Università di Sassari/Seminario di Diritto
Romano/Pubblicazioni-7
Francesco Sini
Sassari, Libreria
Dessì Editrice, 1991
pp. 304
Digesta Iustiniani 1, 8, 6, 5
(Marcian. l. III inst.) ... sicut
testis in ea re est
Vergilius.
Introduzione
Sommario: 1. L’opera di
Virgilio negli studi romanistici. – 2. Divini et humani iuris scientia. – 3. Linea della ricerca. – 4. Virgilio e il carattere
originario del “diritto internazionale” di Roma.
[p. 13]
L'interesse degli studiosi di diritto
romano per l'opera di Virgilio è stato, almeno finora, in gran parte occasionale[1]. Un solo dato
basterà a confermare questa affermazione. Nelle tre recenti bibliografie virgiliane su Eneide,
Georgiche e Bucoliche, curate rispettivamente da W. Suerbaum e W. W.
Briggs jr., pubblicate negli studi in onore
di J. Vogt[2], la sezione "diritto" compare
unicamente nella rassegna dedicata all'Eneide, peraltro con due soli titoli[3].
[p. 14]
Sono mancate, in sostanza, negli
ultimi decenni ricerche volte all'individuazione
e alla valorizzazione degli aspetti giuridici
presenti nei versi del sommo poeta romano; nonostante che l'esigenza di tali ricerche, con l'indicazione
delle possibili linee di sviluppo, fosse stata propugnata da F. Stella
Maranca nel suo noto saggio sul diritto
romano e l'opera di Virgilio, pubblicato proprio sessant'anni or sono nella
rivista Historia[4]. Eppure, già nell'Ottocento, studiosi quali Lorenz
Lersch[5],
Numa Denis Fustel de Coulanges[6],
Gaston Boissier[7],
avevano dimostrato quanto la testimonianza
virgiliana potesse risultare utile anche a storici del diritto e della
religione romana.
Bisogna dire che la situazione
è parzialmente cambiata, almeno in Italia,
nel decennio appena trascorso, a seguito di una iniziativa di grande prestigio
editoriale. In occasione del Bimillenario
della morte di Virgilio, l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana ha patrocinato la pubblicazione di una monumentale Enciclopedia
Virgiliana, il cui primo
volume è apparso nel 1984[8].
[p. 15]
Il piano dell'Enciclopedia, seppure
connotato nel complesso da evidenti (e
comprensibili) caratteristiche storico-letterarie, riserva un notevole spazio sia alla redazione di voci
propriamente giuridiche,
sia al profilo giuridico di numerose altre voci[9].
In tal modo, questa importante iniziativa della
[p. 16]
cultura italiana ha costituito l'occasione di "riscoprire"
Virgilio per un certo numero di
studiosi di diritto romano[10],
sollecitati ad una rinnovata riflessione intorno ad
elementi ed aspetti, rilevanti sotto il
profilo giuridico e religioso, delle opere del grande poeta[11].
[p. 17]
La consapevolezza che «L'Énéide est
avant tout un poème religieux»[12],
acquisizione relativamente tarda della storiografia contemporanea, fu
invece caratteristica predominante dell'approccio
alla poesia virgiliana da parte della cultura romana tardoantica. I
commentatori antichi interpretavano la "sapienza" (diligentia,
peritia, profunditas, scientia) di
Virgilio, valorizzandone in primo luogo gli aspetti antiquari, teologici e
giuridico-religiosi. Soprattutto nei casi in cui, ad una lettura
[p. 18]
non avvertita, questi motivi sapienziali potevano
risultare del tutto assenti:
Est profundam scientiam huius poetae
in uno saepe reperire verbo, quod
fortuito dictum vulgus putaret[13].
I commentatori di Virgilio non
dubitavano, infatti, di avere di fronte il testo di un poeta
impegnato di continuo nella scrupolosa osservazione
delle res divinae, massimamente
attento all'esattezza dei termini utilizzati, alla verosimiglianza delle
tecniche rituali riproposte, all'insieme
della teologia sacerdotale. Un poeta,
dunque – per usare le parole del Servio Danielino – gnarus
totius sacrorum ritus[14]; il quale, in ogni occasione,
[p. 19]
come scrive il medesimo commentatore, disciplinam caerimoniarum secutus
est[15].
Non si riteneva possibile cogliere
pienamente tutte le implicazioni che la profunditas del poeta presentava, al di
là del significato letterale del
testo, senza rispondere in maniera affermativa alla domanda che Pretestato
formula agli altri convitati nei Saturnalia di Macrobio[16]:
Videturne vobis probatum
sine divini et humani iuris scientia non posse
profunditatem Maronis intellegi?
Del resto, anche gli esperti professionali del diritto
non pare esitassero a considerare la testimonianza di Virgilio, nel campo dello ius sacrum, un autorevole precedente
su cui fondare la soluzione giuridica
proposta. Valga l'esempio di Elio Marciano.
In un breve frammento del libro terzo delle Institutiones[17], pervenutoci attraverso i Digesta di
Giustiniano, questo giurista per
sostenere la tesi che il cenotafio fosse qualificabile locus
religiosus, nonostante il contrario rescritto dei divi fratres[18]
si appellava proprio alla testimonianza di Virgilio.
[p. 21]
Cenotaphium quoque magis placet locum esse religiosum,
sicut testis in ea re est Vergilius[19].
Il fatto che il giureconsulto appaia
privilegiare Virgilio rispetto all'autorità dei due imperatori provocava
evidente sconcerto in un fine esegeta quale il
van Bynkershoek; al punto che nel saggio De Cenotaphio, pubblicato nel primo volume della raccolta Observationum
juris romani libri quattuor, risolveva
l'apparente anomalia di un giurista che non si adegua all'autorità
imperiale, supponendo che Marciano ignorasse il rescritto dei divi
fratres contrario alla sua
soluzione basata su Virgilio[20].
Ma il testo di Marciano si presta
anche ad una riflessione in merito alla valutazione
dell'opera di Virgilio da parte della scienza giuridica romana, fino alla compilazione giustinianea. Mette conto sottolineare, a tal proposito, che non risulta chiaro il
perché i compilatori dei Digesta, pur non aderendo alla tesi propugnata dal giurista, abbiano tuttavia
rinunciato a rendere il frammento di Marciano conforme alla
soluzione da loro adottata, sulla base del rescritto degli imperatori
Marco Aurelio e Lucio Vero:
negare al cenotafio la qualifica di locus
religiosus.
[p. 21]
La conservazione della differente opinione di Marciano potrebbe essere conseguenza dell'auctoritas della
testimonianza virgiliana? Se fosse così, si tratterebbe
«di un altro segno che anche nella
visione giustinianea V(irgilio) è esperto di diritto»[21].
Nella lingua sacerdotale tra i termini finis, fas, hostis (bellum
e pax) esiste uno stretto legame, che
consente di dare senso ed unità ad un lavoro di ricerca sulla divini
et humani iuris scientia di Virgilio.
Fas (nefas) e finis sono presenti nelle formule
solenni dei sacerdoti romani fin
dall'età più risalente della storia cittadina[22].
Ben comprensibili appaiono anche le motivazioni teologiche
[p. 22]
di tali presenze: nella determinazione del fas e dei
fines doveva certo consistere
una parte rilevante di quella cautela sacerdotale, volta ad assicurare la pax deorum al popolo romano, mediante la precisazione di comportamenti e limiti
spazio-temporali, affinché in alcun
modo le attività umane potessero risultare sgradite agli
dèi[23].
L'esigenza di assicurare la
conoscenza del fas e l'intangibilità (religiosa) dei fines emerse,
dunque, già nella fase più antica dell'elaborazione teologica e giuridica compiuta dai sacerdoti romani: pontefici, auguri e feziali fissarono
regole precise e minuziose (tramandate in formule solenni
giuridico-religiose), nell'incessante
preoccupazione di determinare, nel tempo e nello spazio[24], la sfera del fas e la certezza dei fines.
[p. 23]
Per chiarire quanto si è detto, basterà esaminare
due formule
solenni giuridico-religiose. La prima, tratta da documenti del collegio degli auguri[25] e conservataci da Tito Livio, è la formula dell'inauguratio[26]:
[p. 24]
Tum lituo in laevam manum translato dextra
in caput Numae imposita precatus ira est: Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium, cuius ego
caput teneo, regem Romae esse, uti tu
signa nobis certa adclarassis inter eos fines, quos feci. Tum peregit verbis
auspicia, quae mitti vellet. Quibus missis
declaratus rex Numa de tempio descendit[27].
Dal testo liviano appare evidente il legame che unisce la
manifestazione del fas (permissiva) con una porzione dello
spazio terrestre, definito appunto dalla determinazione dei fines.
