trasformazioni che interessano le singole parti della
costituzione permane integra una struttura concettuale e normativa, dove resta
immutata la relazione di ciascun elemento con il tutto. Al rapporto tra De
Ruggiero e Mommsen e all'influenza del Maestro tedesco sulla formazione e sulle
ricerche dell'allievo italiano, dedica alcune stimolanti pagine S. Mazzarino, Storia e diritto nello studio delle società classiche, in La storia del diritto nel quadro delle
scienze storiche. Atti del primo congresso internazionale della Società
italiana di storia del diritto, Firenze 1966, pp. 39 ss.
Anche
la cultura romanistica francese fu subito influenzata dalla sistematica
mommseniana: vedi, ad esempio, J. R.
Mispoulet, Les institutions
politiques des Romains, 2 voll., Paris 1882-1883, in quale appena alcuni
anni dopo la comparsa del "Römisches Staatsrecht'' testimonia
nell'introduzione il convincimento che l'opera abbia reso superata in maniera
irreversibile la dottrina precedente: «Le Droit public de Mommsen est
conçu sur un plan absolument nouveau. C'est un véritable exposé des principes de
la constitution romaine. Le savant auteur a appliqué à cette
matière la méthode familière aux juristes: il a
degagé des faits connus, la loi qui les régit. [...] Le Droit
public de Mommsen peut, à notre avis, servir de point de départ
à toute étude nouvelle sur cette matière; il rend
presque complétement inutile la lecture des auteurs qui l'ont
précédé» (Op.
cit., I, pp. IV-V). Per l'influenza mommseniana sulla scienza romanistica
francese, rinvio a J. Gaudemet, Tendences et méthodes en droit romain,
in Revue philosophique, 1955, pp. 147
ss.; A. Fernández-Barreiro,
Los estudios de derecho romano en Francia
después del código de Napoleón, Roma-Madrid 1970, p.
75.
[13] Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., «Vorwort zur ersten Auflage», pp. VII s.;
si tratta invero di un totale rovesciamento della prospettiva del Becker,
eliminando principalmente la storicizzazione delle istituzioni: «Bei der
Anordnung des Stoffes bin ich davon ausgegangen, dass, wie für die
Geschichte die Zeitfolge, so für das Staatsrecht die sachliche
Zusammengehörigkeit die Darstellung bedingt und habe darum verzichtet auf
das nothwendig vergebliche und nur die Orientierung erschwerende Bestreben in
einer Darstellung dieser Art die geschichtliche Entwicklung in ihrem Verlauf
zur Anschauung zu bringen. Man wird hier also die übliche Eintheilung in
Königs-, republikanische und Kaiserzeit nicht» (= Droit public romain, I, cit.,
«Préface de la première édition», p. XXII).
Precisazione ancora più netta nel
«Vorwort» dettato per l' Abriss
des römischen Staatsrechts, Leipzig 1893, dove si sostiene che la
storia non è compatibile col sistema in quanto irrazionale: «Die
einzelnen Institute sind historisch entstanden, also irrationell; man muss ein
jedes sowohl in seiner Selbständigkeit zusammenfassen wie auch nach seinen
oft sehr mannigfaltigen politischen Functionen auseinanderlegen» (= Disegno del diritto pubblico romano,
trad. it. di P. Bonfante, 2ª ed. a cura di V. Arangio-Ruiz, Milano 1943,
rist. an. 1970, p. 22).
[14] Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., «Vorwort zur ersten Auflage», p. VIII:
«Jede Institution in sich abgeschlossen finden, wie dies seit langem in
den Handbüchern des Privatrechts hergebraucht ist» (= Droit public romain, I, cit.,
«Préface de la première édition», p. XXII).
In proposito vedi W.
Kunkel, Berichte über neuere
Arbeiten zur römischen Verfassungsrecht (1955), ora in Id., Kleine Scriften, Weimar 1974, p. 442; J. Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in römischen Republik, Berlin-New York 1975, p. 36; più ampiamente G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di diritto
pubblico» nel XIX secolo, in Index
7, 1977 (ma 1979), pp. 65 ss.; cfr. infine quanto scrive Y. Thomas, Mommsen et l'«Isolierung» du droit, cit., p. 11:
«Ce n'est pas le lieu de nous demander si une telle vision de la
cité est ou non préférable à celle des juristes du
XIXe siècle, postulant au contraire la valeur absolue de l'opposition
entre la société civile et l'État. Mommsen appartient en
ce sens au pandectisme, non seulement parce qu'il en est
méthodologiquement tributaire, mais parce que surtout l'autonomie du
droit public supposait que fût hypostasiée d'abord l'autonomie du
droit privé, qui devait lui servir de modèle: on reviendra plus
loin ser ce rapport dialectique qui noue en un mouvement d'opposition puis
d'imitation les deux branches de la science du droit au XIXe
siècle».
