ds_gen Università di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7

 

Bellum-1Francesco Sini

 

Bellum Nefandum. Virgilio e il problema

del “diritto internazionale antico”

 

Sassari, Libreria Dessì Editrice, 1991

 

pp. 304

 

 

 

Digesta Iustiniani 1, 8, 6, 5

(Marcian. l. III inst.) ... sicut

testis in ea re est Vergilius.

 

 

 

Capitolo Quinto

 

Placida Pax

 

sommario: 1. Virgilio poeta della pace. – 2. Pacique imponere morem di Aen. 6.852 e la nozione romana di pace. – 3. Foedus e pax. – 4. Altri impieghi virgiliani di pax in senso giuridico. La pace degli dèi. – 5. Segue. I rapporti tra gli uomini. – 6. Placida populos in pace regebat: pace tra passato e fututo.

 

 

[p. 235]

1. – Virgilio poeta della pace

 

Nella poesia di Virgilio si è espressa compiutamente la profonda aspirazione alla pace diffusa fra gli uomini di quella generazione. Rivolgendosi ai concittadini, provati da persistenti e terribili guerre civili, il poeta ha cantato i benefici della pace ritrovata, della nuova età dell’oro: in sintonia con una delle idee portanti della politica di Augusto[1].

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Nell’Eneide, fin dal primo libro, risaltano la centralità e il carattere provvidenziale dell’azione di Ottaviano, indicata dallo stesso Iuppiter nello svelare a Venere i fata degli Eneadi quale termine ultimo degli eventi narrati nel poema[2]. Così dalla profezia del sommo dio, il lettore coevo di Virgilio apprende il suo presente: che per merito del princeps diverranno pacifici gli aspera saecula[3]; che si chiuderanno per sempre le dirae portae della guerra (il tempio di Giano), dove resterà imprigionato il furor impius con le sue armi crudeli finalmente inoffensive[4].

[p. 237]

La poetica virgiliana sottende una concezione della storia rappresentata religiosamente come prodotto «eines Wirkens der Gotter», da cui consegue il governo mondiale dei Romani, da intendere come missione religiosa, fondata ‑ ha scritto Antonie Wlosok[5] ‑ sulla convinzione che esista «eine theologische Deutung der römischen Geschichte und Herrschaft». Appaiono, quindi, del tutto incomprensibili le tesi di quegli studiosi che pretendono di trasformare Virgilio, da propugnatore della pace e dell’impero, in teorico del cosiddetto imperialismo romano. Tale è il caso, ad esempio, del grande

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romanista tedesco F. Schulz[6], il quale riteneva «decisamente colorita d’imperialismo giuridico» la missione provvidenziale attribuita a Roma nell’Eneide. Alla stessa stregua Ch. Parain[7] valuta i famosissimi versi 847 ss. del VI libro, quando afferma che nel complesso la concezione religiosa ivi espressa «legittima l’imperialismo e le sue violenze».

Non è questo il luogo per attardarsí sull’argomento, basterà appena ricordare che in due recenti saggi, R. Rieks e I. Lana[8] hanno riaffermato la centralità dell’idea della pace nella poesia virgiliana: ad avviso del primo, il poeta non può essere considerato ideologo unilaterale del principato di Augusto e dell’imperialismo romano, anzi nessun altro autore dell’epoca ha con eguale valore «den Krieg verurteilt und die Idee eines universalen Fríedens als Leitthema über alle seine Dichtung gesetzt»[9]; ancora più esplicita la tesi del Lana, il quale, assai opportunamente, evidenzia che «secondo Virgilio

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il compito affidato dagli dèi a Roma è l’instaurazione della pace per tutti gli uomini»[10].

 

 

2. – Pacique imponere morem di Aen. 6.852 e la nozione romana di pace

 

Proprio un passo virgiliano illumina, forse più di ogni altro testo antico, la nozione “romana” della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali religiosi e giuridici. Si tratta dei versi 847-853 del libro VI dell’Eneide:

 

Excudent alii spirantia mollius aera

(credo equidem), vivos ducent de marmore voltus,

orabunt causas melius, caelique meatus

describent radio et surgentia sidera dicent:

tu regere imperio populos, Romane, memento

(hae tibi erunt artes) pacique imponere morem,

parcere subiectis et debellare superbos[11].

 

[p. 240]

Agli effetti del nostro discorso non rileva acquisire la certezza su quale sia la lezione più corretta del v. 852: se cioè debba leggersi paci, come propone da ultimo E. Paratore[12], oppure pacis, come già faceva Servio[13]. Allo stesso modo, non è possibile discutere in questa sede le molteplici e rilevanti questioni ideologiche insite nei vv. citati, né prendere partito tra le diverse posizioni presenti nella dottrina: sia che si tratti della tesi di H. E. Stier[14], il quale sottolinea piuttosto il debellare superbos e di conseguenza intende la pace come «bewaffneter Friede»; oppure di quella di P. Grimal[15],

[p. 241]

secondo cui Virgilio «a donné la formule de l’Empire, tel qu’Auguste vient de le fonder à nouveau»; sia infine che si acceda all’impostazione di V. Pöschl[16]: questo studioso dimostra, in maniera assai convincente, come nei versi in questione, che dal punto di vista più generale «die römischen Sendung umschreiben», proprio quel paci imponere morem costituisca l’elemento ideologico portante, in quanto nessuna pace può realizzarsi senza il diritto.