La seconda formula proviene invece
dai documenti dei sacerdoti feziali[28] ed è relativa alla complessa procedura
[p. 25]
dell'indictio
belli[29]. Nel testo, anch'esso liviano, abbiamo la personificazione divinizzata del fas e dei fines:
Legatus ubi ad fines eorum venit,
unde res repetuntur, capite velato filo – lanae velamen est
– audi Iuppiter, inquit; audite fines
– cuiuscumque gentis sunt, nominat
– audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani, iuste pieque legatus venio verbisque meis
fides sit[30].
Negli elementi essenziali e nella
struttura logica della formula dei feziali
appena citata, si trova anche il filo unificante di
questa ricerca su Virgilio.
[p. 26]
Fines e fas, con la forte connotazione
religiosa che li caratterizza, sono
chiamati ad attestare, assieme alla massima divinità romana, l'esigenza
di giustizia perseguita nella rerum repetitio pronunciata dal sacerdote (per conto del popolo romano).
Agli homines del popolo
straniero, destinatari della richiesta, altro non si domanda che di adeguarsi alle regole del fas e alla intangibilità dei fines[31]. Dall'inadempienza scaturisce
per quegli homines la condizione di hostes, che il feziale determina con il lancio
dell'asta insanguinata nel loro territorio[32];
sarà lecito scatenare contro
di essi un bellum, attività
che, seppure esercitata legittimamente, mette il cittadino (nella sua
qualità di miles) a
contatto con la sfera del nefas[33]. Ma la guerra, nella
[p. 27]
concezione giuridica e religiosa romana, si presenta sempre come una
rottura della pacifica naturalità delle relazioni tra popoli; finalizzata quindi alla restaurazione della pace[34].
Proprio la pace è il grande
tema dell'epica virgiliana[35].
La pace epocale instaurata da Augusto viene
prospettata nella
[p. 28]
poesia di Virgilio in perfetta adesione all'ideologia tradizionale della religione romana: la ragione
essenziale della "vita" del popolo romano consiste nel perseguire la pax deorum, mediante la quale si realizza storicamente l'impero di Roma e la
pace fra homines[36].
Mette conto sottolineare che i risultati conseguiti nelle lecturae
vergilianae[37] dei capitoli seguenti, in particolare di quelli relativi agli hostes,
al bellum e alla pax, offrono
solidi argomenti per criticare convinzioni inveterate della dottrina
romanistica contemporanea. Mi riferisco alle posizioni di quanti teorizzano
l'assenza di diritti per gli stranieri e l'ostilità
[p. 29]
permanente quali
condizioni primordiali dei rapporti fra i popoli[38]
da cui consegue che la guerra e non la pace sarebbe
[p. 30]
stata considerata lo
stato naturale delle relazioni "internazionali”, a meno che non intervenisse
di volta in volta la stipulazione di trattati, ovvero esistesse comunità
di etnia[39].
Non è certo questo il luogo per un esame dettagliato della dottrina
favorevole a tali tesi, che per lungo tempo furono accolte quasi unanimemente
nel campo dei nostri studi, soprattutto grazie al determinante contributo di
Theodor Mommsen[40].
Sarebbe, invero, troppo ampio perfino l'elenco di coloro
[p. 31]
che vi hanno aderito;
anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di E. Täubler[41]:
il quale non si limitò a propugnare la tesi dell'ostilità
naturale nei rapporti "internazionali" dell'antichità, ma
spinse le sue teorizzazioni fino al punto di sostenere che «der
Staatsvertrag sich aus der Kriegsgefangenschaft entwickelt hat», insomma
che la stessa pratica della stipulazione di trattati traeva origine
dell'istituzione della prigionia di guerra, cioè dall'abolizione del
costume di uccidere in ogni caso i nemici sconfitti[42].
Basterà solo ricordare come
[p. 32]
ancora oggi, pur tra
precisazioni e distinguo, non manchino studiosi autorevoli che ritengono
elemento caratteristico della più antica esperienza giuridica del popolo
romano proprio la mancanza di diritti per lo straniero e l'ostilità
naturale[43].
[p. 33]
Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi seguaci, contestate sporadicamente
nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento[44],
negli anni trenta di questo secolo furono
[p. 34]
sottoposte a serrate
critiche da parte di A. Heuss[45],
il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla conclusione
che i Romani, anche indipendentemente dalla stipulazione di trattati,
consideravano esistenti con gli altri popoli un certo numero di rapporti
giuridici[46].
La critica alla tesi dell'ostilità naturale fu quindi perfezionata
in Italia, prima da F. De Martino[47],
il quale ha contestato «l'opinione comunemente accettata sul carattere
originario delle relazioni internazionale di Roma»[48],
con
[p. 35]
mirabile vigore
argomentativo, a partire dalla prima stesura del secondo volume della sua Storia
della costituzione romana (1954) fino alla recentissima relazione su L'idea
della pace a Roma dall'età arcaica all'impero[49].
In seguito le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di P.
Catalano[50],
lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino –
«ha dato i maggiori e più originali contributi al tema dei
rapporti con gli stranieri»[51],
hanno dimostrato la virtuale
[p. 36]
universalità
del sistema giuridico-religioso romano[52]
e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti
[p. 37]
«con le teorie
moderne e contemporanee secondo cui lo stato naturale (o 'primitivo') delle
relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[53].
In anni recenti, come si evince dalla rassegna sul Volkerrecht der
römischen Republik di K.-H. Ziegler[54],
le posizioni contrarie all'esclusivismo giuridico e all'ostilità
naturale hanno guadagnato sempre nuovi consensi tra gli studiosi che si sono
occupati di diritto internazionale dell'antichità. Per alcuni si
è assistito anche alla revisione di opinioni espresse in precedenza:
è il caso di P. Frezza, il quale, introducendo forti limitazioni alle
tesi mommseniane[55],
ha ammesso
[p. 38]
l'esistenza di
rapporti intertribali, seppure in un processo dialettico che vede il
«momento volontaristico” profondamente compenetrato col
“momento naturalistico»[56].
Nel filone delle tesi propugnate dal Heuss, si colloca la monografia che W.
Dahlheim ha dedicato allo studio della struttura e dell'evoluzíone del
diritto internazionale romano[57],
in cui appare ben fermo il rifiuto della tesi dell'ostilità naturale[58];
anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore
dello ius fetiale[59].
[p. 39]
Nello stesso senso, si orientano sia V. Ilari[60],
il quale esaminando la condizione giuridica dei socii nominisve Latini scrive
quanto segue: «Oggi i presupposti stessi della teoria tradizionale
appaiono superati. Dopo le critiche del Heuss, l'idea dell'ostilità
naturale fra i gruppi etnici e l'assenza di diritti dello straniero, sono
diventate insostenibili», da cui ricava che, superata «l’idea
dell'inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una comunanza
giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si sono
poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei
rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza
italica»[61];
sia D. Nörr[62],
nel suo recentissimo lavoro dedicato all'analisi
[p. 40]
giuridica della tavola
bronzea di Alcántara. Lo studioso tedesco, pur non trattando espressamente
la questione, mostra tuttavia in maniera assai chiara il suo orientamento
quando parla per il diritto internazionale di Roma di «Existenz einer
gemeinschaftlichen Normenordnung»[63].
Da questa nostra ricerca emerge con chiarezza l'enorme distanza che separa
le moderne tesi dell'ostilità naturale dalle concezioni virgiliane della
pace e della guerra. Nei testi del grande poeta si avverte, infatti, il
convincimento che la guerra, lungi dall'essere la condizione naturale delle
relazioni umane, costituisca invece una violazione della religione e del
diritto[64]:
una triste necessità cui si deve talora ricorrere, ma solo
[p. 41]
dopo aver fatto
constatare agli dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel
tempo, l'esistenza dell'ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare[65].
La pace, al contrario, è concepita come la condizione naturale che fin
dalla più antica era dell'umanità, la mitica età dell'oro[66],
presiedeva alle relazioni degli uomini, poiché si fondava
sull'osservanza di precetti religiosi e giuridici comuni a tutti i popoli.
Per quanto riguarda le concezioni virgiliane della pace e della guerra,
bisogna evidenziare la perfetta coincidenza di esse con l'elaborazione
teologica e giuridica dei sacerdoti romani[67],
come risulta chiaramente dalle occorrenze dei termini
[p. 42]
relativi ad arcaici
istituti della pace, quali amicitia[68],
hospitium[69],
foedus[70],
e alle regole della guerra[71].
Il termine amicitia compare solo due volte nelle opere di Virgilio[72],
ma in entrambi i luoghi la parola viene utilizzata dal poeta, sempre in
connessione con foedus, nel
pregnante significato giuridico-religioso di “amicizia tra popoli”[73];
[p. 43]
stupisce, semmai, che
l'autrice della v. amicizia dell’Enciclopedia Virgiliana consideri
tale impiego una «accezione secondaria»[74].
