ds_gen Università di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-13

 

Francesco Sini

Sua cuique civitati religio – Cap. III

 

Aspetti giuridici e rituali della religione romana:

sacrifici, vittime e interpretazioni dei sacerdoti

 

 

Sommario: 1. «Morte per decreto»: legislazione imperiale de paganis sacrificiis in età tardo-antica. – 2. Pax deorum. – 3. Il sacrificio nella ‘religione’ pontificale: sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio. – 4. Vittime sacrificali tra teologia e diritto. – 5. Sacrifici umani. – 6. Interpretazioni sacerdotali in materia di sacrifici. A) Ver sacrum e iussum populi. – 7. B) Hostiae purae: il pontefice massimo Tiberio Coruncanio e la purezza rituale delle vittime sacrificali.

 

 

1.   «Morte per decreto»: legislazione imperiale de paganis sacrificiis in età tardo-antica

 

Ancora in età giustinianea, il legislatore imperiale riteneva necessario ribadire le sanzioni comminate dai predecessori per coloro i quali avessero violato il divieto di compiere pratiche cultuali legate alla religione politeista tradizionale. Nel primo libro del Codex, promulgato dall’imperatore Giustiniano «In nomine Domini nostri Ihesu Christi» nell’anno 534, possiamo leggere – raccolti nel titolo XI sotto la rubrica «de paganis sacrificiis et templis» – ben dieci

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frammenti di costituzioni imperiali che vietano, comminando severissime pene, soprattutto il compimento degli antichi riti sacrificali[1].

Si tratta, a ben vedere, di una attestazione autorevolissima, quanto involontaria, della sotterranea e tenace resistenza di sentimenti religiosi popolari, che avevano bisogno per esprimersi delle pratiche cultuali elaborate dall’antica religione politeista romana[2]. Eppure, nel tempo

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in cui l’imperatore Giustiniano procedeva alla codificazione dello ius Romanum[3], erano trascorsi quasi due secoli dalla morte di Costantino il Grande[4], alla cui opera legislativa

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l’imperatore Costanzo, in una sua costituzione del 341, attribuiva la prima normazione contraria ai sacrifici cruenti di animali[5]:

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CTh. 16.10.2: [Imp<p>. Constantius <et Constans A>A. ad Madalianum agentem vicem p(raefectorum) p(raetori)o] Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae mansuetudinis iussionem, ausus fuerit sacrificia celebrare, competens in eum vindicta et praesens sententia exeratur[6].

 

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Molti anni erano passati anche dal 380, anno della promulgazione dell’editto di Tessalonica, con il quale gli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio I avevano stabilito che tutti i popoli dell’impero dovessero aderire a quella religione «quam divinum Petrum apostolum tradisse Romanis»:

 

CTh. 16.1.2 = C. 1.1.1: [Imppp. Gratianus Valentinianus et Theodosius AAA. ad populum urbis Constantinopolitanae] Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum Alexandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et filii et spirictus sancti unam deitatem sub pari maiestate et sub pia trinitate credamus. Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitrio sumpserimus, ultione plectendos[7].

 

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Molti anni erano trascorsi, infine, da quel 8 novembre del 392, quando l’imperatore Teodosio, congiuntamente ai figli Arcadio e Onorio, aveva legiferato la proibizione di qualsiasi atto di culto (foss’anche privato) che si ispirasse all’antica religione del Popolo romano.

 

CTh. 16.10.12.1: [Imppp. Theodosius, Arcadius et Honorius AAA. Ad Rufinum p.p.] Nullus omnino, ex quolibet genere, ordine hominum dignitatum, vel in potestate positus, vel honore perfunctus, sive potens sorte nascendi seu humilis genere, conditione, fortuna: in nullo penitus loco, in nulla urbe, sensu carentibus simulacris, vel insontem victimam caedat; vel, secretiore piaculo, Larem ignem ero Genium, Penates nidore veneratus, accendat lumina, imponat tura, serta suspendat[8].

 

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Così, per volontà dell’imperatore Teodosio I[9], cessava (almeno ufficialmente) il culto degli dèi; ultima e definitiva prova dello strettissimo legame che la religione politeista romana aveva sempre conservato, nel corso della sua storia millenaria, con la politica della civitas romana e con

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la vita del Populus Romanus Quirites[10]. «Morte per decreto», sintetizza con un’espressione assai efficace il grande storico francese Jean Bayet: «Théodose a mis fin à l’ancienne religion romaine. Mort par décret. Nul geste n’offre plus clair symbole: italique, méditerranéenne, universelle, cette religion n’a cessé de se développer dans le cadre d’exigences politiques; là est la plus surprenante originalité de son évolution»[11].

 

2.   Pax deorum

 

I sacerdoti romani avevano teorizzato da sempre, o per meglio dire, fin dalle prime attestazioni della memoria storica e documentaria delle loro attività, l'esistenza di un legame indissolubile tra la vita del Popolo romano e la sua religio; conseguentemente avevano finalizzato quasi tutta l'attività cultuale della religione romana al conseguimento (e alla conservazione) della "pace con gli dèi"[12]: «La conception

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 – d'ordre philosophique – du monde romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi»[13].

Per la vita del Popolo Romano si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra gli uomini e le divinità[14], considerate anch’esse come

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una delle parti (certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che agli dèi si riconosceva) del sistema giuridico-religioso[15] romano; poiché, come ha scritto giustamente John Scheid: «La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats»[16].

Dagli dèi, immensamente potenti rispetto agli uomini, i Romani si aspettavano di ricevere pace e perdono[17]; senza

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tuttavia ignorare che le loro colpe potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali[18]. Emerge così la nozione di pax deorum, che secondo una suggestiva ipotesi avanzata da Marta Sordi potrebbe addirittura essere «all'origine del concetto romano di pax»[19]; per quanto, al riguardo, mi sembra di dover convenire con i rilievi formulati da Enrico Montanari: «In definitiva – scrive lo studioso – la principale obiezione che riteniamo di muovere all’interpretazione della Sordi, concerne il suo tentativo di

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dimostrare l’anteriorità genetica del concetto religioso di pax deorum rispetto al concetto giuridico-politico di pax. Ci sembra più opportuno parlare di concomitanza: sia perché si rischierebbe altrimenti di postulare una categoria a-priori di “religione”, anteriore e ben distinta rispetto a quella di “diritto”, cosa difficilmente proponibile per la Roma arcaica; sia perché, sovente, tanto le situazioni da espiare quanto gli operatori scelti per l’espiazione implicano non soltanto un prodigium, segno della deorum ira, ma anche un elevato grado di tensione politico-sociale; sia perché ogni pax giuridica avente pubblica rilevanza è comunque pronunciata sotto la tutela dei di testes foederis ed, anzitutto, di Giove»[20].

L’espressione pax deorum è attestata anche nella sua forma arcaica, pax divom o deum, da Plauto (sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse)[21], Lucrezio (non divom pacis votis adit, ac prece quaesit)[22], Virgilio (exorat pacem divom)[23] e Tito Livio (His avertendis terroribus in triduum

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feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur)[24].

Dal punto di vista umano, il «legalismo religioso» dei sacerdoti romani (l'espressione è di Pasquale Voci, per il quale «Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano a mantenere la pax deorum»)[25] configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli dèi. Ciò spiega, tra l'altro, l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica romana, erede diretta dell'attività "storiografica" del collegio dei pontefici[26], nel documentare fatti e avvenimenti

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suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i rimedi rituali posti in essere per espiare[27].

In questa prospettiva, può ben comprendersi anche il perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale («Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult, recognized four means (caerimoniae ) for securing and maintaining the pax deorum, the relation of kindliness between gods and men»)[28] e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema giuridico-religioso.

Oggetto, dunque, dello ius del Popolo romano (ius publicum), che non a caso si presenta, stando alla testimonianza del giurista Ulpiano, tripartito in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus:

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D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit[29].

 

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«Una suddivisione – ha scritto P. Catalano – propria della giurisprudenza repubblicana, tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»[30].

Come credo di aver dimostrato nel mio libro dedicato ai documenti sacerdotali[31], la partizione ulpianea (e ciceroniana[32]) dello ius publicum affonda le sue radici in elaborazioni sacerdotali di età precedente al pareggiamento dei due ordini (patres e plebs), o di età appena successiva;

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riflettendo una gerarchizzazione assai antica delle parti dello ius publicum: «Questa simiglianza rappresenta un fatto di notevole portata, in quanto consente di definire con precisione la matrice ideologica della concezione ciceroniana e ulpianea dello ius publicum. Essa trae le sue radici da una gerarchizzazione assai antica delle parti dello ius publicum, sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla elaborazione sacerdotale di età precedente al pareggiamento dei due ordini, o ad età immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi nel fatto che con l’avvento dei plebei alle magistrature, questi introdussero la consuetudine non solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma di anteporre gli honores ai sacerdotia (schema ancora conservato in Varrone, De ling. Lat. 5,80-86), che divenne tipica dell’età medio-repubblicana»[33].

Il conservatorismo rituale dei sacerdoti, unitamente alla configurazione ancora per lo più sacerdotale della giurisprudenza medio-repubblicana[34], ha consentito all'antica partizione dello ius publicum di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale del III e II secolo a. C.[35], fino ad essere poi riproposta in funzione politica nel I secolo.

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3.   Il sacrificio nella ‘religione’ pontificale: sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio

 

La centralità dei sacrifici di esseri animati (hostiae o victimae), per le pratiche cultuali dell’antica religione politeista romana (e dunque per la conservazione della pax deorum), risulta invero assai evidente in un notissimo testo liviano, relativo all’istituzione del sacerdozio pontificale da parte del re Numa Pompilio[36].

 

Tito Livio 1.20.5-7: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset, quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut

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idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur.

 

Riguardo al passo appena citato, mette conto sottolineare il fatto che nell’elenco delle materie di competenze dei pontefici, il cui ordine non può ritenersi certo casuale, proprio le hostiae vengano collocate al primo posto; precedendo rispettivamente dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Peraltro le potenzialità classificatorie e sistematiche insite nel testo liviano non sono sfuggite alla parte più avvertita della dottrina contemporanea, al cui interno coesistono però posizioni assai diversificate: alcuni studiosi hanno ritenuto determinante la tripartizione: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa (così, ad esempio, il grande storico francese Auguste Bouché-Leclercq[37]); altri, come lo storico della religione romana Nicola Turchi, propugnano una divisione della materia in cinque parti: controllo rituale, responsi sull'attività circa le cose sacre e pubbliche, controllo sul culto degli dèi patri e sull'accettazione dei culti stranieri, controllo sul diritto funerario, espiazione e neutralizzazione di fulmini e altri

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prodigi funesti[38]; altri ancora – è il caso del linguista Emilio Peruzzi – ritengono di poter individuare anche il contenuto, o almeno l’ordine di disposizione della materia, dei primitivi libri pontificum proprio sulla base del citato passo di Tito Livio, «da cui traspare che la copia consegnata al pontefice era divisa in sette capitoli»[39].

Bisogna ricordare, poi, che le ricerche del Peruzzi hanno dimostrato in maniera convincente la derivazione sacerdotale del testo liviano; in esso si sarebbero conservati elementi di autenticità assai risalenti, come la formula onomastica del pontifex: «Tutti i precisi particolari di Liu. 1.20.5-7 sul pontefice, che, ripeto – scrive lo studioso –, è l’ultimo dei sacerdoti elencati e tuttavia, unico fra tutti, è perfino rammentato con piena formula onomastica, denotano che la fonte prima da cui deriva la notizia dello storico patavino è un testo redatto dai pontefici: verosimilmente (poiché si tratta di una notizia storica, non di norme religiose o giuridiche), gli annales maximi»[40].

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Del resto, appare abbastanza credibile che la riforma religiosa di Numa Pompilio[41] abbia imposto l’esigenza di testi scritti, senza il cui ausilio doveva essere ormai quasi impossibile osservare la complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa regolamentazione dei sacrifici,

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testimoniate a proposito della religiosità di quell'epoca. Di alcune delle prescrizioni rituali pompiliane abbiamo notizia nella ‘vita di Numa’ di Plutarco[42]: esse riguardavano l’obbligo di sacrificare un numero dispari di vittime agli dèi celesti ed un numero pari a quelli inferi[43]; il divieto di libare agli dèi con vino[44]; il divieto di sacrificare

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senza farina[45]; la necessità di pregare e adorare la divinità compiendo un giro su sè stessi[46]; apprendiamo infine, da una testimonianza di Arnobio, che gli antichi attribuivano a Numa Pompilio la composizione degli

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indigitamenta[47], appellativi rituali delle divinità (nomina deorum et rationes ipsorum nominum)[48], raccolti in seguito dai sacerdoti in libris pontificalibus[49].

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Alla luce di quanto si è detto, nel passo di Tito Livio deve considerarsi particolarmente affidabile l’elenco, o per meglio dire l’ordine-gerarchia, delle materie di competenze dei pontefici (quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur), poiché esso ricalcava l’ordine degli antichissimi sacra

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omnia exscripta exsignataque istitutivi del sacerdozio pontificale[50], ritenuti dalla tradizione annalistica opera dello stesso Numa Pompilio. Infine, non va dimenticato che secondo la tradizione antiquaria (Varrone) questi libri Numae avevano costituito il nucleo primitivo dei libri pontifícum[51].

 

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4.   Vittime sacrificali tra teologia e diritto

 

Torniamo, ora, agli aspetti giuridici e rituali del sacrificio[52] e alla valenza teologica delle hostiae[53] nella religione politeista romana. Voglio subito precisare, che non è mio intendimento proporre qui di seguito una trattazione compiuta della materia: da un lato, non lo consentirebbe lo spazio concesso a questo contributo; dall’altro, bisogna pur convenire che sono validi ancora oggi molti pregevoli studi del passato (penso in particolare, ad opere come

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quelle di E. Lübbert[54], A. Bouché-Leclercq[55], C. Krause[56], C. Blecher[57]), mentre restano quasi insuperabili le sintesi manualistiche di J. Marquardt[58] e G. Wissowa[59].

Il sacrificio (sacra facere), nella sua accezione più generale, si presentava come un’azione rituale che permetteva alle diverse aggregazioni comunitarie romane[60] di stabilire, per mezzo della vittima immolata, forme di comunicazione

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con le divinità destinatarie del sacrificio[61]; si può ben dire, usando le parole di Ileana Chirassi, che il sacrificio era sentito dalla religiosità romana principalmente come «modalità di scambio tra due posizioni, due dati che si fronteggiano dialetticamente e dei quali uno viene a trovarsi in posizione mancante, quindi bisognoso d’integra-zione»[62].