Una prima evidenza emerge dal passo: quella relativa al carattere bilaterale e imperativo che nella realtà romana ha la nozione di pax. Al carattere imperativo rimandano sia il termine mos, connesso con lex dal grammatico Servio nel suo commento al verso: Pacis morem leges pacis[17]; sia il verbo imponere[18]. L’osservanza di questa pax sembra essere condizione

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necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità del parcere nei confronti dei primi[19] e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[20]. Nella pace,

[p. 243]

 

e nella sua conservazione, risiedono dunque per Virgilio le motivazioni teologiche e storiche dell’espansione "mondiale" dell’imperium populi Romani[21].

[p. 244]

Non meno evidente risulta il carattere bilaterale della pace alla luce di altri passi virgiliani:

 

Tum socios maestique metum solatur Iuli,

fata docens, regique iubet responsa Latino

certa referre viros et pacis dicere leges[22];

 

cum iam conubiis pacem felicibus (esto)

component, cum iam leges et foedera iungent[23];

 

Talibus Aeneadae donis dictisque Latini

sublimes in equis redeunt pacemque reportant[24];

 

perfettamente aderenti alle definizioni che di pace davano giuristi e antiquari, i quali sottolineavano la connessione etimologica del termine pax con le parole pactio e pactum. é il caso della definizione attribuita da Verrio Flacco all’antiquario augusteo Sinnio Capitone[25]:

 

          Pacem a pactione condicionum putat dictam Sinnius

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Capito, quae utrique inter se populo sit observanda[26];

 

o di quella che i compilatori giustinianei trassero dal quarto libro ad edictum di Ulpiano:

 

Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve in idem placitum et consensum[27].

 

Questa etimologia, ammessa anche da molti linguisti moderni[28], ricollega pax alla radice indoeuropea pak-, alternante con pag-, da cui anche l’arcaico pacere delle XII Tavole[29],

[p. 246]

pacisci, pacio, pactio[30]. Pax, nome d’azione femminile, designa l’atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti relativi alla situazione di pace[31]; in ciò sta anche la differenza tra pax

[p. 247]

e il termine greco e„r»nh: mentre questo designa «il contenuto e i frutti del tempo di pace, la pax latina indica più semplicemente il presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto stesso»[32]. Solo in un secondo tempo, pax passerà ad indicare lo stato di quiete che deriva dalla conclusione della pace[33].

Dato il significato concreto della radice pak-«rendere saldo, fermo», si può perfino supporre che in origine pax abbia indicato qualcosa di materialmente determinato: in questo senso. appare stimolante l’interpretazione proposta di recente da Marta Sordi[34] per la quale l’arcaica pax sarebbe connessa, mediante la pax deorum, al clavum pangere, il conficcamento rituale del chiodo attestato da Tito Livio[35]. La definizione

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giuridica di pace, bilaterale e imperativa al tempo stesso, esprime pienamente il «significato sacrale originario di pax»[36]: accordo tra parti in conflitto (“atto” quindi che portava alla pace e non “situazione di pace" che da esso conseguiva), che tuttavia prefigurava, a simiglianza della pax deorum, una gerarchizzazione dei rapporti tra le parti contraenti, pur in presenza del idem placitum et consensum.

Da ciò lo strettissimo legame tra guerra e pace, o meglio tra la vittoria militare e il paci imponere morem[37], di cui più

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tardi in età imperiale avremo la trasfigurazione religiosa nell’iconografia e nell’epigrafia: con la rappresentazione della Pace alata come la Vittoria[38]; con iscrizioni a Mars pacifer o a Mars pacator[39].

Senza infingimenti ideologici, Virgilio può ben dichiarare nel paci imponere morem l’essenza della vocazione universalistica seguita dal populus Romanus, seppure attraverso una storia di guerre ininterrotte[40]; poiché il poeta è consapevole,

[p. 250]

in adesione alla concezione giuridica e religiosa della pace, che solo attraverso la vittoria si perviene allo “stato di pace”: tranquillitas, quies, otium[41]; il cui momento iniziale consiste nell’atto di pacem dare, imponendo ai vinti l’accettazione delle leges pacis. Ma proprio questo atto d’imperio risulta per Virgilio teologicamente salvifico per l’intera umanità; le guerre dei Romani, con le innegabili conseguenze di atrocità e sofferenze, sono tuttavia finalizzate dal volere divino ad un superiore interesse: l’instaurazione della pax, che consentirà anche agli ex nemici (subiecti) di godere dei benefici insiti nell’osservanza delle leges pacis[42].