In merito a hospitium[75],
è stato osservato che pur non trovandosi nelle occorrenze virgiliane
«riferimenti alla disciplina giuridica dello hospitium», vi
è tuttavia «un accenno all'antichissima tutela di ordine
religioso»[76],
col pertinente
[p. 44]
richiamo alla funzione
di Iuppiter di dare
hospitibus iura[77].
Nell'uso del termine foedus[78]
Virgilio manifesta, una volta di più, la sua piena adesione alla
terminologia e ai concetti della teologia e della giurisprudenza dei sacerdoti
romani: «allorché, narrando la stipulazione di alleanze fra gruppi
etnici differenti, non esita ad evocare per tutte il tipico rituale dei feziali
e a indicare in Giove colui che foedera fulmine sancit»[79].
Ed è proprio nelle elaborazioni sacerdotali – come autorevolmente
ha mostrato il De Martino – che si è conservato nella sostanziale
integrità originaria «il pensiero antichissimo, la vocazione
politico-religiosa di un popolo, il cui fine supremo è la pace e
l'amicizia con lo straniero»[80].
[1] A colmare questa lacuna, non basta certo il vecchio
lavoro di E. HENRIOT, Les poètes juristes, ou
remarques des poètes latines sur les lois, le droit civil, le droit criminel, la justice distributive et le
barreau, Paris 1858, sebbene in esso si colga con precisione il ruolo del diritto nella
cultura romana: «A Rome, la langue du droit était d'un usage
à peu près universel parmi les classes
éclairées. Son enseignement faisait partie de toute
éducation libérale, et
nul n'était réputé lettré qu'à la condition
de la connaître» (Op. cit., p. 1).
[2] W. SUERBAUM, Hundert Jahre Vergil-Forschung: Eine systematische Arbeitsbibliographie mit
besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New York 1980,
pp. 3 ss.; ID., Spezialbibliographie zu Vergils Georgica, ibid., pp. 395 ss.; W. W. BRIGGS, JR., A Bibliography of Virgil's 'Eclogues' (1927-1977), in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 2, Berlin-New York 1981, pp. 1267 ss.
[3] Cfr. W. SUERBAUM, Hundert Jahre Vergil-Forscbung, cit. in n. precedente,
p. 130: si tratta di F. DE VISSCHER, Une réminiscence de la procédure classique dans
l'Énéide, in Revue belge de philologie et histoire 7, 1928, pp. 579 ss.; F. STELLA MARANCA, Il diritto romano e l'opera di Virgilio, in Historia 4, 1930, pp. 577 ss.
[6] N. D. FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de
[7] G. BOISSIER, La religion romaine d'Auguste
aux Antonins, 2 voll., Paris
1874; per Virgilio interessa, soprattutto, il vol. I (3a ed.,
Paris 1884), pp. 220
ss.
[8] Dell'Enciclopedia Virgiliana, diretta da
F. DELLA CORTE, coadiuvato
da F. CASTAGNOLI, M. PAVAN, G.
PETROCCHI, sono stati pubblicati 5
volumi: I (A - DA), Roma 1984; II (DE - IN), 1985; III (IO -
PA), 1987; IV (PE - S), 1988; V, 1 (T -Z),
1990.
[9] Inizialmente la
direzione dell'Enciclopedia Virgiliana
aveva pensato di inserire solo la voce
Diritto romano. Ma il professor PIERANGELO
CATALANO, invitato
a redigere tale voce, suggerì
una maggiore puntualizzazione della
terminologia giuridica virgiliana, programmando più voci di diritto romano, da affidare a vari
specialisti. Per sé tenne le
vv. generali, Giustiniano (Encicl.
Virg., II, cit., pp. 759 ss.) e Ius (III,
pp. 66 ss.); nonché
augur (I,
cit., pp. 399
s.); augurium (I,
pp. 400 ss.); auspicia (I, p. 423 ss.). Non è certo possibile, in
questa nota, dar conto in maniera esaustiva delle voci giuridiche contenute nei cinque volumi dell'Enciclopedia Virgiliana;
tuttavia
sarà utile fare qualche cenno,
anche per evidenziare la nutrita partecipazione
dei romanisti all'importante iniziativa editoriale: V. ANGELINI, v. Tutela (V, p.
341); M.
BALZARINI, vv.
Fur/furtum (II, pp.
619 s.); Indicium (II,
pp. 945 s.); C. CASTELLO, v.
Familia (II, p. 463); G. CRIFÒ, vv. Libertas (III, pp.
204
S.); Praemium (IV, pp. 245 ss.); Venia (V, pp.
485
s.); F.
DE MARTINO, v. Hospes/hospitium (II, pp. 858 ss.); O. DILIBERTO,
vv. Cura
(I, pp. 962
S.); Pactum/paciscor (III, pp.
917
S.); Promessa (IV, pp. 308 ss.); Voveo (V, pp. 629 ss.); A. DI PORTO, v. Peculio (IV,
pp. 2 ss.); F. GORIA, v. Matrimonio
(III, pp.
406
ss.); A. GUARINO, v. Testamento di Virgilio (V, pp. 145 ss.); V. ILARI, v. Imperium (II, pp. 927 S.); G. LOBRANO, vv. Dos/dotalis (II, pp. 133
s.; Pater
(III, pp. 1014
ss.); G. LURASCHI, v. Foedus (II, pp. 546 ss.); V. MAROTTA, v. Poena
(IV, pp.
153
ss.); A. PALMA vv. Loco/locus (III, pp. 241 s.); Lustro (ibid., pp.
288
S.); G. POLLERA, v. Socius (IV, pp. 913 ss.); R. QUADRATO,
v. Heres (II, pp. 843
s.); S. SCHIPANI, v. Culpa (I, pp. 949
ss.); F.
SERRAO, vv. Fraus (II, pp. 588 ss.); Lex
(III, pp. 199 ss.); G. TILLI, V. Praeda
(IV, p. 244); Y. THOMAS, v. Crimen
(I, pp. 932 s.); C. VENTURINI,
vv. Fides (II, pp. 509 ss.); Iniquus/aequus (ibid., pp. 979 s.); Ius iurandum (III, pp. 72 s.); Plebs (IV,
pp. 138 s.); Populus (ibid.,
pp. 218 ss.); Potestas (ibid.,
pp. 236 s.); Reus (ibid., p. 466); Rex
(ibid., pp. 466
ss.).
[10] Significativo, ad esempio, quanto scrive a proposito della sua esperienza
G. LURASCHI,
‘Foedus’ nell'ideologia
virgiliana, in AA.VV., Atti
del III Seminario
romanistico gardesano, Milano
1988, p. 281: «Confesso che
accettai l'incarico con
un certo scetticismo, nella convinzione che poco o nulla di
tecnico o, comunque, di utile,
si potesse ricavare da
una fonte poetica.
Eppure, io sono fra coloro che tengono in somma considerazione la tradizione letteraria, non foss'altro perché su di
essa ho sino ad ora fondato la
maggior parte delle mie
ricerche. Il mio atteggiamento preconcetto nei confronti di Virgilio era evidentemente dettato (come
spesso avviene) da una scarsa conoscenza del soggetto, dei suoi metodi,
dei suoi intenti, delle sue fonti,
del suo ambiente culturale. È bastata una sommaria ricognizione della dottrina per farmi ricredere. Ho scoperto,
così, che l'Eneide fu concepita alle
origini come un vero poema storico, il quale, per sua natura e considerando l'epoca particolarmente versata nelle antiquitates,
doveva comportare, per non essere clamorosamente smentito, un
attento e scrupoloso vaglio delle informazioni. Ed infatti è stato, ad
esempio, dimostrato che Virgilio non si
limitò a dipendere da Ennio, Cicerone, Varrone, Livio, ma mise a
profitto addirittura una fonte etrusca, la quale gli consentì di essere
a volte più preciso e
perspicace di Livio e della tradizione
annalistica in genere. Ho poi verificato personalmente la vasta erudizione del poeta, che
lo fa muovere con passo sicuro
e linguaggio appropriato (pur con anacronismi e simbolismi, per altro facilmente riconoscibili) fra cerimonie, riti,
formule giuridiche e religiose»; cfr.
anche M. BALZARINI, Un esempio concreto di collaborazione fattiva tra storici
del diritto e filologi, ibid., pp. 250 ss.
[11] Anche il presente lavoro ha un debito
"occasionale" nei confronti dell'Enciclopedia
Virgiliana: alcuni dei materiali elaborati nella ricerca sono stati, infatti, utilizzati a suo tempo per la
redazione delle voci Fas (Encicl. Virg., II, cit., pp. 466 ss.), Hostis
(II, cit., pp. 863
ss.), Nefas (III, cit.,
pp. 676 ss.) e della parte giuridica della
voce Finis (II, cit., pp. 528 s.). La preparazione di queste voci ha comportato
una prima, utilissima, verifica dei risultati fino ad allora maturati; a cominciare
dall'accertata competenza del poeta in materia di religione e di
diritto, che è venuta emergendo, in maniera sempre più chiara, sulla base dei riscontri testuali
virgiliani. Ma lo spazio che l'impostazione editoriale dell'Enciclopedia Virgiliana aveva
fissato per la stesura delle voci si mostrava del tutto insufficiente per dar
conto dei risultati ottenuti nel corso della ricerca. Fu proprio per questa
ragione, che decisi di pubblicare a parte (con l'apparato critico) il
testo della prima voce (fas) da
me inviata alla redazione: F. SINI, ‘Fas et iura sinunt' (Verg., Georg. 1, 269). Contributo allo studio della nozione
romana di 'fas', I, Sassari 1984.