A proposito delle forme di religiosità romana, sarà bene ricordare che il vocabolo cultus è un derivato del verbo colere, utilizzato indifferentemente in riferimento alla terra, agli uomini, agli dèi; questo significa che anche i rapporti con le divinità, per produrre i frutti desiderati, necessitavano di assidue cure e di particolari attenzioni. L’uomo doveva impegnarsi in una incessante attività cultuale, poiché solo così poteva sperare di ricevere benefici sempre maggiori dall’immenso potere degli dèi; tuttavia,

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come spiega con la consueta acutezza Robert Turcan, nella concezione romana dei rapporti tra l’umano e il divino le azioni cultuali degli uomini (con particolare riguardo al sacrificio) erano reputate indispensabili per la stessa esistenza degli dèi: «Il faut les faire agir, comme on fait valoir la Terre Mère. Mais les dieux ont aussi besoin des hommes. Varron déclarait craindre de les voir périr civium neglegentia, victimes de la négligence cultuelle des citoyens… Pour profiter de leur puissance, les Romains doivent entretenir celle-ci par les sacrifices qui sont censés revigorer les dieux»[63].

Teologia e ius divinum mostravano nei confronti del sacrificio un atteggiamento bivalente: i sacerdoti romani, da un lato, ritenevano che le azioni sacrificali costituissero i riti più idonei per attrarre la benevolenza divina sulle vicende umane, volgendo in tal modo a beneficio degli uomini l’immensa potenza degli dèi; d’altro lato, consideravano i sacrifici indispensabili per la sopravvivenza delle stesse divinità, le quali diventavano tanto più potenti, quanto più numerose erano le vittime immolate sui loro altari[64]. Di questa concezione romana del sacrificio, costituisce una prova incontrovertibile l’uso linguistico corrente

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del verbo mactare: come insegnano i linguisti[65], tale verbo, dal significato originario di «accrescere», «fare più grande» (deriva infatti dalla stessa radice di magis), ha finito per acquisire il senso prevalente di «sacrificare», «immolare»:

 

Servio, in Verg. Aen. 4.57: mactant verbum sacrorum, kat'eÙfhmismÒn dictum, ut adolere; nam ‘mactare’ proprie est ‘magis augere’[66].

 

Nell’azione rituale del sacrificio, percepito come vero e proprio nutrimento degli dèi[67], si perfeziona in tutta la

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sua dimensione bilaterale il rapporto di reciprocità insito nella concezione romana di religio[68]. Certamente, aveva ben presente questa concezione della religio M. Tullio Cicerone, quando scriveva nel de legibus che gli dèi e gli uomini appartengono alla medesima societas, alla medesima civitas[69] e che la loro associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus[70].

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La sapienza teologica e giuridica dei sacerdoti romani aveva operato ab antiquo partizioni fondamentali in materia di sacrifici:

 

Cicerone, De leg. 2.29: Quod ad tempus ut sacrificiorum libamenta serventur fetusque pecorum quae dicta in lege sunt, diligenter habenda ratio intercalandi est, quod institutum perite a Numa, posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est. Iam illud ex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est, quibus hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui feminis[71].

 

Essi potevano consistere in offerte incruente di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti di esseri animati (hostiae, victimae). Quanto al risultato che si voleva

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conseguire, la pratica dei sacrifici cruenti erano ritenuta di gran lunga superiore alla semplice offerta di libamina, in ragione del radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali, versato nell’azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai defunti):

 

Servio Dan., in Verg. Aen. 3.67: Ideo autem lactis et sanguinis mentio facta est, qui adfirmantur animae latcte et sanguine delectari. Varro quoque dicit mulieres in exsequiis et luctu ideo solitas ora lacerare, ut sanguine ostenso inferis satisfaciant, quare etiam institutum est, ut apud sepulcra et victimae caedantur. Apud veteres etiam homines interficiebantur, sed mortuo Iunio Bruto cum multae gentes ad eius funus captivos misissent, nepos illius eos qui missi erant inter se composuit, et sic pugnaverunt: et quod muneri missi erant, inde munus appellatum[72].

 

Nello stesso tempo, al fine di assicurare ai fedeli la piena conoscenza delle modalità di celebrazione dei sacrifici, i sacerdoti romani fissarono con estrema precisione sia le regole rituali, sia le tipologie degli animali sacrificabili alle diverse divinità; in tal modo, diventava possibile per i cittadini vincere ogni scrupolo religioso e associare a ciascun dio la vittima più idonea:

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Servio, in Verg. Georg. 2.380: Victimae numinibus aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur: per similitudinem, ut nigrum pecus Plutoni; per contrarietatem, ut porca, quae obest frugibus, Cereri, ut caper, qui obest vitibus, Libero, item capra Aesculapio, qui est deus salutis, cum capra numquam sine febre sit[73].

 

Si andarono elaborando classificazioni sempre più rigorose delle vittime sacrificali, pur nella generale tendenza alla semplificazione dei genera hostiarum. Sul finire dell’età repubblicana, il grande giurista C. Trebazio Testa[74], autore

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di un’opera intitolata de religionibus, aveva teorizzato che tali genera potessero ridursi sostanzialmente a due:

 

Macrobio, Sat. 3.5.1: Cum enim Trebatius libro primo de Religionibus doceat hostiarum genera esse duo, unum in quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur, unde etiam haruspices animales has hostias vocant[75].

 

Questo frammento è stato riesaminato di recente da Mario Talamanca[76], per il quale la distinzione delle hostiae in duo genera «non si riporterebbe tanto al ius sacrum ed all’elaborazione pontificale dello stesso quanto all’haruspicina, l’Etrusca disciplina che avrebbe per l’appunto conosciuto queste due diverse specie di hostiae»; col quale mostra di concordare, nella sostanza, anche Maurizio d’Orta[77]. Al riguardo,

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tuttavia, mi pare più condivisibile la posizione assunta da Roberto Fiori nella sua recentissima monografia dedicata all’homo sacer: a suo avviso, infatti, non si può dubitare che nel frammento citato il giurista riferisse «correttamente una dottrina di diritto pontificale […] verosimilmente piuttosto arcaica, visto che nei duo genera (che nel passo sembrano esaurire i tipi di sacrificio) non è ricompreso l’holocaustum, di derivazione greca»[78].

Venne così ad operarsi una distinzione sempre più marcata tra hostiae e victimae, che però risultava ormai lontana dalle motivazioni teologiche e giuridiche (ricordate ancora in età tardo antica dal grammatico Servio), per quanto proprio queste motivazioni costituissero il fondamento di tale distinzione:

 

Servio, in Verg. Aen. 1.334: hostia dextra hostiae dicuntur sacrificia quae ab his fiunt qui in hostem pergunt, victimae vero sacrificia quae post victoriam fiunt. Sed haec licenter confundit auctoritas[79].

 

In genere, nella pratica religiosa corrente col termine hostiae si designavano gli animali piccoli, quali maiali, capre, pecore; mentre erano denominati victimae tutti gli animali più grandi, soprattutto tori e vacche[80]. I pontefici

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poi, nella classificazione delle vittime, tenevano conto dell’età: si chiamavano lactentes quando avevano un determinato numero di giorni (cinque o dieci i porcellini, sette gli agnelli e trenta i vitelli); erano invece maiores o bidentes quando divenute adulte avevano messo la doppia fila di denti; inoltre, gli animali da sacrificare sovente venivano distinti sulla base del sesso[81] e del colore, o anche dello scopo che si voleva conseguire con il sacrificio[82]. Naturalmente, le vittime dei sacrifici non dovevano avere difetti fisici (purae):

 

Macrobio, Sat. 3.5.6: Eximii quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed sacerdotale nomen est. Veranius enim in Pontificalibus quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur[83].

 

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Per questo, come leggiamo nel citato passo di Macrobio, che trascriveva letteralmente un brano delle quaestiones pontificales di Veranio[84], prima del sacrificio era necessario procedere ad una verifica che dichiarasse tali vittime electae (scelte), eximiae, egregiae (separate dal gregge) e quindi idonee all’immolazione. Quando poi si dovevano compiere sacrifici particolarmente solenni, il rituale prescriveva che si offrissero insieme diverse specie di animali; il più noto di questi sacrifici prendeva il nome di suovetaurilia e consisteva nell’offerta alle divinità di un maiale, di una pecora e di un toro.

I suovetaurilia, attestati anche negli inni vedici dell’antica India[85], rappresenterebbero un’antichissimo sacrificio risalente alla “religione comune” dei popoli indoeuropei; a Roma essi risultavano indispensabili nelle cerimonie lustrali o di purificazione: così, ad esempio, si offrivano al dio Marte in Campo Marzio, nel corso della cerimonia di

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purificazione del populus Romanus, che aveva luogo ogni cinque anni ad opera dei censori (lustrum condere)[86]. Lo stesso sacrificio, peraltro, era celebrato annualmente dal pater familias nella seconda parte del mese di maggio, in occasione degli ambarvalia, cerimonia di purificazione dei campi descritta da Catone, in cui ogni proprietario sacrificava i tre animali condotti precedentemente in processione intorno ai confini del fondo familiare[87].

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Mette conto evidenziare, infine, che nella dinamica del sacrificio assumeva un certo rilievo anche la volontà dell’animale destinato all’immolazione; al riguardo, la scienza pontificale considerava requisito necessario per la validità dell’offerta e dell’azione rituale il fatto che la vittima manifestasse in qualche modo il proprio consenso. Per questa ragione l’animale non poteva essere condotto a forza presso l’ara, poiché ciò avrebbe rappresentato un pessimo auspicio per il buon esito del sacrificio:

 

Macrobio, Sat. 3.5.8: Observatum est a sacrificantibus ut, si hostia quae ad aras duceretur fuisset vehementius reluctata ostendissetque se invitam altaribus admoveri, amoveretur quia invito deo offerri eam putabant. Quae autem stetisset oblata, hanc volenti numini dari aestimabant[88].

 

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Non posso addentrarmi ulteriormente nel complesso rituale romano del sacrificio di animali, le cui regole minuziose esigevano dal fedele grande attenzione e notevole perizia; l’attività cautelare dei sacerdoti romani fu pressoché incessante in materia, si elaborarono perfino modi di espiazione anticipata degli eventuali scelera determinati da omissioni involontarie del sacrificante:

 

Aulo Gellio, Noct. Att. 4.6.7: Eadem autem ratione verbi "praecidaneae" quoque hostiae dicuntur, quae ante sacrificia sollemnia pridie caeduntur.

 

A tale scopo, i sacerdoti prescrivevano di immolare, il giorno precedente a quello fissato per il compimento di sacrifici solenni, una vittima espiatoria, chiamata appunto praecidanea «uccisa prima», per sanare ogni infrazione rituale involontaria che si sarebbe potuta commettere durante lo svolgimento della cerimonia[89].

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5.   Sacrifici umani

 

Vorrei proporre un’ultima suggestione riguardo al sacrificio di animali nella religione politeista romana. è noto che i giuristi romani, sulla base dello ius naturale, hanno teorizzato l’esistenza di istituti giuridici comuni a tutti gli animalia[90]; si riteneva, dunque, che il sistema giuridico-religioso romano fosse caratterizzato da una comunanza di diritti tra (dèi) uomini e animali, la cui coerente traduzione nella sfera religiosa permetteva di considerare quali possibili vittime sacrificali anche gli stessi esseri umani.

Col progredire della storia di Roma, i sacrifici umani divennero del tutto eccezionali: per essi trovarono più frequente applicazione sia il principio della sostituzione dell’uomo[91] con gli animali (vigente già nelle antichissime

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leges regiae, per il colpevole di omicidio involontario)[92], sia la regola in sacris simulata pro veris accipi, certamente elaborata dai sacerdoti già in età arcaica, per quanto attestata da una fonte piuttosto tarda:

 

Servio, in Verg. Aen. 2.116: virgine caesa non vere, sed ut videbatur. Et sciendum in sacris simulata pro veris accipi: unde cum de animalibus quae difficile inveniuntur est sacrificandum, de pane vel cera fiunt et pro veris accipiuntur[93].

 

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Tuttavia i sacrifici umani, nonostante il Senato di Roma li avesse proibiti fin dal 97 a.C.[94], continuarono ad essere praticati eccezionalmente fino all’età imperiale avanzata. Depone in tal senso la testimonianza di Plinio il Vecchio, il quale tratta di sacrifici umani (in forma di sepoltura rituale) nel libro ventottesimo della Naturalis historia, descrivendoli come cerimonie religiose ancora praticate nel suo tempo (etiam nostra aetas vidit):

 

Plinio, Nat. hist. 28.12: Boario vero in foro Graecum Graecamque defossos aut aliarum gentium, cum quibus tum res esset, etiam nostra aetas vidit. Cuius sacri precationem, qua solet praeire XVvirum collegii magister, si quis legat, profecto vim carminum fateatur, omnia ea adprobantibus DCCCXXX annorum eventibus[95].

 

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Altri episodi tramandati dalle tradizione annalistica riguardano invece l’età repubblicana.

 

Tito Livio 22.57.5-6: Hoc nefas cum inter tot, ut fit, clades in prodigium versum esset, decemviri libros adire iussi sunt et Q. Fabius Pictor Delphos ad oraculum missus est sciscitatum quibus precibus suppliciisque deos possent placare et quaenam futura finis tantis cladibus foret. Interim ex fatalibus libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime Romano sacro, inbutum[96].

 

Tito Livio riferisce la notizia che nel 216 a.C. i libri fatales, consultati dopo la battaglia di Canne, ordinarono ai Romani sacrificia aliquot extraordinaria e che, sulla base di quelle prescrizioni, furono sepolte vive nel Foro Boario una coppia (maschio e femmina) di Celti e una coppia di Greci[97]. Peraltro lo stesso sacrificio, come si può leggere in

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Plutarco, era già stato celebrato nell’anno 228 a.C., prima della guerra contro gli Insubri[98].