 

 

3. – Foedus e pax

 

          Nel verso 356 del libro XI dell’Eneide, il termine pax appare connesso in rapporto causale con il foedus:

 

Unum etiam donis istis, quae plurima mitti

Dardanidis dicique iubes, unum, optime regum,

adicias, nec te ullius violentia vincat,

quin gnatam egregio genero dignisque hymenaeis

des, pater, et pacem hanc aeterno foedere iungas[43].

 

Per Virgilio, in conformità delle pratiche dello ius fetiale, la fine della guerra è sanzionata dalla celebrazione di un foedus, solenne cerimonia religiosa e giuridica, di cui erano competenti, come per la indictio belli, i sacerdotes Fetiales[44], i quali ne affidavano, col rito, il contenuto alla tutela di Iuppiter. Assai

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opportunamente perciò il poeta indica fra le funzioni della divinità suprema quella di foedera fulmine sancire:

 

Sic prior Aeneas, sequitur sic deinde Latinus

suspiciens caelum tenditque ad sidera dextram:

Haec eadem. Aenea, terram mare sidera iuro

Latonaeque genus duplex Ianumque bifrontem

vimque deum infernam et duri sacraria Ditis;

audiat haec genitor, qui foedera fulmine sancit[45].

 

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Si è discusso sul perché nei due foedera descritti nell’Eneide con dovizia di particolari, Virgilio ometta la partecipazione dei feziali. Infatti, sia nel trattato tra Romolo e Tito Tazio del libro VIII[46], sia in quello stipulato da Enea e Latino nel libro XII[47], protagonisti dell’atto appaiono gli stessi re. Questa apparente contraddizione, rispetto allo ius fetiale, può risolversi non tanto ipotizzando, come faceva Th. Mommsen[48], l’esistenza di foedera conclusi direttamente dal rex o dal magistrato repubblicano; quanto, piuttosto, supponendo che Virgilio «volesse rappresentare un’epoca in cui tutte le funzioni civili e religiose (quindi anche quelle pertinenti al ius fetiale) erano concentrate nelle mani del rex»[49].

Del resto, nel contesto virgiliano non mancano, come ha ben dimostrato già nell’Ottocento L. Lersch[50], né il sacerdote feziale:

[p. 254]

 

procedunt castris, puraque in veste sacerdos

saetigeri fetum suis intonsamque bidentem

attulit admovitque pecus fiagrantibus aris[51];

 

né riferimenti che rimandano a termini e situazioni dello ius fetiale:

 

Nunc sinite et placitum laeti componite foedus[52];

 

Haec omnis regio et celsi plaga pinea montis

cedat amicitiae Teucrorum et foederis aequas

dicamus leges sociosque in regna vocemus[53];

 

congredior; fer sacra, pater, et concipe foedus[54];

 

o la stessa struttura rituale del foedus:

 

Post idem inter se posito certamine reges

armati Iovis ante aram paterasque tenentes

stabant et caesa iungebant foedera porca[55].

 

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è noto che, nel sistema giuridico-religioso romano, con la stipulazione del foedus si poneva termine contemporaneamente agli atti di guerra e al tempo della guerra. Perciò Virgilio, con fine perizia giuridica, in alcuni suoi versi associa al foedus sia la fine della guerra, sia l’instaurazione della pace:

 

Nec minus interea maternis saevos in armis

Aeneas acuit Martem et se suscitat ira,

oblato gaudens componi foedere bellum[56];

 

appena più avanti, in uno dei versi seguenti[57] il dettare le clausole di questo foedus viene definito pacis dicere leges; non è

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poi, certo, senza significato che anche in riferimento alla pace troviamo utilizzato il verbo componere[58].

La connessione della pax col foedus risulta, infine, attestata dalle parole del giuramento prestato da Latino nel corso della stipulazione del trattato con Enea, prima del duello fatale:

 

Tango aras, medios ignis et numina testor:

nulla dies pacem hanc Italis nec foedera rumpet,

quo res cumque cadent[59].

 

Ma è nel commento di Servio al verso 266 del libro VII dell’Eneide (pars mihi pacis erit dextram tetigisse tyranni), che la connessione tra foedus e pax mostra tutta la sua valenza, spinta, nell’interpretazione del grammatico, fino all’assorbimento di un termine nella sfera dell’altro:

 

Pacis erit id est foederis: ab eo quod sequitur id quod praecedit[60].

 

 

4. – Altri impieghi virgiliani del termine pax in senso giuridico. La pace degli déi

 

Esamineremo, a questo punto, le occorrenze virgiliane di pax[61] dove l’utilizzazione del termine è da intendere in

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senso giuridicatnente proprio. Tratteremo prima dei versi che riguardano l’uso di pax nei rapporti tra uomini e divinità, nel paragrafo seguente di quelli che si riferiscono alle relazioni tra gli uomini.

Dagli dèi, immensamente potenti rispetto agli uomini, i Romani aspettano di ricevere pace e perdono[62]; ma sono anche coscienti che le loro colpe possono essere punite da Iuppiter con gravissimi mali:

 

Hae Iovis ad solium saevique in limine regis

apparent acuuntque metum mortalibus aegris,

si quando letum horrificum morbosque deum rex

molitur, meritas aut bello territat urbes[63].