[15]
Invero, le critiche arrivarono quasi subito da diversi settori della stessa
cultura antichistica tedesca: così, se il filologo J. Bernays, Behandlung des römischen Staatsrechtes bis auf Theodor Mommsen,
in Deutsche Rundschau 2, 1875, pp. 54
ss., lamentava l'eccessivo peso dell'astrazione, di quella che chiamava
«Metaphysik des Staatsrechtes»; L.
Lange, Römische
Alterthümer, I, 3ª ed., Berlin 1876, p. 6, difendeva ancora la
concezione tradizionale della «Verfassungsgeschichte», denunciando
il dogmatismo del Römisches
Staatsrecht mommseniano come una intollerabile forzatura; J. N. Madvig, autore di un poderoso
trattato dal titolo già di per sè significativo (Die Verfassung und Verwaltung des
römischen Staates, 2 voll., Leipzig 1881-1882), criticava varie parti
della costruzione mommseniana, rifiutandone in particolare la teoria generale
della magistratura; mentre E. Herzog,
Geschichte und System der römischer
Staatsverfassung, 2 voll., Leipzig 1884-1891 (rist. 1965), I, pp. 38 ss.,
metteva in discussione la stessa nozione mommseniana di
«Rechtssystem»: questo studioso, non solo rifiutava l'ordine
sistematico dello Römisches
Staatsrecht, ma rivalutava in maniera originale il ruolo del tribunato
della plebe (Op. cit., I, 2, pp. 1135
ss.; su questo aspetto, vedi G. Lobrano,
Fondamento e natura del potere tribunizio
nella storiografia giuridica contemporanea, in Index 3, 1972, pp. 242 s.; Id.,
Il potere dei tribuni della plebe,
Milano 1982, pp. 27 ss.).
[16]
La frase è di G. Lobrano, Note su «diritto romano» e
«scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo, cit., p. 66; al
quale rimando anche per quanto riguarda le reazioni ostili all'opera mommseniana,
in particolare nella dottrina italiana dell'Ottocento (p. 70): critiche che
investono da una parte l'ordine sistematico, dall'altra la preminenza della
magistratura nel sistema. Sempre del Lobrano, vedi anche Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1990,
in part. pp. 81 ss. («'Romani' e 'germani' tra storia e sistema: problemi
di metodo, ovvero la questione del Diritto romano»).
[17]
Per una serrata critica all'interpretazione "statualista'' del sistema
giuridico-religioso romano operata dal Mommsen, vedi P. Catalano, Populus
Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 41 ss. (con ampia analisi [pp. 52 ss.]
dei motivi di opposizione nei confronti della «Staatslehre»
mommseniana, presenti nella coeva cultura giuspublicistica italiana); Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di G. Grosso, VI,
Torino 1974, pp. 273 ss.; ma anche J.
Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik, cit., pp. 16 ss. («Kritik
der Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»); e G. Lobrano, Il potere
dei tribuni della plebe, cit., pp. 6 ss.
[18]
Sull'opportunità di utilizzare l'espressione «sistema
giuridico-religioso», in luogo di «ordinamento giuridico», si
vedano le motivazioni di P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano,
Torino 1965, pp. 30 ss., in part. 37 n. 75; Aspetti
del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium,
Italia, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt, II. 16, 1, Berlin-New York 1978, pp. 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57.
Il
concetto di «ordinamento giuridico» viene riproposto negli
ultimi scritti di R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna
1981, pp. 395 ss.; Introduzione allo
studio del diritto romano, cit., pp. 348 ss.; mentre sulla «nozione
di ordinamento giuridico e sua applicabilità all'esperienza
romana», insiste ancora P. Cerami,
Potere e ordinamento nell'esperienza
costituzionale romana, 2ª ed., Torino 1967, pp. 10 ss.
Si
sofferma piuttosto sulla parte aggettivale dell'espressione «sistema
giuridico-religioso», da ultimo, G.
Lombardi, Persecuzioni,
laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla
"Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s., al quale non sembra,
tuttavia, del tutto adeguata per rappresentare «l'ordinamento di
Roma», caratterizzato da «una costante commistione tra quanto
più tardi si chiamerà "religioso'' e quanto più tardi
si chiamerà "giuridico''».
[19]
Nella premessa alla seconda edizione del I volume (Leipzig 1876), troviamo
ribadita una puntigliosa difesa di questo metodo: Th. Mommsen, «Vorwort zur
zweiten Auflage», Römisches
Staatsrecht, I, cit., p. XI: «Wenn der Staat ein organisches Ganze
ist, so müssen wir, um ihn zu begreifen, theils die Organe als solche in
ihrer Besonderheit, theils die aus dem Zusammenwirken mehrer Organe
hervorgehenden Functionen verstehen; und wenn das letztere durch die materiell
geordnete Darlegung geschieht, so ist das erstere die Aufgabe des Staatsrechts.