Allo stesso modo, si potrebbe ritenere un vero e proprio sacrificio espiatorio l’interramento nel Foro Boario della Vestale incestuosa[99]; similmente, sono da considerare sacrifici umani i riti della devotio[100] e della “primavera

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sacra”[101]. Infine, il ricordo di un antichissimo sacrificio umano permane nel misterioso rito degli Argei, che si celebrava il 14 o 15 maggio[102]: mentre sfugge quasi totalmente il significato religioso del rito, risultano più chiare le modalità della cerimonia, durante la quale le Vestali, operando alla presenza dei pontefici e dei magistrati, gettavano nel Tevere dal Ponte Sublicio 27 fantocci di paglia (il numero è indicato da Varrone), certo in sostituzione delle vittime umane effettivamente sacrificate nell’età più antica alla divinità del fiume[103].

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6.   Interpretazioni sacerdotali in materia di sacrifici. A) Ver sacrum e iussum populi

 

Il più grande dei sacrifici romani era legato al voto publico della “primavera sacra” (ver sacrum vovere)[104], con il quale il magistrato sottoponeva all’approvazione del populus la solenne promessa di consacrare agli dèi tutto ciò che la natura avrebbe generato in una prossima primavera: vegetali, animali, uomini. Per adempiere al voto era necessario offrire alle divinità i prodotti della natura e sacrificare tutti gli animali, mentre in età storica si risparmiavano gli esseri umani[105].

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La solenne formula del ver sacrum[106] è conservata in un noto passo di Tito Livio, dove risulta documentato anche il responso del pontefice massimo (e giurista) L. Cornelio Lentulo[107] a difesa dello iussum populi in materia di vota

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publica[108], contro ogni interpretazione estensiva dei poteri magistratuali (iniussu populi voveri non posse).

 

Tito Livio 22.10.1-6: His senatus consultis perfectis L. Cornelius Lentulus pontifex maximus consulente collegium praetore omnium primum populum consulendum de vere sacro censet; iniussu populi voveri non posse. Rogatus in haec verba populus: “Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica populi Romani Quiritium ad quinquennium proximum,

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sicut velim eam salvam, servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano cum Carthaginiensi est, quaeque duella cum Gallis sunt, qui cis Alpe sunt, tum donum duit populus Romanus Quiritium: quod ver attulerit ex suillo, ovillo, caprino, bovillo grege, quaeque profana erunt, Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit. Qui faciet, quando volet quaque lege volet, facito; quo modo faxit, probe factum esto. Si id moritur, quod fieri oportebit, profanum esto neque scelus esto; si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto; si quis clepsit, ne populo scelus esto, neve cui cleptum erit; si atro die faxit insciens, probe factum esto; si nocte sive luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto; si antidea, <quam> senatus populusque iusserit fieri, faxitur, eo populus solutus liber esto”[109].

 

Il testo liviano offre un importante esempio di interpretatio iuris e di perizia cautelare del pontefice massimo, il quale si mostrò severo custode delle prerogative giuridiche e religiose del populus Romanus, in occasione del ver sacrum votato agli dèi nel 217 a.C., dopo la rovinosa battaglia del Trasimeno; quando, in uno dei più gravi momenti della guerra annibalica, dopo tremende e ripetute sconfitte, unico rimedio possibile apparve il soccorso divino, da propiziare con cerimonie straordinarie e riti inusitati desunti dai libri Sibyllini[110]. L'intervento di L. Cornelio

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Lentulo si inseriva, dunque, in un più ampio contesto di cerimonie religiose ordinate dai libri Sibyllini, fra le quali il ver sacrum (di cui il pontefice elaborò la formula proposta all’approvazione del popolo) costituiva il rito più rilevante e significativo, il più straordinariamente inusuale[111].

Nel testo liviano meritano la nostra attenzione due questioni differenti: la prima consiste nella netta riaffermazione dei poteri popolari in materia di religio; la seconda riguarda invece la struttura della formula del ver sacrum[112].

Quanto al primo aspetto, bisogna respingere la tentazione di collegare in maniera schematica l'interpretatio del pontefice massimo alle vicende politiche di quegli anni, caratterizzati dalla rinnovata iniziativa politica del movimento

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popolare romano[113]; il quale mirava, con determinazione costante, ad una maggiore subordinazione dell'imperium dei magistrati al potere popolare, come ben dimostra l'innovazione di far eleggere dal popolo il dittatore e l'estensione dei limiti della provocatio anche all’imperium di questo magistrato[114]. è da credere, piuttosto, che nello stabilire soggetti e procedure per il ver sacrum, l'interpretatio iuris del pontefice L. Cornelio Lentulo abbia fatto ricorso ai documenti del collegio, che «une étude sérieuse des Commentaires»[115] gli

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permetteva di padroneggiare. Il pontefice-giurista non ignorava la casistica della più antica giurisprudenza pontificale, né la tradizione interpretativa dei sacerdoti in materia di vota publica e di dedicationes in loco publico, che considerava, ab antiquo, lo iussum populi requisito indispensabile per l'assunzione del vincolo obbligatorio nei confronti degli dèi[116] e quindi per la validità di tali atti di culto[117],

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anche nel caso in cui ad offrire il voto fosse lo stesso magistrato.

La formula del ver sacrum costituisce uno splendido testo «dont l'armature, sinon tous les mots, paraît authentique»[118]; certo assai risalente nella forma linguistica, che,

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pur rammodernata, lascia trasparire arcaismi tipici delle formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[119]. Una breve riflessione merita poi la struttura giuridica della formula, dettata dal pontefice massimo per il votum del ver sacrum, dove alla circostanziata precisazione delle cose offerte in voto, segue una serie di clausole liberatorie, in cui la perizia teologica e giurisprudenziale del

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pontefice-giurista è tutta protesa a garantire che la pax deorum non sia turbata da comportamenti delittuosi di privati cittadini, intenzionali o preterintenzionali; insomma, ad assicurare che scelus e inscientia dei singoli cittadini non possano procurare alcun danno al populus Romanus[120]. Da notare, poi, come le clausole della formula attestino uniformità e continuità nell'interpretazione del collegio pontificale: intendo riferirmi, più precisamente, alla clausola si atro die faxit insciens, probe factum esto, che sembra improntata ad un decreto reso dai pontefici circa trent'anni prima, per giudicare corretta una singolare azione rituale di Tiberio Coruncanio, il quale aveva celebrato feriae praecidaneae in dies ater[121].

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7.   B) Hostiae purae: il pontefice massimo Tiberio Coruncanio e la purezza rituale delle vittime sacrificali

 

Nel lungo frammento dell’Enchiridion di Pomponio, che i compilatori giustinianei utilizzarono per delineare la “storia della giurisprudenza”[122], Tiberio Coruncanio viene menzionato due volte[123], sempre in relazione al suo primato nel publice profiteri[124].

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Il giurista visse e operò in un periodo in cui la plebe imponeva la sua presenza anche nei principali collegi sacerdotali

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(auguri e pontefici), fino ad allora riservati esclusivamente al patriziato. Percorse, da homo novus, tutti i gradini del cursus honorum[125]: console nel 280 a.C., dittatore comitiorum habendorum causa nel 246; nel 254, primus ex plebe pontifex maximus creatus est[126].

Anche alcuni testi ciceroniani costituiscono per noi fonti preziose sull'attività e sul ruolo politico del grande giurista. Nel Cato maior, ad esempio, Cicerone menziona Tiberio Coruncanio fra quegli eminentissimi personaggi del passato, ai quali il grande oratore attribuiva il ruolo di

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iura civibus praescribere[127]; nel de oratore lo ricorda invece tra i sapientes romani, che potevano stare alla pari, o superare, i grandi uomini della sapienza greca[128]; mentre altri passi rimandano, indirettamente, alla sua competenza teologica e all'elaborazione dello ius[129].

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I tre frammenti superstiti sono tutti da riferire all'attività pontificale di Tiberio Coruncanio[130]. Non è azzardato ritenere che tali testi siano riconducibili a documenti sacerdotali: decreta e responsa[131] conservati in quei commentarii pontificum [132], dalla cui lettura era possibile, come attesta ancora Cicerone per i suoi tempi, dedurre l'altissimo ingegno del primo pontefice massimo plebeo[133].

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Nel frammento che qui interessa, la questione fatta oggetto del responso non era di secondaria importanza per il culto cittadino:

 

Plinio, Nat. hist. 8.206: Suis fetus sacrificio die quinto purus est, pecoris die VII, bovis XXX. Coruncanius ruminalis hostias donec bidentes fierent, puras negavit[134].

 

Si trattava, infatti, di accertare quando fossero da considerare ritualmente puri, e quindi graditi agli dèi, gli animali

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ruminanti, da destinare a sacrifici pubblici e privati[135]. Lo ius pontificium precisava, come abbiamo visto, quale animale dovesse sacrificarsi a ciascuna divinità, distinguendo inoltre tra vittime adulte e lattanti, tra maschili e femminili[136]. Era quindi compito precipuo della dottrina pontificale fugare lo scrupolo dei cittadini, determinando con la massima precisione i requisiti necessari per la qualifica di hostiae lactentes; infatti, immediatamente dopo la nascita tutti gli animali, senza eccezione alcuna, erano considerati impuri, mentre la purezza rituale si raggiungeva in un lasso di tempo variabile a seconda della specie animale considerata. Tuttavia, anche la classificazione delle hostiae doveva avvenire non senza incertezze: così Varrone, a differenza di Plinio, insegnava che il tempo rituale perché i porcellini potessero considerarsi puri, non doveva in nessun caso essere inferiore a dieci giorni[137].

La verità è che la dottrina pontificale, in questo campo, non fu mai troppo stringente; ne costituisce prova indiretta il citato responso di Tiberio Coruncanio, il quale, seppure inserito nei commentarii pontificum, non sembra aver

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avuto effetti vincolanti sulla pratica rituale: non si comprenderebbero, altrimenti, tutte le incertezze e le discussioni intorno al significato del termine bidentes[138] da parte degli antiquari tardo-repubblicani e imperiali[139].

 

 

 

 



 

[1] C. 1.11.1 = CTh. 16.10.4: [Imp. Constantius A. ad Taurum pp.] Placuit omnibus locis atque urbibus universis claudi protinus templa et accessu vetito omnibus licentiam delinquendi perditis abnegari. Volumus etiam cunctos sacrificiis abstinere. Quod si quis aliquid forte huiusmodi perpetraverit, gladio ultore sternatur (an. 354). C. 1.11.2: [Imppp. Gratianus Valentinianus et Theodosius AAA. Cynegio pp.] Ne quis mortalium ita faciendi sacrificii sumat audaciam, ut inspectione iecoris extorumque praesagio vanae spem promissionis accipiat vel, quod est deterius, futura sub exsecrabili consultatione cognoscat. Acerbioris etenim imminebit supplicii cruciatus eis, qui contra vetitum praesentium vel futurarum rerum explorare temptaverint veritatem (an. 385). C. 1.11.3: [Impp. Arcadius et Honorius AA. Macrobio et Procliano vicario] Sicut sacrificia prohibemus, ita volumus publicorum operum ornamenta servari (an. 399). C. 1.11.7.1: [Impp. Valentinianus et Marcianus AA. Palladio pp.] Quisquis autem contra hanc serenitatis nostrae sanctionem et contra interdicta sacratissimarum veterum constitutionum sacrificia exercere temptaverit, apud publicum iudicem reus tanti facinoris legitime accusetur et convictus proscriptionem omnium bonorum suorum et ultimum supplicium subeat (an. 451). C. 1.11.8 pr.: [Impp. Leo et Anthemius AA. Dioscoro pp.] Nemo ea, quae saepius paganae superstitionis hominibus interdicta sunt, audeat pertemptare, sciens, quod crimen publicum committit qui haec ausus fuerit perpetrare (an. 472?).

 

[2] Cfr. K.W. Harl, Sacrifice and Pagan belief in Fifth- and Sixth-Century Byzantium, in Past & Present 128, 1990, pp. 7 ss.; S. Bradbury, Julian’s Pagan Revival and the Decline of Blood Sacrifice, in Phoenix 49, 1995, pp. 331 ss.

 

[3] Sulla nozione di ius Romanum, vedi ora di P. Catalano, Ius Romanum. Note sulla formazione del concetto, in La nozione di ‘Romano’ tra cittadinanza e universalità [Da Roma alla Terza Roma, Studi II], Napoli 1984, pp. 531 ss. [= Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. 53 ss.]. Per quanto riguarda la «codificazione giustinianea del ius Romanum commune», cfr. invece S. Schipani, La codificazione del diritto romano comune, Torino 1996, pp. 3 ss.

 

[4] Tra le opere di carattere generale, cfr. R. Paribeni, Storia di Roma. Da Diocleziano alla caduta dell’impero d’occidente, Bologna 1941, pp. 47 ss.; F. Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Age, Paris 1951; S. Mazzarino, L’impero romano, III, Roma-Bari 1976, pp. 651 ss. Sulla figura del grande imperatore, vedi invece J. Burckhardt, Die Zeit Konstantins des Grossen, 4a ed., Leipzig 1924, in part. IX. Abschnitt: «Konstantin und die Kirche», pp. 373 ss. [= Id., L’età di Costantino il Grande, trad. it. di P. Chiarini, Introduzione di S. Mazzarino, Roma 1970, pp. 355 ss.]; A. Piganiol, L’empereur Constantin, Paris 1932; J. Vogt, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, München 1949; C. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze 1962; R. T. MacMullen, Constantine, London 1987. Per gli aspetti pubblicistici e costituzionali, basterà rinviare a P. de Francisci, Storia del diritto romano, III, Roma 1943, pp. 82 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, V, 2a ed., Napoli 1975, pp. 110 ss. (ivi altra bibliografia); per gli aspetti privatistici, vedi invece M. Sargenti, Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia, Milano 1938, pp. 7 ss.