[12] G.BOISSIER, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, I, cit., p. 231: «Mais Virgile aida
surtout Auguste dans les efforts qu'il fit pour restaurer l'ancienne religion
romaine. L'Énéide est avant tout un poème religieux; on s'expose a le mal comprendre si l'on n'en
est pas convaincu. Ce caractère avait beaucoup
frappé les savants de l'antiquité: Virgile était pour eux ce qu'était surtout Dante pour les
Italiens du XVe siècle, "un théologien qui
n'ignora aucun dogma". On citait ses vers, on s'appuyait de son nom, quand on
discutait quelque question embarrassante qui concernait les pratiques du culte ou le droit
pontifical».
[13] Macrobio, Sat. 3, 2, 7. Può essere
di un certo interesse leggere il seguito del passo
(3, 2, 7-9), in cui tra l'altro si menziona il libro V delle Antiquitates
divinae di Varrone, quasi ad instaurare un rapporto tra l'opera dell'antiquario e il poema virgiliano: Multifariam
enim legimus quod litare sola
non possit oratio, nisi ut is qui deos precatur enim aram manibus adprehendat. Inde Varro divinarum libro quinto
dicit aras primum asas dictas, quod
esset necessarium a sacrificantibus eas teneri, ansis autem teneri solere vasa
qui dubitet? Commutatione ergo litterarum aras dici coeptas, ut Valesios et
Fusios dictos prius, nunc Valerios et Furios dici. Haec omnia illo versu poeta executus est: talibus orantem dictis arasque
tenentem / audiit onnipotens. Nonne eo additum crederis non quia orabat
tantum sed quia et aras tenebat, auditum? Nec
non cum ait: talibus orabat dictis arasque tenebat; item: tengo aras, medios
ignes ac numina testor, eandem vim nominis ex adprensione significat.
[14] Servio Dan., Ad Georg. 1,
269: Et non sine causa hoc dictum a Vergilio, gnaro totius sacrorum ritus,
ponitur: religiosi enim esse dicuntur, qui faciendarum praetermittendarumque
rerum divinarum secundum morem civitatis dilectum habent nec se
superstitionibus implicant.
[15] Servio Dan., Ad Aen. 12,
172: Illi ad surgentem non uti nunc solem surgentem dixit: iamdudum enim
dies erat: sed disciplinam caeremoniarum secutus est, ut orientem spettare
diceret eum qui esset precaturus. Cfr. anche
Macrobio, Sat. 1, 16, 12; 1,
24, 16. 17; 3, 2, 1; 3, 5, 1; Servio, Ad Aen. 10, 419.
[17] Sull'opera vedi, ora, il saggio di L. DE GIOVANNI, Per
uno studio delle 'Institutiones' di Marciano, in Studia et
documenta historiae et iuris 49, 1983, pp. 91 ss.
[18] D. 1, 8, 7: sed divi fratres contra rescripserunt;
D. 11, 7, 6, 1: Si cenotaphium fit, posse venire dicendum est: nec enim
esse hoc religiosum divi fratres rescripserunt.
[19] D. 1, 8, 6, 5. Per i versi virgiliani a cui si riferisce il
giurista, la dottrina indica generalmente Aen.
3, 303 ss.; 6, 505 ss.; la bibliografia più risalente è
citata in F. GLÜCK, Commentario alle Pandette. Libro primo, tradotto e annotato da C. Ferríní, Milano 1888, pp. 724 s.
Nello stesso senso, vedi anche F.
STELLA MARANCA, Il diritto romano e l'opera di Virgilio, cit., p. 583 e n. 28; A.
PALMA v. Loco/locus, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., p. 241; G.
LURASCHI, ‘Foedus' nell'ideologia virgiliana, cit., p. 282 n.
[20] C. VAN BYNKERSHOEK, De cenotaphio, et ad L. 44 pr. ss. de religiosis
et sumpt. fun., in ID., Observationum juris
romani libri quattuor, I, Lugduni Batavorum
1710, pp. 27 ss.
[22] La risalenza dell'impiego dei
termini fas/nefas risulta attestata anche dall'arcaico calendario
romano, nel quale con tali termini si distingueva il tempo degli uomini dal tempo degli dèi:
J. PAOLI, Les définitions varroniennes des jours fastes et néfastes, in Revue
historique de droit français et étranger 29, 1952, p. 308
(«Grecs et Romains ont eu une même vision d'ensemble du monde divisé dans ses deux domains: celui des
hommes et celui des dieux. Le temps
lui-même avait suivi la loi de ce partage. Mieux encore: c'est dans son cadre que ce partage
s'inscrivait principalement: aux jours
fastes les activités humaines, aux jours néfastes celles
qu'exigeait le divin, que réclamaient les dieux»); sull'uso
calendaristico dei due termini, vedi
ora il pregevole studio di P. CIPRIANO, Fas e nefas, Roma
Quanto a finis, basterà ricordare la
connessione con i diversi aspetti della disciplina
augurale (sulla cui antichità non resta che concordare con G.
DUMÉZIL, Idées romaines, Paris 1969, p. 25: «L'augurale
ius et le ius civile étaient
constituées dès la fin des temps royaux, avec la
réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de
l'Empire»): Varrone, De ling. Lat. 5, 143; 6, 53; Gellio, Noct. Att. 13,
14, 1; Festo, p.
[23] Per la definizione di pax
deorum, con ampia analisi
delle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di
violarla, vedi P. Voci, Diritto
sacro romano in età arcaica, in Studia
et documenta historiae et iuris 19, 1953, pp. 49 ss. (= ID., Scritti di diritto romano, I, Padova, 1985, pp. 226 ss.); nonché i recenti contributi di M.
SORDI, 'Pax deorum' e
libertà religiosa nella storia di
Roma, in AA.VV.,
La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; e di E. MONTANARI, Il
concetto originario di 'pax' e 'pax deorum', in Concezioni della pace. VIII Seminario
Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma
1988, pp. 49 ss.
I versi virgiliani attinenti alla pax deorum, sono discussi infra, cap. V, pp. 257 ss.
[24] Riguardo alla centralità del binomio
spazio/tempo nella teologia
e nella giurisprudenza dei sacerdoti romani, rinvio al saggio di
P. CATALANO, Aspetti
spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 1, Berlin-New York 1978, pp. 442 ss.
[25] Sui contenuti di
tali documenti appare, per molti versi, ancora valida
la dottrina dell'Ottocento: cfr. fra gli altri C. O. MÜLLER, Die
Etrusker, II, Breslau 1828, pp.
122 ss.; F. A. BRAUSE, Librorum de
disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Diss. Lipsiae 1875; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, v. Augures,
in Dictionnaire des
antiquités grecques et romaines 1, 1, Paris 1877, pp. 550
ss.; P. REGELL, De augurum
publicorum libris, Diss. Vratislaviae
1878 (del Regell, vedi anche Fragmenta
auguralia, Progr.
Hirschberg 1882; Commentarii in
librorum auguralium fragmenta specimen, Progr. Hirschberg 1893); J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, 2a ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885,
pp. 400 s. (= trad. franc. di
M. Brissaud: Le culte chez les
Romains, II, Paris 1890, pp. 111 ss.); V.
SPINAZZOLA, v. Augur, in
Dizionario epigrafico di antichità romane 1, Roma 1895, pp.
778 ss.; G. WISSOWA, v. Augures, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 2, 2, Stuttgart 1896, coll. 2313 ss.
Una recente messa a punto di tutte le problematiche
relative alla tradizione documentaria augurale («The books of the
augurs»), con ampio
esame della letteratura, è stata
operata da J. LINDERSKI, The
Augural Law, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 3, Berlin-New York 1986,
pp. 2241 ss.
Quanto alla possibilità di distinguere all'interno dell'archivio del collegio i contenuti dei diversi generi di documenti, vedi F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 171 ss.
