Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-2
Francesco Sini
Sassari, Libreria
Dessì Editrice, 1983
pp. 234
LE
FONTI LATINE
Sommario:
1. Elenco dei passi che menzionano libri e commentarii. – 2. Una testimonianza
sacerdotale: Cicerone. – 3. La ricerca
filologico-antiquaria: i libri
sacerdotali negli scritti di Varrone. – 4. Verrio Flacco e Sesto Pompeo
Festo. – 5. Tito Livio. – 6. Seneca, Plinio,
Quintiliano, Censorino, Arnobio, Mario Vittorino. – 7. Servio e Servio Danielino. –
8. Dai Saturnalia di
Macrobio. – 9. Le fonti epigrafiche.
[p.
91]
Come
abbiamo veduto in precedenza, la radicale diversità di atteggiamenti con
cui la dottrina romanistica contemporanea affronta il problema della
distinzione (e precisazione) del contenuto dei libri e dei commentarii sacerdotali si basa essenzialmente su due modi
contrastanti di leggere le fonti[1].
Si rende perciò necessario procedere, in maniera sistematica,
all’esame di quelle fonti latine, in cui i termini libri e commentarii sono
usati per indicare documenti di provenienza sacerdotale[2];
poiché solo attraverso la verifica testuale si possono ricavare
indicazioni risolutive: capaci, cioè, di confermare –
compatibilmente con lo stato delle fonti – una delle prospettive presenti
in dottrina su tale problema. Si tratta, insomma, di stabilire se la
distinzione del contenuto dei libri da
quello dei commentarii trovi conferma
nello stato delle fonti, oppure se tale distinzione sia contraddetta proprio
dal dato testuale.
Ma vi è una
ulteriore ragione che suggerisce il riesame complessivo di queste fonti. Non
bisogna, infatti, dimenticare che a partire dall’inizio di questo secolo,
in concomitanza con l’affermarsi in seno alla dottrina
dell’opinione contraria alla distinzione tra libri e commentarii, si
è andato diradando fra gli studiosi il ricorso al dato testuale: si
è preferito, insomma, richiamarsi, sempre più spesso, alla
lettura che delle fonti avevano dato gli autori precedenti[3],
le cui tesi erano state peraltro
[p. 92]
già accolte e sintetizzate negli
articoli relativi a documenti e collegi sacerdotali pubblicati nelle grandi opere
enciclopediche[4].
Fra
i testi che citano libri e commentarii sacerdotali, va fatta
intanto una prima distinzione. Da una parte, troviamo un certo numero di passi
in cui i termini in questione non appaiono riferibili immediatamente ad un
determinato collegio, sebbene il contesto di tali passi mostri senza alcun
dubbio che si tratta di documenti provenienti dagli archivi sacerdotali: basti
pensare, ad esempio, ad espressioni quali libri
sacerdotum populi Romani[5], commentarii sacrorum[6] ed altre simili[7].
Dall’altra parte, abbiamo un certo numero di passi in cui il termine libri o commentarii si trova in un contesto tale da rendere ben esplicito
il riferimento a documenti dell’archivio di uno dei collegi sacerdotali
romani.
Seguendo
il criterio di attenerci rigidamente al dato testuale, affronteremo soltanto
l’esame di questi ultimi passi, riportandone anzitutto, di seguito,
l’elenco (dal quale sono stati omessi quelli riguardanti i libri
sibillini)[8].
I passi da esaminare contengono le seguenti espressioni:
libri pontificii: Cicerone, De re publ. 2, 54; De nat. deor. 1, 84; Varrone, De ling. Lat. 5, 98; Festo, p. 488
Lindsay;
libri
pontificales: Seneca, Epist. 108, 31; Servio, Aen.
7, 190; 12, 603; Ecl. 5, 66; Georg. 1, 344; Servio Dan., Georg. 1, 21. 270; C.I.L. VI, 2195 b;
libri pontificum: Cicerone, De domo 33; De orat. 1, 193; Orazio,
Epist. 2, 1, 26; Festo, p.
libri augurales: Cicerone, De re publ. 1, 63; 2, 54; De div. 1,
72; Epist. ad fam. 3, 11, 4; Festo, p.
[p. 93]
libri augurum: Cicerone, De domo 39; Ad. Att. 9, 3; Varrone, De
ling. Lat. 5, 21. 58; 7, 51;
Servio Dan., Aen. 3, 537; 4, 45; 8, 95; Macrobio, Sat. 1, 16, 19;
libri saliorum: Varrone, De ling. Lat. 6, 14;
commentarii pontificum: Cicerone, Brut. 55; De domo 136; Livio 4, 3, 9; 6, 1, 2; Quintiliano, Inst. orat. 8, 2, 12; Plinio, Nat. hist. 18, 14;
commentarii augurales: Cicerone, De div. 2, 42; Festo, p.
commentarii XVvirorum: Censorino, De die nat. 17, 9. 10. 11; C.I.L. VI, 2312;
commentarii fratrum Arvalium: C.I.L. VI,
commentarii VII virum Epulonum: C.I.L. VI, 2319 b.
Come
risulta dal prospetto, lo scrittore più antico, nelle cui opere troviamo
menzionati libri e commentarii sacerdotali, è M.
Tullio Cicerone, il quale in ben dodici passi cita tali generi di documenti.
Non mi pare affatto necessario dilungarsi qui in considerazioni di carattere
generale circa l’attendibilità ed il valore della testimonianza
ciceroniana[9];
è certo infatti che egli, consolare, augure dal
[p.
94]
anche a voler
accettare la tesi dell’inaccessibilità degli archivi[12],
era in grado di accedere di persona almeno ai documenti conservati
nell’archivio del suo collegio[13].
Senza contare che nelle sue opere vi sono numerosi altri luoghi, in cui
l’oratore fa intendere chiaramente di utilizzare materiali provenienti
dagli archivi sacerdotali, pur senza specificare in concreto da quali documenti
siano tratti[14].
Possiamo quindi concludere che la sua testimonianza sull’attività
e sulla documentazione dei principali collegi sacerdotali si presenta come
assolutamente fededegna[15].
Ma
veniamo ai passi: nove riguardano i libri
(degli auguri e dei pontefici), gli altri tre i commentarii (sempre degli auguri e dei pontefici).
De re publ. 2, 54: Provocationem autem etiam a regibus fuisse
declarant pontificii libri, significant nostri etiam augurales[16].
De nat. deor. 1, 84: At
primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum; non enim ut tu Velleius,
quocumque veneris, sic idem in Italia Volcanus, idem in Africa, idem in
Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris,
deorum autem innumerabilis[17].
De domo 33: Quid est enim aut tam adrograns quam de religione,
de rebus divinis, caerimoniis, sacris pontificum collegium docere conari, aut
tam stultum quam, si quis quid in vestris libris invenerit, id narrare vobis,
aut tam curiosum quam ea scire velle, de quibus maiores nostri vos solos et
consuli et scire voluerunt?[18].
De orat. 1, 193: Nam, sive quem haec Aeliana studia delectant,
plurima est in omni iure civili et in pontificum libris et in XII tabulis
antiquitatis effigies, quod et verborum vetustas prisca cognoscitur et actionum
genera
[p. 95]
quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant[19].
De domo 39: Venio ad augures, quorum ego libros, si qui sunt
reconditi, non scrutor: non sum in exquirendo iure augurum curiosus: haec, quae
una cum populo didici, quae saepe in contionibus responsa sunt, novi. Negant
fas esse agi cum populo, quum de caelo servatum sit[20].
De re publ. 1, 63: Nam dictator ab eo appellatur quia dicitur. Sed
in nostris libris vides eum, Laeli, magistrum populi appellari[21].
Ad Att. 9, 9, 3: Nos autem in libris habemus non modo consules
a praetore sed ne praetores quidem creari ius esse, id factum esse nusquam:
consules eo non esse ius quod maius imperium a minore rogari non sit ius,
praetores autem cum ita rogentur ut collegae consules sint, quorum est maius
imperium[22].
De div. 1, 72:
Quorum alia sunt posita in monumentis et disciplina, quod Etruscorum declarant
et haruspicini et fulgurales et rituales libri, vestri etiam augurales[23].
Epist. ad fam. 3, 11, 4:
Nam augurales libros ad commune utriusque nostrum otium serva; ego enim, ad te
quum tua promissa per litteras flagitabam, ad urbem te otiosissimum esse
arbitrabam, nunc tamen, ut ipse polliceris, pro auguralibus libris orationes
tuas confectas omnes exspectabo[24].
Dalla lettura di
questi passi si può trarre dunque qualche considerazione:
a) In alcuni casi
in cui Cicerone utilizza il termine libri,
sembra riferirsi a documenti di grande antichità: per i libri dei pontefici sottolinea
testualmente la plurima effigies
antiquitatis; mentre la vetusta espressione magister populi, con cui
[p. 96]
si indicava il dictator
nei libri degli auguri, data in epoca
risalente la formazione di questi libri.
b)
Il termine libri è sottinteso
da Cicerone per indicare quei documenti sacerdotali che contenevano gli
elenchi, certo assai antichi, dei nomina
deorum, cioè di quelle
invocazioni rituali delle divinità che venivano chiamate indigitamenta.
c)
La denominazione libri sembra anche riguardare documenti in cui si
tramandavano precetti e procedure di carattere giuridico-religioso: come, ad
esempio, quelle relative alla provocatio[25], o il divieto di agi cum populo quum de caelo servatum sit[26].
Nei commentarii si raccoglieva e si
conservava la memoria dell’attività interpretativa dei collegi:
De domo 136: Sed, ut revertar ad ius publicum
dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas caerimonias, sed etiam
ad populum iussa accomodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium
Censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse eique
M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus
Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse
recte dedicari[27].
Brutus 55: Possumus (...) suspicari
disertum (.....) Ti. Coruncanium, quod ex pontificum commentariis longe
plurimum ingenio valuisse videatur[28].
De div. 2, 42: Itaque in nostris commentariis
scriptum habemus: “Iove tonante, fulgurante comitia populi habere
nefas”[29].
Era
così possibile conoscere da tali documenti le decisioni dei pontefici e
degli auguri[30],
come il responso sul caso del censore C. Cassio[31],
di cui Cicerone riassume il contenuto; allo stesso modo, ancora al tempo del
nostro autore, si poteva
[p.
97]
valutare
l’opera del grande pontefice massimo Tiberio Coruncanio[32] ex pontificum commentariis[33].
Come
si vede, Cicerone non discute mai in maniera sistematica del contenuto degli
archivi sacerdotali, sicché non appare possibile, sulla base dei passi
citati, ricostruirne in modo completo il quadro complessivo. Questo fatto non
implica, tuttavia, che i passi in questione non siano utili per la ricerca sui libri e sui commentarii: al contrario
in essi abbiamo elementi assai significativi, che ci consentono di intravvedere
l’esistenza di una qualche distinzione tra questi due generi di
documenti, almeno per le parti di materie di volta in volta concretamente
attribuite a ciascuno di essi.
Da
numerosi passi delle opere di M. Terenzio Varrone[34]
si intuisce che quest’autore aveva una conoscenza diretta e minuziosa dei
documenti conservati negli archivi dei sacerdoti romani, sebbene non risulti
che egli sia stato membro di alcuno dei grandi collegi[35].
Certamente l’antiquario deve aver consultato tali documenti nel comporre
le Antiquitates rerum divinarum[36], ma anche, più in generale, nel
vastissimo lavoro di ricerca storico-filologica, i cui risultati fecero di
Varrone il più insigne studioso del suo tempo[37].
A questo proposito, mette conto ricordare che le Antiquitates furono dedicate a C. Giulio Cesare (il quale era anche
pontefice massimo e proprio in tale veste destinatario della dedica)[38]
forse anche come segno di ringraziamento per l’accesso ai documenti
pontificali da lui consentito all’antiquario reatino[39].
Da
quanto si è detto, sia sulla conoscenza dei documenti, sia sui modi con
cui Varrone avrebbe avuto praticamente accesso agli archivi sacerdotali,
risulta evidente la necessità di maggiori approfondimenti da parte della
dottrina in merito
[p. 98]
al problema,
peraltro fondamentale per la comprensione della teologia varroniana[40],
del rapporto tra questa e la teologia “tradizionale” romana, quale
si può ricostruire attraverso i documenti dei sacerdoti[41].
Abbiamo
cinque passi[42]
del De lingua Latina[43] in cui Varrone usa il termine libri con preciso riferimento a
documenti sacerdotali: le espressioni utilizzate in questi passi sono: libri pontificii, libri augurum e libri
saliorum:
De ling. Lat. 5, 98: Aries † qui eam dicebant ares,
veteres nostri ariuga, hinc ariugas. Haec sunt quorum in sacruficiis exta in
olla, non in veru coquuntur, quas et Accius scribit et in pontificiis libris
videmus. In hostis eam dicunt † ariugem quae cornua habeat[44].
ib. 5, 58:
Terra enim et Caelum, ut <Sa>mothracum initia docent, sunt dei magni, et
hi quos dixi multis nominibus, non quas <S>amo<th>racia ante portas
statuit duas virilis species aeneas de [i]mag[i]ni, neque ut vulgus putat, hi
Samot<h>races dii, qui Castor et Pollux, sed hi mas et femina et hi quos
augurum libri scriptos habent sic “divi qui potes” pro illo quod
Samot<h> races “theœdynatœ”[45].
ib. 7, 51: Supremum a superrumo dictum: itaque Duodecim
Tabulis dicunt: solis occasu diei suprema tempestas esto. Libri augurum pro
tempestate tempestutem dicunt supremum augurii tempus[46].
ib. 5, 21: Terra dicta ab eo, ut
Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno[47].
ib. 6, 14: In libris Saliorum quorum cognomen
Agonensium, forsitam hic dies ideo appelletur potius Agonia[48].
La lettura del
primo passo potrebbe confermare la tesi
[p. 99]
che Varrone avesse
una certa familiarità con i libri
pontificum: si spiegherebbe, in tal modo, il fatto che metta sullo stesso
piano i libri citati ed un autore a
lui sicuramente accessibile come Accio, «quas et Accius scribit et in
pontificiis libris videmus»; inoltre, lo stesso contenuto del passo fa
ritenere che l’espressione libri
pontificii non abbia un significato generico, ma piuttosto che indichi
l’esatta denominazione dei documenti da cui Varrone ha tratto
l’informazione tecnica su quel tipo di vittima[49].