Quanto all’atteggiamento dell’imperatore verso le due religioni, cfr. N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, pp. 302 s.; A. Alföldi, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, trad. ingl. di H. Mattingly, Oxford 1948 [ora anche in italiano: Costantino tra Paganesimo e Cristianesimo, trad. di A. Fraschetti, Roma-Bari 1976]. Fra i lavori più recenti dedicati alla politica religiosa di Costantino, vedi A. Ehrhardt, Constantin d. Gr. Religionspolitik und Gesetzgebung, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 72, 1955, pp. 127 ss. [= Konstantin der Grosse, hrsg. von H. Kraft, Darmstadt 1974, pp. 388 ss.]; J. Vogt, Toleranz und Intoleranz im constantinischen Zeitalter: der Weg der lateinischen Apologetik, in Saeculum 19, 1968, pp. 344 ss.; F. Amarelli, Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, pp. 21 ss. R. P. C. Hanson, The Christian Attitude to Pagan Religions up to the Time of Constantine the Great, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.23.2, Berlin-New York 1980, in part. pp. 960 ss.; T. D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge, Mass. 1981; Id., Constantine's Prohibition of Pagan Sacrifice, in American Journal of Philology 105, 1984, pp. 69 ss.; P. A. Barceló, Die Religionspolitik Kaiser Constantins des Grossen vor der Schlacht an der Milvischen Brücke (312), in Hermes 116, 1988, pp. 76 ss.; R. M. Errington, Constantine and the Pagans, in Greek, Roman and Byzantine Studies 29, 1988, pp. 309 ss.; G. Härtel, Bemerkungen zur Religionspolitik Konstantins I, in Klio 71, 1989, pp. 374 ss.; R. Leeb, Konstantin und Christus. Die Verchristlichung der imperialen Repräsentation unter Konstantin der Grossen als Spiegel seiner Kirchenpolitik und seines Selbstverständnisses als christlicher Kaiser, Berlin-New York, 1992; S. Bradbury, Constantine and the Problem of Anti-Pagan Legislation in the Fourth Century, in Classical Philology 89, 1994, pp. 120 ss.; E. Lehmeier-G. Gottlieb, Kaiser Konstantin und die Kirche. Zur Anfänglichkeit eines Verhältnisses, in E fontibus haurire. Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren Hilfswissenschaften (Heinrich Chantraine zum 65. Geburtstag), hrsg. R. Günther und S. Rebenich, Paderborn-München-Wien-Zürich 1994, pp. 163 ss.; J. Curran, Constantine and the Ancient Cults of Rome: the Legal Evidence, in Greece & Rome 43, 1996, pp. 68 ss.

 

[5] T. D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., p. 210, sulla base di Vita Constantini 2, 60, sostiene che la legislazione costantiniana aveva sancito il divieto totale dei sacrifici: «pointedly refrains from mentioning sacrifices. Against the background of the earlier law, Constantine’s silence ineluctably implies that sacrifice remains totally prohibited»; ma, in altro senso, vedi R. M. Errington, Constantine and the Pagans, cit., pp. 311-312.

 

[6] P. O. Cuneo (a cura di), Legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997, pp. 88 s. (ivi altra bibliografia). Sul valore di questa costituzione, vedi L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano. Studi di politica e legislazione, 2ª ed., Napoli 1982, pp. 137 ss.; Id., Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, Napoli 1985, p. 128: «è netta e generale la condanna dei sacrifici. Già CTh. 16.10.2, emanata da Costanzo nel 341, riferendosi espressamente a un analogo provvedimento di Costantino il Grande, ingiunge: cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania».

Cfr. anche CTh. 9.16.1: [Imp. Constantinus A. ad Maximum p. u.] Nullus haruspex limen alterius accedat, nec ob alteram causam, sed huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur, concremando illo haruspice qui ad domum alienam accesserit, et illo qui eum suasionibus vel praemiis evocaverit,  post ademptionem bonorum in insulam detrudendo: superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum exercere. Accusatorem autem huius criminis non delatorem esse sed dignum magis praemio arbitramur. Pp. Kal. Feb. Romae, Constantino V. et Licinio coss. (319 d.C.). CTh. 9.16.2: [Idem ad populum.] Haruspices et sacerdotes et eos qui hiuc ritui adsolent ministrare ad privatam domum prohibemus accedere, vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi, poena contra eos proposita si contempserint legem. Qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas atque delubra et consuetudinis vestrae celebrate solemnia; nec enim prohibemus praeteritae usurpationis officia libera luce tractari. (319 d.C.). Commento e discussione dei due frammenti nel saggio di A. Ehrhardt, Constantin d. Gr. Religionspolitik und Gesetzgebung, in Konstantin der Grosse, cit., pp. 430 ss.

 

[7] Sul frammento vedi L. De Giovanni, Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, cit., pp. 32 s.; G. Crifò, La Chiesa e l’Impero nella storia del diritto da Costantino a Giustiniano, in Cristianesimo e istituzioni politiche. Da Costantino a Giustiniano, a cura di E. dal Covolo e R. Uglione, Roma 1997, pp. 189 ss. Quanto poi alle implicazioni giuridiche sottese all’uso del sostantivo Romani, rinvio al bel libro di M. P. Baccari, Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, pp. 47 ss.

 

[8] CTh. 16.10.12: [2] Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit, aut spirantiam exta consulere, ad exemplum maiestatis, reus, licita cunctis accusatione, delatus, excipiat sententiam competentem, etiamsi nihil contra salutem principum, aut de salute quaesierit. Suffici, emin ad criminis molem, naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem, quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri. [3] Si quis vero mortali opere facta, et aevum passura simulacra imposito ture venerabitur, ac (ridiculo exemplo metuens subitoque ipse simulaverit) vel redimita vittis arbore, vel erecta effossis ara cespitibus vanas immagines, humiliore licet muneris praemio, tamen plena religionis iniuria, honorare temptaverit, is, utpote violatae religionis reus, ea domo seu possessione multabitur, in qua eum gentilicia constiterit superstitione famulatum. Namque omnia loca, quae turis constiterit vapore fumasse, (si tamen ea in iure fuisse thurificantium probabuntur) fisco nostro adsocianda censemus. [4] Sin vero in templis fanisve publicis, aut in aedibus agrisve alienis, tale quispiam sacrificandi genus exercere temptaverit, si ignorante domino usurpata constiterit, XXV. Librarum auri multae nomine cogetur inferre; conniventem vero huic sceleri par ac sacrificantem poena retinebit. Quod quidem ita per iudices, ac defensores et curiales singularum urbium, volumus custodiri, ut ilico per illos delacta plectantur. Si quid autem ii tegendum gratia, aut incuria praetermittendum esse crediderint, commotione iudiciariae subiacebunt. Illi vero moniti si vindictam dissimulatione distulerint, XXX. Librarum auri dispendio multabuntur; officiis quoque eorum damno parili subiugandis. Data VI Id. Nov. Arcadio A. II et Rufino coss.

 

[9] A. Lippold, Theodosius der Grosse und seine Zeit, München 1980; J. Curran, From Jovian to Theodosius, in The Cambridge Ancient History, XIII: The Late Empire, A.D. 337-425, ed. by A. Cameron-P. Garnsey, Cambridge 1998, pp. 101 ss.; sui successori del grande imperatore cristiano, vedi R. C. Blockley, The Dynasty of Theodosius, ibidem, pp. 111 ss. Per la politica religiosa di questo imperatore, cfr. fra gli altri: J. Gaudemet, La condamnation des pratiques paiennes en 391, in Epektasis. Melanges patristiques offerts au Cardinal Jean Danielou, Paris 1972, pp. 597 ss. [= Id., Etudes de droit romain, I. Sources et theorie generale du droit, Napoli 1979, pp. 251 ss.]; W. Waldstein, Ecclesia in re publica, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 100, 1983, pp. 542 ss.; H. Bellen, Christianissimus Imperator. Zur Christianisierung der römischen Kaiserideologie von Constantin bis Theodosius, in E fontibus haurire. Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren Hilfswissenschaften, cit., pp. 3 ss.; R. Klein, Theodosius der Grosse und die christliche Kirche, in Eos 82, 1994, pp. 85 ss.; R. M. Errington, Church and State in the First Years of Theodosius I, in Chiron 27, 1997, pp. 21 ss.; Id., Christian Accounts of the Religious Legislation of Theodosius I, in Klio 79, 1997, pp. 398 ss.

 

[10] Sul valore da attribuire a tale espressione, «certo antichissima, che indica l’insieme dei cittadini romani», mi sembrano del tutto convincenti le tesi proposte da P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, in part. pp. 97 ss.

 

[11] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, 2è éd. revue et corrigée, Paris 1973, p. 277 [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, rist. Torino 1992, p. 298].

 

[12] Per la definizione del concetto di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, pp. 226 ss.]; a cui sono da aggiungere i più recenti lavori di Marta Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax e pax deorum, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (Appendice I: "Tempo della città e pax deorum: l'infissione del clavus annalis"); F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", Sassari 1991, pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, N. s., 1995 (ma 1996), pp. 77 ss.; infine, ma con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 167 ss.

 

[13] M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, p. 195.

 

[14] Cfr. in tal senso, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 49 [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., p. 224].

 

[15] Ho utilizzato l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss., in part. p. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s.

La validità del concetto di «ordinamento giuridico» viene ancora riaffermata negli ultimi scritti di R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; e parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.

 

[16] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Aa.Vv., Des ordres à Rome, direction de C. Nicolet, Paris 1984, pp. 269 s.

 

[17] In questo senso, vedi Cicerone, Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabus immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto; Ovidio, Amor. 1.2.21: veniam pacemque rogamus;  Tito Livio 39.10.5: pacem veniamque precata deorum dearumque. Cfr. Plauto, Merc. 678: Apollo, quaeso te ut des pacem propitius; Tito Livio 1.16.3: pacem praecibus exposcunt; 3.7.8: veniam irarum caelestium finem pesti exposcunt; Seneca, Med. 595: Parcite, o divi, veniam precamur. Per una più ampia raccolta delle fonti sul pacem deum petere da parte degli uomini e sul pacem dare degli dèi, rinvio al libro di H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke, cit., pp. 186 ss.

 

[18] Cfr. Virgilio, Aen. 12.849-852: Hae Iovis ad solium saevique in limine regis / apparent acuuntque metum mortalibus aegris, / si quando letum horrificum morbosque deum rex / molitur, meritas aut bello territat urbes; per quanto nella teologia tradizionale Iuppiter non era legato alla morte, come possiamo leggere nel commento a Virgilio del grammatico Servio, in Verg. Aen. 12.851: letum horrificum volunt Iovem non esse morti auctorem, sed posse mortis genere vel prodesse vel obesse mortalibus.

 

[19] M. Sordi, Pax deorum e la libertà religiosa nella storia di Roma, cit., p. 147: «L'antichità della formula e la derivazione di pax dalla radice di pangere, che si ritrova nell'uso arcaico di pangere clavum, che Livio ricorda tra i piacula destinati, durante la pestilenza del 364 e del 363 varr., "pacis deum exposcendae causa" (Liv. VII, 2 e 3), mi induce ad avanzare l'ipotesi che pax deum sia addirittura all'origine del concetto romano di pax».

 

[20] E. Montanari, Il concetto originario di pax e la pax deorum, cit., p. 56 [= Id., “Tempo della città e pax deorum”, cit., pp. 92 s.].

 

[21] Plauto, Poen. 253.

 

[22] Lucrezio, De rer. nat. 5.1229.

 

[23] Aen. 3.369-373: Hic Helenus caesis primum de more iuvencis / exorat pacem divom vittasque resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l'unico testo di Virgilio in cui troviamo esplicitamente menzionata l'espressione pax deorum ; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale (cfr. C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, p. 47; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., p. 262), in quanto il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale significa impetrare, come del resto aveva già spiegato il grammatico Servio, in Verg. Aen. 3.370: exorat pacem divum aut de sacrificantum more requirit, utrum tempus consulendi esset; nam et hoc vehementer quaeritur, ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est, de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad vaticinationem. Ut autem hic expiatam famem intellegamus sequens efficit locus, ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco 'exorat' facit; nam 'orare' est petere, 'exorare' impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus, aut ad mitigandum famis periculum.

 

[24] Tito Livio 3.5.14; cfr. 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit; 42.2.3: prodigia expiari pacemque deum peti praecationibus, qui editi ex fatalibus libris essent, placuit.

 

[25] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 50 [= Id., Scritti di diritto romano, cit., p. 225].

 

[26] Su tale attività e sull'influenza di essa per il formarsi della tradizione annalistica, v. B. W. Frier, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the Origins of the Annalistic Tradition, Roma 1979 [2ª ed. Ann Arbor 1998]; J. Rüpke, Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75, 1993, pp. 155 ss.

 

[27] Cfr., giusto a titolo d'esempio: Tito Livio 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8. Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati - direttamente o indirettamente - agli Annales Maximi, v. E. De Saint-Denis, Les énumerations de prodiges dans l'oeuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16, 1942, pp. 126 ss.; J. Ph. Packard, Official notices in Livy's fourth decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, pp. 125 ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21, 1971, pp. 158 ss.; infine il più recente lavoro di B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, pp. 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].

 

[28] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972], p. 76.

 

[29] Riguardo al frammento di Ulpiano, mi pare che possano ormai considerarsi superate sia  affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad. it.: I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, p. 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am Main 1955, p. 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p. 192 nt. 295). Favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, pp. 157 ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); Id., Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989, pp. 171 ss.; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 272 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, pp. 447 ss., in part. 461 ss.; H. Ankum, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español 53, 1983, pp. 524 ss.; M. Kaser, Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, pp. 6 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., p. 223 nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp. 499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, pp. 153 ss.

 

[30] P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 676; con adesione di C. Nicolet, Notes complementaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, pp. 149 ss.; e di J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, cit., pp. 269 ss.

 

[31] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983.

 

[32] Cicerone, De leg. 2.19 ss.; 3.6 ss. V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, cit., p. 157, sostiene che «Ulpiano, scrivendo che "ius publicum in sacris, in sacerdotibus … consistit", rinnova, nella peculiare situazione politica e religiosa dei suoi tempi, il punto di vista tradizionale di derivazione ciceroniana: se gli auspici di Romolo e i riti di Numa posero le fondamenta della res publica, Roma appartiene ai soi dèi in ogni momento e in ogni aspetto della vita quotidiana».

 

[33] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 213-214.

 

[34] Sulla quale cfr. F. D'ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988.

 

[35] Sulla giurisprudenza romana del III e II secolo a.C., rinvio a F. D'ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986; ma anche a F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino (1992) 1995.

 

[36] Sulla figura del primo sovrano sabino di Roma, cfr. K. Glaser, v. Numa Pompilius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XV.1, Stuttgart 1936, coll. 1242 ss.; J. Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du ritus Graecus à Rome des origines à Auguste, Paris 1955, pp. 297 ss.; S. Accame, I re di Roma nella leggenda e nella storia, Napoli s.d. (1965), pp. 206 ss.; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [Reprinted 1998], pp. 90 ss.; J. Poucet, Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967, pp. 138 ss.; A. Storchi marino, C. Marcio Censorino, la lotta politica intorno al pontificato e la formazione della tradizione liviana su Numa, in Aion (Archeol.) 14, 1992, pp. 105 ss.; V. Buchheit, Numa-Pythagoras in der Deutung Ovids, in Hermes 121, 1993, pp. 77 ss.