[26] Al rito dell'inauguratio dedica, da ultimo,
un'ampia e dettagliata
analisi J. LINDERSKI, The Augural Law, cit., pp. 2256 ss., a cui rimando per la
letteratura precedente; sull'efficacia giuridica vedi, per tutti, P. CATALANO, Contributi
allo studio del diritto augurale,
Torino 1960, pp. 230 ss. Non esente da limiti si presenta invece il lavoro di B. GLADIGOW, Condictio und inauguratio. Ein Beitrag
zur römischen Sakralverfassung, in Hermes
98, 1970, pp. 369 ss.; questo studioso pur intendendo, giustamente, in senso
tecnico il termine condictio citato dal Servio
Danielino (Ad Aen. 3, 117) in
relazione al potere del pontifex
maximus di chiedere agli auguri
l'inaugurazione dei sacerdoti, non tiene tuttavia conto dei rapporti
tra augures e altri sacerdoti, né dei poteri dei magistrati
riguardo alle inaugurationes di
luoghi (cfr., in tal senso, P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano, cit., p.
473 n. 121).
[27] Livio 1, 18, 8-10. Che lo storico patavino ricavi questa precatio da una solenne formula giuridico-religiosa, certamente di derivazione
augurale, è un dato ormai acquisito dalla dottrina: W. KUNKEL, Zum römischen Königtum, in Ius
et lex. Festgabe für Max Gutzwiller, Basel 1959, pp. 11 s. (ora in ID., Kleine
Schriften, Weimar 1974, pp.
354 s.); R. M. OGILVIE, A
Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford
1965, pp. 92 s.
[28] Sulla consistenza dell'archivio dei feziali, vedi M. VOIGT, De fetialibus populi Romani quaestionis specimen, Lipsiae 1852 («Fetiales sine dubio non minus suos libros fetiales et
commentarios habuerunt quam pontifices, augures aliique sacerdotes, quibus jus
fetiale descriptum fuit»: op. cit., p. 16). Più in generale sulla
sodalità: E. SAMTER, v.
Fetiales, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 6, 2,
Stuttgart 1909, coll. 2559 ss.
(ivi bibliografia anteriore); G. WISSOWA,
Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, pp. 550 ss.; E. DE RUGGIERO, v. Fetiales, in Dizionario
epigrafico di antichità romane 3, Roma 1922, pp. 65 ss.; G. DUMÉZIL,
La religion romaine archaïque,
2a ed., Paris 1974, pp. 579 ss. (=
trad. it. di F. Jesi: La religione romana arcaica, Milano
1977, pp. 502 ss.). Per quanto
riguarda gli aspetti giuridico-religiosi e la natura dello ius fetiale, è fondamentale il lavoro di P. CATALANO,
Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, special. pp. 30
ss.; cfr. inoltre Chr. SAULNIER, Le rôle des prêtres fétiaux et l'application du
"ius fetiale" à Rome, in Revue
historique de droit français et étranger 58, 1980, pp. 171
ss.
[29] Cfr. Livio 1, 32, 5-14; per gli aspetti giuridici della indictio belli vedi F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana,
II, 2a ed., Napoli 1973, pp. 50 ss. Le formule della procedura per la indictio
belli sono considerate da P. CATALANO,
Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 118 s., realtà normative
che confermano la concezione del popolo romano come insieme di
cittadini. Quanto, invece, al rapporto tra indictio e bellum iustum, vedi infra cap.
IV, pp. 198 s.
[30] Livio 1, 32, 6; approfondita discussione sul carmen della rerum
repetitio, recitato nel ritus belli indicendi dal pater patratus dei
feziali, con esame delle diverse
posizioni della dottrina romanistica contemporanea, infra cap. II, pp. 91 ss.
[31] Cfr. M. MESLIN, L'uomo romano, trad. it.,
Milano 1981, pp. 40 s., per il quale nel rito dei feziali «si percepisce molto
chiaramente il legame strutturale tra lo spazio e il diritto».
[32] Livio 1, 32, 12-14: Fieri solitum, ut fetialis hastam ferratam aut
sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus
praesentibus diceret: 'quod populi Priscorum Latinorum hominesque Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt,
deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit
esse senatusque populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit, ut
bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis
Priscorum Latinorum hominibusque Priscis
Latinis bellum indico facioque'. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum
emittebat. Cfr. anche
Servio, Ad Aen. 9, 52: Principium pugnae hoc de Romana sollemnitate
tractum est. Cum enim volebant bellum indicere, pater patratus, hoc est
princeps fetialium, proficiscebatur ad hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia,
clara voce dicebat se bellum indicere propter
certas causas, aut quia socios laeserant, aut quia nec abrepta animalia nec
obnoxios redderent. Et haec clarigatio dicebatur a claritate votis. Post quam clarigationem hasta in eorum fines missa indicabatur
iam pugnae principium.
[34] Questo legame tra guerra e pace, o se si vuole la subordinazione della prima alla seconda, si trova ben configurato,
nei suoi aspetti teologici, nella stessa etimologia che gli eruditi
antichi davano della parola fetiales. Collegandone,
infatti, l'etimo a fides e
foedus, si
sottolineava nella competenza di questi sacerdoti la funzione di
ristabilire la fides pacis con il foedus, piuttosto che quella di concipere
un bellum iustum. Varrone, De ling. Lat. 5, 86: Fetiales, quod fidei publicae inter
populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum, ut f<o>edere fides
pacis constitueretur. Ex his, mittebantur, ante quam conciperetur, qui
res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit
dictum. Servio, Ad Aen. 1,
62: Foedere modo lege, alias pace, quae fit inter dimicantes. Foedus autem
dictum vel a fetialibus, id est sacerdotibus per quos fiunt foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse et
caesa iungebant foedera porca; cfr. Servio Dan., Ad Aen. 4, 242. Da notare che anche nel II libro del De
legibus ciceroniano l'ordine delle funzioni dei Feziali vede la pace anteposta alla
guerra: (2, 21) Foederum pacis, belli, indotiarum ratorum fetiales iudices,
nontii sunto, bella disceptanto.
Sempre sulla base della teologia ufficiale, la
subordinazione della guerra alla pace appare
evidente anche nella gerarchia dei sacerdozi; infatti, nell'ordo sacerdotum
il flamine di Iuppiter, della divinità che tra le
altre cose tutelava i foedera pacis,
si presenta sovraordinato al flamine di
Marte: Festo, p.
[35] Sulla centralità del tema della pace, anche nel
poema epico di Virgilio, vedi infra cap. V, pp. 235 ss.
[36] Questa visione provvidenziale dell'impero, quasi un
premio per la religiosità del
popolo romano, la troviamo espressa con grande chiarezza da Cicerone, De har. resp. 19: Etenim quis est tam
vaecors qui aut, cum suspexit in caelum,
deos esse non sentiat, et ea quae tanta mente fiunt ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem
persequi possit casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non
intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum?
Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi
nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique
hoc ipso huius gentis ac terrae domestico
nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi
gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.
Sulla concezione virgiliana della pace, che prospetta la pace legata necessariamente, nella concreta dinamica della storia, all'espansione dell'imperium, vedi M. PAVAN, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 418.
[37] Ricalco la
suggestiva espressione sul titolo dell'opera collettanea di critica
fílologico-letteraria, curata da M. GIGANTE: Lecturae Vergilinae, 3 voll., Napoli 1981-1983.
[38] Per quanto riguarda
la dottrina, a parte Mommsen e Täubler sui quali vedi le note seguenti,
sono da menzionare (senza alcuna pretesa di completezza): A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae 1823, p. 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum,
Lipsiae 1836, pp. 8, 16, 36; M. Voigt,
Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II, Leipzig 1858 [rist.
an. Aalen 1966], pp. 102 ss.; Id., Die XII Tafeln,
I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen 1966], pp. 269 ss.; R. von Jhering, Geist
des römischen Rechts, I (1852), Leipzig 1878, pp. 225 ss. [= Id., L'esprit du droit romain, trad. franc., I, Paris 1886 (rist. an.
Bologna 1969), pp. 226 ss.]; F. LAURENT, Etudes sur l'histoire de
l’humanité, I,
Paris 1879, pp. 46 ss.; J. Madvig,
Die Verfassung und Verwaltung des römischen
Staates, I, Leipzig 1881, pp. 58 ss.; G.
Fusinato, Dei Feziali e del
diritto feziale. Contributo alla
storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell'Accademia dei Lincei, ser. III, vol. 13, 1883-1884,
pp. 455 ss.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig
1881, pp. 279 ss.; G. Padelletti-P.
Cogliolo, Storia del diritto
romano, 2ª ed., Firenze 1886, p. 67; P.F.
Girard, Manuale elementare di
diritto romano, trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli 1909, pp. 112
ss., 116; A. Bouché-Leclercq,
Manuel des institutions romaines,
Paris 1909 [rist. fot. 1931], p. 343; N. D. FUSTEL DE COULANGEs, La
cité antique, cit.,
pp. 226 ss.; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des
Romains, 2ª ed., Paris 1928, p. 92; S. BRASSLOFF, Der römiscbe
Staat in seinen internationalen Beziehungen, Leipzig-Wien 1928, pp. 3 ss.; P. Huvelin, Études
d'histoire du droit commercial romain, opera postuma a cura di H.