Anche
nel caso dell’espressione libri
saliorum, mi pare indiscutibile
il riferimento ad una formula di preghiera tratta per l’appunto da tali
“libri”[50]. Per quanto riguarda poi le citazioni
dei libri augurum, la prima sembra essere una formula
d’invocazione, mentre le altre due sono riportate come esempio di
antichità; De ling. Lat. 7, 51
contiene invece un’interessante notazione sul tempo dell’augurium, risalente di certo all’antichissimo periodo in cui la
disciplina augurale ha fissato i suoi precetti fondamentali[51].
Va
infine detto che i passi citati pongono un problema di non facile soluzione.
Varrone non menziona mai (né nel De
lingua Latina, né in
frammenti delle altre opere variamente pervenuti) altri documenti sacerdotali.
Ciò potrebbe costituire una ulteriore dimostrazione della mancanza di
qualche apprezzabile diversità di contenuto tra libri e commentarii, in quanto lo stesso Varrone userebbe il
termine libri nel significato generico
di “documenti” o “archivio” sacerdotali.
A
questa conclusione si possono, tuttavia, opporre valide obiezioni. In primo
luogo è da sottolineare, ancora una volta, la parzialità della
nostra conoscenza dell’insieme dell’opera varroniana, e,
soprattutto, la perdita delle Antiquitates
rerum divinarum (in cui, con molta probabilità, vi dovevano essere
riferimenti ai documenti sacerdotali).
La
seconda obiezione, più legata al dato testuale, si fonda sulla
constatazione che dai passi esaminati si ricava un significato non generico del
termine libri, a cui fa riscontro un significato altrettanto
“tecnico” del termine commentarii,
laddove
[p. 100]
si citano i commentarii consulares[52].
Un’altra
fonte importante per questo lavoro è la famosa opera di Verrio Flacco[53],
grammatico dell’età augustea, intitolata De verborum significatu[54].
Com’è noto, l’opera di Verrio è andata perduta, ma
larga parte del suo contenuto ci è pervenuta nel compendio di Sesto
Pompeo Festo[55],
scritto intorno al 200 d.C., e attraverso l’epitome di questo ultimo ad
opera di Paolo Diacono (VIII sec. d.C.).
Da Festo vengono
citati due volte i libri dei
pontefici, una volta i libri ed i commentarii56[56]
degli auguri, ed ugualmente ai libri degli
auguri sembra riferirsi un altro passo, di non facile lettura:
v. Opima spolia, p.
[p. 101]
v. Tesca, p. 488 L.:. . . . . . .
<Tesca sun>t loca augurio
desig<nata> . . . . . . ino finis in terra auguri. Op<[p]illus>.
. . . . . . lius loca consecrata ad . . . . . . . . . sit. Sed sancta loca undique
. . . . . . . . . . nt pontifici[s]
libri, in quibus . . . . . . . . . . . que sedemque tescumque . . . . . . . . .
. . . . dedicaverit, ubi eos ac . . . . . . . . . . propitiosque[58].
v. Paludati, p.
v. Sarte, p.
v. Sanqualis, p.
Fare
un discorso sul contenuto dei libri e commentarii sulla base dei passi citati
non è certamente facile. Uno di essi, totalmente corrotto, non consente
alcuna ipotesi, mentre gli altri, seppure con molti limiti, mi sembra si
prestino a qualche considerazione non marginale.
Di
grande interesse appare ad esempio il primo, poiché da esso si ricava
che le disposizioni che regolavano il complesso rituale degli spolia opima[62] erano contenute in libri pontificum: fonte
di Verrio è in questo caso Varrone[63].
Ma l’interesse del passo non sta solo in questo: più avanti si
dice che anche una legge di Numa Pompilio confermava quanto ricavato dai libri pontificum a proposito degli spolia opima. Dal discorso di Varrone non si comprende se la citazione della lex Pompili regis sia tratta da libri pontificum, o se invece l’autore abbia consultato una raccolta di leges regiae[64], autonoma
[p. 102]
rispetto ai documenti dell’archivio
dei pontefici; in ogni caso, mi sembra debba essere fatta rimarcare ancora una
volta l’identità di contenuto tra alcune leges regiae e parte della materia attribuita a libri pontificum[65].
Il contesto in cui
sono poste le due citazioni di non meglio precisati libri augurum mi pare confermi l’ipotesi che si tratti di
formule solenni ricavate da documenti dell’archivio del collegio degli
auguri: una riguardante l’esercito (la fonte di Verrio è
l’autorevole studioso di diritto augurale Veranio)[66]
l’altra di non facile precisazione.
Due
rapidi accenni ai commentarii pontificum
rappresentano tutto ciò che è utilizzabile, riguardo alla
distinzione tra libri e commentarii, del prezioso materiale documentario contenuto nei superstiti libri ab urbe condita di Tito Livio[67].
L’opera liviana, peraltro, si dimostra complessivamente assai preziosa
per un serio lavoro di ricostruzione dei documenti contenuti negli archivi
sacerdotali, poiché in essa è possibile reperire numerosi
“frammenti” di documenti degli stessi archivi sacerdotali[68].
Ma
veniamo ai passi in questione:
4, 3, 9: Quin etiam, si dis placet, nefas aiunt esse consulem plebeium
fieri. Obsecro vos, si non ad fastos, non ad commentarios pontificum
admittimur, ne ea quidem scimus, quae omnes peregrini etiam sciunt, consules in
locum regum successisse nec aut iuris aut maiestatis quicquam habere, quod non
in regibus ante fuit?[69]
6, 1, 2: Res cum vetustate nimia obscuras, velut quae
magno ex intervallo loci vix cernuntur, tum quod parvae
[p. 103]
et rarae per eadem tempora litterae fuere, una custodia fidelis memoriae
rerum gestarum, et quod, etiam si quae in commentarios pontificum aliisque
publicis privatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiere[70].
La
riflessione della dottrina sul significato da attribuire al termine commentarii nel contesto liviano
è stata in generale alquanto carente: si è sostenuto, da
più parti, che nei passi citati esso sia usato come sinonimo
dell’intero archivio del collegio dei pontefici[71];
mentre per altri studiosi i commentarii a
cui si fa cenno sarebbero da intendere più semplicemente come annales pontificum[72],
poiché in questi ultimi documenti sarebbe più logico ricercare le
«memoriae rerum gestarum» di cui si parla in Liv. 6, 1, 2. Mette
conto sottolineare la schematicità di tali opinioni; semmai si sarebbe
dovuto riflettere sul rapporto di reciproca connessione tra il materiale
contenuto nei commentarii e quello
degli annales e sul probabile
carattere recenziore dei secondi rispetto ai primi[73].
Abbiamo
raggruppato in questo paragrafo, soltanto per comodità di esposizione,
autori per il resto poco assimilabili. Anche il valore di questi passi è
assai dissimile: di fronte alle importanti testimonianze di Plinio e di Censorino
sono chiaramente di secondario interesse quelle di Seneca, Quintiliano, Arnobio
e Mario Vittorino.
Non
molto significativa appare la citazione dei libri
augurales e pontificales contenuta
in una delle Epistulae di Seneca:
Epist. 108, 31: Praeterea notat (sott.
Cicerone) eum quem nos dictatorem dicimus et in historiis ita nominari legimus,
[p. 104]
apud antiquos magistrum populi vocatum. Hodieque id extat in auguralibus
libris et testimonium est quod qui ab illo nominatur magister equitum est.
Aeque notat Romulum perisse solis defectione; provocationem ad populum etiam a
regibus fuisse: id ita in pontificalibus libris et aliqui sunt argui qui putant
et Fenestella[74];
poiché la fonte diretta delle
affermazioni del filosofo non sembra essere alcun documento sacerdotale (anche
se l’espressione hodieque id extat può
far supporre almeno la conoscenza dei libri
augurales), ma piuttosto le opere
di Cicerone[75]
e di Fenestella.
Più
problematico si presenta, invece, il passo di Plinio[76]:
Nat. hist. 18, 14: Ita enim est
in commentariis pontificum: Augurio canario agendo dies constituantur,
priusquam frumenta vaginis exeant et[77]
antequam in vaginas perveniant[78].
A
prima vista può sembrare strano che nei commentarii pontificum si trovassero delle disposizioni che
riguardavano il tempo dell’augurio canario[79].
Questa perplessità si supera facilmente in considerazione del fatto che
al collegio dei pontefici era demandata la sorveglianza e la direzione
complessiva del culto patrio, e che inoltre, nel caso dell’augurio
canario, essi stessi presiedevano la cerimonia[80].
Si spiega così che questo decreto (o responso) fosse contenuto nei commentarii dei pontefici[81].
Infine,
non mi pare che in questo caso - di fronte ad una citazione così precisa
- sia rilevante discutere l’eventualità che l’autore non
abbia attinto il passo direttamente dai commentarii, ma si sia servito dell’opera di
qualche scrittore contemporaneo o di poco anteriore[82]:
poiché, qualsiasi ipotesi si preferisca, non viene inficiato il valore
della testimonianza di Plinio.
[p. 105]
Anche
Quintiliano cita i commentarii pontificum
nella sua Institutio oratoria:
8,
2, 12: At obscuritas fit verbis iam ab usu remotis, ut si commentarios quis
pontificum et vetustissima fœdera et exoletos scrutatus auctores id ipsum
petat ex his, quae inde contraxerit, quod non intellegantur[83].
Il
passo non ci aiuta certamente molto nel tentativo di individuare lo specifico
contenuto dei commentarii sacerdotali;
il suo contributo non va oltre la conferma dell’esistenza e
dell’antichità di quei documenti. Tuttavia, non per questo si
può condividere l’opinione di quegli studiosi che utilizzano il
passo per sostenere l’impossibilità di distinguere concretamente
fra i vari documenti provenienti dagli archivi sacerdotali[84].
In
tre paragrafi del De die natali di
Censorino[85]
si leggono importanti accenni al contenuto dei commentari dei Quindecimviri
sacris faciundis. Tali citazioni
attestano che in questi commentarii si
raccoglievano tutti i resoconti, compilati ufficialmente dal collegio,
attinenti alle celebrazioni dei diversi ludi
saeculares svoltisi a Roma fino al tempo dello scrittore:
17,
9: At <moris esse> contra ut decimo centesimoque anno repetantur tam
Commentarii XVvirorum quam divi Augusti edicta testari videntur...
17, 10: Quae
dissensio temporum, si veterum revolventur annales, longe magis in incerto
invenietur. Primos enim ludos saeculares exactis regibus post
Romam conditam annis CCXLV a Valerio Publicola institutos esse <accepimus;
sed> ad XVvirorum Commentarios, anno CCXCVIII M. Valerio Spurio Verginio
conss. <Secundos ludos> anno post Urbem conditam octavo et
quadrigentesimo, ut vero in Commentariis XVvirorum scriptum est, anno CCCC et
decimo M. Valerio Corv{in}o II
[p. 106]
C. Pœtelio conss. Tertii ludi fuerunt, Antiate
Livioque auctoribus, P. Claudio Pulchro L. Iunio Pullo conss.; <XVviris
autem testibus,> anno quingesimo duodevigesimo, P. Cornelio Lentulo C.
Licinio Varo conss.
17, 11: De quartorum ludorum anno triplex opinio est.
Antias enim et Varro et Livius relatos esse prodiderunt L. Marcio Censorino
M’. Manilio conss., post Romam conditam anno DCV; at Piso Censorius et
Cn. Gellius sed et Cassius Hemina, qui illo tempore vivebat, post annum factos
tertium adfirmat, Cn. Cornelio Lentulo Lucio Mummio Achaico conss., id est anno
DC<V>III; in XVvirorum autem Commentariis notantur sub anno DCXXVIII,
<M.> Aemilio Lepido L. Aurelio Oreste conss.[86].
Menzione di libri dei pontefici si trova anche in un
passo di Arnobio:
Adv. nat. 4, 18: Aut si
ponderis extimatis nullius haec esse, aboleantur omnes libri quos de diis
habetis compositos theologorum, pontificum, nonnullorum etiam philosophiae
deditorum[87];
e nella Ars
grammatica di Mario Vittorino:
Gramm. Lat. 6, 12, 20 (ed.
Keil): Ex quibus Q et fuisse apud Graecos quare desiderat fungi vice litterae,
cognoscere potestis, si pontificum libros legeretis[88].
Ma
dai passi citati appare assai difficile ricavare indicazioni sostanziali
riguardo a questi documenti sacerdotali denominati libri pontificum.
[p. 107]
Per
qualsiasi ricerca su libri e commentarii sacerdotali, il commento in Vergilii carmina del grammatico
Servio[89]
rappresenta una fonte di eccezionale ricchezza. In quest’opera[90]
si trovano infatti numerosi passi in cui i termini libri e commentarii appaiono
usati per indicare documenti di provenienza sacerdotale. Si tratta di libri pontificales, augurales, augurum,
mentre un passo riguarda i commentarii (augurales). Vediamo, in primo luogo, proprio questo passo:
Serv.
Dan., Aen. 1, 398: Multi tamen adserunt cycnos inter augurales aves non inveniri
neque auguralibus commentariis eorum nomen inlatum, sed in libris reconditis
lectum esse, posse quamlibet avem auspicium adtestari, maxime quia non poscatur[91].
Questo passo in cui
si menzionano i commentarii augurali
è stato variamente interpretato dalla dottrina. La sua importanza deriva
- giova sottolinearlo - dal fatto che in esso si trovano assieme i termini libri e commentarii, e per di più in reciproca
contrapposizione. Qualche studioso ha voluto trarne la distinzione tra libri e commentarii del collegio degli auguri[92],
ma l’identificazione dei libri
reconditi con i libri augurales viene
generalmente rifiutata dalla dottrina[93],
in quanto i primi, come attestano anche altri passi del Servio Danielino[94],
atterrebbero piuttosto alla disciplina etrusca.
I
passi che seguono riguardano invece quelle materie che sembrerebbero costituire
il contenuto dei libri augurales (o augurum):
Serv. Dan., Aen. 3, 537: Sane figurate “equos
omen”; diversa enim significatione idem dixit. Sed multis de libris
augurum tractum tradunt: iugetis[95]
enim dicitur augurium quod ex iunctis iumentis fiat. Observatur enim, ne
prodituro
[p. 108]
magistratui
disiunctis bobus plaustrum obviam veniat[96].
Serv.
Dan., Aen. 9, 20: In auguralibus
libris inter ostenta etiam caelum discessisse dicitur[97].
Serv.
Dan., Aen. 4, 45: Varro de pudicitia
ait auspices in nuptis appellatos † auspici bisque ab marito et nova
nupta per hos auspices captabantur in nuptiis. Iunone secunda vel quae praeest
coniugiis, quae pronuba appellatur: quamvis et ipsa in libris augurum praeesse
dicatur auspiciis: aut quia Carthaginem fovet[98].
Serv.