 

[37] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome. Étude historique sur les institution religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 60-61: «La meilleure analyse des livres liturgiques serait donc l’étude complète du culte romain. Mais notre plan est plus restreint. Oublions pour un moment la variété des divers actes religieux, consécrations, vœux, expiations… etc., dont nous aurons occasion de parler au chapitre suivant, et bornons-nous à remplir avec quelques rares débris de textes mutilés le cadre indiqué par Tite-Live: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent».

 

[38] N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., p. 41.

 

[39] E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, pp. 165 s. La divisione delle materie prospettata dal Peruzzi è la seguente: A) caelestes caerimoniae, comprendente i sacra dei collegi sacerdotali maggiori e gli altri sacra pubblici e privati, divise in cinque capitoli: 1 quibus hostiis, 2 quibus diebus, 3 ad quae templa, 4 unde in eos sumptus pecunia, 5 cetera publica privataque sacra; B) 6 iusta funebria et ad placandos manes; C) 7 prodigia fulminibus aliove quo visu missa.

 

[40] E. Peruzzi, Le origini di Roma, II, cit., p. 162; cfr. Id., Le origini di Roma, I. La famiglia, Firenze 1970, pp. 142 ss.: «L’importanza di questo argomento e silentio è indubbia: la principale fonte scritta degli storici di Roma sono gli annales maximi, e, come è verosimile che dedicassero particolare attenzione a fatti di significato religioso, così è assolutamente certo che essi erano il documento più preciso e minuzioso della tradizione pontificale. Ora, il passo di Liu. 1.20.5 è una scarna notizia, espressa non meno ieiune di quelle degli annales, che reca un elemento davvero singolare. Trattando della più antica età regia, non di rado lo storico patavino indica la parentela dei personaggi, sia pure concisamente (per esempio 1.22.1 “Tullum Hostilium nepotem Hostili”, 1.34.1-2 “Lucumo … Demerati Corinthii filius erat”), però questo è l’unico caso in cui egli menziona un individuo con la sua formula onomastica, quale doveva apparire in registrazioni burocratiche: Numa Marcius Marci filius; formula, si noti, dell’età di Numa Pompilio, poiché questo sovrano, come diceva il sarcofago riportato alla luce nel 181 a.C., si chiamava ufficialmente Numa Pompilius Pomponi filius rex Romanorum. Ritengo probabile che la notizia di Livio risalga in ultima analisi agli annales» (pp. 144 s.).

 

[41] Per le fonti vedi Tito Livio 1.19-20; Dionigi d’Alicarnasso 2.64-73; Plutarco, Numa 9-14. Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme religiose attribuite a Numa sono da vedere: F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, ser. VIII, vol. 5, 1950, pp. 553 ss.; E. M. Hooker, The Significance of Numa's Religious Reforms, in Numen 10, 1963, pp. 87 ss.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, pp. 3 ss.; M. A. Levi, Il re Numa e i penetralia pontificum, in Rendiconti dell'Istituto Lombardo 115, 1981 (pubbl. 1984), pp. 161 ss.; J. Martinez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, pp. 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. pp. 194 ss., 219 ss.; infine L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella 'Storia di Roma arcaica' di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, pp. 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive d'après Denys d'Halicarnasse, in Pallas, 39, 1993, pp. 153 ss.

 

[42] Plutarco, Num. 14.6-7. Per una rapida esposizione dei problemi relativi alle fonti della ‘vita di Numa’, vedi L. Piccirilli, Introduzione, in Plutarco, Le vite di Licurgo e di Numa, a cura di M. Manfredini e L. Piccirilli, Milano 1980, pp. XLII ss.

 

[43] Servio, in Verg. Buc. 5.66: Sane quaeritur, cur duo altaria Apollini se positurum dicat, cum constet supernos deos impari gaudere numero, infernos vero pari, ut numero deus impare gaudet, quod etiam pontificales indicant libri (P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 13 fr. 56. Commenti al testo: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 113; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 37 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., p. 109). Cfr. anche Servio Dan., in Verg. Buc. 8.75; Macrobio, Sat. 1.13.5.

 

[44] Plinio, Nat. hist. 14.88: Romulum lacte, non vino libasse indicio sunt sacra ab eo instituta, quae hodie custodiunt morem. Numae regis proxumi lex est: "Vino rogum ne respargito". Quod sanxisse illum propter inopiam rei nemo dubitet. Eadem lege ex imputata vite libari vina diis nefas statuit, ratione excogitata ut putare cogerentur alias aratores et pigri circa, pericula arbusti. M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem auxilium Rutulis contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro fuisset. Su tale divieto, vedi G. Piccaluga, Numa e il vino, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33, 1962, pp. 99 ss.; Ead., Bona Dea. Due contributi all’interpretazione del suo culto, Ibidem 35 1964 pp. 195 ss. G. Dumézil, Vin et souveranité, in Id., Fêtes romaines d'été et d'automne, suivi de Dix questions romaines, Paris 1975, pp. 87 ss. [= Id., Feste romane, trad. it. di M. Del Ninno, Genova 1989, pp. 91 ss.]; più in generale, sul vino in età arcaica, vedi L. Minieri, Vini usus feminis ignotus, in Labeo 28, 1982, pp. 150 ss.; M. Gras, Vin et société à Rome et dans le Latium à l’époque archaïque, in Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche. Atti del convegno di Cortona (24-30 Maggio 1981), Pisa-Roma 1983, pp. 1067 ss.; G. Pucci, I consumi alimentari, in A. Schiavone (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Torino 1989, pp. 372 ss.

 

[45] Plinio, Nat. hist. 18.7: Numa instituit deos fruge colere et mola salsa supplicare atque, ut auctor est Hemina, far torrere, quoniam tostum cibo salubrius esset, id uno modo consecutus, statuendo non esse purum ad rem divinam nisi tostum. Cfr. Servio Dan., in Verg. Buc. 8.82. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, Milano 1988, p. 61: «All’importanza politico-sociale della riunione faceva riscontro l’importanza economico-religiosa del farro. Importanza economica: il farro è il più antico cereale coltivato dai Romani, e forse il solo cereale fino al 5° secolo a.C. Importanza religiosa: la farina di farro mista a sale, la cosiddetta mola salsa, era indispensabile per l’esecuzione di ogni sacrificio, tanto che immolare (cospargere di mola salsa la vittima) era diventato sinonimo di sacrificare; il matrimonio solenne, quello che non ammetteva divorzio ed era prescritto per alcuni sacerdozi, quello che veniva celebrato dal pontefice massimo alla presenza di sei testimoni, era chiamato confarreatio da una focaccia di farro offerta dalla sposa». Sul farro nella religione romana, cfr. anche A Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, 2ª ed., Roma 1976, pp. 126 ss.

 

[46] Cfr. Tito Livio 5.21.16: Convertentem se inter hanc venerationem traditur memoriae prolapsum cecidisse; idque omen pertinuisse postea eventu rem coniectantibus visum ad damnationem ipsius Camilli, captae deinde urbis Romanae, quod post paucos accidit annos, cladem; Svetonio, Vitell. 2: Idem miri in adulando genii, prius C. Caesarem adorare ut deum instituit, cum reversus ex Syria non aliter adire ausus esset quam capite velato circumvertensque se, deinde procumbens.

 

[47] Arnobio, Adv. Nat. 2.73.18: Non doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire? Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta di qualche utilità il vecchio lavoro di I. A. Ambrosch, Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; ancora indispensabili, invece, sia il bel libro di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 24 ss.; sia il manuale di J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], pp. 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, trad. francese di M. Brissaud, Paris 1889, pp. 10 ss.]; più di recente, vedi l'importante articolo di J. Bayet, Les feriae sementivae et les indigitations dans le culte de Cérès et de Tellus, in Revue d'Histoire des Religions 137, 1950, pp. 172 ss. (ora in Id., Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, pp. 175 ss.); ma anche G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 45 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp. 199 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 50 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 46 ss.]; R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, pp. 78 ss.

 

[48] Servio, in Verg. Georg. 1.21: Quod autem dicit ‘studium quibus arva tueri’, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarratione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, p. 64 fr. 87; l'insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in realtà un frammento varroniano, tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum [Op. cit. II. Kommentar, p. 184]. Vedi anche, brevemente, F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 108 s.

 

[49] Sull’archivio dei pontefici, ma senza pretesa di completezza bibliografica, si vedano: J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. pp. 127 ss.; I. A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. pp. 159 ss.; Id., Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; E. Luebbertus, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., pp. 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 299 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, II, cit., pp. 358 ss.]; R. Peter, De Romanorum precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, pp. 67 ss.; Id., Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; C. W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., pp. 14 ss.; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G. B. Pighi, La religione romana cit., pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 17 ss.; J. A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Avant-propos de C. Moatti, Rome 1998, pp. 45 ss.

 

[50] E. Peruzzi, Le origini di Roma, II, cit., pp. 155 ss.: «E quindi si dovrà attribuire a exscripta exsignataque un preciso valore tecnico; e ciò a tanto maggior ragione in quanto lo stile arido e minuzioso della notizia liviana esclude che si possa vedere in tale binomio un’espressione ridondante, come invece presuppongono certe versioni […] è impossibile dire cosa significhi propriamente exsignatus nel passo liviano (munito di sigillo impresso con un anello, accompagnato da una formula di approvazione, da un explicit, ecc.), ma l’espressione exscripta exsignataque non lascia dubbio che il testo affidato al pontefice era una copia, integrale o parziale, autenticata dal rex, degli stessi libri latini “iuris pontificii” che si ritroveranno nel 181 a.C., cioè un esemplare che Numa aveva debitamente dichiarato conforme all’originale o comunque pienamente valido» (pp. 162-163).

 

[51] Cfr. Varrone, in Festo, v. Opima spolia, p. 204 L. Quanto al rapporto tra i sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio e i più antichi libri dei pontefici, vedi ora F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. pp. 160 s.: «è noto che nelle fonti la compilazione dei ‘primi’ libri sacerdotali si presenta strettamente connessa con l’organizzazione voluta dal re Numa Pompilio; anzi, … tale compilazione deve essere considerata, anche materialmente, opera dello stesso re. Del resto appare ben comprensibile l’esigenza di testi scritti che la riforma religiosa di Numa dovette imporre, se solo si consideri la complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa regolamentazione dei sacrifici, testimoniati a proposito della religiosità di quell’epoca. Che poi questi libri Numae abbiano costituito il nucleo primitivo dei libri pontificum è sostenuto anche dalla tradizione antiquaria».

 

[52] Fra la dottrina più recente, sono da vedere: N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 119 ss.; J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., pp. 129 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., pp. 142 s.]; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 209 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 549 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 477 ss.]; E. Kadletz, Animal sacrifice in Greek and Roman religion, Diss. Washington 1976, Univ. Microfilms Inter., Ann Arbor, Mich. 1983; S. R. F. Price, Between Man and God: Sacrifice in the Roman Imperial Cult, in The Journal of Roman Studies 70, 1980, pp. 28 ss.; Aa.Vv, Le sacrifice dans l’Antiquité [Entretiens sur l’Antiquité classique, 27], Genève 1981; Aa.Vv, Sacrificio e società nel mondo antico, a cura di C. Grottanelli e N. F. Parise, Roma-Bari 1988; R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden - New York - København - Köln 1988, pp. 4 ss.; da ultima, A. V. Siebert, Instrumenta sacra. Untersuchungen zu römischen Opfer-, Kult- und Priestergeräten, Berlin-New York 1999, pp. 11 ss.

 

[53] Sulla parola vedi la spiegazione, con forti implicazioni teologiche, offerta da Servio Dan., in Verg. Aen. 2.156: hostia vero victima et dicta quod dii per illam hostiantur, id est aequi et propitii reddantur, unde hostimentum aequationem.

 

[54] E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., pp. 99 ss.

 

[55] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98 ss.

 

[56] C. Krause, De Romanorum hostiis quaestiones selectae, Diss. Marpurgi 1894, pp. 9 ss.; Id., v. Hostia, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. V, Stuttgart 1931, coll. 236 ss.

 

[57] C. Blecher, De extispicio capita tria, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten 2, 1903-1905 [Gissae 1905], pp. 171 ss.

 

[58] J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 170 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 205 ss.];

 

[59] G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912, pp. 410 ss.

 

[60] Insiste, assai opportunamente, sul carattere comunitario della religione politeista romana J. Scheid, Religione e società, in A. Schiavone (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, cit., pp. 631 ss.: «Per praticare una religione a Roma, occorreva appartenere a una comunità. L’uomo entrava in relazione con gli dèi nel quadro e per il tramite di una comunità. Famiglia, associazione, corpo costituito o repubblica, ciascuna comunità aveva una propria vita religiosa, con le sue regole, i suoi dèi, i suoi sacerdoti. Un cittadino apparteneva generalmente a più di una comunità, e fra queste esistevano rapporti di complementarità piuttosto che di esclusione. Gli dèi stessi erano “visibili” soltanto nel quadro di una comunità, e d’altra parte erano essi stessi membri di tali comunità» (p. 634).

 

[61] Cfr.in questo senso É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, p. 223: «ce sont les offrandes, qui sont bien de “sacrifices”, des moyens de rendre sacré, de faire passer l’humain dans le divin».

 

[62] I. Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II (DE-IN), Roma, 1985, p. 862: «Una valutazione lessicale ed etimologica del termine rivela invece il suo valore specifico, di notevole interesse nel complesso sistema sacrificale romano. H(ostia) in rapporto con hostire = aequare (nam hostire pro aequare posuerunt, Fest. p. 334,9; 414,37 L.), di modo che ogni hostimentum è un aequamentum (Paul.-Fest. 91,11 L.) o meglio una beneficii pensatio, e il senso di hostire = ferire è esplicitamente secondario, ci propone una valutazione del sacrificio come strumento, modalità di scambio tra due posizioni, due dati che si fronteggiano dialetticamente e dei quali uno viene a trovarsi in posizione mancante, quindi bisognoso d’integrazione. Come uomini e dèi, nel caso specifico».

 

[63] R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4.

 

[64] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., p. 130: «Beaucoup plus essentielle à la nature première du sacrifice la rinvigoration du dieu dont l’aide est attendue. Macte, lui dit-on en lui offrant la matière consacrée: et ce vocatif équivaut à “Prends (ou reçois) un surcroît de force”. Le verbe qui en dérive, mactare, après avoir eu les sens successifs d’ “accroître” et d’ “honorer” finit même par signifier “immoler la victime”» [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., p. 142].