Es genügt nicht, dass uns der Prätor theils im Krieg commandierend,
theils im Civilprozess rechtsprechend, theils bei den Volksfesten spielgebend
begegnet; wir müssen das Amt als solches in seiner Einheit anschauen, um
sein Eingreifen in jede einzelne Function zu verstehen. Insbesondere die
Eigenthümlichkeit des römischen Gemeinwesens, das in den oberen
Sphären nicht ein einzelnes Organ für eine einzelne Function
entwickelt hat, sondern dessen Wesen es ist die höheren Behörden an
dem ganzen Staatswesen zu betheiligen, fordert diese Behandlung mit zwingender
Nothwendigkeit»(= Droit public
romain, I, cit., p. XXIII).
Cfr. J. Bleicken,
Lex publica. Gesetze und Recht in der
römischen Republik, cit., pp. 36 ss.; G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di diritto
pubblico» nel XIX secolo, cit., pp. 65 ss.
[20]
Il "Grundbegriff'' di Magistratura emerge fin dalle sommarie
esemplificazioni di metodo fornite nel «Vorwort» alla prima
edizione: Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., pp. VIII s.: «Dass der allgemeinen Lehre von
der Magistratur eine weit größere Ausdehnung gegeben worden ist als
sie bei Becker und sonst einnimmt und dass hier vieles vorgetragen wird,
welches in den bisherigen Darstellung sich entweder gar nicht oder
zerstückelt findet, wird sich hoffentlich im Gebrauch als
zweckmäßig erweisen. Wie in der Behandlung des Privatrecht der
rationelle Fortschritt sich darin darstellt, dass neben und vor den einzelnen
Rechtsverhältnissen die Grundbegriffe systematische Darstellung gefunden
haben, so wird aus das Staatsrecht sich erst dann einigermaßen
ebenbürtig neben das - jetzt allerdings in der Forschung und der Darlegung
ihm eben so weit wie in der Ueberlieferung voranstehende - Privatrecht stellen
dürfen, wenn, wie dort der Begriff der Obligation als primärer steht
über Kauf und Miethe, sie hier Consulat und Dictatur erwogen werden als
Modificationen des Grundbegriffs der Magistratur. Beispielsweise führe ich
die Lehre von der Cooperation und dem Turnus bei den Amtshandlungen und die von
Intercession an; eine klare Darstellung der ersteren lässt sich
unmöglich geben, wenn die einzelnen Notizen bei den verschiedenen
Magistraturen untergebracht werden, und die übliche Abhandlung der
Intercession bei der tribunicischen Gewalt giebt sogar ein durchaus schiefes
Bild» (= Droit public romain,
I, cit., p. XXIII).
[21] Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., pp. 4 s.; la frase si legge in un contesto, che
mostra come il Mommsen per delineare «die allgemeine Lehre von der
Magistratur» debba sacrificare all'astrazione la "concretezza
storica'' dei magistrati nel sistema giuridico-religioso romano: «Diese
knüpfen vielmehr, ausgehend von den Grundeintheilung des Gemeinwesens in
die Beziehungen zu den Göttern und die Verhältnisse der Menschen, wie
für jene an die Priesterthümer, so für diese an die Aemter in
der Weise an, dass eine zusammenfassende Behandlung der Magistraturen nur
ausnahmsweise stattfindet, im Ganzen vielmehr diese Litteratur hervorgeht aus
Instructionen, welche für die einzelnen Magistraturen und ähnlich
für die nicht magistratische Verwaltung öffentlicher Geschäfte
bestimmt waren» (= Droit public
romain, I, cit., pp. 2 s.).
[23]
Significativo, al riguardo, quanto scriveva nel suo manuale S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, Roma 1928, p. 4: «Il nome
di diritto romano indica [...] per antonomasia il diritto privato romano e non
comprende il publico. Ciò pure dipende da ragioni storiche, dal fatto
cioè che la codificazione giustinianea nella parte prevalente e di
maggior pregio è una codificazione del diritto privato e quasi
esclusivamente questa sola parte ebbe nei paesi e dal tempo accennati valore di
legge e trattazione scientifica»; ma, contro tale tendenza, vedi le
forti obiezioni di F. Stella Maranca,
Il diritto pubblico romano nella storia
delle istituzioni e delle dottrine politiche, Id., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, pp. 86 ss.
[24]
Intendo riferirmi alla nota tesi dell’«Isolierung» formulata
da F. Schulz, I principii del diritto romano, trad.
it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, p. 23: «Ancora più
importante era la separazione del diritto pubblico ( ius publicum) dal privato (ius
privatum)».