Dan., Aen. 8, 95: superant flexus
“superant” transeunt, ut fontem superare Timavi. Et hic ostendit
non esse alveum fluminis rectum: quia Tiberim libri augurum colubrum loquuntur,
tamquam flexuosum[99].
In libri degli auguri sarebbero stati,
dunque, fissati i princìpi fondamentali della disciplina augurale,
concernenti l’augurium (così
i passi Aen. 3, 537; 9, 20) e
l’auspicium, nonché le formule solenni del
rituale (da una di esse derivava quasi certamente il termine colubrum, attributo augurale del fiume Tevere)[100].
Molteplice
si presenta in Servio e Servio Danielino il contenuto attribuito ai libri pontificales:
Serv.,
Aen. 12, 603: et nodum informis leti
alii dicunt, quod Amata inedia se interemerit. Sane sciendum quia cautum fuerat
in pontificalibus libris, ut qui laqueo vitam finisset, insepultus abiceretur:
unde bene ait “informis leti”, quasi mortis infamissimae[101].
Serv.
Dan., Georg. 1, 21: More pontificum, (per) ritu veteri in omnibus sacris post
speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari,
generaliter omnia
[p. 109]
numina
invocabantur. Quod autem dicit “studium quibus arva tueri”, nomina
haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus,
qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro
dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis constat imposita,
verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarritione Sarritor, a
stercoratione Sterculinus, a satione Sator[102].
Serv.,
Ecl. 5, 66: Sane quaeritur, cur duo
altaria Apollini se positurum dicat, cum constet supernos deos impari gaudere
numero, infernos vero pari, ut numero deus impare gaudet, quod etiam pontificales
indicant libri[103].
Serv.,
Georg. 1, 344: Nam superfluum est
quod quidam dicunt, contra religionem dixisse Vergilium, licere Cereri de vino
sacrificari: pontificales namque hoc non vetant libri[104].
Serv.
Dan., Georg. 1, 270: Sane quae feriae a quo genere hominum vel quibus diebus
observentur, vel quae festis diebus fieri permissa sint, siquis scire
desiderat, libros pontificales legat[105].
Serv., Aen. 7,
190: Fabula autem talis est. Picus amavit Pomona, pomorum dea, et eius volentis
est sortita coniugium. Postea Circe, cum eum amaret et sperneretur, irata eum
in avem, picum Martium, convertit: nam altera est pica. Hoc autem ideo
fingitur, quia augur fuit et domi habuit picum, per quem futura noscebat: quod
pontificales indicant libri. Bene autem supra ei lituum dedit, quod est augurum
proprium: nam ancile et trabea communia sunt cum Diali vel Martiali sacerdote[106].
Nei libri pontificales era dunque possibile
trovare sia disposizioni di diritto sacro (quali il precetto qui laqueo vitam finisset,
[p. 110]
insepultus abiceretur), sia indigitamenta, sia
regolamenti di sacrifici e altri riti (Ecl.
5, 66; Georg. 1, 344). Merita infine particolare
considerazione il fatto che con l’espressione libri pontificales si designasse anche il calendario delle
solennità religiose e le regole di comportamento, che i singoli dovevano
seguire in tali circostanze.
Non
va però neanche dimenticato che alcuni passi di Servio sono stati
utilizzati da una parte della dottrina per dimostrare l’assoluta
impossibilità di pervenire ad una qualche distinzione tra il contenuto
di libri e commentarii. Questa
impostazione critica si basa sulla constatazione che nei due commentatori di
Virgilio vi sarebbe una certa approssimazione e qualche confusione
nell’attribuire determinati contenuti a libri o commentarii: in alcuni passi, ad esempio, con il
termine libri si indicherebbero più propriamente gli annales[107]; in altri, i riferimenti a libri non sembrano riguardare specifici
generi di documenti, ma piuttosto riferirsi genericamente a tutto l’archivio.
Questo
fatto, che pure avrebbe richiesto maggiori approfondimenti, non mi pare possa
impedire di riaffermare la bontà della testimonianza serviana, che,
peraltro, si allinea abbastanza con quelle degli altri autori antichi finora
esaminati: nel senso che, tutti indistintamente, sembrano attestare quanto meno
l’esistenza di una qualche differenziazione, formale o sostanziale, tra libri e commentarii sacerdotali.
I libri pontificum e augurum sono citati anche in due passi dei Saturnalia di Macrobio[108].
1,
12, 21-22: Auctor est Cornelius Labeo huic Maiae id est terrae aedem kalendis
Maiis dedicatam sub nomine
[p. 111]
Bonae Deae et eandem esse Bonam Deam et terram in ipso ritu occultiore
sacrorum doceri posse confirmat. Hanc eandem Bonam Faunamque, Opem et Fatuam
pontificum libris indigitari: Bonam quod omnium nobis ad victum bonorum causa
est, Faunam quod omni usui animantium favet, Opem quod ipsius auxilio vita
constat, Fatuam a fando quod ut supra diximus, infantes partu editi non prius
vocem edunt quam attingerint terram[109].
1, 16, 19: Vitabant veteres ad viros vocandos etiam
dies qui essent notati rebus adversis, vitabant etiam ferias sicut Varro in
augurum libris scribit in haec verba: viros vocare feriis non oportet; si
vocavit, piaculum esto[110].
Il
primo passo mi pare riporti un esempio concreto di indigitamentum, ricavato
dai libri pontificum, da utilizzare
nelle preghiere rivolte alla Bona Dea[111]; il passo fornisce inoltre la
spiegazione teologica degli epiteti rituali, che potrebbe però non
risalire ai libri pontificum, ma piuttosto essere frutto della
riflessione di C. Labeone[112].
Il
secondo passo ci offre un ulteriore elemento sui libri augurum[113]: in essi stavano anche disposizioni
della disciplina augurale, che fissavano precise modalità temporali
all’esercizio dei poteri magistratuali, connessi agli auspicia: in questo caso si tratta del ius
agendi cum populo[114].
Restano infine da
esaminare, per concludere questa rassegna di fonti, alcune testimonianze
epigrafiche relative a libri e commentarii sacerdotali:
CIL VI,
[p. 112]
a comm(entariis) [fratrum arvalium];
C.I.L. VI, 2104 b 30: Primus Corne[lianus pub]l(icus)
[a c]omm(entariis) fratr(um) arv(alium)[115];
C.I.L.
VI, 2195 b: Ti. Claudius Natalis a libris pontifical(ibus)[116];
C.I.L.
VI, 2312: Dis Manibus Myrini Domitiani publici a commentaris XVvir(um) s(acris)
f(aciundis) Arruntia Doliche fecit coniugi carissimo[117];
C.I.L.
VI, 2319 b: ... lianus Flavianus a comme[nt(ariis) sa]cerdoti VII virum
epulonu(m).
I primi due passi
sono tratti da iscrizioni ufficiali dei fratres
Arvales (rispettivamente degli anni 214 e 218 d.C.) e riguardano lo stesso
personaggio: Primus Cornelianus. Da essi si evince che i fratres Arvales avevano propri commentarii (forse quegli stessi
documenti che dal Marini in poi vengono comunemente denominati acta?[118]) alla cui redazione materiale erano
preposti degli ausiliari del collegio, publici[119],
quali appunto il menzionato Primo Corneliano.
Particolare
attenzione merita la terza delle iscrizioni, non tanto perché abbia un
testo diverso dalle altre, quanto per il genere dei documenti citati: i libri pontificales.
La
quarta iscrizione, lapide funeraria dedicata ad un certo Myrinus Domitianus qualificato publicus a commentariis dei Quindecimviri sacris faciundis, costituisce una conferma significativa
dell’esistenza di commentarii del
collegio dei quindecimviri; commentarii citati, peraltro, anche nel De die natali di Censorino (vedi supra pp. 105-106).
L’ultima
iscrizione rappresenta, almeno finora, l’unica fonte in cui sono
menzionati i commentarii dei septemviri Epulones[120]: si completa così il quadro dei
materiali d’archivio riferibili ai quattro amplissima collegia dei sacerdoti romani,
[p. 113]
i quali sembrano
competenti, in piena autonomia, per la redazione e conservazione dei documenti
attinenti alla specifica funzione giuridico-religiosa di ciascuno di essi[121].
Dall’analisi
delle testimonianze epigrafiche emerge dunque nel materiale degli archivi una
diversità, almeno terminologica, fra documenti denominati libri ed
altri denominati commentarii.
Né è da sottovalutare
l’importanza di questa terminologia agli effetti del nostro discorso.
La
terminologia delle epigrafi, sebbene di per sé non sia sufficiente a
chiarire la reale differenza di contenuto tra libri e commentarii sacerdotali,
attesta però in maniera assai convincente il permanere, anche in
età imperiale avanzata, della distinzione tra questi importanti generi
di documenti. La qualità stessa delle iscrizioni non consente poi alcun
dubbio sul carattere prettamente tecnico di tale terminologia; infatti, le
qualifiche a libris e a commentariis si presentano utilizzate
in atti ufficiali di collegi sacerdotali e in epigrafi funerarie, riferibili ai
primi tre secoli dell’impero, per indicare propriamente il nomen officii dei personaggi
menzionati. Ancora più degna di nota appare infine questa
diversità terminologica nella titolatura ufficiale degli ausiliari dei
collegi sacerdotali, se si considera che in quest’epoca, già da
tempo, ai significati originari dei termini libri
e commentarii si erano
sovrapposti nel sentire comune significati diversi o genericamente più
ampi: emblematico in questo senso il noto passo di Ulpiano (D. 32, 52, pr.):
«Librorum appellatione continentur
omnia volumina, sive in charta sive in membrana sint sive in quavis alia
materia: sed et si in philyra aut in tilia (ut nonnulli conficiunt) aut in quo
alio corio, idem erit dicendum».
NOTE
[1] Cfr., ad esempio, la diversa conclusione, riguardo alla possibilità di distinguere praticamente tra libri e commentarii, di studiosi come lo Schwegler e il Marquardt (sui quali vedi supra pp. 43 s. e 47) o il Bouché-Leclercq e il Regell (supra pp. 48 ss.), le cui posizioni si fondano in primo luogo sulla valutazione differente delle stesse fonti latine.
[2] L’uso che dei
termini libri e commentarii si fa nella lingua latina è invero assai ampio
e multiforme; sui molteplici significati e sulla utilizzazione di tali termini
si vedano le relative voci del Thesaurus
Linguae Latinae: commentarius (red.
W. BANNIER), in Thesaurus
III (1911), coll. 1856 ss.; liber (red.
J. v. KAMPTZ), in Th. VII, 2 (1974) coll.
1271 ss.
Nella
scelta delle fonti ho seguito il criterio di esaminare solamente quei passi, in
cui i termini libri e commentarii appaiano riferibili
testualmente ad uno dei collegi sacerdotali romani: sia per mezzo di un
aggettivo (pontificii, augurales, ecc.), sia per mezzo di un
genitivo (pontificum, augurum, ecc.).
Non
va tuttavia dimenticato che nelle fonti si trovano i termini libri e commentarii anche per indicare documenti attribuiti a re e
magistrati. Così abbiamo menzione di commentarii
dei re (Cicerone, Pro Rabir. perd. 15: Hic se popularem dicere audet, me alienum a
commodis vestris, cum iste omnis et suppliciorum et verborum acerbitates non ex
memoria vestra ac patrum vestrorum sed ex annalium monumentis atque ex regum
commentariis conquisierit); di libri e commentarii di Numa (Plinio, Nat. hist. 28, 4: L. Piso primo Annalium auctor est Tullum Hostilium regem ex Numae
libris eodem, quo illum, sacrificio Iovem caelo devocare conatum, quoniam parum
rite quaedam fecisset, fulmine ictum; Livio 1, 31, 8: Ipsum regem tradunt volventem commentarios Numae, cum ibi quaedam
occulta solemnia sacrificia Iovi Elicio facta invenisset, operatum his sacris
se abdidisse; sed non rite initum aut curatum id sacrum esse, nec solum nullam
ei oblatam caelestium speciem, sed ira Iovis sollicitati prava religione fulmine
ictum cum domo conflagrasse; 1, 32, 2: Qui
(Anco Marcio) ut regnare coepit, et
avitae gloriae memor et quia proximum regnum, cetera egregium, ab una parte
haud satis prosperum fuerat, aut neglectis religionibus aut prave cultis, longe
antiquissimum ratus sacra publica ut ab Numa instituta erant facere, omnia ea
ex commentariis regis pontificem in album elata proponere in publico iubet);
di commentarii di Servio Tullio (Livio 1, 60, 4: Duo consules inde comitiis centuriatis a praefecto urbis ex commentariis
Servii Tulli creati sunt).
Libri magistratum sono menzionati
genericamente in Livio (4, 7, 10; 4, 20, 8; 39, 52, 4); più precise
appaiono invece le citazioni dei libri
censorii
[p.
116]
da parte di Gellio (Noct. Att. 2, 10, 1-2: Servius Sulpicius, iuris civilis auctor, vir
bene litteratus, scripsit ad M. Varronem rogavitque, ut rescriberet, quid
significaret verbum, quod in censoris libris scriptum esset. Id erat verbum
“favisae Capitolinae”); e dei commentarii consulares da
parte di Varrone (De ling. Lat. 6,
88: in commentariis consularibus scriptum
sic inveni: «qui exercitum imperaturus erit, accenso dicit hoc:
“Calpurni, voca inlicium omnes Quirites huc ad me”. Accensus dicit
sic: “omnes Quirites, inlicium visite huc ad iudices”. “C.
Calpurni”, cos. dicit, “voca ad conventionem omnes Quirites huc ad
me”. Accensus dicit sic: “omnes Quirites, ite ad conventionem huc ad
iudices”. Dein consul
eloquitur ad exercitum: “impero qua convenit ad comitia
centuriata”»).
[3] Un’affrettata
discussione delle fonti si ritrova, invero, in quasi tutti gli studiosi di
questo secolo, che in qualche modo si sono occupati della distinzione tra libri e commentarii sacerdotali: cfr., ad esempio. H. PETER, Historicorum Romanorum fragmenta, I, rist. Stuttgart 1967, pp. 4 ss.; N.
TURCHI, La religione di Roma antica, Bologna 1939, pp. 39 s.; G. B. PIGHI, La religione romana, Torino 1967, pp. 41 ss.; ridiscute invece le fonti G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, Berlin 1936, pp. 14
ss.
[4] Sugli articoli
relativi a documenti e collegi sacerdotali, pubblicati nelle principali opere
enciclopediche, vedi supra p. 77 nn.
75 ss.
[5] Gellio, Noct. Att. 13, 23, 1: Comprecationes deum immortalium, quae ritu
Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in plerisque
antiquis orationibus; cfr. ibidem,
10, 15, 1; Dion. Alicar. 8, 56.