 

[65] É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, cit., p. 225: «Ainsi le présent dénominatif mactare signifie “rendre grand, accroître”, c’est l’opération qui met dans l’état mactus. Les emplois les plus anciens, tel mactare deum extis, comportent le nom du dieu à l’accusatif et le nom du sacrifice à l’instrumental. C’est donc rendre le dieu plus grand, l’exalter, et en même temps le renforcer par l’offrande. Puis, par un changement de construction analogue à celui qu’on connaît dans sacrare, s’est établie l’expression mactare victimam “offrir en sacrifice une victime”».

 

[66] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 120. Cfr. Varrone, De ling. Lat. 5.112: Augmentum, quod ex immolata hostia desectum in iecore <imponitur> in por<ric>iendo a<u>gendi causa. Magmentum a magis, quod ad religionem magis pertinet: itaque propter hoc <mag>mentaria fana constituta locis certis quo id imponeretur.

 

[67] Cfr. R. Turcan, Le sacrifice mithriaque: innovations de sens et de modalités, in Le Sacrifice dans l'Antiquité, cit., p. 361: «A l’origine, si l’on s’en rapporte au sens premier du verbe mactare et à une réflexion attristée de Varron sur les dieux qui meurent faute de service religieux, l’immolation visait peut-être à accroître, renforcer, revigorer les dieux à qui l’on sacrifie».

 

[68] Per R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, cit., p. 4, anche la parola pietas connoterebbe una simile reciprocità: «A l’origine, est pius le fidèle en état de pureté rituelle, qui est en règle avec les dieux moyennant les expiations requises (piacula). Piare, c’est apaiser la colère divine provoquée par un forfait ou une négligence en procédant aux cérémonies appropriées. Le souci de réparer un manquement est une marque de révérence, mais réciproquement les avertissements que donnent les prodiges ou les auspices défavorables manifestent de la part des dieux une sorte de sollicitude envers les hommes, qui les force à se racheter ou à éviter les conséquences d’une entreprise maléfique. Cette affection mutuelle est parallèle à la pietas des enfants à l’égard des parents, comme des parents à l’égard des enfants. Il y a une pietas des dieux envers les hommes, comme des hommes envers les dieux. Cette solidarité impliquée dans le culte est une des originalités majeures de la religion romaine».

 

[69] Cfr., al riguardo, le suggestive riflesioni di P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996] pp. 723 ss. Quanto ai diversi impieghi della parola, vedi invece P. Rodríguez, El significado de civitas en Cicerón, in Veleia 7, 1990, pp. 233 ss.

 

[70] Cicerone, De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. Su questo passo ciceroniano, cfr. K. M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift de legibus, Wiesbaden 1983, pp. 135 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la République, Paris 1984, pp. 225 ss.

 

[71] Cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 413; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 169; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 210.

 

[72] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., p. 131: «C’était le sang de la victime qui (comme en presque toutes les religions) passait pour le plus puissant régénérateur des forces de vie: l’âge classique conservait encore des traces de l’aspersion de la face de l’idole avec ce sang consacré ou du renouvellement périodique de la peinture rouge qui en restait le symbole» [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., p. 143].

 

[73] Cfr. Servio, in Verg. Aen. 3.118: meritos unique aptos; ratio enim victimarum fit pro qualitate numinum: nam aut haec immolantur quae obsunt eorum muneribus, ut porcus Cereri, quia obest frugibus, hircus Libero, quia vitibus nocet: aut certe ad similitudinem, ut inferis nigras pecudes, superis albas immolent, item tempestati atras, candidas serenitati.

G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 550-551: «Les animaux, pris usuellement dans les trois espèces qui, réunies, forment les suouetaurilia, doivent avoir certaines corrélations symboliques avec les divinités qui les reçoivent. Selon une règle assez généralement respectée, les dieux veulent des mâles et les déesses des femelles. Jupiter et Junon préfèrent les bêtes blanches, les Di Manes et le nocturne Summanus les noires, Vulcain les rouges; Jupiter les mâles châtrés, Mars les mâles entiers. A l’époque où la Terre est grosse de la moisson à venir, ce sont des vaches pleines, fordae, qui lui sont livrées. Suivant les circonstances, les animaux sont choisis adultes ou bien tout jeunes, mais déjà parfaits: hostiae maiores, hostiae lactentes» [= Id., La religione romana arcaica, cit., p. 478].

 

[74] Quanto alla figura e all’opera di questo giurista, fra la dottrina più recente, vedi M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario. Firenze 27-28 maggio 1983, a cura di G. G. Archi, Milano 1985, pp. 29 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, München 1985, pp. 123 ss.; M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, Napoli 1990.

 

[75] Nello stesso senso, vedi anche Servio Dan., in Verg. Aen. 4.56: duo enim genera hostiarum sunt: unum, in quo voluntas dei per exta exquiritur; alterum, in quo sola anima deo sacratu: unde etiam aruspices animales hostias appellant. Sul frammento di Trebazio, cfr. E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., p. 103; F. P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964], p. 405 fr. 3; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I, Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig 1988], p. 44 fr. 3.

 

[76] M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto, cit., pp. 47 s.

 

[77] M. d’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, cit., pp. 77 ss.

 

[78] R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, cit., p. 41.

 

[79] Sul passo, vedi I. Chirassi Colombo, v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II (DE-IN), cit., p. 862.

 

[80] E. Luebbertus, Commentationes pontificales, cit., pp. 107 ss.; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 171 s. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 206 s.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 412; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 121 s.

 

[81] Servio, in Verg. Aen. 8.641: Aut certe illud ostendit, quia in omnibus sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem litare non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non litassent, succidanea adhiberi non poterat.

 

[82] Servio, in Verg. Aen. 12.170: nam in rebus, quas volebant finiri celerius, senilibus et iam decrescentibus animalibus sacrificabant, in rebus vero, quas augeri et confirmari volebant, de minoribus et adhuc crescentibus inmolabant.

 

[83] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 19 fr. 113; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], p. 8 fr. 8; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], p. 431 fr. 4; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 51 fr. 4.

 

[84] Veranio Flacco (o Q. Veranio), giurista di diritto sacro e antiquario dell’età augustea, scrisse anche un’opera sugli auspici, intitolata probabilmente Auspiciorum libri: così M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist. an. 1966], p. 600. Più in generale, vedi E. A. Gordon, v. Veranius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, col. 937. I frammenti sono stati raccolti da F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, cit., pp. 5 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, cit., pp. 429 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., pp. 50 ss.

 

[85] Cfr. al riguardo soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 248 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., pp. 216 ss.]; da ultimo D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., p. 174.

 

[86] Sul significato di questa cerimonia, cfr. K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 119; R. M. Ogilvie, Lustrum condere, in The Journal of Roman Studies 51, 1961, pp. 31 ss.; G. Piéri, L'histoire du cens jusqu’à la fin de la République romaine, Paris 1968, pp. 77 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 241 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., p. 210]. Per le modalità del censimento e piú in generale sul significato del census vedi: J. Suohlati, The Roman Censors, Helsinki 1963, pp. 20 ss.; C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976, pp. 72 ss. [= Id., Il mestiere di cittadino nell`antica Roma, trad. it., Roma 1980, pp. 64 ss.].

 

[87] Catone, De agri cult. 141: [1] Agrum lustrare sic oportet: impera suovitaurilia circumagi: ‘cum divis volentibus quodque bene eveniat, mando tibi, Mani, uti illace suovitaurilia fundum agrum terramque meam, quota ex parte sive circumagi sive circumferenda censeas, uti cures lustrare’. [2] Ianum Iovemque vino praefamino, sic dicito:’Mars pater, te precor quaesoque, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque nostrae: quoius rei ergo, agrum terram fundumque meum suovitaurilia circumagi iussi:; uti tu morbos visos invisosque, viduertatem vastitudinemque, calamitates intemperiasque prohibessis defendas averruncesque; utique tu fruges, frumenta, vineta virgultaque grandire beneque evenire siris; [3] pastores pecuaque salva servassis duisque bonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae. Harunce rerum ergo, fundi terrae agrique mei lustrandi lustrique facendi ergo, sicuti dixi, macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto: Mars pater, eiusdem rei ergo, macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto’. [4] Item [esto item] cultro facito struem et fertum uti adsiet: inde obmoveto. Ubi porcum inmolabis, agnum vitulumque, sic oportet: ‘eiusque rei ergo macte suovitaurilibus immolandis esto’. Nominare vetat Martem neque agnum vitulumque. Si minus in omnis litabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi {in} illisce suovitaurilibus lactentibus neque satisfactum est te hisce suovitaurilibus piaculo’. Si uno duobus dubitabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi illoc porco neque satisfactum est, te hoc porco piaculo". Per le implicazioni teologiche connesse al testo catoniano, restano ancora valide le considerazioni di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 71 ss.; quanto alla cerimonia, cfr. da ultimo D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., pp. 174 ss.

 

[88] Cfr. anche Servio, in Verg. Aen. 2.140: Sed hic dicendo ‘effugia’ verbo sacrorum et ad causam apto usus est. Nam hostia quae ad aras adducta est immolanda, si casu effugeret, ‘effugia’ vocari veteri more solet; in cuius locum quae supposita fuerat, succidanea; si gravida fuerat, forda dicitur; quae sterilis autem est, taurea appellatur: unde ludi Taurei dicti, qui ex libris fatalibus a rege Tarquinio Superbo instituti sunt propterea, quod omnis partus mulierum male cedebat. Alii ludos Taureos a Sabinis propter pestilentiam institutos dicunt, ut lues publica in has hostias verteretur.

 

[89] Rispondevano invece all’esigenza di sostituire la vittima sacrificata, ma risultata non idonea, le hostiae succidaneae, su cui vedi Aulo Gellio, Noctes Atticae 4.6.5-6: “Succidaneae” autem “hostiae” dicuntur, “ae” littera per morem compositi vocabuli in <“i”> litteram mutata, quasi “succaedaneae” appellatae, quoniam, si primis hostiis litatum non erat, aliae post easdem ductae hostiae caedebantur; quae quia prioribus iam caesis luendi piaculi gratia subdebantur et succidebantur, “succidaneae” nominatae, <“i”> littera scilicet tractim pronuntiata.

 

[90] D. 1.1.1.3 (Ulpianus libro primo institutionum): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

 

[91] Risulta, invero, troppo semplicistica nella sequenza storica, e venata di influenze evoluzionistiche, la spiegazione del fenomeno offerta dal grande storico francese A. Bouché Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., pp. 98 s.: «Le principe de la substitution est l’essence même et la raison d’être du sacrifice. Le sacrifice est avant tout une expiation: or, l’expiation doit frapper le coupable, et c’est ainsi que l’entendait, à Rome même, la religion primitive qui livrait aux dieux et déclarait sacrés les criminels. Mais il dut arriver que des coupables étaient assez puissants ou assez aimés pour se soustraire à l’expiation, que des sociétés, croyant être en butte à la colère divine, voulaient se purifier sans se détruire; alors, les uns et les autres imaginèrent de sacrifier à leur place des hommes qui, par une fiction légale, endossaient la responsabilité des crimes à expier. … Ce principe une fois admis, il n’y avait plus qu’un pas à faire pour mettre la piété d’accord avec l’humanité; les dieux, de plus en plus complaisants, se contentèrent du sang des animaux; ceux d’entre eux qui ne voulurent pas renoncer à leurs anciennes habitudes lâchèrent la proie pour l’ombre et laissèrent remplacer sur leurs autels les hommes par des poupées».

 

[92] Servio, in Verg. Buc. 4.43: Sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in contione [nei codici in cautione; la correzione risale allo Scaligero] offerret arietem (= C. G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui, 6ª ed., Friburgi et Lipsiae 1893, p. 10 fr. 13; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, Pars prima, Leges, 2ª ed., Florentiae 1941, p. 13 fr. 17). Sull’importante testo serviano, conserva ancora la sua utilità l’ampio commento di M. Voigt, Über die leges regiae, I. Bestand und Inhalt der leges regiae, in Abhandlungen der Königl. Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig. Philologisch-Historische Classe, VII, 6, Leipzig 1876, pp. 618 ss.; mentre, fra la dottrina più recente, è veramente fondamentale il lavoro di S. Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 89 ss.; da consultare anche C. A. Melis, Arietem offerre. Riflessioni attorno all'omicidio involontario in età arcaica, in Labeo 34, 1988, pp. 135 ss.

 

[93] Ampia discussione del testo serviano, con puntuali riferimenti agli aspetti fenomenici nel diritto pontificio del principio generale ivi enunciato, nel recente lavoro di E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, pp. 69 ss. Sul principio della sostituzione cfr. A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 98-99; più di recente G. Capdeville, Substitution de victimes dans les sacrifices d’animaux à Rome, in Mélanges de l’école Française de Rome (Antiquité) 83, 1971, pp. 283 ss.

 

[94] Plinio, Nat. hist. 30.12: Extant certe et apud Italas gentes vestigia eius in xii tabulis nostris aliisque argumentis, quae priore volumine exposui. dclvii demum anno Urbis Cn. Cornelio Lentulo P. Licinio Crasso cos. senatusconsultum factum est, ne homo immolaretur, palamque fit, in tempus illud sacra prodigiosa celebrata.

 

[95] Per l’inquadramento di questo importante passo di Plinio, vedi Th. Köves-Zulauf, Reden und Schweigen. Römische Religion bei Plinius Maior, München 1972, p. 153 n. 159; quanto alla fonte F. Münzer, Beiträge zur Quellenkritik der Naturgeschichte des Plinius, Berlin 1897, p. 177, sosteneva che l’intero paragrafo deriverebbe da M. Terenzio Varrone.

 

[96] P. Fabre, Minime Romano sacro. Note sur un passage de Tite-Live et les sacrifices humains dans la religion romaine, in Revue des Etudes Anciennes 42, 1940, pp. 419 ss.;

 

[97] Sull’origine e sulle finalità religiose di questa e delle altre sepolture rituali della religione romana, vedi: H. Diels, Sibyllinische Blätter, Berlin 1890, pp. 85 ss.; C. Cichorius, Staatliche Menschenopfer, in Id., Römische Studien. Historisches epigraphisches literargeschichtliches aus vier Jahrhunderten Roms, Leipzig-Berlin 1922 [rist. an. Roma 1970], pp. 12 ss.; C. Bémont, Les enterrés vivants du Forum Boarium. Essai d’interprétation, in Mélanges de l’école Française de Rome (Antiquité) 72, 1960, pp. 133 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 256 ss.; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.1, Roma-Bari 1966, pp. 216 ss.; A. Fraschetti, Le sepolture rituali nel Foro Boario, in Le délit religieux dans la cité antique (Table ronde, Rome, 6-7 avril 1978), Rome 1981, pp. 51 ss.; brevemente anche F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 67 s.