Lévy-Bruhl, Paris 1929, pp. 7 s.; H. Horn,
Foederati. Untersuchungen zur
Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und
des frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M. 1930, pp. 6 s.; H.
LÉvy-Bruhl, Esquisse
d’un théorie sociologique de l'esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris 1934, pp. 15
ss.; E. BETTI, Diritto romano, I. Parte generale, Padova 1935, pp. 88
ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
4, 1938, pp. 363 ss.; P. de Francisci,
Storia del diritto romano, I, Milano
1943, p. 335; P. jöRS - W. KÜNKEL, Römische Privatrecht,
Berlin-Göttingen-Heidelberg 1949, pp. 58 s.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed.
Le cause di tale
ricostruzione storica, a parere di P. CATAlano,
Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 8 ss., sono riconducibili per larga parte
«alla componente soggettiva della storiografia dell'Ottocento e del primo
Novecento»; ID., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano,
Torino 1990, pp. IX s., 10 ss.; per l'aspetto
filosofico cfr. anche P. BIERZANEK, Sur les origines du droit de la guerre
et de la paix, in Revue
historique de droit français et étranger 38, ser. IV, 1960, pp. 105
ss.
[39] Sugli atti
necessari per eliminare l’“ostilità naturale", vedi Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin 1864, pp. 326 ss.; E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig
1913 [rist. an. Roma 1964], pp. 14 ss., 29 ss., 44 ss.
[40] Th. Mommsen: Römische Geschichte, I
(1854), cit., in trad. it. (nuova ed. con introduzione di G. Pugliese
Carratelli): Storia di Roma antica,
I, Firenze 1984, p. 192; Id., Das römische Gastrecht und die
römische Clientel, cit., pp. 319 ss.; Id., Römisches
Staatsrecht, III, 1, 3ª ed., Leipzig 1887, pp. 590 ss. (= trad. franc. di
P. F. Girard: Droit public romain,
VI, 2, Paris 1889, pp. 206 ss.); ma è nell'Abriss che la posizione
del grande giusromanista tedesco, proprio per l'esigenza di semplificazione, si
presenta più netta: «Di fronte a questa federazione latina, basata
sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza giuridica, le
comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati
stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i
confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né
romana né straniera; l’abitante del territorio, l’hostis, più tardi peregrinus, è in linea di
principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato
di guerra di fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in
questo, che con le città etrusche, nelle quali la nazionalità diversa
si affacciò per la prima volta ai romani, non vennero altrimenti
conchiusi trattati se non con termine fisso». (Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P.
Bonfante, rist. an. dell'ed. 1943, Milano 1973, p.
91).
[41] E. Täubler, Imperium
Romanum, cit., p. 1: «Der Staatsfremde gilt rechtlich als Feind. Der
einzelne wie der Staat tritt erst durch eine Rechtshandlung, den Vertrag, aus
dem Zustande der natifflichen Feindschaft in den der
Verkehrsgemeinschaft».
[42] E. Täubler, Imperium Romanum, cit.,
pp. 402 ss., in part. 406 s.: «Auf den
primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus Angst, Menschenfrass und
Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die Wehrwahndung des Fremden
als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann die Entwicklung des
Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf nicht darin gesucht
werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen muss, die des
anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr darauf, dass die
Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Gefangenen zum Geisel macht,
ihn für die Gemeinschaft, welcher er angehört, bürgen
lässt, die zum Gastvertrage führende dagegen den Fremden nicht in
Beziehung zu einem dritten setzt und deshalb nicht zu dessen Bürgen
umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann und den freien Mann
vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht». Questo tipo di
estremizzazioni ha trovato contrari anche studiosi che pure nella sostanza
aderivano all'impostazione mommseniana: cfr., ad esempio, P. FREZZA, Le
forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell'antico diritto
romano, cit., p. 410 n. 83.
[43] Si veda, ad esempio, quanto scrive É.
BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, l.
Économie, parenté, société, Paris 1969, p. 361: «Ceci ne peut
se comprendre qu'en partant de l'idée que l'étranger est
nécessairement un ennemi - et, corrélativement, que l'ennemi est
nécessairement un étranger. C'est toujours parce que celui qui
est né au dehors est a priori un ennemi, qu'un engagement mutuel
est nécessaire pour établir, entre lui et ego, des relations
d'hospitalité qui ne seraient pas concevables à
l'intérieur même de la communauté... Les rites, les
accords, les traités interrompent ainsí cette situation
permanente d'interhostilité qui règne entre les peuples ou les
cités». Nello
stesso senso, cfr. anche A. PIGANIOL, Le conquiste dei Romani, trad. it., Milano 1971, pp. 147 s.
(«Dovremo però badare, in primo luogo, ad una esatta definizione
dello stato di guerra. Si tratta della relazione normale tra popoli non legati
da un accordo: ogni straniero è dunque un nemico»); A. GUARINO, Storia
del diritto romano, 7a ed.,
Napoli 1987, p. 82 («Al di fuori di questi elementi umani vi erano gli
stranieri, anzi i 'nemici' (hostes),
così denominati perché avversari, se non proprio
attuali, almeno potenziali della civitas Quiritium e della sua sfera di
interessi»; lo studioso distingue tra stranieri appartenenti al nomen
Latinum e altri che non vi appartenevano: con i primi vigeva «uno
stato naturale di buon vicinato (amicitia)», mentre «con i secondi esisteva, ma in gradazioni
varie, uno stato naturale di ostilità, che non escludeva peraltro la
possibilità di trattati d'alleanza che li rendesse socii dei
Quiriti»).
Altri sottolineano,
piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: in questo senso vedi P.
FREZZA, Corso di storia del diritto romano, 3a ed., Roma 1974, p. 210: «Prima di questa età
la posizione del cittadino fuori del territorio della propria città
è, in linea di principio, caratterizzata dalla carenza di una protezione
istituzionalmente configurata: come il singolo cittadino è pienamente
protetto nell'ambito della collettività tribale cui appartiene la sua polis, così è privo
di protezione quando egli varchi la cerchia della propria collettività
tribale»; più di recente, M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 129 («Lo
straniero, hostis nel significato
originario del termine, ne è escluso. Egli manca di una tutela
giuridica, a meno che non si ricorra a un trattato internazionale, a un legame
reciproco di "ospitalità" e di "amicizia", al
patronato, alla “finzione della cittadinanza”»); F. PAstORI, Gli istituti romanistici
come storia e vita del diritto, 2a
ed., Milano 1988, p. 175 («Lo straniero è privo di
capacità giuridica nell'ordinamento romano, in quanto difetta dello status
civitatis. La concezione
dell'esclusivismo nazionale del diritto, che ricollega la personalità
giuridica all’organizzazione politica del soggetto, domina negli Stati
dell'antichità: lo straniero appartenente a collettività che Roma
non riconosce, se perviene nella sua potestà, è ridotto alla
condizione servile»); M. TALAmanCA,
in AA.VV., Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M.T., 2a ed.,
Milano 1989, p. 154 («Lo straniero, in quanto tale, era privo di diritti,
anche se sarebbe forse eccessivo qualificarlo, puramente e semplicemente, un
"nemico"»); cfr. ID., Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, p. 103.
[44] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale
dei Romani (estr. dall’Archivio Giuridico “Filippo
Serafini”, nuova serie, voll. I e II), Modena 1898, pp. 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom, Kaisergeburtstagrede,
Berlin 1915, pp. 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei confronti del
Täubler si mostra anche B. Kübler,
Römische Rechtsgeschichte, Leipzig-Erlangen 1925, pp. 109 ss.
[45] A. Heuss, Die völkerrechtlichen
Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit (Klio, Beiheft 31, n. F. 18),
Leipzig 1933.
[46] A. HEUSS, Die völkerrechtlichen
Grundlagen, cit., pp. 4
ss., 12 ss., 18 ss. In particolare lo studioso tedesco ha dimostrato che non
v'erano trattati d'amicizia aventi lo scopo di porre fine all'ostilità
naturale; che il bellum iustum era considerato necessario anche in caso
di guerra contro popoli con i quali non preesisteva alcun trattato; infine, che
nella formula e nel rituale dello ius fetiale relativi alla
dichiarazione di guerra non si trovava alcun riferimento ad una precedente
violazione di trattati. Sul ruolo del Heuss nella storiografia tedesca
contemporanea, Sul ruolo di questo studioso nella storiografia tedesca
contemporanea, vedi ora K. Christ, Römische Geschichte und deutsche
Geschichtswissenschaft, München 1982, p. 245.
[47] F. DE MARTINO, Storia
della costituzione romana, II (1a ed., Napoli 1954, pp. 11 ss.), 2a ed.,
cit., pp. 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss., con ampia rassegna di bibliografia.