[6] Così in
Festo, v. Malluvium, p.
[7] Quali, ad esempio, libri sacri, in Serv., Georg. 1, 270; Aen. 2, 143; libri caeremoniarum, in
Tacito, Ann. 3, 58; monumenta, in Cicerone, De domo 140.
[8] Le citazioni dei libri sibyllini ricorrono assai
frequentemente nelle “Storie” di Livio: per l’esatto computo
di esse, vedi ora D. W. PACKARD, A
Concordance to Livy, Cambridge (Massachusetts) 1968, III, p. 85.
[9] Per maggiori
approfondimenti bibliografici, rimando all’articolo di P. BOYANCÉ,
Travaux récents sur Cicéron
(1939-1958), in Association G.
Budé. Actes du congrès de Lyon, Paris 1960, pp. 254 ss. (= Études sur l’humanisme
cicéronien, Bruxelles
1970, pp. 36 ss.); ed a quello più recente di A. MICHEL, Cicéron et les grands courants de la
philosophie antique: Problèmes généraux (1960-1970),
in Lustrum. Internationale
Forschungsberichte aus dem Bereich des klassischen Altertums 16, 1970-1971, pp. 80 ss. Cfr., inoltre, R.
J. ROWLAND, A survey of selected
Ciceronian bibliography (1965-1974), in The Classical World 71, 1978, pp. 289
ss.
[p.
117]
[10] Plutarco, Cic. 36; Cicerone, Brut. 1; Phil. 2, 4. Cfr. T. R. S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, New York 1952, p. 233,
e da ultimo, J. LINDERSKI, The Aedileship
of Favonius, Curio the Younger and Cicero’s Election to the Augurate,
in Harvard Studies in Classical Philology
76, 1972, pp. 181 ss., special. 190 ss.
[11] Si vedano in tal
senso le opere, ormai classiche, di A. GASQUY, Cicéron jurisconsulte,
Paris 1887, e di E. COSTA, Cicerone
giureconsulto, 2 voll., Bologna
1927 (rist. Roma 1964); ma anche i lavori più recenti di M. PALLASSE, Cicéron et les sources du droit, Paris 1946; V. ARANGIO-RUIZ, Cicerone giurista, in Marco Tullio Cicerone, scritti nel
bimillenario della morte, Roma
1961, pp. 1 ss. (= Scritti di diritto
romano, IV, Camerino 1977, pp. 259 ss.); D. NÖRR, Cicero Topika und die römische Rechtsquellenlehre, in Romanitas 9, 1970, pp. 419 ss.; F.
HERNÁNDEZ-TEJERO, El pensamiento
jurídico en Cicerón: de officiis (libro II), in Revista de
[12] La tesi che
l’archivio degli auguri, come del resto gli altri archivi sacerdotali,
non fosse accessibile agli estranei, è stata riproposta da F. CASSOLA, Livio, il tempio di Giove Feretrio e la
inaccessibilità dei santuari in Roma, in Rivista storica italiana 82, 1970, p. 24: «Si ritiene che
gli auguri non abbiano avuto una sede; è certo però che avevano
un locale destinato ad archivio. In esso, probabilmente, erano custoditi i commentarii augurum, la cui conoscenza era rigorosamente vietata a chi non fosse membro
del collegio».
[13] Basta ricordare i
numerosi esempi di decreta e di responsa sacerdotali, che Cicerone
riporta nelle sue opere: cfr. De div. 2,
73; De leg. 2, 31; De domo 39-40; In Vat. 20.
[14] La descrizione
delle leggi religiose e delle funzioni sacerdotali, così come sono
esposte in De leg. 2, 19-22, sembra
essere desunta dagli schemi dei documenti ufficiali dei sacerdoti: cfr. in tal
senso REGELL, De augurum
publicorum libris, Vratislaviae
1878, pp. 24 n. 1 e 25 n.; ma vedi anche M. VAN DE BRUWAENE, Précision sur la loi religieuse du de
legibus II 19-22 de Cicéron, in
Helikon 1, 1961, pp. 40 ss., il
quale ritiene sostanzialmente genuine le leggi religiose ivi riportate,
supponendo però che «Cicéron rapporte un texte qui
n’a pas fait partie des textes officiels et semble appartenir à
des exercices d’école». Questo testo, databile tra il 100 e
il
[p.
118]
[15] In generale,
sull’attendibilità di Cicerone come fonte storica, rimando al
lavoro di M. RAMBAUD, Cicéron et
l’histoire romaine, Paris
1953; cfr. inoltre i più recenti lavori di E. RAWSON, Cicero the Historian and Cicero the
Antiquarian, in The Journal of Roman
Studies 62, 1972, pp. 33 ss.; K. A. SINKOVICH, Cicero historicus, in Rivista
di studi classici 22, 1974, pp. 164 ss.; B. SHIMRON, Ciceronian Historiography, in
Latomus 33, 1974, pp. 232 ss. Per quanto riguarda poi il periodo monarchico
di Roma e la rimeditazione storico-politica di esso nel pensiero ciceroniano,
si vedano: J. KROYMANN, Die Stellung des
Königtums in 1 Buch von Ciceros Staat, in Harvard Studies in Classical Philology 63, 1958, pp. 309 ss.; R.
KLEIN, Königtum und Königzeit
bei Cicero, Diss. Erlangen 1962; J. MICHELFAIT, Der König und sein Gegenbild in Ciceros
Staat, in Philologus 108, 1964,
pp. 266 ss.
In rapporto alle
istituzioni religiose, rimane indispensabile la lettura di M. VAN DEN BRUWAENE,
La théologie de Cicéron, Louvain 1937; tenendo però conto
anche del recente lavoro di R. J. GOAR, Cicero
and the State Religion, Amsterdam
1972. Sul tema, cfr. inoltre, P. DEFOURNY, Les
fondaments de la religion d’après Cicéron, in Les études classiques 22, 1954,
pp. 241 ss., 366 ss.; R. D. SWEENEY, Sacra
in the Philosophic Works of Cicero, in
Orpheus 12, 1965, pp. 99 ss.; U. HEIBGES, Religion and Rhetoric in Ciceros Speeches, in Latomus 28, 1969, pp. 833 ss.; J. GUILLÉN, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25, 1974, pp. 511 ss.; J.
KROYMANN, Cicero und die römische
Religion, in Ciceroniana. Hommages
à Kazimirz Kumaniecki, Leiden 1975, pp. 116 ss.; risulta utile anche
l’articolo di E. RAWSON, The
Interpretation of Cicero’s “De Legibus”, in
Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I, 4, Berlin-New York 1973, pp. 334 ss. (in part. pp. 342 ss.).
[16] Sul passo vedi: F.
A. BRAUSE, Librorum de disciplina
augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875, p. 43: fragm. 31; P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, p. 14: fragm. 68; cfr. da ultimo S. MAZZARINO, Intorno ai rapporti fra l’annalistica
e il diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, in La critica del
testo, II, Firenze 1971, p. 452.
Più in
generale, sui problemi connessi al De re
publica, si vedano, fra gli
altri: N. WILSING, Aufbau und Quellen von
Ciceros Schrift “de re publica”, Diss. Leipzig 1929; V. PÖSCHL, Römischer Staat und griechisches
Staatsdenken bei Cicero. Untersuchungen zu Ciceros Schrifit De re publica, Berlin 1936 (rist. 1974); E. HECK, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De re
publica (Spudasmata, 4), Hildesheim 1966; F. HERNÁNDEZ-TEJERO, El pensamiento jurídico de
Cicerón en De re publica, in
Revista de
[17] «The word libris
is understood, as often with annales»: A. S. PEASE, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, I,
[p. 119]
Cicéron, De natura Deorum.
Livre premier (Coll. Latomus 107), Bruxelles 1970, p. 146: «dans nos
livres pontificaux». Il ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, cit., pp. 18-19,
suggerisce l’ipotesi che in questo caso Cicerone abbia attinto alle Antiquitates rerum divinarum di Varrone:
«Woher diese Vorstellung stammt, ist nicht zu sagen; doch darf nicht
vergessen werden, dass zur Zeit, als Cicero seine philosophischen Schriften
abfasste, Varros Antiquitates bereits an das Licht getreten waren, und dass
Cicero dieses Werk kannte».
[19] Il ROHDE, Die Kultsatzungen der
römischen Pontifices, cit.,
p. 18, nega che il termine libri indichi
specificamente un particolare tipo di documento: «Hier sind ganz offenbar
pontifikale Schriften, die im Zusammenhang mit den Zivilrecht standen,
gemeint».
[20] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 45: fragm. 1; P. REGELL, Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882, p. 21: fragm. 18.
Il MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, 2a ediz., Leipzig 1885, p. 400,
trae da questo passo l’erronea conclusione che nell’archivio degli
auguri si trovassero, oltre i libri
augurum o augurales e i commentarii, anche i libri reconditi, dei
quali però egli stesso non sa dare una definizione convincente. Su tali
documenti, e sull’origine etrusca di essi, si veda infra n. 93.
[21] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit.,
p. 42: fragm. 28; REGELL, Fragmenta
auguralia, cit., p. 20: fragm.
13. Cfr., da ultimo, F. SINI, A proposito
del carattere religioso del “dictator” (Note metodologiche sui
documenti sacerdotali), in Studia et
documenta historiae et iuris 42, 1976, p. 420.
[22] Per il testo ho
seguito quello stabilito da J.
BAYET, nella edizione da lui curata per le Belles-Lettres: Cicéron,
Corrispondence, V, Paris
[23] Ho seguito il testo
di A. S. PEASE, M. Tulli Ciceronis De
divinatione libri duo, Darmstadt
1968 (rist. dell’edizione del 1920-1923), ivi commento a pp. 216 ss.
Sottolinea l’importanza del passo per quanto riguarda la disciplina
augurale, P. CATALANO, Contributi allo
studio del diritto augurale, Torino
1960, p. 49.
[24] Dal contesto del
passo non è chiaro, se in questo caso Cicerone intenda riferirsi a
documenti ufficiali del collegio, o ad opere di diritto augurale, come in Ep. ad fam. 3, 4, 1.
[25] A. SCHWEGLER, Römische Geschichte, I, Tübigen 1853, p.
[p.
120]
dovesse collocarsi
in questi ultimi; al contrario, secondo il PREIBISCH, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874, pp. 42 s., vi è una spiegazione assai
convincente del fatto che nei libri si
trattasse anche della provocatio: a suo avviso, Cicerone in questo caso
riporterebbe il contenuto di un decreto pontificale (non va dimenticato che per
il Preibisch la grande massa dell’archivio dei pontefici era costituita
da decreta), che regolava, sulla base di un vetusto precedente, il compimento
di solenni riti di espiazione per qualche gravissimo fatto di sangue. Anche il
ROHDE, Die Kultsatzungen der
römischen Pontifices, cit.,
pp. 15 s., sembra aderire alla tesi prospettata dal Preibisch. Da ultimo,
insiste sul collegamento profondo tra provocatio
ad populum e documenti pontificali, S. TONDO, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 25 ss.
Il rapporto tra provocatio e libri augurum è stato
ben chiarito dal BRAUSE, Librorum de
disciplina augurali, cit., pp. 43
s., il quale ritiene che «in libris auguralibus praeceptum infuisse
verisimile est pertinens ad ea auguria quae in expiando aliquo facinore captari
oportebat cf. Fest. 297. Fortasse etiam inter praecepta ad ius pomerii
spectantia provocationis Horatianae mentio fieri poterat. Namque in pomerii
ambitu verberari nemo debuisse videtur secundum legis vetustae quae in
provocatione Horatiana usu veniebat formulam: “verberato vel intra
pomerium vel extra pomerium”»; cfr., inoltre, CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., p. 555.
[26] Nega che il
precetto possa attribuirsi ai libri, P. REGELL, De augurum publicorum libris,
cit., pp. 34 s., il quale, peraltro, riguardo al materiale proveniente
dall’archivio degli auguri, non accetta la distinzione tra libri e commentarii (si veda supra p.
49).
[28] A torto J. V. LE
CLERC, Des journaux chez les Romains, Paris 1837, p. 364, include il passo
tra gli Annalium Maximorum fragmenta. Per quanto riguarda Tiberio Coruncanio
concorda con la testimonianza di Cicerone anche quella del giurista Pomponio:
D. 1, 2, 2, 35. 38.
[29] Sul passo, vedi
BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 44: fragm. 1 (cfr. ibidem, p. 38); REGELL, Fragmenta auguralia, cit.,
p. 21: fragm. 17; cfr. In Vat. 20; Phil. 5, 7; De nat. deor. 2, 65. Per quanto riguarda la dottrina, si vedano:
REGELL, De augurum publicorum libris, cit., pp. 40 s.; G. WISSOWA, Augures, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 2, 2,
Stuttgart 1896, col. 2335; Religion und
Kultus der Römer, 2a ediz.,
München 1912, p. 533 n. 1; PEASE, M.
Tulli Ciceronis De divinatione, cit.,
pp. 424 s.
[30] Lo stesso Cicerone
ci dà notizia di riunioni del collegio degli auguri commentandi causa: De div. 1,
90; De am. 7; cfr. P. REGELL, De augurum publicorum libris, cit., p.
24.
[31] In questo responso
dei pontefici S. TONDO, Leges regiae,
cit., pp. 43-44, ritiene di vedere il punto terminale del complesso sviluppo
del
[p.
121]
regime della dedicatio: si sarebbe
passati, cioè, secondo il Tondo, da una primitiva situazione in cui la
competenza alla dedicatio veniva
considerata dal collegio pontificale «come emanazione esclusiva della
potestà consolare» (ai
consules «peraltro erano equiparati dictator e praetor»), ad una più avanzata, in cui si
considerava «ormai acquisita, anche agli occhi dei pontefici», la
possibilità di estendere ad altri magistrati tale competenza.
[32] Le fonti sul cursus honorum di Tiberio Coruncanio
sono in T. R. S. BROUGHTON, The
Magistrates of the Roman Republic, II,
cit., pp. 190 s., 210, 216, 218; i legami politici del pontefice massimo plebeo
sono invece esaminati da F. CASSOLA, I
gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962, pp. 136, 159 ss.; per una visione d’insieme,
vedi KUNKEL, Herkunft und soziale
Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952, pp. 7 s.; testi in F. P.
BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae,
I, Lipsiae 1896, p. 8.
Il
carattere innovatore dell’opera di Tiberio Coruncanio era già
stato sostenuto, tra gli altri, da P. JÖRS, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I, Berlin 1888, pp. 73 ss., e da A.