 

[98] Plutarco, Marc. 3.6. Cfr. anche Orosio, Adv. pag. 4.13.3; Zonara 8.19.9.

 

[99] Mi pare plausibile, in tal senso, la tesi proposta nel recente saggio di C. Lovisi, Vestale, incestus et juridiction pontificale sous la République romaine, in Mélanges de Ecole Française de Rome (Antiquité) 110, 1998, pp. 699 ss.: a suo avviso, nei momenti di grave pericolo per la res publica, la condanna a morte della vestale, riconosciuta colpevole di aver violato l'obbligo di castità, avrebbe costituito un valido pretesto per compiere un sacrificio umano, altrimenti impraticabile.

 

[100] La solenne formula della devotio si legge in Tito Livio 8.9.4-8: In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna uoce inclamat. "Deorum" inquit "ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei uerba quibus me pro legionibus devoveam." Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem sic dicere: "Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica <populi Romani> Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellurique deuoueo". Per la ricostruzione ritmica della formula vedi G. B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, pp. 60 ss. Fra la dottrina più recente rinvio al libro di H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, cit., pp. 45 ss.; e al saggio di H. S. Versnel, Self-sacrifice, compensation and the anonimus gods, in Le sacrifice dans l'Antiquité, cit., pp. 135 ss.

 

[101] Che in origine il ver sacrum fosse un vero e proprio sacrificio umano, che «consisteva nella sopressione fisica dei nati di talune generazioni», è sostenuto fra gli altri da T. Trincheri, La consacrazione di uomini in Roma. Studio storico giuridico, Roma 1889, pp. 38 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I. La conquista del primato in Italia, Torino 1907, qui citata nella nuova edizione stabilita sugli inediti a cura di S. Accame, Firenze 1979, pp. 292 s.; P. M. Martin, Contribution de Denys d’Halicarnasse à la connaissance du ver sacrum, in Latomus 32, 1973, pp. 23 ss.; E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, pp. 300 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, 6ª ed., Napoli 1999, pp. 108 ss.

 

[102] Su questa cerimonia, vedi da ultimo D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., pp. 168 ss.

 

[103] Dalle fonti risulta che il Tevere veniva invocato sia nelle preghiere degli auguri (Cicerone, De nat. deor. 3.52: in augurum precatione Tiberinum, Spinonem, Anemonem, Nodinum, alia propinquorum fluminum nomina videmus; Servio Dan., in Verg. Aen. 8.95: quia Tiberim libri augurum colubrum loquuntur, tamquam flexuosum); sia negli indigitamenta dei pontefici (Servio, in Verg. Aen. 8.72: sic enim invocatur in precibus “adesto, Tiberine, cum tuis undis”; cfr. Servio Dan., in Verg. Aen. 8.330). Più in generale, sugli aspetti storico-religiosi del culto del Tevere resta ancora fondamentale il lavoro di J. Le Gall, Recherches sur le culte du Tibre, Paris 1953; sul nome del fiume di Roma, rinvio invece al saggio di C. De Simone, Il nome del Tevere. Contributo per la storia delle più antiche relazioni tra genti latino-italiche ed etrusche, in Studi Etruschi 43, 1975, pp. 119 ss.

 

[104] Quanto alla dottrina vedi, per tutti: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., p. 370 [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., p. 316]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 145 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 130 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV. 2, 1, Firenze 1953, pp. 318 s.; E. Eisenhut, v. Ver sacrum, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII A 1, cit., coll. 911 ss.; J. Heurgon, Trois études sur le «ver sacrum», Bruxelles 1957, pp. 35 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 124 s.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche, cit., pp. 104 ss.

 

[105] Nega anche il «sacrificio rituale degli animali» R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, cit., pp. 46: «che in un ver sacrum non possa esservi sacrificio rituale neanche degli animali, è dimostrato dal fatto che un sacrificio ad una divinità determinata non può riguardare una pluralità indefinita di animali, come avviene quando si consacrano tutti i nati in una primavera. Innanzitutto, ad ogni divinità devono essere sacrificati alcuni animali e non altri e, per esempio, Ateio Capitone scriveva nel suo de iure sacrificiorum che Iovi tauro verre ariete immolari non licet. In secondo luogo, le vittime devono superare la probatio e devono essere immolate in numero dispari per gli dèi superi e pari per gli inferi». Ma, in altro senso, la maggior parte della dottrina: cfr. per tutti E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, cit., pp. 300 ss.

 

[106] Fonti sul ver sacrum (a parte Tito Livio): Paolo, Festi ep., p. 519 L.: Ver sacrum vovendi mos fuit Italis. Magnis enim periculis adducti vovebant, quaecumque proximo vere nata essent apud se, animalia immolaturos. Sed cum crudele videretur pueros ac puellas innocentes interficere, perductos in adultam aetatem velabant atque ita extra fines suos exigebant; Festo, p. 424 L.: Sacrani appellati sunt Reate orti, qui ex Septimontio Ligures Siculosque exegerunt; nam vere sacro nati erant; Servio, in Verg. Aen. 7.796: sacranae acies dicunt quendam Corybantem de Creta venisse ad Italiam et tenuisse loca, quae nunc urbi vicina sunt, et ex eo populos ducentes originem Sacranos appellatos; nam sacrati sunt matri deum Corybantes. Alii Sacranas acies Ardeatum volunt, qui aliquando cum pestilentia laborarent, ver sacrum voverunt, unde Sacrani dicti sunt. Cfr. anche Strabone 5.4.12.

 

[107] Di questo pontefice-giurista abbiamo davvero poche essenziali notizie: console nel 237, censore nel 236, ascese al pontificato massimo dopo la morte di L. Cecilio Metello nell'anno 221, morì nel 213 a. C. Sul consolato cfr. T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, p. 234; per il pontificato massimo vedi invece anche C. Bardt, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer Zeit, Berlin 1871, pp. 4 nr. 10, 10 nr. 28; F. Münzer, v. Cornelius (nr. 211), in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV.1, Stuttgart 1900, coll. 1377 ss.; G. J. Szemler, v. Pontifex, ibidem, Suppl. XV, Stuttgart 1978, col. 376; quanto alla data della morte, Tito Livio 25.2.2: Aliquot publici sacerdotes mortui eo anno sunt, L. Cornelius Lentulus pontufex maximus et C. Papirius C. F. Maso pontifex et P. Furius Philus augur et C. Papirius L. F. Maso decemvir sacrorum.

 

[108] Su votum e vota publica vedi A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 165 ss.; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 264 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 315 ss.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 381 ss.; J. Toutain, v. Votum, in Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, V, Paris 1919, pp. 969 ss.; A. Magdelain, Essai sur les origines de la sponsio, Paris 1943, pp. 114 ss.; P. Noailles, Du droit sacré au droit civil. Cours de droit romain approfondi 1941-1942, Paris 1949, pp. 302 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 46; W. Eisenhut, v. Votum, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. XIV, Stuttgart 1966, coll. 964 ss.; K. Visky, Il votum in diritto romano privato, in Index 2, 1971, pp. 313 ss.; più di recente O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di A. Biscardi, IV, Milano 1983, pp. 297 ss.; Id., v. Voveo, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1990, pp. 629 ss.; infine J. Daza, El votum, in Derecho de obligaciones. Homenaje al profesor J. Murga Gener, coordinación y presentación J. Paricio, Madrid 1994, pp. 505 ss.

 

[109] B. Brissonii, De formulis et solennibus populi Romani verbis libri VIII, ed. Francofurti et Lipsiae 1754, p. 88 nr. CLXI; P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 10 fr. 47; G. Appel, De Romanorum precationibus, Gissae 1909, pp. 8 s. fr. 5.

 

[110] Tito Livio 22.9.7-10: Q. Fabius Maximus dictator iterum, quo die magistratum iniit, vocato senatu, ab dis orsus, cum edocuisset patres plus neglegentia caeremoniarum auspiciorumque quam temeritate atque inscitia peccatum a C. Flaminio consule esse, quaeque piacula irae deum essent ipsos deos consulendos esse, pervicit, ut, quod non ferme decernitur, nisi cum taetra prodigia nuntiata sunt, decemviri libros Sibyllinos adire iuberentur. Qui inspectis fatalibus libris rettulerunt patribus, quod eis belli causa votum Marti foret, id non rite factum de integro atque amplius faciendum esse, et Iovi ludos magnos et aedes Veneri Erucinae ac Mentis vovendas esse et supplicationem lectisterniumque habendum et ver sacrum vovendum, si bellatum prospere esset resque publica in eodem, quo ante bellum fuisset, statu permansisset.

Cfr. J. Scheid, Les incertitudes de la uoti sponsio. Observations en marge du uer sacrum de 217 av. J.-C., in Mélanges de droit romain et d'histoire ancienne. Hommage à la mémoire de André Magdelain, a cura di M. Humbert e Y. Thomas, Paris 1998, pp. 417 ss.

 

[111] Sottolinea l'eccezionalità di un simile voto J. Heurgon, Trois études sur le «ver sacrum», cit., p. 36: «En fait, dans toute l'histoire de la République, il n'y en a pas d'autre exemple: pris au piège d'un vœu imprudent, les Romains ont fini par s'en acquitter sans y laisser trop de plumes, mais en jurant de ne plus recommencer».

 

[112] Cfr. F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., pp. 104 ss.

 

[113] Invero, è tutta la seconda metà del III secolo ad essere interessata, seppure con alterni riflussi, da un forte movimento riformatore; sono databili in questo periodo, ad esempio, la riforma dell'ordinamento centuriato (su cui vedi, fra gli altri, G. De Sanctis, Storia dei Romani, III.1 [Torino 1916], 1ª rist. della 2ª ed., Firenze 1970, pp. 327 ss.); e la distribuzione viritim dell'ager Picenus Gallicus (vedi F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit., pp. 209 ss.). Per un quadro più generale della società e delle istituzioni politiche romane negli anni tra le due guerre puniche, rimando alle finissime analisi di A. J. Toynbee, L'eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana, I. Roma e l'Italia prima di Annibale, trad. it., Torino 1981, pp. 353 ss.

 

[114] Sull'evoluzione della dittatura, cfr. per tutti, F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2ª ed., Napoli 1972, pp. 438 ss., del quale mette conto riferire il pensiero a proposito della provocatio: «Quando la provocatio ad populum fu estesa alla dittatura non è detto dalle fonti, nè si può affermare con certezza che ciò sarebbe avvenuto con la terza delle leggi de provocatione, cioè nel 300. Senza dubbio, con tale riforma la dittatura perdeva molto del suo carattere eccezionale, almeno nei rapporti con i cittadini, e quindi deve presumersi che il moto democratico fosse abbastanza sviluppato, il che non può certo dirsi dell'inizio del III secolo» (p. 447).

 

[115] La frase, riferita a L. Cornelio Lentulo, si legge in A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 168.

 

[116] Il carattere obbligatorio del voto era stato assai bene evidenziato da A. Pernice, Zum römischen Sacralrechte (I), in Sitzungsberichte der Akademie der Wissenschaften zu Berlin 51, 1885, p. 1148: «Die Wirkung des Votums ist eine obligatio, eine sacralrechtliche Verbindlichkeit, eine religiöse und Gewissenspflicht». Brevemente, ora, vedi anche il recente lavoro di F. V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid of Virgil, cit., pp. 91 ss.

Del resto, nelle fonti il verbo obligare appare di frequente utilizzato in riferimento al votum: cf. Cicerone, De leg. 2.41: Diligentiam votorum satis in lege dictum est *** ac voti est sponsio, qua obligamur deo; D. 50.12.2 (Ulpianus, libro primo disputationum): Si quis rem aliquam voverit, voto obligatur. Quae res personam voventis, non rem quae vovetur obligat. Res enim, quae vovetur, soluta quidem liberat vota, ipsa vero sacra non efficitur. Voto autem patres familiarum obligantur puberes sui iuris: filius enim familias vel servus sine patris dominive auctoritate voto non obligantur. Si decimam quis bonorum vovit, decima non prius esse in bonis desinit, quam fuerit separata. Et si forte qui decimam vovit decesserit ante sepositionem, heres ipsius hereditario nomine decimae obstrictus est: voti enim obligationem ad heredem transire constat; Macrobio, Sat. 3.2.6: Constituam ante aras voti reus. Haec vox propria sacrorum est, ut reus vocetur qui suscepto voto se numinibus obligat, damnatus autem qui promissa vota iam solvit; Servio, in Verg. Buc. 5.80: damnabis tu quoque votis id est cum deus praestare aliqua hominibus coeperis, obnoxios tibi eos facies ad vota solvenda, quae ante quam solvantur, obligatos et quasi damnatos homines retinent.

 

[117] Da questo punto di vista, anche la successiva giurisprudenza pontificale non transige sull'applicazione della regola «iniussu populi voveri non posse»: cfr. Cicerone, De domo 136: Sed, ut revertar ad ius publicum dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas caerimonias, sed etiam ad populi iussa accomodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse recte dedicare. Quid? cum Licinia virgo Vestalis summo loco nata, sanctissimo sacerdotio praedita, T. Flaminio Q. Metello consulibus aram et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam rem ex auctoritate senatus ad hoc collegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola pontifex maximus pro collegio respondit: “quod in loco publico Licinia Gai filia iniussu populi dedicasset, sacrum non viderier”. Dalle fonti, peraltro, abbiamo conferma della vigenza di tale regola già alla fine del V secolo a.C.; come si apprende da Tito Livio 4.20.4: Dictator coronam auream libram pondo ex publica pecunia populi iussu in Capitolio Iovi donum posuit. Che lo storico ricavi la notizia da una buona fonte, seppure non attinga a documenti originali, mi pare fuor di dubbio: quasi sicuramente seguiva l'annalista Licinio Macro, citato più avanti nel paragrafo 8 dello stesso capitolo, il quale utilizzava di prima mano non solo alcuni non meglio definiti veteres annales, ma soprattutto documenti ufficiali di qualità eccellente, i magistratuum libri, qui lintei in aede repositi Monetae (cfr. Tito Livio 4.20.8: Quis ea in re sit error, quod tam veteres annales quodcumque magistratuum libri, quos linteos in aede repositos Monetae Macer Licinius citat identidem auctores, septimo post demum anno cum T. Quinctio Poeno A. Cornelium Cossum consulem habeant, existimatio communis omnibus est.