[25]
In tal senso, già Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., pp. 3 s., fra le ragioni che deponevano a favore
della sua scelta di trattare in primo luogo la magistratura, annoverava anche
la «Behandlung des römischen Staatsrechts bei den
Römern», scrivendo quanto segue: «Für unseren Zweck aber
kommt vor allem noch in Betracht, dass die römischen Juristen zwar den
Begriff des Staatsrechts unter der Bezeichnung ius publicum gekannt, aber ihrer wissenschaftlichen Darstellungen
nicht als solchen zu Grunde gelegt haben» (= Droit public romain, I, cit., pp. 1 s.).
[26]
Da ciò la conseguente irriducibilità del sacerdozio romano al
quadro sistematico dello «Staatsrecht»: cfr. le difficoltà
di classificare alcuni poteri sacerdotali da parte di Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, 2, 3ª ed., Leipzig 1887, pp. 18 ss. (= Droit public romain, III, cit., pp. 20
ss.).
[27] Cfr. A. Pernice,
Zum römischen Sacralrechte. I,
in Sitzungsberichte der Akademie der
Wissenschaften zu Berlin 51, 1885, p. 1443: «Der Rechtsverkehr mit
den Göttern bewegt sich ausschließlich in den Formen des
Sacralrechts; des Privatrechtes ist die Gottheit schlechthin untheilhaft: es
kann ihr nicht Stipulationsweise versprochen (promittirt) und sonst keine
Privatobligation ihr gegenüber ingegangen werden; es wird ihr nicht in
iure cediert, mancipirt, tradirt; sie kann nicht zum Erben eingesetzt und es
kann ihr kein Vermächtnis hinterlassen werden. Zum Ausfüllung dieser
Lücke giebt es Sacralrechtsgeschäfte, durch welche ähnliche
Wirkungen wie durch die privatrechtlichen erreicht werden können».
[28]
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, 2 voll., Lipsiae 1889. Di recente,
nella prestigiosa collana "Antiqua'', diretta da L. Labruna, sono stati
ripubblicati in due volumi gli scritti del grande romanista tedesco: O. Lenel, Gesammelte Schriften, herausgegeben und eingeleitet von Okko
Behrends und Federico D'Ippolito, Napoli 1990; con due importanti saggi dei
curatori (O. Behrends, Otto Lenel [13.12.1849 - 7.2.1935]. Positivismus im nationalen Rechtsstaat als Haltung und Methode. Zur
Herausgabe seiner gesammelten Schriften, pp. XIII ss.; F. D'Ippolito, Otto
Lenel e la giurisprudenza romana, pp. XXXV ss.).
Per
il profilo biografico e scientifico, nonché per la valutazione del suo
contributo alla scienza giuridica contemporanea, oltre i saggi appena citati,
vedi fra gli altri: E. Al(bertario),
Otto Lenel, in Enciclopedia Italiana 20, rist. 1933, col. 836; F.
Pringsheim, In memoriam, in Studia et documenta historiae et iuris
1, 1935, pp. 466 ss.; M. Wlassak,
Erinnerungen an Otto Lenel, in Almanach der Akademie der Wissenschaften in
Wien 85, 1935 (ma 1936), pp. 309 ss.; E.
Bund, Otto Lenel, in J. Vincke, Freiburger Professoren des 19. und 20. Jahrhunderts, Freiburg 1957,
pp. 77 ss. (ivi altra letteratura biografica); brevemente anche F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, cit., p. 108.
[29]
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, cit., I, Praefatio, § I. Non è certo senza significato, che in
merito all'adozione del termine palingenesia
quale titolo della raccolta, quasi certamente ispirato dall'opera di C. F. Hommel (Hommelii, Palingenesia
librorum iuris veterum, sive Pandectarum loca integra ad modum indicis Labitti
et Wielingii oculis exposita et ab exemplari Florentini Taurelli accuratissime
descripta, 3 voll., Lipsiae 1767-1768), il Lenel ricordasse di aver dovuto
superare anche le forti obiezioni espressegli dal Mommsen, il quale forse in
tale titolo vedeva un proposito quasi impossibile da mantenere: cfr. O. Behrends, Otto Lenel, cit. in n. precedente, p. XIX n. 26.
[30]
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., Praefatio, § II: «Singulos scriptores, ratione habita
non ubique gentis nominis, sed quo designari solent, secundum litterarum
ordinem disposui. Ita ex. gr. Caelius Sabinus sub littera C, Masurius Sabinus
sub littera S invenientur. Qui ordo, praeterquam quod ad usum maiorem
commoditatem praebet, minoribus difficultatibus obnoxius est quam secundum
tempora dispositio, quippe cum non semper satis certo definire possit quo
quisque saeculo vixerit. In fine totius operis duplex additur index, alter alphabeticus, alter
chronologicus».
Sui
criteri adottati dal Lenel per ordinare i materiali dei singoli giureconsulti,
vedi la valutazione, stringata ma efficace, di L. Wenger, Die Quellen
des römischen Rechts, Wien 1953, p. 876 e n. 214.