 

Emerge così il concetto di pax deorum[64], caratterizzato

[p. 258]

da una situazione di amicizia nel rapporto tra uomini e divinità[65]. Tuttavia, dal punto di vista umano, il “legalismo religioso”[66] dei sacerdoti romani configura la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui

[p. 259]

debbono necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli dèi: considerato condizione essenziale per la vita del popolo romano[67]. In questa prospettiva può ben comprendersi perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell’intero rituale romano[68]; e fosse, al tempo stesso, oggetto dello ius publicum, non a caso tripartito in sacra, sacerdotes, magistratus[69].

[p. 260]

Pax ha nella concezione virgiliana anche precisi contenuti religiosi: anzi, nei rapporti con gli dèi il poeta presenta la pace quale scopo ultimo di sacrifici, voti e preghiere.

 

At sociis subita gelidus formidine sanguis

deriguit; cecidere animi nec iam amplius armis,

sed votis precibusque iubent exposcere pacem,

sive deae seu sint dirae obscenaeque volucres[70]

 

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Exposcere pacem significa nella lingua di Virgilio, certo improntata alle formule solenni dei sacerdoti[71] placare numina, come spiega Servio:

 

Sed votis precibusque duplici ratione placantur, numina, aut votis aut precibus[72].

 

Al concetto di pax deorum sembrano rimandare altri contesti virgiliani:

 

                                   Tu munera supplex

tende petens pacem, et facilis venerare Napaeas[73];

 

Principio delubra adeunt pacemque per aras

exquirunt; mactant lectas de more bidentis

legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,

Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae[74].

 

Nel verso 534 del IV libro delle Georgiche interessa notare la parola supplex, impiegata per caratterizzare l’atteggiamento che l’uomo deve tenere di fronte agli dèi; ma, come già notava G. Appel, si può chiamare supplex anche il nemico vinto, che prostrato ai piedi del vincitore tende le mani

[p. 262]

implorando la vita[75] e, naturalmente, la pace. In Aen. 4, 56-59 l’azione di exquirere pacem precede il sacrificio e ne costituisce la premessa rituale, mentre altrove Eleno exorat pacem divom dopo aver compiuto l’azione sacrificale:

 

Hic Helenus caesis primum de more iuvencis

exorat pacem divom vittasque resolvit

sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe,

ipse manu multo suspensum numine ducit

atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos[76].

 

Questo è anche l’unico verso di Virgilio in cui troviamo esplicitamente usata l’espressione pax deorum[77]. Il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale, come aveva già rilevato il grammatico Servio[78], spiegando che il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale significa impetrare.

[p. 263]

Mi pare possa intendersi in riferimento al più generale concetto di pax deorum anche l’interrogativo rivolto da Venere a Iuppiter:

 

Si sine pace tua atque invito numine Troes

Italiam petiere, luant peccata neque illos

iuveris auxilio; sin tot responsa secuti,

quae superi Manesque dabant, cur nunc tua quisquam

vertere iussa potest aut cur nova condere fata?[79]

 

Sebbene Servio commenti: ergo ’pace’ benevolentia, suffragio[80]; la forma di espiazione (luant peccata[81] sembra far

[p. 264]

riferimento proprio al fatto che il comportamento dei Troiani potrebbe non essere conforme alla pax deorum.

Per Virgilio, infìne, gli dèi sono i custodi della pax aeterna. Da notare, al riguardo, come il poeta usi questa espressione solo in contesti che hanno per protagonisti delle divinità[82].

Così in Aen. 4, 99 è Giunone che propone a Venere:

 

quin potius pacem aeternam pactosque hymenaeos

exercemus?;

 

mentre in Aen. 12.503-504:

 

           tanton placuit concurrere motu,

Iuppiter, aeterna gentis in pace futuras?[83]

 

è lo stesso poeta che si rivolge direttamente al dio supremo. In questi ultimi versi, l’esaltazione dell’aeterna pax costituisce anche, come ben coglie E. Paratore, «un preannuncio della pax Augusta, motivo d’attualità che da coerenza a tutta l’ideologia che anima l’opera»[84].

[p. 265]

 

 

5. – Segue. I rapporti tra gli uomini

 

Nel libro VII dell’Eneide, la furia Alletto, assunte le sembianze della vecchia: sacerdotessa Calibe[85], appare in sogno a Turno per esortarlo alla guerra, rivolgendosi a lui come segue:

 

Turne, tot in cassum fusos patiere labores

et tua Dardaniis transcribi sceptra colonis?

rex tibi coniugium et quaesitas sanguine dotes

abnegat externusque in regnum quaeritur heres.

I nunc, ingratis offer te, inrise, periclis;

Tyrrhenas, i, sterne acies; tege pace Latinos[86].

 

Nelle parole di Alletto si percepisce assai chiaramente la conformità del testo virgiliano alla concezione religiosa e giuridica di pax, che postula la guerra e la vittoria finalizzate all’instaurazione di una pace sicura.