 

[118] G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 473 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., p. 411].

 

[119] Significativo, in tal senso, appare l'uso dell'arcaica forma duellum in luogo di bellum, di cui restava memoria ormai solo nelle opere di eruditi e antiquari (Varrone, De ling. Lat. 7.49: Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellum, <a per> et duellum; id postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona; cfr. Cicerone, Orat. 153; Quintiliano. Inst. orat. 1.4.15) e nelle formule solenni della lingua sacerdotale: così ancora in età imperiale, negli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto e in quelli dei Ludi celebrati da Settimio Severo, i concetti di pace e guerra vengono espressi dai sacerdoti con i termini domus e duellum (Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI.32323.94 = G. B. Pighi, De ludibus saecularibus populi Romani Quiritium, Milano 1941, p. 114; Act. lud. saec. Sept. Sev. 4.11 = C.I.L. VI.32329.11 = G. B. Pighi, Op. cit., p. 157: imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit). Del resto, altre fonti confermano che la tradizione documentaria sacerdotale conosceva e conservava arcaismi linguistici (cfr. ad esempio Festo, Praeceptat, p. 222 L.; Pilumnoe poploe, p. 224 L.) e non disdegnava l'uso di una lingua arcaizzante nella composizione di nuovi carmina. Si veda, al riguardo, ciò che ha scritto sui carmina dei Salii E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, pp. 174 s.: «la notizia riportata da Paolo Diacono vuol dire che almeno al tempo di Verrio Flacco i salii componevano ancora nuovi carmina. E se Cicerone formula le proprie leggi in uno stile arcaico “quo plus auctoritate habeant”, a fortiori, in quello stesso secolo, si saranno attenuti ai propri moduli arcaici i salii, nel cui ambiente vigeva la sacralità della forma linguistica».

 

[120] L'eccezionale rifinitura di esso non è sfuggita alla dottrina più avvertita: cfr. A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 167 s.: «Ce document fait honneur à la science théologique de son auteur. Tout ce qui pourrait alarmer la conscience du peuple romain et invalider l'accomplissement du vœu y est prévu et excusé d'avance»; a cui faceva eco, un secolo più tardi, G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 474: «Cette formule est un beau monument de la prudence, du bon sens que les experts sacrés de Rome apportaient à la réglementation des choses les plus artificielles» [= Id., La religione romana arcaica, trad. it., cit., p. 411].

 

[121] Aulo Gellio, Noct. Att. 4.6.10: Propterea verba Atei Capitonis ex quinto librorum, quos de pontificio iure composuit, scripsi: ‘Tib. Coruncanio pontifici maximo feriae praecidaneae in atrum diem inauguratae sunt. Collegium decrevit non habendum religioni, quin eo die feriae praecidaneae essent’. Caso, del tutto insolito (perciò citato da Capitone), di feriae praecidaneae celebrate in dies ater, senza che il collegio dei pontefici ravvisasse impedimenti rituali. La ratio del decreto pontificale assimila in sede di interpretatio l'azione irrituale di Coruncanio agli atti compiuti in violazione di divieti giuridici e religiosi dall'insciens o dall'imprudens: cfr. F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., pp. 92 s. In altro senso, vedi ora G. Viarengo, I giuristi arcaici: Tiberio Coruncanio, in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 2 (7), 2000, pp. 78 ss.

 

[122] La dimensione storica del frammento pomponiano è stata, di recente, oggetto di accurato studio da parte di D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 497 ss., in part. 563 ss. Quanto poi ai problemi di critica testuale, rinvio ai risultati delle ricerche "pomponiane'' di M. Bretone, ora raccolte nel suo Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2ª ed., Napoli 1982, pp. 209 ss.

 

[123] Oltre Coruncanio, solo altri tre giuristi sono nominati più di una volta nel frammento dell'Enchiridion: si tratta del pontefice Papirio (D. 1.2.2.2; D. 1.2.2.36), di Appio Claudio Cieco (D. 1.2.2.7; D. 1.2.2.36) e di Sesto Elio Peto (D. 1.2.2.7; D. 1.2.2.38). Sull'importanza dell' «indizio della doppia citazione», vedi F. D'Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica, Napoli 1978 (ma 1979), pp. 29 ss.

 

[124] D. 1.2.2.35: Et quidem ex omnibus, qui scientiam nancti sunt, ante Tiberium Coruncanium publice professum neminem traditur: ceteri autem ad hunc vel in latenti ius civile retinere cogitabant solumque consultatoribus vacare potius quam discere volentibus se praestabant; e ancora D. 1.2.2.38: Post hos fuit Tiberius Coruncanius, ut dixi, qui primus profiteri coepit: cuius tamen scriptum nullum extat, sed responsa complura et memorabilia eius fuerunt.

La storicità dei fatti riferiti in questi passi di Pomponio è stata oggetto di serrata critica da parte di F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. di G. Nocera, Firenze 1968, p. 27: «Il medesimo giudizio deve essere pronunciato sulla tarda tradizione, secondo cui Tiberio Coruncanio, il primo pontifex maximus plebeo, fu il primo ad impartire una sorta di insegnamento del diritto, dando i suoi responsa in pubblico. Il racconto è evidentemente condotto sulla base di un passo di Cicerone, che nomina alcuni giuristi come avessero dato responsa in pubblico; Coruncanio è a capo della lista. La notizia perde così ogni valore: anche prima di Coruncanio i pontefici, all'occasione, debbono aver dato responsa in pubblico. Quanto poco Coruncanio segni una rottura può essere desunto dal fatto che non conosciamo nessun suo allievo importante». Ma il carattere profondamente innovativo delle consultazioni pubbliche di Tiberio Coruncanio era stato già evidenziato da F. D. Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig 1867, pp. 157 ss.; P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen, Berlin 1888, pp. 76 s.; Id., v. Coruncanius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV.2, Stuttgart 1901, coll. 1663 ss.; e A. Berger, v. Iurisprudentia, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, X.1, Stuttgart 1917, col. 1161. Nello stesso senso si orienta la maggior parte della dottrina successiva: cfr., fra gli altri, L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, p. 480; R. Werner, Der Beginn der römischen Republik. Historisch-chronologische Untersuchungen über die Anfangszeit der libera res publica, München-Wien 1963, pp. 10 ss.; G. Nocera, Iurisprudentia.. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, p. 84; P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed., Roma 1974, pp. 368 s.; F. D'Ippolito, I giuristi e la città, cit., pp. 47 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, pp. 76 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 112 («Cinquant'anni più tardi un altro plebeo, il tusculano Tiberio Coruncanio, pronunciò i suoi responsi in pubblico, spezzando la tradizionale segretezza del collegio»); F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, München 1988, p. 535; C. A. Cannata, Histoire de la jurisprudence européenne, I. La jurisprudence romaine, Torino 1989, p. 40; A. Guarino, Storia del diritto romano, 8ª ed., Napoli 1990, pp. 233, 293.

Ancora sulla scia dello Schulz si colloca, invece, M. Brutti, in AA. VV., Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M. Talamanca, 2ª ed., Milano 1989, p. 298.

 

[125] Le fonti sul cursus honorum di Tiberio Coruncanio sono raccolte da T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, New York 1952, pp. 190 s., 210, 216, 218; i legami politici del pontefice massimo plebeo sono invece esposti da F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit., pp. 136, 159 ss. In generale sul giurista: P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, cit., pp. 73 ss.; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, cit., p. 37; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952, pp. 7 s.; F. Wieacker, Die römischen Juristen in der politischen Gesellschaft des zweiten vorchristlichen Jahrhunderts, in Sein und Werden im Recht. Festgabe von Lübtow, Berlin 1970, p. 191; F. D'Ippolito, I giuristi e la città, cit., pp. 29 ss.; R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics, cit., pp. 71 ss.

 

[126] Tito Livio, Per. 18.

 

[127] Cicerone, Cato mai. 27: Nihil Sex. Aelius tale, nihil multis annis ante Ti. Coruncanius, nihil modo P. Crassus, a quibus iura civibus praescribebantur; quorum usque ad extremum spiritum est provecta prudentia. Su questi giuristi, vedi ora F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., pp. 71 ss.

 

[128] Cicerone, De orat. 3.56: Hanc, inquam, cogitandi pronuntiandique rationem vimque dicendi veteres Graeci sapientiam nominabant. Hinc illi Lycurgi, hinc Pittaci, hinc Solones atque ab hac similitudine Coruncanii nostri, Fabricii, Catones, Scipiones fuerunt, non tam fortasse docti, sed impetu mentis simili et voluntate. Cfr. anche 3.134: Haec fuit P. Crassi illius veteris, haec Ti. Coruncani, haec proavi generi mei Scipionis prudentissimi hominis sapientia, qui omnes pontifices maximi fuerunt, ut ad eos de omnibus divinis atque humanis rebus referretur; eidemque in senatu et apud populum et in causis amicorum et domi et militiae consilium suum fidemque praestabant.

 

[129] Cicerone, De nat. deor. 1.115: “At etiam de sanctitate, de pietate adversus deos libros scripsit Epicurus”. At quo modo in his loquitur? Ut <Ti.> Coruncanium aut P. Scaevolam, pontifices maximos, te audire dicas, non eum qui sustulerit omnem funditus religionem nec manibus, ut Xerses, sed rationibus deorum immortalium templa et aras everterit.Quid est enim cur deos ab hominibus colendos dicas, cum dei non modo homines non colant sed omnino nihil curent, nihil agant?; cfr. ibid. 3.5: Quod eo, credo, valebat, ut opiniones quas a maioribus accepimus de dis immortalibus, sacra, caeremonias, religionesque defenderem. Ego vero eas defendam semper semperque defendi, nec me ex ea opinione, quam a maioribus accepi de cultu deorum immortalium, ullius umquam oratio aut docti aut indocti movebit. Sed cum de religione agitur, Ti. Coruncanium, P. Scipionem, P. Scaevolam, pontifices maximos, non Zenonem aut Cleanthen aut Chrysippum sequor, habeoque C. Laelium, augurem eundemque sapientem, quem potius audiam dicentem de religione, in illa oratione nobili, quam quemquam principem stoicorum. Sui testi citati, vedi l'ampio commento di A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum libri tres, 2 voll. (1955 e 1957), rist. an. Darmstadt 1968: rispettivamente vol. I, pp. 506 ss.; vol. II, pp. 983 ss.

 

[130] Per l’analisi e l’esegesi di questi frammenti mi permetto di rinviare a F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., pp. 87 ss.

 

[131] La memoria dei responsa di Coruncanio, seppure non legata concretamente alla conservazione delle sue opere, permane ancora nel II secolo d. C.: Pomponio, in D. 1.2.2.38: cuius tamen scriptum nullum extat, sed responsa complura et memorabilia eius fuerunt. P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, cit. p. 77 n. 2, considera la parola memorabilia non riferibile a responsa: «Unter Memorabilia sind typische Züge, Anekdoten, schlagende Aussprüche zu verstehen, welche man in späterer Zeit nach dem Vorgange der peripatetischen Schule eifrig sammelte, um den Charakter berühmter Männer daraus zu erkennen».

 

[132] Vedi in proposito quanto scriveva F. D. Sanio, Varroniana, cit., p. 162: «Einzelne responsa und memorabilia dicta des Coruncanius, die sich mit den Namen des Urhebers in commentariis pontificum oder in alten libris de iure pontif. im Andenken erhalten hatten, waren ohne Zweifel Cicero's Zeitgenossen». Lo studioso tedesco negava, tuttavia, che essi fossero pervenuti direttamente fino a Pomponio.

 

[133] Cicerone, Brut. 55: Possumus Appium Claudium suspicari disertum, quia senatum iamiam inclinatum a Pyrrhi pace revocaverit; possumus C. Fabricium, quia sit ad Pyrrhum de captivis recuperandis missus orator; Ti. Coruncanium, quod ex pontificum commentariis longe plurimum ingenio valuisse videatur. Sul punto, F. D'Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo 23, 1977, p. 139, il quale ritiene più che probabile «che Cicerone abbia potuto leggere i commentari dei pontefici e farsi un'idea dell'eloquenza e dell'impegno del giurista» [= Id., I giuristi e la città, cit., p. 41]; nello stesso senso, cfr. anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 96 s., 121; e da ultimo, F. Bona, Ius pontificium e ius civile nell'esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in «Contractus e pactum». Tipicità e libertà negoziale nell'esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della 'littera Florentina', a cura di F. Milazzo, Napoli 1990, p. 214: «Poiché non è trasmesso che siano stati in circolazione scritti apocrifi di Coruncanio, come si dice sia avvenuto per Sesto Elio e per M. Giunio Bruto, è da credere che anche i responsa di ius civile del pontefice fossero in buona parte consegnati, come quelli di ius pontificium, ancora nei commentaria pontificum».

 

[134] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 12 fr. 55; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., p. 8 fr. 1; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 1 fr. 1; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., p. 87 fr. 1.

 

[135] Per la discussione dei problemi teologici e rituali posti da questo frammento, vedi soprattutto A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 97; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 165.

 

 

[136] Cicerone, De leg. 2.29. Arnobio, Adv. nat. 7.19: dis feminis feminas, mares maribus hostias immolare abstrusa et interior ratio est vulgique a cognitione dimota.

           

[137] Varrone, De re rust. 2.4.16: Cum porci depulsi sunt a mamma, a quibusdam delici appellantur neque iam lactantes dicuntur, qui a partu decimo die habentur puri, et ab eo appellantur ab antiquis sacres, quod tum ad sacrificium idonei dicuntur primum.

 

[138] Sottolinea la difficoltà degli antichi a precisare il termine in questione, D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, cit., p. 197: «però quando poi si passava a spiegare perché certe vittime erano dette bidentes non si sapeva più che dire». Per le diverse posizioni della dottrina, vedi M. Kretzer, De Romanorum vocabulis pontificalibus, Diss. Halis Saxonum 1903, pp. 70 s.; e soprattutto M.- A. Kugener, Hostia bidens, in Mélanges P. Thomas, Bruegge 1930, pp. 493 ss.

 

[139] Le difficoltà definitorie della scienza pontificale risultano assai evidente nelle fonti: cfr. Aulo Gellio, Noct. Att. 16.6.12-15; Servio, in Verg. Aen. 4.57; Macrobio, Sat. 6.9.5-7 (di cui il testo gelliano costituisce indubbiamente la fonte); Paolo, Fest. ep., p. 30 L.