[31]
O. Lenel, Palingensia iuris civilis, I, cit., Praefatio, § III: «Singulorum librorum fragmenta ita
disponere conatus sum, ut inde ratio et conexus totius operis e quo desumpta
sunt perspiceretur. Quod ubi fieri non potuit, hunc ordinem secutus sum, ut
primum ponerentur e digestis fragmenta, deinde quae in ceteris de iure libris
inveniuntur, ultimo vero loco quae alibi tradita sunt, insertis tamen inter
digestorum fragmenta iis quae similis argumenti videbantur. Caute autem in illa
restitutione procedendum esse censui et ita ut artis nesciendi numquam immemor
essem. De varia ratione rerum disponendarum, qua iuris auctores usi sint, suo
quoque loco diximus neque hic accuratius inquiremus. Singula singulorum
librorum capita, ubi fieri potuit, rubricis distinxi».
[32]
Da notare che tale rigore risulta, ancora oggi, condiviso almeno in parte da
settori non trascurabili della scienza romanistica: cfr., ad esempio, F. Bona, Cicerone e i "libri iuris civilis'' di Quinto Mucio Scevola,
in Questioni di Giurisprudenza
tardo-repubblicana. Atti di un Seminario - Firenze 27-28 maggio 1983, a
cura di G. G. Archi, Milano 1985, pp. 244-246: «Non si loderà mai
abbastanza la prudenza del Lenel. Ed a giustificarla basterebbe rifarsi alla
circostanza che di pari passo con il processo di laicizzazione della
giurisprudenza, alla produzione giuridico-letteraria di ius civile che andò infittendosi nel corso del 2° e
1° sec. a. Cr., si affiancò una autonoma produzione letteraria di Ius pontificium, che, se in un primo
tempo sembra sia stata esclusiva opera di appartenenti al collegio pontificale,
venne espressa, a partire, almeno, dalla metà del 1° sec. a. Cr.,
anche da giuristi non pontefici». Tuttavia, non sfugge allo studioso
l’esigenza di temperare la rigidità del metodo leneliano, quando
avverte in maniera assai acuta il bisogno «di esprimere qualche
riflessione che, se non vuole mettere in discussione la bontà in
sé del criterio di esclusione leneliano, metta in guardia dal pericolo
di precluderci, col suo impiego acritico, una più compiuta conoscenza
delle opere giurisprudenziali del 2° e 1° sec. a. Cr.».
[33] O.
Behrends, Otto Lenel,
cit., p. XIX, sottolinea, a proposito della Palingenesia,
la acribia ricostruttiva e la «methodische Strenge» del giurista:
«Und auch die Palingenesie verdeutlicht, indem sie für die
historisch arbeitende Romanistik den Vorrang der klassischen Juristenschrift
gegenüber den Digesten klarstellt und mit methodischer Strenge in den
Digestenfragmenten eine Fülle von justinianischen Glättungen und
Interpolationen nachweist, mit großem Nachdruck den Abstand zwischen dem
römischen und dem geltenden Recht».
[34]
Digesta Iustiniani Augusti. Recognovit
adsumto in operis societatem Paulo Kruegero Th. Mommsen, 2 voll., Berolini
1868-1870. Quanto alla profonda influenza di «quel monumentale lavoro di
edizione di fonti» del Mommsen nella scienza romanistica attuale, vedi le
rapide notazioni di F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II,
cit., pp. 106 s.; cfr. anche Y. Thomas,
Mommsen et l'«Isolierung» du
droit, cit., pp. 3 ss.
[35]
Sui frammenti giuridici presenti nell'opera di Festo, disponiamo, ora, dei
lavori veramente fondamentali di F. Bona:
Contributo allo studio della composizione
del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964; Opusculum Festinum, Ticini 1982.
[36]
Sulla reale portata del pensiero del Lenel, riguardo alla «misera
condicio» delle edizioni del testo festino, vedi la riflessione di F. Bona, Cicerone e i "libri iuris civilis'' di Quinto Mucio Scevola,
cit., p. 244 n. 109 («Non so se – con riguardo a Festo –, la
"misera condicio'' lamentata, attraverso cui i frammenti sono stati
tramandati si debba intendere esclusivamente con riguardo allo stato, veramente
miserevole in cui versa, la tradizione testuale dell'epitome, o se possa
riferirsi anche alle difficoltà di una sua lettura critica. Una domanda
forse destinata a rimanere senza risposta è se Lenel [...] abbia potuto
o, pur potendolo, non abbia voluto tener conto delle Verrianische Forschungen di R. Reitzenstein, che sono del 1887 e
che hanno aperto la strada all'esame stratigrafico delle glosse delle
"seconde'' parti delle singole lettere, in cui si articola l'epitome
festina e che non avrebbe mancato di suggerire o qualche maggiore cautela
nell'ordine di idee perseguito dal Lenel o, viceversa, qualche maggiore fiducia
nell'allargare la scelta anche fuori dell'opera festina»); a cui
aderisce, nella sostanza, F. D'Ippolito,
Otto Lenel e la giurisprudenza romana,
cit., pp. XLIII s.: «Vorrei qui attirare l'attenzione sulla scelta
dell'esclusione di Festo, Bisogna, infatti, considerare che, quando la Palingenesia vide la luce, l'edizione
più attendibile dell'epitome festina era quella di Karl Otfried
Müller, la cui edizione è del 1839. [...] E forse ragionevole
pensare che Lenel considerasse l'edizione di Müller poco affidabile.