[p. 266]

La testimonianza del grande poeta illumina, anche, a proposito di quali differenti ruoli competano nelle procedure di pace ai vincitori e ai vinti. Così Enea risponde agli oratores latini:

 

Quaenam vos tanto fortuna indigna, Latini,

implicuit bello, qui nos fugiatis amicos?

pacem me exanimis et Martis sorte peremptis

oratis? equidem et vivis concedere vellem[87].

 

Orare e concedere, verbi che qualificano una gerarchia nel rapporto: da una parte chi ha il dovere (e la necessità) di chiedere pregando, dall’altra chi ha il potere discrezionale di concedere, dettando precise condizioni: leges pacis[88].

Ancora alle leges pacis si fa riferimento nel già citato Aen. 12.822, mentre l’augurio di sottostare a leges pacis iniquae è parte dell’esecrazione di Didone contro Enea:

 

nec, cum se sub leges pacis iniquae

tradiderit, regno aut optata luce fruatur,

sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena[89].

 

[p. 267]

          In maniera del tutto singolare si parla di una pace paribus legibus nel giuramento prestato da Enea, prima del duello con Turno:

 

Sin nostrum adnuerit nobis Victoria Martem

(ut potius reor et potius di numine firment),

non ego nec Teucris Italos parere iubebo

nec mihi regna peto: paribus se legibus ambae

invictae gentes aeterna in foedera mittant[90].

 

Questi versi, mentre lasciano intravvedere la categoria del foedus aequum così come è stata teorizzata da Livio e dai giuristi[91], assolvono nel contempo ad una funzione del tutto eccezionale:

[p. 268]

Enea prefigura, in caso di vittoria, la futura unione di Troiani e Latini; agli occhi del poeta, conscio del destino imperiale di quell’unione, nessuno dei due popoli poteva perciò essere vinto.

          La posizione di inferiorità insita nel chiedere la pace trova ulteriore riscontro in Aen. 11.362 (nulla salus bello: pacem te poscimus omnes) ed appare quasi sempre motivata dall’andamento disastroso della guerra, come in questo caso e in Aen. 11.414:

 

Si nullam nostris ultra spem ponis in armis,

si tam deserti sumus et semel agmine verso

funditus occidimus neque habet Fortuna regressum,

oremus pacem et dextras tendamus inertis[92];

 

[p. 269]

oppure dalla coscienza della propria inferiorità:

 

Tum satus Anchisa delectos ordine ab omni

centum oratores augusta ad moenia regis

ire iubet, ramis velatos Palladis omnis,

donaque ferre viro pacemque exposcere Teucris[93].

 

Tale condizione di inferiorità costituisce, a ben vedere, lo schema su cui i Romani improntavano la stessa simbologia della pace. Cioè, quel pace orare manu[94], che spesso si avvale dell’utilizzazione di ramoscelli d’ulivo[95] e che costituisce il tipico atteggiamento dei supplici e dei vinti.

 

 

6. –Placida populos in pace regebat: pace tra passato e futuro

 

Nei versi del libro VIII dell’Eneide, dove il poeta canta gli aurea saecula e il regno di Saturno nell’antichissimo Lazio, si appalesano chiaramente l’indubbio senso religioso e le implicazioni giuridiche del concetto virgiliano di pace. Ma leggiamo i versi in questione:

[p. 270]

 

Haec nemora indigenae Fauni nymphaeque tenebant

gensque virum truncis et duro robore nata,

quis neque mos neque cultus erat, nec iungere tauros

aut componere opes norant aut parcere parto,

sed rami atque asper victu venatus alebat.

Primus ab aetherio venit Saturnus Olympo,

arma Iovis fugiens et regnis exsul ademptis.

Is genus indocile ac dispersum montibus altis

composuit legesque dedit Latiumque vocari

maluit, his quoniam latuisset tutus in oris.

Aurea quae perhibent illo sub rege fuere

saecula: sic placida populos in pace regebat,

deterior donec paulatim ac decolor aetas

et belli rabies et amor successit habendi[96].

 

Mi pare che la descrizione virgiliana si presti ad una duplice interpretazione. Anzi tutto, si rileva una profonda connessione tra mos, cultus, leges e pax[97], nel senso che

[p. 271]

questa è presentata dal poeta come risultato dell’opera civilizzatrice e legislativa di Saturno[98]; infatti, il dare leges del dio precede e determina la placida pax degli aurea saecula. Ne consegue che per Virgilio, fin dall’origine della memoria storica del popolo romano, non esiste pace senza precise regole giuridiche, determinate dalle leges. In secondo luogo, soprattutto dalla lettura dei versi 324-327, emerge la convinzione di uno stretto rapporto (quasi di identificazione) tra pace e stato di

[p. 272]

natura, rappresentato appunto dagli aurea saecula in cui Saturno placida populos in pace regebat[99].