BERGER, Iurisprudentia, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 10, 1,
Stuttgart 1917, col. 1161; ora, vedi anche G. NOCERA, “Iurisprudentia”. Per una storia del pensiero giuridico
romano, Roma 1973, p. 84; C. A.
CANNATA, Lineamenti di storia della
giurisprudenza europea. I. La giurisprudenza romana e il passaggio dall’antichità
al medioevo, 2a ediz., Torino
1976, p. 32. Al contrario F. SCHULZ, Storia
della giurisprudenza romana, trad.
ital., Firenze 1968, pp. 27, 44, ritenne le testimonianze di Pomponio frutto di
una tarda tradizione: «La notizia – si legge a p. 27 – perde
così ogni valore: anche prima di Coruncanio i pontefici,
all’occasione, debbono aver dato responsa
in pubblico. Quanto poco Coruncanio segni una rottura può essere
desunto dal fatto che non conosciamo nessun suo allievo importante».
Ma l’opinione dello
Schulz viene solitamente rifiutata dalla dottrina: così P. FREZZA, Corso di storia del diritto romano, 3a ediz., Roma 1974, pp. 368 s.; A.
GUARINO, Storia del diritto romano, 5a ediz., Napoli 1975, pp. 239, 308.
Una recentissima messa a punto di tutta questa problematica si trova
nell’articolo di F. D’IPPOLITO, Sul
pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo 23, 1977, pp. 131 ss.; cfr. ID., I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana
della repubblica, Napoli 1978, pp. 27 ss.
[33] Tale è anche
l’opinione di F. D’IPPOLITO, Sul
pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, cit., p. 139, il quale ritiene possibile «che Cicerone abbia
potuto leggere i commentari dei pontefici e farsi un’idea
dell’eloquenza e dell’impegno del giurista».
[34] Ci si riferisce qui
a frammenti di Varrone conservati in opere di altri autori: cfr., ad esempio,
Nonio pp. 853; 559, ed. Lindsay; Festo, v. opima
spolia, p.
[p. 122]
me ita sunto quoad ego † eas te lingua[m] nuncupavero.
Ullaber arbos quirquir est, quam me sentio dixisse, templum tescumque[m] + festo in
sinistrum. Ollaner arbos quirquir est, quod me sentio dixisse te<m>plum
tescumque[m] + festo dextrum. Inter ea conregione conspicione cortumione utique ea
erectissime sensi”. La
ricostruzione di questa formula augurale è stata oggetto di numerosi
studi: E. NORDEN, Aus altrömischen
Priesterbüchern, Lund-Leipzig
1939, pp. 3 ss.; G. B. PIGHI, La poesia
religiosa romana, Bologna 1958,
p. 86; e da ultimo E. PERUZZI, La formula
augurale di Varrone l. l. VII
[35] Si veda in tal senso, BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, cit., p. 625. Sembra invece ritenere
possibile che Varrone sia stato membro del collegio dei quindecimviri sacris faciundis C. CICHORIUS, Römische Studien, Leipzig
1922, p. 199: «Es ist schon vielfach hervorgehoben worden, dass in das
collegium der quindecemviri, dessen amtliches Wirken sich vorwiegend auf
Griechisches erstreckte, vor allem Persönlichkeiten mit geistigen und
wissenschaftlichen Interessen gewählt worden sind. Es würde nun im
höchsten Grade befremden müssen, wenn der hervorragendste Kenner des
römischen Sakralwesens, Varro, der Verfasser des Hauptwerkes auf dem Gebiete
der römischen Religion und des römischen Kultus, der antiquitates
divinae, der zudem eine so angesehene Stellung eingenommen und so nahe
Beziehungen zu den einflussreichsten Staatsmännern seiner Zeit gehabt hat,
nicht einem der grossen Priesterkollegien angehört haben sollte. Es ist
mir deshalb von jeher als sehr wahrscheinlich erschienen, dass Varro
quindecemvir sacrorum gewesen ist. Gerade dieses Priestertum musste seinen
Interessen in ganz hervorragendem Masse entsprechen und gerade für die
quindecemiviri musste die Mitarbeit eines Sachkenners wie Varro von
allergrösstem Werte sein».
[36] Dell’opera
varroniana vi è ora la recente ricostruzione critica curata da B.
CARDAUNS, M. Terentius Varro Antiquitates
rerum divinarum, 2 Teil (I. Die
Fragmente; II. Kommentar), Wiesbaden 1976, che raccoglie in modo
pressoché completo i frammenti dei sedici libri. Tuttavia, anche
perché il Cardauns adotta nella raccolta dei frammenti un criterio
piuttosto restrittivo, risulta ancora utile la consultazione del lavoro di R.
AGAHD, M. Terenti Varronis Antiquitates
rerum divinarum. Libri I XIV XV XVI. Praemissae sunt quaestiones varronianae,
in Jahrbücher für classische
Philologie, Supplementband 24, (Leipzig) 1898, pp. 1-220; e della raccolta
curata da A. G. CONDEMI, M. Terenti
Varronis Antiquitates rerum divinarum. Librorum I-II fragmenta, Bologna 1965 (per una breve valutazione
critica di questa raccolta, vedi rec. di J. C. RICHARD, in Revue des études latines 45, 1967, pp. 546 s.).
[37] Già
Cicerone, Acad. post. 9, scriveva: Nam nos in nostra urbe peregrinantis
errantisque tamquam hospites tui libri quasi domum reduxerunt, ut possemus
[p.
123]
aliquando qui et ubi essemus agnoscere. Tu aetatem
patriae, tu discriptiones temporum, tu sacrorum iura, tu sacerdotum, tu
domesticam, tu bellicam disciplinam, tu sedem regionum, locorum, tu omnium
divinarum humanarumque rerum nomina, genera, officia, causas apersuisti; per altre testimonianze di scrittori
antichi, si v. CARDAUNS, Antiquitates
rerum divinarum, cit., I, p. 13.
Su Varrone giurista
e antiquario si vedano i recenti lavori di A. CENDERELLI, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M.
Terenzio Varrone, Milano 1973 (ma
sull’impostazione del Cenderelli vedi i giusti rilievi critici di L.
LABRUNA, Varrone Giureconsulto? [Materiali per un seminario romanistico 1],
Camerino 1974-1975) e di R. GELSOMINO, Varrone
e i sette colli di Roma, Roma
1975. Nuovi ed interessanti contributi alle questioni varroniane in Atti del Congresso internazionale di studi
varroniani, 2 voll., Rieti 1976
(ivi relazioni di B. RIPOSATI, A. GARZETTI, F. DELLA CORTE, P. BOYANCÉ,
H. DAHLMANN, A. TRAGLIA, V. PISANI, J. H. WASZINK, J. IJSEWIJN, E. PARATORE).
Per una messa a punto complessiva della bibliografia, vedi da ultimo B.
RIPOSATI - A. MARASTONI, Bibliografia varroniana, Milano 1974.
[38] Della dedicatio ad Caesarem delle Antiquitates rerum divinarum di Varrone ci danno notizia
Lattanzio, Inst. div. 1, 6, 7; e Agostino, De civ. dei 7, 35: i passi sono raccolti in CARDAUNS, Antiquitates rerum divinarum, cit., I, p.
14.
[39] La
possibilità che Varrone ed altri abbiano avuto accesso, grazie a Cesare,
agli archivi pontificali, è sostenuta da F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 79-80: «Ma nella seconda metà del primo
secolo anche i laici cominciarono ad occuparsi di diritto sacro: per esempio, i
giureconsulti Servio Sulpicio e C. Trebazio, M. Terenzio Varrone,
l’eminente antiquario, e un altrimenti ignoto Granio Flacco. Questi
uomini trovarono a portata di mano ampi materiali nelle opere già
pubblicate sul diritto sacro; inoltre, tutti e quattro, appartenevano al
circolo di Giulio Cesare, e questi, come pontifex
maximus, era naturalmente in
grado di aprire loro gli archivi pontificali».
Più in
generale, sui rapporti tra Cesare e Varrone, vedi F. DELLA CORTE, Varrone, il terzo gran lume romano, Firenze 1970, pp. 117 ss.; N. HORSFALL,
Varro and Caesar: three chronological
problems, in Bulletin of the
Institute of Classical Studies of the University of London 19, 1972, pp.
120 ss.
[40] Il sistema della
teologia varroniana, theologia tripertita, conosciuto attraverso testimonianze di
autori posteriori all’antiquario reatino, ma soprattutto attraverso
l’esposizione di Sant’Agostino in ampi passi del De civitate dei (sul rapporto
Sant’Agostino-Varrone, vedi da ultimo G. BARRA, La figura e l’opera di Terenzio Varrone Reatino nel De civitate
dei di Agostino, Napoli 1969; i
passi sono raccolti in AGAHD, Antiquitates
rerum divinarum. Libri I XIV XV XVI, cit.,
pp. 142 ss.; CONDEMI, Antiquitates rerum
divinarum. Librorum I-II fragmenta, cit.,
pp. 14 ss.; CARDAUNS, Antiquitates rerum
divinarum, I, cit., pp. 18 ss.),
è stato oggetto in passato di numerosi studi ed oggi gode di un
rinnovato interesse degli studiosi. Sarebbe invero assai dispersivo citare in
questa nota tutti i lavori in proposito: per maggiori
[p. 124]
approfondimenti si veda l’articolo, davvero esauriente, di G.
LIEBERG, Die “Theologia
tripertita” in Forschung und Bezeugung, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I, 4, cit., pp.
63 ss. (a
pp. 107 ss. sono raccolte le fonti fondamentali per la conoscenza della theologia tripertita),
in cui sono discussi i contributi anteriori al 1970. Successivamente a tale
data, mette conto citare P. BOYANCÉ, Étymologie
et théologie chez Varron, in
Revue des études latines 53, 1975, pp. 99 ss.; ID., Les implications philosophiques des
recherches de Varron sur la religion romaine, in Atti del Congresso internazionale di studi varroniani, cit., I, pp. 137 ss.; H. DAHLMANN, Zu Varros antiquarisch-historichen Werken,
besonders den Antiquitates rerum humanarum et divinarum, ibidem, pp. 163 ss.; J. PÉPIN,
Remarques sur les sources de la theologia tripertita de Varron, in Varron. Grammaire antique et stylistique
latine (Recueil offert à J. Collart), Paris 1978, pp. 127 ss.; ed
infine G. LIEBERG, Die theologia
tripertita als Formprinzip antiken Denkens, in Rheinisches Museum für Philologie 125, 1982, pp. 25 ss.
[41] Il legame tra
l’elaborazione teologica di Varrone e la teologia ufficiale dei sacerdoti
romani, quando non sia espressamente negato (come da F. DELLA CORTE, Varrone, il terzo gran lume romano, cit., p. 98: «L’ordine non
era senza una ragione: anziché far provenire gli uomini dagli dei,
l’antiquario sapeva che gli uomini e non gli dei avevano istituito i
culti divini; e come il pittore preesisteva alla pittura, l’architetto
all’edificio, così le città preesistevano alle loro
istituzioni, e fra le istituzioni v’era anche il culto degli dei. Se egli
fosse stato un teologo, come certa critica ha voluto raffigurarcelo, avrebbe
trattato prima degli dei e poi degli uomini. Ma il suo illuminismo e il suo
gusto antiquario lo salvarono dal pericolo di uno sconfinamento teologico, gli
impedirono di affrontare quel problema sull’essenza degli dei, che invece
alletterà, un decennio dopo, Cicerone»), è comunque quasi
sempre trascurato dagli studiosi, assai più propensi a riflettere sul
carattere filosofico dell’elaborazione varroniana: così, ad
esempio, P. BOYANCÉ, Sur la
théologie de Varron, in Revue
des études anciennes 57, 1955,
pp. 57 ss. (= Études
sur la religion romaine, Rome
1972, pp. 253 ss.); ID., Les implications philosophiques des
recherches de Varron sur la religion romaine, in Atti del Congresso internazionale di studi varroniani, cit., pp. 137 ss.; J. PÉPIN, La théologie tripartite de Varron.
Essai de reconstitution et recherche de sources, in Revue des études augustiniennes 2, 1956, pp. 265 ss. Né sembrano
convincenti, d’altra parte, quei tentativi di utilizzare la
quadripartizione varroniana (peraltro di derivazione pitagorica) per sistemare
i frammenti dei libri pontificum:
è il caso della raccolta
curata da P. PREIBISCH, Fragmenta
librorum pontificiorum, cit. supra in
n. 16. Che in taluni casi Varrone abbia utilizzato classificazioni molto
arcaiche, forse di provenienza pontificale, è stato dimostrato da L.
GERSCHEL, Varron logicien, in Latomus 17, 1958, pp. 65 ss.
Sulla
necessità di confrontare la famosa quadripartizione varroniana con i
dati provenienti dai documenti sacerdotali, ha posto da ultimo l’accento
P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II, 16. 1, Berlin-New York
1978, p. 448 n.
Ben
maggiore fra gli studiosi è invece la fortuna di Varrone “grammatico”:
[p.
125]
vedi, fra gli altri, H. DAHLMANN, Varro und die hellenistische Sprachtheorie, Kiel 1932 (rist. anast. 1964); J.
COLLART, Varron grammairien latin, Paris 1954; R. SCHRÖTER, Studien zur varronischen Etymologie I, Wiesbaden 1960; infine, A. TRAGLIA, L’ars grammatica vista da Varrone in
rapporto alle altre arti, in Atti del
Congresso internazionale di studi varroniani, cit., I, pp. 177 ss.; V. PISANI, «Non
solum ad Aristophanis lucernam, sed etiam Cleanthis»: la teoria
grammaticale e quella filologica nell’etimologia di Varrone, in Atti, cit., I, pp. 197 ss.
[42] Esistono altri due
passi di Varrone in cui si citano i libri: nel primo, in Festo, v. Opima spolia, p.
[43] Del De lingua Latina vi è ora in
italiano la notevole traduzione di A. TRAGLIA, Opere di Marco Terenzio Varrone,
Torino 1974: cfr. la recensione di B. RIPOSATI, in Athenaeum 64, 1976, pp. 531 ss. Quanto alla lettura dei testi
riportati, ho preferito seguire l’edizione teubneriana, curata da G.
GOETZ e F. SCHOELL, M. Terenti Varronis
De lingua Latina quae supersunt, Lipsiae
1910; per i passi del V libro, ho tenuto conto anche dell’ottimo lavoro
di J. COLLART, Varron De lingua latina
livre V, Paris 1954.
[45] BRAUSE, Librorum
de disciplina augurali, cit., pp.
18 ss.: fragm. 5; REGELL, Fragmenta
auguralia, cit., p. 16: fragm. 9;
CARDAUNS, Antiquitates rerum divinarum, cit., I, p. 113 (Appendix ad lib. XVI,
a); II, p. 238.