Né, del resto, appare immotivata la diffidenza di Lenel sulla tradizione
letteraria dei giuristi, esterna, per così dire alla Compilazione, se
pensiamo alla non grande diffusione delle edizioni critiche».
[37]
Contro questo atteggiamento, e contro altre e diverse motivazioni, tutte
comunque volte a negare la rilevanza dello ius
publicum per la scienza romanistica, vedi le penetranti critiche di R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, cit., pp. 532 ss.; il
grande studioso ribadisce ancora una volta in questo lavoro la ferma
convinzione che sarebbe «sommamente utile una Palingenesia iuris romani publici, in cui venissero raccolte tutte
le testimonianze e tutti gli squarci di autori giuridici e non giuridici
concernenti lo ius publicum»
(p. 533 n. 26).
Per
la critica alle posizioni del Lenel, vedi anche L. Raggi, Storia
esterna e storia interna del diritto nella letteratura romanistica, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano
62, 1959, pp. 199 ss. = Id., Scritti, Milano 1975, pp. 72 ss., il
quale evidenzia il persistere in esse della distinzione formulata dal Leibniz
tra storia esterna e storia interna del diritto: «Da sottolienare inoltre
come questa concezione leibniziana riecheggi la convinzione – a tutt'oggi
non ancora scomparsa – dell'estraneità dello jus publicum alla concezione romana dello jus» (p. 85; ivi anche n. 30).
[38]
Per questo atteggiamento del Lenel, sembra trovare una qualche giustificazioni F. D'Ippolito, Otto Lenel e la
giurisprudenza romana, cit., p. XLV, quando parla di un «suo
inevitabile ritrarsi di fronte alla sterminata platea della tradizione
“letteraria”' della giurisprudenza romana (ancora tutta da
indagare)».
[39]
A. Heimberger, Il diritto romano privato e puro, trad.
it. di C. Bosio, 3ª ed., Bellinzona 1851.
[40]
Cfr., ad esempio, quanto scriveva a proposito del Sigonio C. Bosio, Prefazione del Traduttore alla versione italiana del manuale di A. Heimberger, Il diritto romano privato e puro, cit., p. IX: «L'opera del
Sigonio, De antiquo jure populi romani,
ancorché utilissima anche al presente, più che del vero diritto romano, si occupa della
parte storica e archeologica del medesimo».
[41]
Mette conto notare, per quanto riguarda il titolo dell'opera, una evidente
contraddizione da parte del Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 10; lo studioso tedesco adotta la forma De verborum, quae ad ius civile pertinent significatione),
discostandosi, in tal modo, in tal modo, dalla tradizione dei Digesta (che pure segue rigidamente per
la scelta dei frammenti), dove nella inscriptio
a D. 50, 16, 157 (Aelius Gallus, libro
primo de verborum quae ad ius pertinent significatione: Paries est sive murus
sive maceria est. Item via est, sive semita sive iter est) non compare
l'aggettivo civile riferito a ius.
Il
titolo dell'opera, nella forma accolta dal giurista tedesco, è attestato
in Gellio, Noct. Att. 16, 5, 3 (C. Aelius Gallus in libro de significatione
verborum, quae ad ius civile pertinent, secundo ...; cfr. anche Macrobio, Sat. 6, 8, 16; Servio, Ad Georg. 1, 264), che però non
figura nella Palingenesia.
[43]
Tali sono, ad esempio,le seguenti glosse: Festo, v. Municeps, p. 126 L.; v. Necessari,
p. 158 L.; v. Nexum, p. 160 L.; v. Perfugam, p. 236 L.; v. Possessio, p. 260 L.; v. Postliminium, p. 244 L.; v. Reciperatio, p. 342 L.; v. Relegati, p. 348 L.; v. Religiosus, p. 287 L.; v. Reus, p. 336L.; v. Rogatio, p. 326 L.; v. Sacer
mons, p. 424 L.; v. Saltum, p.
392 L.; v. Senatus decretum, p. 454;
v. Sepulchrum, p. 456 L.; v. Sobrinus, p. 379 L.; v. Stirpem, p. 412 L.