è stato già rilevato[100], al riguardo, il fatto che nel testo si manifesti, al tempo stesso, la consapevolezza del poeta circa la storicità della violenza della guerra e dell’egoismo della proprietà, prodotti nella ricostruzione virgiliana dalla deterior ac decolor aetas[101]: quindi, storicamente datati e sostanzialmente estranei all’essenza primordiale della natura umana.

Questa visione dinamica dello sviluppo storico, accompagnata dalla coscienza che le istituzioni politiche e giuridiche,

[p. 273]

anche del popolo romano, si plasmano nel divenire della storia, non è peraltro estranea alla cultura giuridica romana. Motivazioni simili hanno determinato, in età imperiale, l’elaborazione da parte dei giuristi degli istituti di ius naturale[102] e la contrapposizione di essi agli istituti di ius gentium e di ius civile[103].

[p. 274]

Ma nei versi citati vi è anche un altro motivo, che merita di essere attentamente valutato. Nella prospettiva storiografìca di Virgilio, il regno di Saturno costituisce il vero punto d’inizio della storia "nazionale" romana, la quale poi si sviluppa attraverso il re Latino[104], di cui come per Saturno si dice:

 

                      Rex arva Latinus et urbes

iam senior longa placidas in pace regebat[105],

 

[p. 275]

e la discendenza di Enea, ancora presente a Roma nella persona di Cesare Augusto: il Troianus Caesar, profetizzato da Iuppiter nel libro I del poema:

 

Nascetur pulchra Troianus origine Caesar,

imperium Oceano, famam qui terminet astris,

Iulius, a magno demissum nomen Iulo.

[p. 276]

Hunc tu olim caelo spoliis Orientis onusturn

accipies secura; vocabitur hic quoque votis[106].

 

Anzi, proprio con Ottaviano il passato si fonde col presente

[p. 277]

e si proietta nel futuro: solo per lui, fra gli uomini dei tempi storici, è proposto in maniera esplicita, nei fata svelati da Anchise, il raffronto con Saturno:

 

Huc geminas nunc flecte ades, hanc aspice gentem

Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli

progenies, magnum caeli ventura sub axem.

Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,

Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet

saecula qui rursus Latio regnata per arva

Saturno quondam; super et Garamantas et Indos

proferet imperium[107].

 

[p. 278]

Questi ultimi versi evidenziano, ancora una volta, l’aderenza della concezione virgiliana alla nozione giuridica di pax. Seppure finalizzata alla restaurazione fra gli uomini degli aurea saecula, la pace romana si presenta, nella concreta dinamica della storia, necessariamente legata all’espansione dell’imperium[108]. Ecco, allora, che quel verso

 

tu regere imperio populos, Romane, memento[109],

 

depurato di ogni connotazione di violenza e di sopraffazione verso i popoli sottomessi, si carica di forti implicazioni religiose e giuridiche[110].

[p. 279]

          In tal modo si adempiono, per Virgilio e per la sua generazione, i fata degli Eneadi: le vicende storiche dell’imperium dei Romani sono state determinate dagli dèi al fine di instaurare nell’età presente, tramite Augusto, un nuovo secolo d’oro, forse per stabilità anche superiore agli antichi aurea saecula di Saturno. Ciò spiega il canto del poeta nella profezia di Iuppiter:

 

Aspera tum positis mitescent saecula bellis;

cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus

iura dabunt; dirae ferro et compagibus artis

claudentur Belli portae; Furor impius intus

saeva sedens super arma et centum vinctus aënis

post tergum nodis fremet horridus ore cruento[111].

 

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Grazie alla pace e alla giustizia assicurate al mondo da Ottaviano, appare defìnitivamente superata quella deterior ac decolor aetas, che con la rabies belli e l’amor habendi aveva corrotto l’umanità del passato.

Sia consentito concludere queste note sulla pace virgiliana con un riferimento al presente: al pensiero di Giorgio La Pira e a quel suo costante richiamo all’età di Augusto (età della pace virgiliana realizzata), che costituisce nella visione “profetica” lapiriana[112] «un momento privilegiato nella storia del

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mondo»[113]. Non è certo senza significato, infatti, che il “giurista fiorentino”[114] nel corso del suo inesauribile peregrinare per la pace, abbia guardato insistentemente proprio a quell’epoca così «ricca d’ispirazione anche per oggi» e a quella pace «strutturata dal diritto»[115], come al modello insuperato di

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convivenza tra i popoli da additare agli uomini di questo tormentato secolo ventesimo. Convinto di poterli persuadere a ripudiare la guerra e a realizzare, come Augusto, «l’unità e la pace di tutte le genti»[116].

 

 



 

[1] Vedi, in tal senso, l’osservazione di G. Funaioli, Virgilio poeta della pace, in AA.VV., Conferenze virgiliane, Milano 1931, pp. 136 s.: «non la guerra per la guerra potrà cantare Virgilio, che sarebbe contro la spiritualità sua e dei suoi tempi, ma la guerra riguardata come strumento della pax romana finalmente conquistata o prossima a conquistarsi dopo mille vicissitudini di secoli [...] la guerra in funzione di una rinnovellata età dell’oro, dell’ímpero di Cesare Augusto, della sua pace, della sua giustizia, della fraternítà, della simpatia umana dell’impero apportata sulla terra».