Sull’opera storiografica e giuridica dell'illustre studioso, del quale
quale di recente sono stati raccolti gli scritti “minori” a cura di
A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita e F. d’Ippolito (Scritti
di diritto romano: I. Diritto e società in Roma antica,
Roma 1979; II. Diritto privato e società romana, Roma 1982; III. Nuovi
studi di economia e diritto romano, Roma 1988), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24, 1978, pp. 7 ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18, 1990, pp. XV ss.
[48] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 14-15: «A noi sembra che nell’epoca
delle grandi formazioni gentilizie le cause della guerra dovevano essere di
gran lunga più rare di come non avvenne in seguito; l’occasione
più frequente doveva essere quella della vendetta gentilizia, la quale
peraltro presupponeva che ciascun gruppo fosse convinto della sua
necessità, cioè il riconoscimento di un ordine universale,
religioso e giuridico. L'opinione comunemente accettata sul carattere
originario delle relazioni internazionali di Roma deve essere dunque riveduta,
sia per ragioni di ordine generale, sia perché Roma derivava dal comune
ceppo indoeuropeo, come altri popoli italici, e non è verosimile, che
ben per tempo quest’eredità fosse dispersa, quando resisteva in
altri campi della vita sociale e giuridica».
[49] F. DE MARTINO, L'idea
della pace a Roma dall'età arcaica all'impero, relazione letta per l'inaugurazione dell'VIII Seminario
Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma" il 21
aprile 1988, poi pubblicata in Roma Comune, a. XII, n. 45, aprile-maggio
1988, pp. 86 ss.
[51] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica
all’impero, cit., p. 86. Anche in altre parti di questo testo
è espressa convinta adesione alle tesi del Catalano; così a p.
88: «La nuova concezione dei rapporti fra Romani e stranieri induce ad
una revisione del principio della esclusività del diritto nella
città-stato. Questo non può intendersi nel senso che lo straniero
era escluso da qualsiasi protezione giuridica in Roma, ma nel senso che vi
erano rapporti riservati soltanto ai cittadini, ai quali lo straniero non
poteva essere ammesso: questi rapporti rientravano nella categoria del ius
Romanum Quiritium, denominazione che si può supporre, come fa il
Catalano con molta decisione, sorta appunta per delimitare il campo
dell’esclusività del diritto»; ancora più chiaramente
a p. 91: «Nei suoi studi illuminanti sul sistema dei rapporti con gli
stranieri, che ha chiamato sistema sovrannazionale romano, il Catalano ha
recato contributi che si possono ritenere definitivi in questo campo,
affrontando coraggiosamente questioni che sembravano risolte nel senso di un
rigoroso carattere esclusivo non solo del diritto, ma anche della religione
antica. Egli ha tratto dalle fonti prove decisive ed argomenti che fino ad oggi
non hanno trovato alcuna valida contestazione. Dalla critica alla teoria
tradizionale dell’inimicizia primitiva egli ha costruito un quadro dei
rapporti internazionali romani nuovo e molto più accettabile. Assumono
il loro giusto valore espressioni delle fonti, che implicano l’esistenza
di principi comuni, in certo senso universali».
[52] Per una rapida
visione delle tesi sostenute dallo studioso, si legga la «riflessione
conclusiva» di Linee del sistema soprannazionale romano, cit., p.
288: «Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo centro in Iuppiter,
ed è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale
universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges,
populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi
da particolari accordi vuoi da comunanza etnica. Entro il sistema si formano
sfere di rapporti più ristrette, e più fitte, sulla base di atti
unilaterali o di accordi con altri popoli. Tra queste sfere hanno particolare
importanza le federazioni adeguate alle realtà etniche: il nomen
Latinum, e poi quella che possiamo dire la “federazione
italica”. Ho chiarito come siano particolarmente i foedera,
adeguati alle realtà politiche (oltre che etniche), a forgiare i gruppi
etnici. Per tutto questo è possibile definire il sistema (che è
romano perché alla sua “validità” è
sufficiente la considerazione che ne hanno i Romani) come sovrannazionale: non
solo ad indicare l’implicito superamento dell’attuale categoria del
“diritto internazionale”, ma ad esprimere come esso, alimentandosi
dai gruppi etnici, li costituisca in sintesi sempre più vaste, con
volontà politica tendente ad una società universale».
Riguardo
all'opportunità di utilizzare l'espressione “sistema
giuridico-relígioso” in luogo di “ordinamento
giuridico”, vedi le motivazioni offerte dal Catalano (Op. cit., p. 37 n. 75; Aspetti spaziali
del sistema giuridico-religioso romano, cit., pp. 445 s.; Diritto e persone, cit., p. 57). Ma
la validità della nozione di "ordinamento" viene ancora
riaffermata nelle ultime opere di R. ORESTANO: Diritto. Incontri e scontri, Bologna
1981, pp. 395 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna
1987, p. 348 ss.; nello stesso senso P. CERAMI, Potere ed ordinamento
nell'esperienza costituzionale romana, Torino 1987, pp. 10 ss. Si sofferma
piuttosto sulla parte aggettivale dell'espressione “sistema
giuridico-religioso”, da ultimo, G. LOMBARDI,
Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di
Milano alla “Dignitatis humanae”, Roma 1991, pp. 34 s., al quale non sembra, tuttavia, del tutto
adeguata per rappresentare «l'ordinamento di Roma», caratterizzato
da «una costante commistione tra quanto più tardi si
chiamerà 'religioso' e quanto più tardi si chiamerà
'giuridico'».
[53] P. p. Catalano, Diritto e persone, cit., p. IX; ivi, vedi anche la nt.
[54] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 68
ss.
[55] L'adesione alle
tesi mommseniane era stata data dal Frezza nel saggio Le forme federative e
la struttura dei rapporti internazionali nell'antico diritto romano, cit., pp. 373 ss., 397 ss. Una
prima revisione, con l'abbandono della tesi dell'ostilità naturale, si
riscontra già nel saggio L'età classica della costituzione
repubblicana, in Labeo 1, 1955,
pp. 323 ss.; dove peraltro è ancora conservata quella che postula la
mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando anche, in polemica col De
Martino, l'appartenenza originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei
rapporti internazionali alle relazioni fra popoli della lega latina (pp. 327
ss.).
[56] P. Frezza, Il momento
“volontaristico” e il momento “naturalistico” nello
sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris 32, 1966, pp. 299 ss., in
part. 301: «Sono ora persuaso – oserei dire definitivamente –
che il segreto dello sviluppo storico dei rapporti internazionali del mondo
antico può essere colto soltanto a patto di pensarlo dialetticamente:
ossia a patto di pensare compresenti il momento (che potrebbe essere chiamato
naturalistico) particolaristico delle relazioni intratribali, ed il momento
universalistico (volontaristico) delle relazioni intertribali». Nello
stesso senso, cfr. Id., In
tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, ibid. 33,
1967, pp. 337 ss., in part. 348 s.
[57] W. Dahlheim, Struktur und
Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v.
Chr., München 1968.
[58] W. Dahlheim, Struktur
und Entwicklung des römischen Völkerrechts, cit., pp. 136 s. («Es ist das Verdienst von A. Heuss,
die These von der natürlichen Feindschaft als Grundlage der
internationalen Beziehungen und damit den aus dieser Annahme resultierenden Freundschaftsvertrag
als Grundvertrag, der diese Hostilität beendet, in überzeugender
Weise widerlegt zu haben»).
[59] W. Dahlheim, Struktur und
Entwicklung, cit., pp. 171 ss. («Eine so weitgehende
moralische Konzeption ist in den rudimentären Anfängen Roms, in die
das Fetialrecht zurückführt, gar nicht denkbar. Richtig ist, dass der
Krieg in Rom zu einer "Rechtsexekution" wurde, jedoch verbürgt
der hier ausgesprochene Begriff "Recht" keine objektive
Rechtmäßigkeit im moralischen Sinne, die Bindung an das ius
fetale ist vielmehr eine superstitiöse und juristische, die jedes
moralische Moment unbeachtet lässt»: p. 173); critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht
der römischen Republik, cit., pp. 78 s.: «Die Bindung an das ius
fetiale als "eine superstitiöse und juristische, die jedes
moralische Moment unbeachtet lässt”, zu qualifizieren, wie es zulest
W. Dahlheim getan hat, scheint mir nicht glücklich. Rechtsformalismus und
Rechtsethik sind keineswegs notwendig Gegensätze, vor allem nicht in
frühen Rechtsordnungen»; e P.
Catalano, Diritto e persone, cit., p. XI n.
[60] V. ILARI, Gli
Italici nelle strutture militari romane, Milano 1974.
[61] V. Ilari, Gli Italici nelle strutture
militari romane, cit., pp. 10-11; per questo studioso la concezione c.d.
volontarista si presenta in costante riferimento allo ius fetiale, a
proposito del quale aderisce alla «lettura volontarista e
universalista» proposta dal Catalano: cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di guerra
romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, p. V.