Su
questi passi, oltre alla bibliografia citata infra in n. seguente, vedi anche R.
Martini, Le definizioni dei
giuristi romani, Milano 1966, pp. 129 ss.
[44]
Sul giurista vedi, tra gli altri, E.
Klebs, Aelius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 1, 1, Stuttgart 1893, coll. 492 s.; H. Bardon, La littérature latine inconnue, I. L'époque
républicaine, Paris 1952, p. 302; II, 1956, p. 110; R. Orestano, Gallo C. Elio, in Novissimo
Digesto Italiano, VII, Torino 1961, p. 738; A. Guarino, Esegesi
delle fonti del diritto romano (a cura di L. Labruna), I, Napoli 1968, pp.
145 s.; F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad
ius civile pertinent, significatione'' di C. Elio Gallo, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano
90, 1990, pp. 119 ss.; G. Falcone,
Per una datazione del «de verborum
quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in Annali del Seminario Giuridico
dell'Università di Palermo 41, 1991, pp. 225 ss.
[45]
Il titolo dell'opera non è sicuro, essendo variamente citato nelle
fonti. In particolare non è per niente certo che in esso risultasse
esplicito il riferimento allo ius civile;
tuttavia la maggior parte della dottrina si orienta in tal senso: Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 10; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, p.
246; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae
1907, p. 545; Ph. E. Huschke - E. Seckel
- B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, 6ª ed., I, Lipsiae 1908, p. 37.
Cauto
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit., p. 119, parla di «titolo
usualmente tradito»; mentre propende per il titolo attestato nei Digesta e in alcune glosse festine G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit., p. 225 n. 2.
[47]
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit., pp. 119 ss.; G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit, pp. 225 ss.
[48]
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit, p. 126.
[49]
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit., 128 ss.
[50]
G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit., pp. 226 ss.
[51]
G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit., p. 260: in particolare si
è affrontato lo studio dei seguenti testi di Festo: v. Senatus decretum, p. 454 L.; v. Sacer mons, p. 424 L.; v. Possessio, p. 260 L.; v. Reus, p. 336 L.; v. Rogatio, p. 326 L.
[52]
Ho trascritto quasi letteralmente l'opinione espressa al riguardo da L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 23:
«Leggendo i frammenti di Elio Gallo si acquista subito la convinzione che
questo giureconsulto mirava a definire colla maggiore brevità il
concetto giuridico. E che l'opera di Elio Gallo dovesse proprio avere questo
carattere di definizioni lo dimostra il fatto che negli excerpta verriani ricorre la formula: "Aelius Gallus o Gallus
Aelius sic (ita) definit''. E – si badi – solo negli estratti
dell'opera di Elio Gallo usa Verrio Flacco il "sic definit''».
[53]
Allo stato, sembra prevalere in dottrina la tesi che Elio Gallo abbia seguito un
criterio di ripartizione per materia nella compilazione dell'opera. Formulata
da R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen, cit., p. 84 n.
2, tale tesi ha subito trovato convinte adesioni da parte di L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., p. 23; e di H. Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., p. 545; per una recente messa a punto
sulla questione, vedi F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad
ius civile pertinent, significatione'' di C. Elio Gallo, cit., pp. 126 ss.,
a cui rimando per la dottrina precedente.
[54] H. Bardon, La littérature latine
inconnue, I. L'époque républicaine, cit., p. 302: «Le
juriste y avait le pas sur le grammairien; l'auteur s'est occupé de
fixer le sens exact des termes du droit civil: l'étude du vocabulaire
n'est pour lui qu'un moyen. Cette précision va jusqu'au détail le
plus menu. Un évident mepris de la forme littéraire amène
Aelius à présenter de façon analogue les termes
étudiés: municeps est - qui,
ou necessari sunt – qui, ou nexum est – quodcumque. La lourdeur
de la phrase, encombrée de si,
de aut, de sine et de relatifs, a l'inélégance voulue de
nombreux textes juridiques latins: Aelius obéit, d'abord, à des
préoccupations de clarté; en outre, il n'est pas
fâché que sa prose porte le marque du style du droit».
[55]
Per la verità, sulla questione se debba qualificarsi o no giurista Elio
Gallo, l'atteggiamento di molti dei romanisti resta a tutt'oggi ancora incerto.
Ha pesato certamente il dubbio fortissimo espresso dal Lenel (vedi supra nel testo); così come ha
pesato l'opinione del Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit.,
p. 245 («grammaticus iuris non ignarus»), e di illustri maestri
quali P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, 4ª
ed., Roma 1934, cit. nell'ed. Milano 1958, p. 409, e R. Orestano, Gallo C.
Elio, cit., p. 738.
Ma
in altro senso, vedi P. Krüger,
Geschichte der Quellen und Litteratur des
römischen Rechts, Leipzig 1888, p. 69 (= Histoire des sources du droit romain, trad. franc., Paris 1894, p.