Sul tema Virgilio e Augusto la letteratura è vastissima, anche perché come sottolinea V. Pöschl, Virgil und Augustus, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.2, Berlin-New York 1981, p. 709: «Das Thema betrifft einen Teilaspekt des komplexen und schwierigen Problems: Dichtung und Politik im augusteischen Rom». Al saggio del Pöschl rimando per la bibliografia anteriore al 1981 (op. cit., n. 1); cfr. anche W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergi-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berüchsichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Il.31.1, Berlin-New York 1980, pp. 47 ss. (bibliogr. fino al 1975). Fra gli scritti più recenti vedi P. Grimal, Virgile artisan de l’Empire romain, in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions, 1982, pp. 748 ss. (ora in Id., Rome. La littérature et l’histoire, II, Rome 1986, pp. 903 ss.); Id., Virgile ou la seconde naissance de Rome, Paris 1985, pp. 169 ss. (= trad. it.: Virgilio. La seconda nascita di Roma, Milano 1986, pp. 188 ss.); V. Pöschl, Vergil als augusteischer Dichter, in Humanismus und Politik = Humanistische Bildung, Heft 7, 1983, pp. 1 ss.; M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1986, pp. 315 ss.

All’analísi della presenza e del ruolo di Augusto nel poema virgiliano ha dedicato alcune belle pagine di un suo recente libro J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, Bruxelles 1987, pp. 240 ss.

 

[2] Aen. 1.286-290; cfr. più in generale 1.257-296. A ragione S. D’elia, Lettura del sesto libro dell’Eneide, in M. Gigante (a cura di), Lecturae Vergilianae, III. L’Eneide, Napoli 1983, pp. 209 s., sostiene che Augusto «rappresenta, nei tre passi celebrativi a lui dedicati nel poema, il punto conclusivo della storia romana».

 

[3] Aen. 1.291: Aspera tum positis mitescent saecula belli; cfr. Servio, Ad Aen. 1.291. Sul verso citato, vedi A. Wlosok, Die Göttin Venus in Vergils Aeneis, Heidelberg 1967, pp. 70 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, I (Libri I-II), Milano 1978, pp. 176 s.; V. Pöschl, Virgil und Augustus, cit., p. 715.

 

[4] Aen. 1.293-296: dirae ferro et compagibus artis / claudentur Belli portae; Furor impius intus / saeva sedens super arma et centum vinctus aënis / post tergum nodis fremet horridus ore cruento. R. S. Conway, P. Vergili Maronis Aeneidos liber primus, Cambridge 1935, pp. 66 s., pensa che in questi versi Virgilio potrebbe essersi ispirato ad un dipinto di Apelle, che rappresentava la Guerra con le mani legate dietro la schiena, fatto sistemare da Augusto nel suo foro; così anche E. Paratore, Virgilio, Eneide, I, cit., p. 177. Sulle chiusure del tempio di Giano operate da Augusto nel 29 e nel 25 a.C., cfr. anche Livio 1.19.2; Res Gestae, 11.13.42 ss.

 

[5] A. WLOSOK, Römischer Religions- und Gottesbegriff in heidnischer und christlicher Zeit, in Antike und Abendland 16, 1970, p. 44: «Diese Auffassung der Geschichte als eines Wirkens der Götter, in dem sie sich fordernd, lohnend und strafend offenbaren, ist die einzige Form von Theologie, die Rom aufweisen kann. Denn zu einer theoretischen Entfaltung ihres Religions- und Gottesbegriffs sind die Römer nie gekommen. Ihr grösster und nahezu einziger Theologe ist ein Dichter: Vergil. Seine Aenis gibt nicht nur eine theologische Deutung der römischen Geschichte und Herrschaft in dem umrissenen Sinn». Nello stesso senso, da ultimo, M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, cit., p. 327: «Qualunque fosse l’atteggiamento individuale rispetto ai problemi religiosi e metafìsici, per gli antichi era impossibile spiegare grandi fenomeni storici, come la vicenda di Roma nei secoli, senza ammettervi la collaborazione di forze trascendenti. Una poesia epica sulla storia di Roma o sulle sue origini doveva affrontare il problema: e, implicitamente, doveva dire se la potenza di Roma fosse “giusta”, cioè fosse stata voluta dagli dèi e dal fato».

 

[6] F. Schulz, I principii del diritto romano, trad. it. di V. Arangio Ruiz, Firenze 1946, p. 103.

 

[7] Ch. Parain, Augusto, trad. it., Roma 1978, p. 126.

 

[8] R. Rieks, Vergils Dichtung als Zeugnis und Deutung der römischen Geschichte, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.2, cit., pp. 728 ss.; I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo antico, in Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino (Classe di Scienze Morali, Storicbe e Filologiche), ser. V, 13, fasc. 1-2, Gennaio-Giugno 1989.