[46] BRAUSE, Librorum
de disciplina augurali, cit., p.
37: fragm. 21; REGELL, Fragmenta
auguralia, cit., p. 16: fragm. 7;
GIRARD, Textes de droit romain, 2a
ediz., Paris 1895, p. 11; CENDERELLI, Varroniana,
cit., p. 56: fragm. 239.
[47] BRAUSE, Librorum
de disciplina augurali, cit., p.
37: fragm. 22; REGELL, Fragmenta
auguralia, cit., p. 16: fragm. 6;
CARDAUNS, Antiquitates rerum divinarum, cit., I, p. 41 (Appendix ad lib. III, g); II, p. 164.
[48] CENDERELLI, Varroniana, cit., p. 42: fragm. 123;
CARDAUNS, Antiquitates rerum divinarum, cit., I, p. 54 (Appendix ad lib. VIII);
II, p. 176. Cfr., anche, W. MOREL, Fragmenta
poetarum latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et Luculium, 2a ediz., 1927 (rist. Stutgardiae
1963), p. 5: carmen saliare fragm.
20.
[49] Non mi pare da
condividere l’osservazione del ROHDE, Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 20, il quale, a proposito del passo citato, così
scrive: «Hier gibt Varro nicht eine Einzelheit, sondern eine allgemeine
Feststellung auf Grund seiner Kenntnis der pontifikalen Ritualanweisungen. Das videmus vor allem lässt
auf wirkliche Kenntnis der Urkunden schliessen. Die Stelle ist nun freilich
schon wegen der Nennung des Accius
[p. 126]
nicht ganz klar; man kann im Zweifel darüber sein, was denn nun
eigentlich aus den Pontifikalbüchern zu sehen war».
[51] Già il
REGELL, De augurum publicorum libris, cit., pp. 7 ss., riteneva che
«iam regum temporibus fuisse quaedam auguralia monumenta» (p. 13),
e comunque aveva dimostrato che al tempo delle dodici tavole tutti i
princìpi fondamentali della disciplina augurale erano sicuramente
contenuti nei libri; cfr. anche WISSOWA, Augures, cit., coll. 2323
s.
Anche fra gli
studiosi più recenti non vi sono dubbi sull’antichità della
disciplina augurale: si v. in tal senso, per tutti, P. DE FRANCISCI, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 477 ss.; P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., pp. 107 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, 2a ediz., Paris 1974, pp. 98
ss., 584 ss. (cfr. trad. ital. La
religione romana arcaica, Milano
1977, pp. 87 ss., 507 ss.); Idées
romaines, Paris 1969, pp. 80 ss.
[52] I commentarii consulares sono citati da
Varrone in De ling. Lat. 6, 88: testo riportato supra in n. 2.
[53] Sui problemi
relativi alla biografia ed alla molteplice produzione di Verrio Flacco vedi,
per tutti, M. SCHANZ - C. HOSIUS, Geschichte
der römischen Literatur, II,
4a ediz., München 1935 (rist. anast. 1959), pp. 361 ss. (ivi ampiamente
citata la letteratura precedente); A. DIHLE, Verrius, in
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
[54] Intorno al metodo
di composizione delle glosse verriane ed alle probabili fonti di esse, sono
veramente fondamentali gli studi di R. REITZENSTEIN, Verrianische Forschungen, Breslau
1887, e di L. STRZELECKI, Quaestiones
Verrianae, Warszawa 1932; resta
per molti versi ancora valida la prefazione di C. O. MÜLLER, Sexti Pompei Festi De verborum
significatione quae supersunt cum Pauli epitome, Lipsiae 1839.
Questi temi sono
stati recentemente riaffrontati, con penetrante intuizione, in un lavoro
significativo di F. BONA, Contributo allo
studio della composizione del «De verborum significatu» di Verrio
Flacco, Milano 1964.
[55] R. HELM, Pompeius Festus, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 21, 2, Stuttgart 1952, coll. 2316 ss.
[56] Invero
nell’opera di Festo troviamo usato più volte il termine commentarii (o anche commentarius-um) con riferimento a
documenti di provenienza sacerdotale, senza che però sia possibile
precisare con sicurezza il collegio a cui appartengono: vedi supra i passi citati alla n. 6. Il ROHDE,
Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, cit., p. 25, suppone
che si tratti di documenti appartenenti al collegio dei pontefici e che tali
documenti, in alcuni casi, possano essere stati direttamente consultati da
Verrio Flacco:
[p. 127]
«Diese Tatsache - scrive lo studioso tedesco - allein genügt
aber nicht zum Erweis, dass Verrius Flaccus die aus commentarii sacrorum zitierten Worte Schriftstellern entnommen
habe; vielmehr spricht nichts dagegen, dass er die zitierten sakralen Urkunden
selbst gesehen hat. Wir dürfen annehmen, dass Verrius Flaccus viel
öfter, als uns der dürftige Auszug des Paulus ahnen lässt,
sakrale Urkunden anführte».
[57] PREIBISCH, Fragmenta
librorum pontificiorum, cit., p.
14: fragm.
[58] PREIBISCH, Fragmenta
librorum pontificiorum, cit., p.
15: fragm. 74.
Il passo è corrotto e la ricostruzione appare molto problematica: il
Preibisch, accettando le integrazioni di Orsini e Scaligero accolte
nell’ediz. del Müller, propone la seguente lettura: Sancta loca (undique saepta doce)nt
pontifici libri, in quibus (scriptum est: templum)que
sedemque tescumque (sive deo sive dea) dedicaverit, ubi ac(cipiat
volentes) propitiosque; ma vedi, anche, la recente interpretazione di P.- Y. CHANUT, Les «tesca» du Capitole, in Revue de philologie, de litterature et
d’histoire anciennes 54, 1980, pp. 295 ss. (in part. 300 s.). Per
quanto riguarda la fonte di questo passo, ne attribuisce la paternità ad
Elio Stilone, sostituendo la lettura comunemente accettata <Tesca Verrius ai>t con
<Tesca Aelius> ait, H. FUNAIOLI, Grammaticae Romanae fragmenta,
I, Lipsiae 1907, p. 76: fragm. 75, con la seguente argomentazione:
«Verrius certe qui vulgo suppletur reieci debet, quippe qui semper
ultimus a Festo afferatur». Su questo problema, e più in generale
sulle glosse derivate da questo grammatico, cfr. F. BONA, Contributo allo studio della composizione del «De verborum
significatu», cit., pp. 142
ss., in part. 147 n.
[59] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 43: fragm. 30; REGELL, Fragmenta auguralia, cit., p. 15: fragm. 5; BREMER,
Iurisprudentiae antehadrianae, cit.,
II, 1, p. 5: fragm. 3.
[60] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 25: fragm. 12; REGELL, Fragmenta auguralia, cit., p. 16: fragm. 8. Cfr. Carisio, Art. grammat. 2, 285, 10 B:
Sarcte pro integre. Sarcire enim est integrum facere. Hinc “sarta tecta
uti sint” opera publica pubuce locatur, et ut Porphyrio ex Verrio et
Festo “in auguralibus ‘inquit’ libris ita est, sane
sarcteque”.
[61] F. A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 44: fragm. 2, accetta la ricostruzione
del passo proposta dall’Orsini (accolta anche dal MÜLLER, Sexti Pompei Festi de verborum
significatione, cit., p. 317 b):
«sanqualis avis a(ppellatur
quae in com)mentariis augura(libus ossifra)ga
dicitur quia in (Sangi dei) tutela est»;
individuando anzi in esso un’ulteriore riprova della distinzione tra libri e commentarii augurali: «Etiam hac fragmento – scrive il
B., loc. cit. – discrimen quod
intercedit inter libros et commentarios valde confirmatur. Nam
“sanqualis” appellatio quin in libris auguralibus fuerit ex eis
testimoniis quae in altera particula huius libelli erunt proferenda
[p.
128]
(imprimis ex Appii
libris apud Festum 197 s. v. oscines) dubium esse non potest. Commentarii autem
eius scilicet temporibus compositi quibus quae ea avis esset non amplius
accurate sciretur sanqualem avem eandem esse atque ossifragam interpretati
sunt».
Tale ricostruzione
è invece rifiutata, coerentemente con la posizione che non distingue tra
libri e commentarii, da P.
REGELL, De augurum publicorum libris, cit., pp. 39 s., il quale propone la
seguente lettura: Sanqualis avis a(ppellatur
in com)mentaris augura(libus quae ossifra)ga
dicitur, quia in (Sangi dei) tutela est; cfr. inoltre: Fragmenta auguralia, cit.,
p. 13: fragm. 1; Commentarii in librorum
auguralium fragmenta specimen, Hirschberg
1893, p. 14: fragm. 1.
[62] L’esatta
determinazione del rituale legato all’offerta di spolia opima appare tuttora problematica. La stessa nozione di spolia opima si presenta controversa
anche nelle testimonianze degli scrittori antichi, i quali conoscevano due
versioni di essa. La prima definisce opima
solo quegli spolia quae dux populi
Romani duci hostium detraxit, ritiene
che in ogni caso si dovessero offrire a Iuppiter
Feretrius e tende a sottolineare l’eccezionalità della
circostanza: Livio 4, 20, 5-6: Omnes ante
me autores secutus A. Cornelium Cossum tribunum militum secunda spolia opima
Iovis Feretrii templo intulisse exposui; ceterum, praeterquam quod ea rite
opima spolia habentur, quae dux duci detraxit, nec ducem novimus, nisi cuius
auspicio bellum geritur, titulus ipse spoliis incriptus illos meque arguit
consulem ea Cossum cepisse; Festo,
p.
Stando
alla seconda versione, che si fonda su una citazione di Varrone (Festo, loc. cit., testo supra p. 100), gli spolia opima esisterebbero ogni qualvolta soccomba nella battaglia
un comandante supremo dell’esercito nemico, anche se ad ucciderlo non sia
stato il comandante romano medesimo. In questo caso si parla ugualmente di spolia prima, secunda e tertia, però la classificazione appare
fondata, non tanto sul dato temporale, ma su precise esigenze rituali,
corrispondenti alla triade arcaica delle divinità romane: cfr.
DUMÉZIL, La religion romaine
archaïque, cit., pp. 178 ss.
(cfr. trad. ital., cit., pp. 158 ss.); ma contra A. PARIENTE, “Opimus” y la llamada “lex
de spoliis opimis”, in Emerita 42,
1974, pp. 233 ss., il quale propone una discutibile ricostruzione della lex,
il cui titolo a suo avviso doveva essere: Quomodo spolia darier oporteat:
vedi part. 251 ss., 259. Di questa tripartizione rituale K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 204-205, dà una
interpretazione che in parte si discosta dal lato testuale: «So wird -
scrive lo studioso tedesco - die Weihung der Waffen eines erschlagenen
feindlichen Führers an Iuppiter Feretrius an die Bedingung geknüpft,
dass der Römer, der ihn getötet hat,
[p. 129]
ein selbständiges Kommando mit eigenen Auspizien geführt hat.
Dementsprechend werden secunda und tertia spolia unterschieden, je nachdem die
Tat von dem Führer einer römischen Abteilung ohne selbständiges
Kommando oder von einem gewöhnlichen Soldaten vollbracht ist. Dann
dürfen sie nicht Iuppiter Feretrius geweiht werden, sondern im ersten Fall
dem Mars, in zweiten dem Ianus Quirinus»; ritenendo che la regolamentazione
di questo complesso cerimoniale evidenzi «der Einfluss der Pontifices bei
der Systematisierung der römischen Religion». Anche il TONDO, Leges regiae, cit., pp. 24 s., fa risalire ad ambienti pontificali
«l’associazione di Ianus a Quirinus», realizzata attraverso
l’attrazione del primo nell’orbita del secondo, come testimonia
l’offerta dell’agnus mas, mentre si sa che l’animale sacro
a Giano era l’aries; questo adeguamento sarebbe avvenuto in
età assai antica, e ciò, secondo il Tondo, sarebbe confermato dall’arcaicità
della forma Ianui.
Che
l’espressione Ianus Quirinus sia
assai risalente è sostenuto anche da R. SCHILLING, Ianus. Le dieu introducteur. Le dieu des passages, in Mélanges de
l’École française de Rome 72, 1960, p. 116 (= ID., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, p. 247); C. KOCH, Quirinus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 24, 1, Stuttgart 1963, coll. 1314 s. Tuttavia una
parte considerevole della dottrina si orienta nel senso di ritenere
l’epiteto Quirinus di origine
augustea: più precisamente, legato alla politica religiosa di Ottaviano
ed al particolare interesse che questo aveva per il culto di Quirino. Vedi, in
tal senso, J. POUCET, Recherches sur la
légende sabine des origines de Rome, Kinshasa 1967, pp. 37 ss., (ivi bibliografia) il quale, muovendo
dalla constatazione che «les autres passages traitant des spolia opima mentionnent toujours comme
destinataires divins Juppiter, Mars et Quirinus» (cfr. Servio, Aen. 6, 859; Plutarco, Marc. 8, 5; per una visione d’insieme delle fonti, si v. F. LAMMERT, Spolia opima, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
[63] Che le opere di
Varrone abbiano costituito una fonte importante per Verrio Flacco è
sostenuto, fra gli altri, da F. BONA, Contributo
allo studio della composizione del «de verborum significatu» di
Verrio Flacco, cit., pp. 35 ss.
[65] L’importanza
della questione è stata di recente sottolineata da S. TONDO, Leges regiae e paricidas, cit., pp. 24 s., del quale si veda
anche il commento alla lex sugli spolia opima. Per quanto riguarda questa lex
Numae, non va dimenticato che da più parti è stato messo in
dubbio il suo carattere di lex regia: si orienta ad esempio in tal senso, fra
gli altri, J. CARCOPINO, Les
prétendues lois royales, in
Mélanges de l’École française de Rome 54, 1937,
[p.
130]
pp. 344 ss. Ma contro questa impostazione
si vedano le argomentazioni, assai convincenti, di G. Ch. PICARD, Les trophées romains, Paris 1957, p. 131, alle quali si riferisce
anche G. DUMÉZIL, La religion
romaine archaïque, loc. cit. in
n. 62.
[66] Di Veranio Flacco
(o Q. Veranio), antiquario e giurista di diritto sacro dell’età
augustea, si sa che scrisse anche un’opera sugli auspici, intitolata
probabilmente Auspicorum libri: così SCHANZ-HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur,
I, cit., p.