[62] D. Nörr, Aspekte des
römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989.
[63] D. Nörr, Aspekte des
römischen Völkerrechts, cit.,
p. 13: «Die Römer (und sie nicht allein) gehen davon aus, dass der
jeweilige Gegner sich grundsätzlich normativ verhält; umgekehrt weiss
man von den entsprechen – den Erwartungen dieses Gegners. Normbrüche
werden mit einem Unrechts – urteil versehen. Wenn man
“Werturteile“ fällt, so setzt man die Existenz (oder
wenigstens das Postulat) einer gemeinschaftlichen Normenordnung voraus –
die etwa erlaubt, den Feind in Kampf zu töten, nicht aber nach der deditio».
[64] L’epica
virgiliana si presenta caratterizzata da una evidente connotazione negativa
della guerra: Nulla salus bello (Aen. 12.362); crimina belli
(Aen. 7.339); scelerata insania belli (Aen. 7.461); il bellum
è qualificato di volta in volta horridum (Aen. 6.86;
7.41; 11.96), asperum (Aen. 1.14), crudele (Aen.
8.146; 11.535), dirum (Aen. 11.21). Vi è poi da
considerare che, assai significativamente, per Virgilio il bellum sul
piano religioso appartiene alla sfera del nefas (Aen. 2.217-220;
10.900-902), il che giustifica l’uso degli aggettivi nefandum e infandum
(Aen. 7.583; 12.572, 804); a ciò si aggiunga che nelle occorrenze
virgiliane del termine a bellum non sono mai riferiti aggettivi tipici
del lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix:
cfr. H. Merguet, Lexikon
zu Vergilius, Lipsiae 1912, [rist. an. Hildesheim-New York 1969], pp. 88
ss.
[65] Sull’eco dei
rituali romani della guerra nella poesia virgiliana, vedi infra cap. IV, pp. 209 ss.
[67] Assai
opportunamente, M. VIANO, Contributo alla storia semantica della famiglia
latina di “pax", in
Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino 88, 1953-54, p. 5
(estratto), colloca Virgilio fra gli «autori di indiscussa
autorità in materia di tradizione sacrale»; per maggiori
approfondimenti, vedi il precedente lavoro di H. LEHR, Religion und Kultus
in Vergils Aeneis, Diss.
Giessen 1934, pp. 9 ss. Pur rivolte ad altra prospettiva, rivestono un certo
interesse anche le riflessioni di F. ZEvi, Note sulla leggenda di Enea in
Italia, in AA.VV., Gli
Etruschi e Roma (Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 11-13
dicembre 1979), Roma 1981,
pp. 147 s., in merito ai riferimenti virgiliani all'Atena Tritonia di Lavinio:
«L'identificazione ha una sua particolare importanza, sia in sede
storico-religiosa, sia, soprattutto, perché permette una rivalutazione
di Virgilio come fonte topografica: in vari passi dell'Eneide, e specialmente
là dove si accenna a Lavinio, la dea è designata come Tritonia
Pallas o Tritonia virgo. L'appellativo Tritonia, che aveva
dato luogo a discussioni e speculazioni erudite, si spiega ora perfettamente e,
direi, letteralmente, come reale appellativo della dea lavinate. Ciò
dimostra, una volta di più, lo sforzo filologico che è alla base
del poema virgiliano, e la scarsa attendibilità di coloro fra i moderni,
che, per spiegare passi non chiari o non conformi alle teorie in voga, hanno
pensato di poter giustificare le incongruenze (forse solo apparenti) con
licenze poetiche o voli di fantasia di un autore che, più che mai, si
rivela invece un poeta doctus. Certo è che, in questo caso
specifico, Virgilio è l’unica fonte letteraria sul culto di Atena
Tritonia a Lavinio, ora confermato dall’archeologia; ed è
estremamente interessante rilevare che il santuario di Atena Tritonia era in
completo abbandono già all’inizio del III sec. a.C.».
[68] Per l'analisi
dell'uso virgiliano di questo termine, vedi M. BELLINCIONI, v. Amicizia, in Enciclopedia Virgiliana, I,
cit., pp. 135 ss.
[69] Sugli impieghi
virgiliani della parola si vedano F. DE MARTINO e R. DEGL'INNOCENTI PIERINI, v.
Hospes/hospitium, in
Enciclopedia Virgiliana, II, cit., pp. 858 ss.
[70] Un'esaustiva
analisi delle valenze giuridiche nell'uso virgiliano del termine è
stata, di recente, condotta da G. LuRASCHI,
v. Foedus, cit., pp. 546
ss.; ID., 'Foedus' nell'ideologia virgiliana, cit., pp. 281 ss.
[72] Aen. 7, 546:
dic in amicitiam coëant et foedera iungant; 11, 320-322: Haec omnis regio et celsi plaga pinea montis /
cedat amicitiae Teucrorum et foederis aequas / dicamus leges sociosque in regna
vocemus.
[73] Le diverse
attestazioni di questo significato sono raccolte nel Thesaurus Linguae
Latinae (v. amicitia), I, 1900, coll. 1893 s.; per quanto
attiene invece alla dottrina, sono da menzionare le tesi contrapposte di E.
TAÜBLER, Imperium Romanum,
cit., pp. 44 ss.; e di A. HEuss,
Die Völkerrechtlichen Grundlagen, cit., pp. 12 ss., 53 ss.; le ricerche sull'origine di B.
PARADISI, L'amitié internationale. Les phases de son ancienne
histoire, in Académie de
droit international 78, 1951, pp. 329 ss.; nonché le messe a
punto più recenti di W. DAHLHEIM, Struktur und Entwicklung des
römischen Völkerrechts, cit.,
pp. 136 ss.; D. KIENAST, Entstehung und Aufbau des römischen Reiches, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung
für Rechtsgeschichte 85, 1968, pp. 330 ss.; F. DE
MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 29 ss.; K.-H. ZIEGLER, Das Völkerrecht
der römischen Republik, cit.,
pp. 87 ss. All’esame dell’uso di amicitia nelle fonti
latine, sono dedicate alcune pagine del libro di M.R. Cimma, Reges socii et amici populi Romani, Milano
1976, pp. 27 ss., dove mancano però riferimenti ai testi virgiliani.
[74] M. Bellincioni, v. Amicitia,
cit., p. 135: «Il termine amicitia figura in Virgilio soltanto due
volte nell’Eneide; in entrambi i casi è usato
nell’accezione secondaria di “amicizia fra popoli”, dunque in
senso affine ad “alleanza” e significativamente accompagnato da foedus
»; in tal modo, questa studiosa non mi pare comprendere il profondo
significato religioso e giuridico della scelta virgiliana di privilegiare
«nella sua epopea patria quell’a(micizia) che supera i rapporti
individuali».
[75] Sulla problematica
relativa alla definizione e agli aspetti giuridi- ci dell'bospitium, vedi
per tutti F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp.
23 ss.; K.-H. ZIEGLER, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 85 ss. (entrambi con
riferimenti assai ampi alla dottrina precedente); da ultimo M. LEMOSSE, “Hospitium”, in Sodalitas. Scritti in onore di A.
Guarino, III, Napoli 1984, pp. 1269 ss.
[76] F. DE MARTINO, v. Hospes/hospitium, cit., p. 858. Eccessivamente cauta appare, invece, la valutazione di M. LEMOSSE, “Hospitium”, cit., pp. 1273 n. 15, per il quale
alcuni impieghi vigiliani «correspondent trop à des pratiques et
des conceptions religieuses empreintes d'influence hellénistique pour
être utilisés sans précautions».
[77] Aen. 1, 731: Iuppiter (hospitibus nam te dare iura locuntur); cfr. Cicerone, Ad Quintum fratr. 2, 10, 3: ne
imploret fidem Iovis Hospitalis.
[78] Per la definizione
e l'evoluzione storica del foedus, problemi tutt'altro che risolti nella
dottrina romanistica contemporanea, sia consentito rinviare al trattato di F.
DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 35 ss.; alla rassegna di K.-H. ZIEGLER, Das
Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 90 ss.; e all'esaustiva bibliografia indicata nel
recente saggio di G. LuRAsCHI, ‘Foedus'
nell'ideologia virgiliana, cit.,
pp. 386 s., n. 26.
Esempi virgiliani di
stipulazione di foedera in Aen.
8, 39-41; 12, 169-215; versi che sono discussi infra, cap. V, pp. 252 s.
[79] G. LuRAsCHI, v. Foedus, cit., p. 547; ID., ‘Foedus'
nell'ideologia virgiliana, cit.,
pp. 288 s.; sul ruolo di Iuppiter,
oltre il verso citato nel testo (Aen. 12, 200), vedi Aen. 4, 112; 8, 641; 12, 178. 492;
ancora utile la consultazione del vecchio lavoro di L. LERSCH, Antiquitates
Vergilianae, cit., pp.
116 ss.