92); e con atteggiamento decisamente positivo, E. Klebs, Aelius Gallus,
cit., col. 492. Senza incertezze e con valide motivazioni, considera Elio Gallo
un giurista G. Falcone, Per una datazione del «de verborum
quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, cit., p. 226 n.
5.
[56]
Vissuto presumibilmente nell'ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, L. Cincius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 3, 2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.),
L. Cincio viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non
giurista: così P. Krüger,
Geschichte der Quellen und Litteratur des
römisches Rechts, cit., p. 69 n. 83 (= Histoire des sources de droit romain, cit., p. 92 n. 2); H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, 2ª ed., Stutgardiae 1914
(rist. an. 1967), p. CV; M. Schanz - C.
Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 (rist. 1966),
pp. 175 s.; F. Bona, Contributo allo studio del «de
verborum significatu» di Verrio Flacco, cit., p. 158; e da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, I, cit., p. 570; ma in altro senso
già L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani,
cit., p. 71; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit.,
p. 252; Huschke - Seckel - Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae, I,
cit., p. 24; e più di recente M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
Napoli 1971, pp. 17 s. (= 2ª ed., Napoli 1982, p. 16); S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, in La critica del
testo. Atti del secondo congresso internazionale della Società Italiana
di Storia del diritto, Firenze 1971, pp. 461 s.; V. Giuffrè, La
letteratura "de re militari''. Appunti per una storia degli ordinamenti
militari, Napoli 1974, pp. 38 ss.
[57]
I frammenti superstiti di tali opere sono raccolti in L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., pp. 71 ss.; Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., pp. 252 ss.; Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., pp. 371 ss.; Huschke - Seckel - Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae, I, cit., pp. 24 ss.
[58]
Cfr. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit, p. 16: «Sulla potestas
consulis, fra le altre potestetes,
si era soffermato il pensiero storico-giuridico dell'età dei Gracchi, o
immediatamente successivo [...] Egli (Cincio) si occupava anche, in un libro
apposito, dei comitia. Da una
brevissima citazione di Festo sul valore del termine patricii, l'unica testimonianza che disponiamo, non è
possibile farsi un'idea di quel libro. Il suo carattere antiquario
è scontato, ma non si deve neanche escludere l'intento di riannodare i
molti fili di una riflessione che, in stretto rapporto con la prassi politica,
si era più volte soffermata sui poteri dell'assemblea cittadini».
[59]
Nel testo di Cincio S. Mazzarino,
Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., p. 462, vede una
«dottrina che, per il suo carattere arcaico, è precisamente vicina
alla originaria concezione del patriciato»; quanto alla posizione
ideologica del nostro giurista, vale il seguito della citata pagina del
Mazzarino: «Evidentemente ci sono in Livio due concezioni: quella
volgata, che fa i plebei liberi come i patricii;
e l'altra, secondo la quale i patricii, ed essi soltanto, sarebbero stati, in origine,
gli ingenui. La seconda tradizione
è tipica del giurista L. Cincius; ma può avvicinarsi a quella di
Cicerone, che fa la plebe romulea in
clientelas principum discriptam».
[60]
Così sostengono M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., p. 16 («Un oggetto nuovo d'indagine, destinato a una notevole
fortuna nella giurisprudenza fra il II e il III secolo d.C., era invece
rappresentato dalla res militaris, a
cui si intitola un ampio scritto di Lucio Cincio») e V. Giuffrè, La letteratura "de re militari''. Appunti per una storia degli
ordinamenti militari, cit., p. 38 (anche per questo studioso «L. Cincius fu il primo giurista ad
introdurre come materia nuova d'indagine la res
militaris»).
[61]
Festo, v. Nuncupata pecunia, p.176
L.: Nuncupata pecunia est, ut ait Cincius
in lib. II de officio iurisconsulti, nominata, certa, nominibus propriis
pronuntiata: “cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita
ius esto”: id est uti nominarit, locutusve erit, ita ius esto. Vota nuncupata
dicuntur, quae consules, praetores, cum in provinciam proficiscuntur, faciunt:
ea in tabulas praesentibus multis referuntur.
[62]
Tali sono, ad esempio: Festo, v. Nuptias,
p. 174 L.; Festo, v. <Novalem
a>grum, p. 180 L.; Servio, Ad Aen.
4, 56 (Delubrum); Paolo, Fest. ep., v. Gentilis, p. 83 L.
Sul
carattere dell'opera, vedi le osservazione premesse dal Bremer alla raccolta dei relativi frammenti (Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit.,
p. 256: «Non de omnino priscis verbis, sed tantum de iis videtur
scripsisse, quae vel ad res publicas vel ad iurisconsultum pertinent. Certe
quae reliqua sunt, huius fere generis sunt»).