[67] Per una valutazione
complessiva dell’opera di Tito Livio, vedi, fra gli altri: H. BORNECQUE, Tite-Live, Paris 1933; P. ZANCAN, Tito Livio. Saggio storico, Milano 1940; L. CATIN, En lisant Tite-Live, Paris 1944; P. G. WALSH, Livy,
His Historical Aims and Methods, Cambridge
1961; G. WILLE, Der Aufbau des
livianischen Geschichtswerks, Amsterdam
1973; T. J. LUCE, Livy. The Composition of
His History, Princeton
1977; utile anche la lettura di Ph. A. STADTER, The structure of Livy’s History, in Historia 21, 1972, pp.
287 ss. Per
quanto riguarda le fonti, oltre il vecchio lavoro di W. SOLTAU, Livius’ Geschichtswerk. Seine Komposition und
seine Quellen, Leipzig 1897
(rist. anast. Roma 1971), sono da vedere: A. KLOTZ, Livius und seiner Vorgänger, Leipzig-Berlin 1940-1941; R. M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books 1-5,
Sugli aspetti ideologici dell’opera liviana, vedi
R. SYME, Livy and Augustus, in Harvard Studies in Classical Philology 64,
1959, pp. 27 ss. (= Roman Papers, edited by E. Badian, Oxford 1979, I,
pp. 400 ss.); H. HAFFTER, Rom und
römische Ideologie bei Livius, in
Gymnasium 71, 1964, pp. 236 ss. (=
Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, pp. 74 ss.); S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico,
Bari 1966, II, 2, pp. 42 ss.; E. PIANEZZOLA, Traduzione e ideologia. Livio interprete di Polibio, Bologna 1969; si sofferma in
particolare sulla praefatio M. MAZZA,
Storia e ideologia in Tito Livio. Per
un’analisi storiografica della praefatio ai libri ab Urbe Condita,
Catania 1966.
Per una messa a
punto della bibliografia più recente, vedi V. VIPARELLI, Rassegna di studi liviani, in Bollettino di studi latini 4, 1974, pp.
49 ss.
[68] Basterà qui
ricordare, giusto a titolo esemplificativo, il nutrito elenco di prodigi
presenti nell’opera liviana, certo improntati - direttamente o
indirettamente - agli Annales Maximi: vedi in tal senso, E. DE SAINT-DENIS, Les énumerations de prodiges dans
l’oeuvre de Tite-Live, in Revue
de Philologie 16, 1942, pp. 126 ss.; J. Ph. PACKARD, Official notices in
Livy’s fourth decade: style and treatment,
[p. 131]
da ultima E. RAWSON, Prodigy lists and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21,
1971, pp. 158 ss. Né
vanno dimenticati gli esempi di solenni formule giuridico-religiose quali: la
formula dell’inauguratio (Liv.
1, 18, 6 ss.); del foedus (Liv. 1, 24, 3 ss.); dell’indictio belli (Liv. 1, 32, 11 ss.);
della deditio (Liv. 1, 38, 2); della devotio (Liv. 8, 9, 4 ss.); del ver
sacrum (Liv. 22, 10, 1 ss.). G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., pp. 104 ss. (cfr. trad. ital. cit., pp. 93 ss.), ha
dimostrato in maniera incontestabile la sostanziale autenticità di tali
formule, discutendone alcune in modo assai approfondito: né appaiono
convincenti le perplessità manifestate su queste formule da K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 5 (sul quale, peraltro, vedi
DUMÉZIL, loc. cit.); d’altronde, lo stesso J. BAYET, Introduction a Tite-Live, Histoire romaine, livre I, Paris 1965, pp. XXXVIII s., per il resto assai cauto nella valutazione dell’opera di
Livio, sottolinea come pienamente attendibili quelle parti in cui si tratta di
istituzioni politiche, giuridiche e religiose: «Très Romain par sa
haine de la superstitio et
l’importance qu’il attache à l’exactitude des rites,
Tite-Live a eu l’immense mérite de soupçonner
l’importance du phénomène religieux dans l’ancienne
histoire; il a eu aussi la délicatesse de ne pas l’y introduire
sous forme d’exempla, mais par de notations, précises
jusqu’à la nudité, de présages, de
cérémonies, de formulaires».
Più in
generale, sul rapporto tra Livio e la religione tradizionale, vedi G.
STÜBLER, Die Religiosität des
Livius, Stuttgart-Berlin 1941
(rist. Amsterdam 1964); I. KAJANTO, God on Fate in Livy, Turku
1957; W. LIEBESCHUETZ, The Religious Position of Livy’s History,
in The Journal of Roman Studies 57,
1967, pp. 45 ss.
[70] Il testo è
quello dell’edizione curata da W. WEISSENBORN - H. J. MÜLLER, Titi Livi ab urbe condita libri, Berlin 1880 (rist. 1965): dei quali
vedi anche il commento ai passi citati.
[71] Vedi in tal senso
REGELL, De augurum publicorum libris, cit., p. 33; ed anche JÖRS, Römische Rechtswissenschaft, cit., p. 42 n. 2, il quale ritiene che
in questi casi il termine commentarii «Wird
..... für das pontificale Archiv gebraucht».
[72] «So sind bei Liv. VI 1, 2 unter pontificum
commentarii zweiffellos die annales maximi oder ihre
nichtliterarischen Vorläufer zu verstehen»: ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, cit., p. 15; cfr.
inoltre p. 21. Peraltro che i due passi riguardassero gli annales era già sostenuto da J.
V. LE CLERC, Des journaux chez les
Romains, cit., p. 120:
«puisqu’il ne s’agit que d’ouvrages historiques, tels
que les fastes qui commençaient à Publicola et à Brutus,
et que tous les faits que le tribun rappelle ensuite, pour reprocher aux
patriciens du vouloir les cacher au peuple, sont des faits de l’histoire
de Rome»; limitatamente a Liv. 6, 1, 2, anche da E. HÜBNER, Die annales maximi der Römer, in Jahrbücher für classische
Philologie 79, 1859, p. 408.
[p.
132]
[73] Per un attento
riesame dell’intera problematica, si veda il recente lavoro di E.
PERUZZI, Origini di Roma, II, cit.,
pp. 175 ss.
[74] Il passo di Seneca
non sembra interessare solitamente la dottrina: brevissimi cenni soltanto in
BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de
l’ancienne Rome, cit., p.
21; ed in BRAUSE, Librorum de disciplina
augurali, cit, p. 42.
[76] Il testo è
quello dell’edizione curata da H. LE BONNIEC, Pline l’Ancien, Histoire naturelle, livre XVIII, Paris 1972.
Su Plinio e sulle
sue fonti resta ancora fondamentale l’opera di F. MÜNZER, Beiträge zur Quellenkritik der
Naturgeschichte des Plinius, Berlin 1897,
la quale rende pressoché superfluo il ricorso agli studiosi anteriori;
utile risulta anche la consultazione dell’articolo di W. KROLL, Plinius der Ältere, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 21, 1, Stuttgart 1951, coll. 425 ss. Linguaggio,
stile e grammatica sono analizzati da A. ÖNNERFORS, Pliniana. In Plinii maioris Naturalem historiam studia grammatica
semantica critica, Upsaliae 1956;
per quanto riguarda la religione, si veda Th. KÖVES-ZULAUF, Reden und
Schweigen. Römische Religion bei Plinius Maior, München 1972. Per maggiori approfondimenti è da consultare la
rassegna di Kl. SALLMANN, Plinius der
Altere 1938-
[77] Correggeva et in
nec già K. L. URLICHS, Chrestomantia
Pliniana, Berlin 1857, seguito da
D. Detlefsen e da C. Mayhof: cfr. H. LE BONNIEC, Pline l’Ancien, Histoire naturelle, livre XVIII, cit., p. 63. Peraltro la correzione
dello Urlichs appare generalmente seguita dagli studiosi: L. DELATTE, Recherches sur quelques fêtes mobiles
du calendrier romain. IV. Augurium canarium, in
L’antiquité classique 6, 1937, p. 93; P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., p. 346; ma su questo punto mi
pare esauriente l’argomentazione svolta da J. BAYET, Les “Feriae sementivae” et les indigitations dans le culte
de Cérès et de Tellus, in
Revue de l’histoire des religions 137, 1950, p. 186 n. 2.
[78] PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, cit.,
p. 8: fragm. 34.
È interessante osservare che il passo di Plinio costituisce
l’unico testo in cui si parla di augurium
canarium, laddove le altre fonti
parlano tutte di un sacrificio: così, Festo, p.
[p.
133]
oriente
maximi calores et ex his graves morbi: ideoque Romae omnibus annis sacrum
canarium fit per publicos sacerdotes. Cfr.
P. CATALANO, Contributi allo studio del
diritto augurale, cit., p. 346.
Per quanto riguarda invece l’utilizzazione rituale del cane, vedi il recente lavoro di M. A. MARCOS CASQUERO, El perro y la religión romana, in Durios 5, 1977, pp. 25 ss.
[79] Sull’augurio
canario, si veda WISSOWA, Augures, cit., coll. 2341 ss.; ID., Religion und Kultus, cit., p. 196; L. DELATTE, Recherches sur quelques fêtes mobiles
du calendrier romain. IV. Augurium canarium, cit., pp. 93 ss.; LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., p. 68;
DUMÉZIL, La religion romaine
archaïque, cit., p. 585
(cfr. trad. ital., cit., p. 508); ID., Idèes
romaines, cit., p. 98; ma
soprattutto CATALANO, Contributi allo
studio del diritto augurale, cit., pp. 346 ss.
[80] Il CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., p. 350, ritiene che, a proposito
dell’augurio canario, si possa parlare di «una festa mobile che
durava più giorni: il tempo degli atti che la costituivano era
determinato dai pontefici e dalla inaugurazione degli auguri»; quanto poi
al sacrificio, cioè alla determinazione di chi fosse competente a
compierlo, egli rifiuta la tesi che esso fosse compiuto dagli auguri, poiché
è da ritenere, piuttosto, «che si trattasse di una cerimonia
complessa, cui partecipavano diversi sacerdoti» (p. 351).
[81] Il fatto che in
Plinio l’augurium canarium sia
messo in relazione con i commentarii
pontificum ha indotto qualche studioso a ritenere che il sacrificio delle
cagne rosse fosse compiuto dai pontefici: questa soluzione è proposta,
ad esempio, dal WISSOWA, Religion und
Kultus der Römer, cit., p. 524 n. 3, il quale corregge così
quanto da lui sostenuto in precedenza nell’articolo Augures, cit., col. 2329; ma, contro, vedi le argomentazioni del
CATALANO, Contributi allo studio del
diritto augurale, cit., p. 351.
[82] In tal senso si pronuncia G. ROHDE, Die
Kultsatzungen der Römischen Pontifices, cit., p. 26: «Dass Plinius die priesterlichen Aufzeichnungen
selbst eingesehen habe, ist nicht anzunehmen. Doch lässt sich nicht mit
Sicherheit sagen, welchem der im Quellenverzeichnis zu Buch XVIII genannten
Schriftsteller er diese wörtliche Anführung aus den Commentarii pontificum verdankt, ob dem
Masurius Sabinus, dem Verrius Flaccus, dem Varro oder dem Ateius Capito».
H. LE BONNIEC, Histoire naturelle, livre
XVIII, cit., Introduction, p. 17,
ritiene probabile che in questo caso si tratti di Verrio Flacco: «Sans
doute faut-il attribuer à Verrius l’étymologie de adoria qui concorde avec celle
donnée par l’abrégé de Paulus; c’est
probablement à lui qu’est empruntée la citation des commentarii pontificum (§ 14) relative à l’Augurium canarium»; tale opinione è peraltro
ampiamente condivisa nella dottrina: cfr. op.
loc. cit., n. 3.
[83] Vedi la valutazione
giuridica del passo in M. Fabii
Quintiliani, Institutionis oratoriae libri XII (Corpus Iuris Romani
publici, I.B, 7.1), Milano 1976,
pp. 29, 50, 115.
[p. 134]
[84] Già J. V. LE
CLERC, Des journaux chez les Romains,
cit., p. 127, riteneva probabile che
in questo caso Quintiliano si riferisse agli annales pontificum; così
anche A. SCHWEGLER, Römische
Geschichte, I, cit., p. 32 n. 5. Questa tesi è stata in seguito
ripresa da P. REGELL, De augurum
publicorum libris, cit., p. 33, il
quale però vedeva nel passo in questione un’ulteriore riprova
dell’impossibilità di distinguere tra libri e commentarii sacerdotali
sulla base delle testimonianze degli autori antichi; in tal senso vedi anche G.
ROHDE, Die Kultsatzungen der
römischen Pontifices, cit.,
p. 15.
[85] Vedi G. WISSOWA, Censorinus, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 3, 2, Stuttgart 1899, coll. 1908 ss.; SCHANZ-HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, III, 2a ediz., München 1922 (rist.
1959),
pp. 219 ss.
[86] Quanto al testo ho
seguito quello accolto da G. B. PIGHI, De
ludis saecularibus populi Romani Quiritium. Libri sex, Milano 1941, pp. 33 ss.
[87] Ho seguito il testo
dell’edizione del REIFFERSCHEID: Arnobii
Adversus nationes libri VII,
recensuit et commentario critico instruxit Augustus Reifferscheid, Vindobonae
1875 (rist. New York 1968).
[88] Per quanto riguarda
biografia ed opere di M. Vittorino, vedi SCHANZ-HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, IV, 1, rist. München 1970, pp. 149 ss. (ivi bibliografia
precedente).
[89] Riguardo a Servio e
al Servio danielino, oltre SCHANZ-HOSIUS, Geschichte
der römischen Literatur, cit., IV, 1, pp. 172 ss., e P. WESSNER, Servius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft
[90] Per i passi citati
in questo lavoro, ho seguito il testo proposto nell’edizione curata dal
THILO e dallo HAGEN, Servii grammatici
qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Lipsiae 1877.
[91] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit.,
p. 35: fragm. 18; REGELL, Fragmenta
auguralia, cit., p. 13: fragm. 2;
ID., Commentarii in librorum auguralium, cit.,
p. 16: fragm. 2.
[92]
F. A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., pp. 12 ss., riteneva il passo di
fondamentale importanza in quanto, a suo avviso, attraverso di esso si rendeva
possibile operare la distinzione tra libri
e
[p.
135]
commentarii augurali. La congettura del Brause
si fondava sull’identificazione dei libri
augurali con i libri reconditi, che solitamente viene però
rifiutata dalla dottrina: vedi infra n.
93.
[93]
L’assimilazione dei libri reconditi
ai libri augurales, già rifiutata da C. O.
MÜLLER, Die Etrusker, Breslau 1828, II, p. 113, trova invero
ben scarsi consensi nella dottrina: vedi, in questo senso, P. REGELL, De augurum publicorum libris, cit., p.
35; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Histoire
de la divination dans l’antiquité, cit., IV, p. 182 n. 1; C. THULIN, Die etruskische Disciplin, III,
Göteborg 1909, pp. 109 ss.; anche P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., p. 80, sostiene che i libri
reconditi «sono libri etruschi»; e da ultimo, A. J. PFIFFIG, Religio Etrusca, Graz 1975, p. 145.
[95] Nei codici si legge
iuge eis; la correzione in Iugetis risale
allo Scaligero: si vedano, in tal senso, le annotazioni del MÜLLER a Paolo
104, v. iuges; cfr., inoltre, REGELL,
Commentarii in librorum auguralium, cit., p. 18 n. 45. Continua invece a
leggere iuge enim eis F. A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit.,
p. 36: fragm. 19.
[96] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, loc. e fragm. cit. in n. 95; REGELL, Fragmenta auguralia, cit., p. 14: fragm. 4. Per quanto riguarda lo iuges auspicium (vedi anche: Cicerone, De div. 2, 77; Paolo, Fest.
epit., p.
[97] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 35: fragm. 17. Nega, invece,
che il passo possa riferirsi ai libri degli auguri, il REGELL, Commentarii in librorum auguralium, cit., p. 22 n. 58, il quale sostiene
che «Huic signo non in auguralibus sed in fulguralibus haruspicum libris
locum esse».
[98] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 17: fragm. 1; REGELL, Fragmenta auguralia, cit., p. 17:
fragm. 11.
[99] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit.,
p. 17: fragm. 3 b; REGELL,
Fragmenta auguralia, cit., p. 17: fragm. 10. Cfr. J. A. AMBROSCH, Über die Religionsbücher der
Römer, Bonn 1843, p. 40.
[100] Dalle fonti risulta
che il Tevere era invocato, oltre che nelle preghiere degli auguri (come
conferma, vedi anche Cicerone, De nat.
deor. 3, 52: in augurum precatione
Tiberinum, Spinonem, Anemonem, Nodinum, alia propinquorum fluminum nomina
videmus), anche negli indigitamenta dei pontefici: cfr. Servio Dan., Aen. 8, 330; Servio, Aen. 8, 63; 8, 72: sic enim invocatur in precibus “adesto, Tiberine, cum tuis
undis”.
Gli
aspetti storico-religiosi del culto del Tevere sono stati approfonditi da J. LE
GALL, Recherches sur le culte du Tibre, Paris 1953. Per quanto riguarda
l’interesse del collegio degli auguri al culto del Tevere, e più
in generale dei fiumi, l’a. così scrive (op. cit., p. 61):
«Les augures n’avaient
[p. 136]
à s’occuper que des auspices, cette prière,
andressée aux cours d’eau qu’on devait franchir dès
que l’ont quittait l’Urbs,
est certainement celle qui permettait aux magistrats titulaires des auspices de
le faire sans les perdre. Quel que fût le cours d’eau sur lequel on
passait, on les invoquait tous simultanément». Sull’appellativo
coluber cfr. anche K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 132.
Non
va inoltre dimenticato che nel periodo più antico il Tevere segnava il
confine fra l’ager Romanus e la
terra Etruria e che tale dovette
essere considerato dalla disciplina augurale anche in seguito, sulla base degli
agrorum genera da essa elaborati:
sulla funzione del Tevere come linea di confine, cfr. LE GALL, Le Tibre, fleuve de Rome, dans
l’antiquité, Paris
1952, pp. 46 s.; e brevemente CATALANO, Aspetti
spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., supra in n. 41.
In generale sul nome
del Tevere vedi da ultimo C. DE SIMONE, Il
nome del Tevere. Contributo per la storia
delle più antiche relazioni tra genti latino-italiche ed etrusche,
in Studi etruschi 43, 1975, pp. 119
ss.
[101] PREIBISCH,
Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 13: fragm. 57; cfr. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 40.
[102] CARDAUNS, Antiquitates
rerum divinarum, cit., I, p. 64:
fragm. 87;
lo studioso ritiene peraltro che il passo in questione sia un frammento tratto
dal XIV libro delle Antiquitates rerum
divinarum di Varrone: «Man darf also Serv. georg. 1, 21 (fr. 87) mit guter Wahrscheinlichkeit auf RD XIV
zurückführen und der Einleitung des Buches zuweisen, in der Varro auf
Indigitamenta als wichtige - doch
sicher nicht einzige - Quelle hinweis. Dass auch die bei Servius folgenden
Ausführungen und vor allem die Zwölfgötterreihe den RD
entstammen, ist möglich, aber ungewiss»: op. cit., II,
p. 184.
[106] PREIBISCH, Fragmenta
librorum pontificiorum, cit., p.
5: fragm. 25; cfr. ID.,
Quaestiones de libris pontificiis, cit., pp. 3 s.
[107] A tale conclusione, secondo il BOUCHÉ-LECLERCQ
(Les pontifes de l’ancienne
Rome, cit., pp. 20 s.; Libri,
in Dictionnaire des antiquités
grecques et romaines 3, 2, Paris 1904, pp. 1236-1237), condurrebbe il passo
di Servio, Aen. 7, 190; su questa
linea risulta anche la posizione del ROHDE, Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 39, il quale, sempre a proposito del passo citato,
scrive: «Es ist ausgeschlossen, dass hier mit libri pontificales die
annales maximi gemeint sind, in denen die von Servius erzählte Sage
berichtet gewesen wäre; nichts deutet darauf hin, dass die annales, quibus nihil potest esse ieiunius,
Raum für solche Erzählungen geboten hätten»; inoltre,
anche P. REGELL, De augurum publicorum
libris, cit., p. 33, aveva
sostenuto che «Servius ad Aen. 1, 373 commentarios appellat ipsos
annales».
[p. 137]
L’interpretazione del passo serviano proposta
dal Bouché-Leclercq non viene invece condivisa dal PREIBISCH, Quaestiones de libris pontifìciis,
cit., pp. 3-4: «Bouché-Leclercq – scrive lo studioso tedesco
– extrema verba “quod pontificales indicant libri” ad totam
fabulam refert. Sed praeterquam quod credo, “quae” pro quod scribi
oportuisse, si is sensus, quem Bouché-Leclercq vult, exprimendus erat,
nusquam alias indicia inveniuntur, quibus commoveamur ut tales fabulas a
pontificibus traditas esse arbitremur. Ego puto hoc voluisse illum scriptorem
dicere, fabulam de Pico in avem mutato fictam esse, quia Picus augur fuisset
isque (scil. augur) picum domi habere consuesset, per quem futura nosceret;
atque eiusmodi decretum de pico in auguris domicilio sustinendo in libris pontificum
scriptum fuisse. Quamquam ita subiecti mutatio apud Servium statuenda est in
predicatis “fuit” et “habuit”, tamen illi compilatori
grammaticalem licentiam quam summis religionum Romanorum arbitris fabulae paene
puerilis fictionem atque traditionem malim tribuere».
[108] La biografia di
Macrobio è assai incerta, la sua stessa identificazione è tuttora
controversa, anche se appare più sicuro riconoscere lo scrittore nel praefectus Italiae citato nel Codex thedosianus 12, 6, 33: così
S. MAZZARINO, La politica religiosa di
Stilicone, in Rendiconti
dell’Istituto lombardo di Scienze e Lettere 71, 1938, pp. 235 ss., in
particolare 255 ss.; A. CAMERON, The date
and identity of Macrobius, in The
Journal of Roman Studies 56, 1966, pp. 25 ss., in particolare n. 26; S.
CHRISTO, Some thoughts on the dating of
the Saturnalia, in Athenaeum 55,
1977, pp. 314 ss. Contra però A. ROSTAGNI, Storia della letteratura latina, III, 3a ediz., Torino 1964, p.
461. Il problema è stato ampiamente ridiscusso nel recente lavoro di J.
FLAMANT, Macrobe et le
néo-platonisme latin, à la fin du IVe siècle, Leiden 1977, pp. 96 ss.; lo studioso
ritiene di poter identificare l’autore dei Saturnalia nel Macrobio proconsole d’Africa nel 410 (p. 126).
Cfr., anche, S. DÖPP, Zur Datierung von Macrobius’ Saturnalia, in Hermes 106,
1978, pp. 619 ss.
Per quanto riguarda
le fonti dei Saturnalia: G. WISSOWA, De Macrobii Saturnaliorum fontibus capita tria, Diss. Breslau 1880;
ed i più recenti, A.
[109] Per il testo ho
seguito l’edizione curata da I. WILLIS, Ambrosii Theodosii Macrobii Saturnalia, Lipsiae 1963. R. AGAHD, Antiquitates rerum divinarum. Libri I XIV XV
XVI, cit., pp. 116 s.,
attribuisce il passo alle Antiquitates di
Varrone, esattamente al XVI libro; sul passo cfr. anche G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, cit., pp. 44 s. Da
ultimo, P. MASTANDREA, Un neoplatonico
latino, Cornelio Labeone (testimonianze e frammenti), Leiden 1979, pp. 51 s., nega decisamente che questo frammento dei Fastorum libri di Labeone possa essere
di derivazione varroniana: «In relazione a questo passo fu condotta in
passato una ricerca di supposte “Zwischenquellen”
[p.
138]
labeoniane, ma senza che si siano raggiunti
risultati apprezzabili; in particolare mi sembra si possa respingere con sicurezza
il nome di Varrone, suggerito dal Kahl e dall’Agahd»; invece
secondo lo studioso: «La fonte cui ricorreva Labeone in questa
circostanza erano dunque i Libri
pontificales, gli archivi dei
pontefici romani ove si conservano gelosamente le norme e gli ordinamenti del
rito e del culto».
[110] BRAUSE, Librorum de disciplina augurali, cit., p. 41: fragm. 26; REGELL, Fragmenta auguralia, cit., p. 21: fragm. 17; CARDAUNS, Antiquitates rerum divinarum,
cit., I, pp. 41 (Appendix ad libr. III, c) e 56 (Appendix ad libr. VIII,
e).
[111] In generale, per
quanto riguarda il culto di Bona dea vedi
E. CAETANI LOVATELLI, L’antico
culto di Bona dea in Roma, in La
nuova antologia 136, 1894, pp. 421 ss.; G. WISSOWA, Bona dea, in
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 3, 1, Stuttgart 1897, coll. 686 ss.; ID., Religion und Kultus, cit., pp. 216 ss.;
K. LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., pp.
228 ss.; G. PICCALUGA, Bona dea. Due
contributi all’interpretazione del suo culto, in Studi e materiali di storia delle religioni 35, 1964, pp. 195 ss.;
G. RADKE, Die Götter Altitaliens, Münster 1965, pp. 73 s. Più
in particolare, sul tardo rapporto tra il culto di Bona dea e la religiosità degli schiavi nella Roma
imperiale, vedi F. BÖMER, Untersuchungen
über die Religion der Sklaven in Griechenland und Rom, I, Wiesbaden 1957, pp. 154 ss.
[112] Su Cornelio
Labeone, antiquario ed esperto di diritto sacro, vedi: W. KAHL, Cornelius Labeo, in Philologus (Suppl. 5), 1889, pp. 717 ss.; AGAHD, M. Terenti Varronis Antiquitates rerum
divinarum, cit., pp. 113 ss.;
WISSOWA, De Macrobii saturnaliorum
fontibus, cit., pp. 35 ss.; ID., Cornelius
Labeo, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft 4, 1,
Stuttgart 1900, coll. 1351 ss.; SCHANZ-HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, III, cit., pp. 181 ss.; infine, P. MASTANDREA, Un neoplatonico latino Cornelio Labeone,
cit. supra in n. 109.
[113]
Sull’attribuzione
di questo frammento ai libri augurum, concordo con l’opinione espressa
dal BRAUSE, Librorum de disciplina
augurali, cit., p. 41:
«Nullo modo dubium esse potest quin hoc praeceptum auguralibus libris
attribuamus. Namque etiamsi hoc fragmentum a Macrobio e Varronis antiquitatum
libro tertio quem de auguribus scripsit desumptum esse statuimus attamen totius
praecepti color verborumque sollemnium gravitas efficit ut Varronem auguralium
librorum praeceptum protulisse conici opporteat. Quamquam ne ego quidem locum sanum esse putaverim. Namque pluralis
numerus “augurum libri” nullo modo explicari potest. Unum enim
librum tertium rerum divinarum Varro de auguribus scripsit neque aliorum
eiusdem de disciplina augurali librorum ulla vestigia supersunt». Anche il CARDAUNS, Antiquitates rerum divinarum, cit., II,
p. 164, è orientato nel senso di ritenere la citazione di Varrone tratta
dai libri augurum, negando risolutamente
l’attribuzione di essa al liber de
auguribus: lo studioso tedesco ne reputa, infatti, più probabile la
derivazione dall’ottavo libro delle Antiquitates
R.D. (p. 176): «Herkunft aus RD VIII ist möglich: nicht aus RD
[p.
139]
III de auguribus». Contra vedi BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., p. 124, il quale sembra propendere per considerare il frammento derivato da un’opera di Varrone intitolata augurum libri.
[115] Commento al passo
in HENZEN, Acta fratrum arvalium, Berolini 1874, p. 134; vedi inoltre,
anche per quanto riguarda C.I.L. VI,
[116] Per R. F. ROSSI, Libri, in Dizionario epigrafico di antichità romane, 4, Roma 1958, p.
968, quest’epigrafe «ricorda un apparitore adibito probabilmente
agli archivi dei pontefici».
[118] Il DE RUGGIERO, loc. cit. in nota precedente, basandosi
sul fatto che le epigrafi attestano l’esistenza di un commentariensis, ritiene di poter concludere: «che i documenti epigrafici a
noi conservati e che dal Marini in poi sono noti col nome di Atti, non sono
strettamente acta, ma piuttosto commentarii».
[119] Su questi publici, in generale, vedi MARQUARDT, Le
culte chez les Romains, I, cit.,
pp. 269 ss.; WISSOWA, Religion und Kultus
der Römer, cit., pp. 496 s.:
appena un cenno in LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., p.
[121] In età
imperiale l’autonomia dei sacerdozi subì forti limitazioni, si
ebbe probabilmente anche un assiduo controllo del princeps sugli archivi sacerdotali; si spiegherebbe, in tal modo,
la funzione del liberto imperiale dell’iscrizione C.I.L. VI, 8878: D.T.M. Aelio Aug. lib. Titiano prox(imo)
a libr(is) sacerdotal(ibus):
cfr. WISSOWA, Religion und Kultus der
Römer, cit., p. 497 n. 2; F. R. ROSSI, Libri, cit., p. 968.