 

[9] R. Rieks, Op. cit., in n. precedente, p. 852: «Vergil ist kein einseitiger Ideologe des augusteischen Prinzipates und des römischen Imperialismus. Wie kein anderer Autor jener Epoche hat er rückhaltlose Zeitkritik geübt, hat er den Elenden, Leidenden, Besiegten seine Stimme geliehen, hat er die Utopie der saturnischen Zeit an die Leistungsanforderungen des bäuerlichen Arbeitswelt geknüpft, hat er den Krieg verurteilt und die Idee eines universalen Friedens als Leitthema über alle seine Dichtungen gesetzt».

 

[10] I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., pp. 6 s. dell’estratto.

 

[11] Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Bucb VI, 8. unveränd. Aufl. (rist. 4a ed. 1957), Stuttgart 1984, pp. 334 ss.; R. G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, Oxford 1977, pp. 260 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, III (Libri V‑VI), Milano 1979, pp. 358 s.; cfr.anche K. Büchner, Virgilio, 2a ed., Brescia 1986, p. 482. Per un inquadramento più generale, vedi, fra gli altri: F. Christ, Die römische Weltherrschaft in der antiken Dicktung, Stuttgart 1938, pp. 145 ss.; E. Beckemann, Der Friede des Augustus, 2aed., Münster im Westf. 1954, pp. 37 s.; W. P. Basson, Virgil, Roman bistory and the Romans’ destiny. Notes on Aen. VI 836‑853, in Akroterion 20, 4, 1975, pp. 83 ss.; S. Riccobono jr., Roma nella poesia di Virgilio, in Studi Biscardi, V, Milano 1984, pp. 15 ss.; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’Énéide de Virgile, cit., pp. 135 s.

 

[12] Virgilio, Eneide, III, cit., p. 359; ma in tal senso, vedi già E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, cit., p. 335: «pacique imponere morem ... pacis ‑ morem Servius, was er leges pacis erklärt. Aber die Richtigkeit unserer Überlieferung wird durch Aristeides 92 ff. garantiert: dort spricht er von den Segnungen der Ordnung und Sitte, die nun, da der Friede gesichert sei, im ganzen Reiche herrschten»; cfr. anche E. Fränkel, Zum Text von Aenels VI, 852, in Museum Helveticum 19, 1962, pp. 133 s.

 

[13] Ad Aen. 6.852. Questa lezione è stata adottata anche in molte edizioni moderne: esempi, con relativa critica, in E. Paratore, Virgilio, Eneide, III, cit., p. 359.

 

[14] H.E.Stier, Augustusfriede und römische Klassik, in Aufstiegund Niedergang der römiscben Welt, II. 2, Berlin‑New York 1975, p. 21: «Die Pax Romana stellt sich als bewaffneter Friede dar, nicht etwa weil hiermit eine römische Tradition aufrechterhalten werden sollte, die man gern in Vergils Mahnung: debellare superbos! wirksam sieht».

 

[15] P. Grimal, Virgile ou la seconde naissance de Rome, cit., p. 213: «Les Romains, grâce à Virgile, et par lui, prenaient conscience de leur place dans l’univers et de la mission que leur avait confiée la Providence: Anchise la résume dans les dernières paroles qu’il prononce. […] Virgile a donné, en ces trois vers célèbres, la formule de l’Empire, tel qu’Auguste vient de le fonder à nouveau: l’impérialisme de Rome ne consiste pas, comme au. temps de Verrès, à piller les sujets, mais à établir une loi qui assure la justice et le droit» (= Virgilio. La seconda nascita di Roma, cit., pp. 239 s.).

 

[16] V. Pöschl, Virgil und Augustus, cit., p. 717: «das paci imponere morem das wichtigste ist. Ohne Recht und Sitte, ohne Erneuerung von innen her kann es keinen Frieden geben»; cfr. Id., Vergil als augustetscher Dickter, cit., p. 12.

 

[17] Servio, Ad Aen. 6.852.

 

[18] In questo senso, cfr. F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in ID., Römische Geisteswelt, 4a ed., München 1961, p. 601: «Die römische pax, dem Gedanken nach ein Rechtsverhältnis zwischen zwei Partnern, ist in Wirklichkeit eine Herrschaftsordnung, Rom ist der Partner, der von sich aus das Verhältnis ordnet, die Bedingungen festsetzt: pacis leges dicit oder imponit lauten die Ausdrücke. Am Anfang steht ein Sieg Roms oder die freiwillige Unterwerfung eines Gegners». Più in generale, sull’uso del verbo imponere vedi J. B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae 1934-1964 (ma 1938), coll. 650 ss.; l’insigne studioso tedesco colloca il passo virgiliano fra i testi enumerati al paragrafo «imponere leges, ius sim.» (col. 657). Sul verbo vedi anche, brevemente, A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed., rist. Paris 1979, p. 521.

 

[19] Il dovere di parcere i nemici sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica e giuridica dell’età repubblicana, diventa nell’ideologia augustea uno dei cardini dell’azione del princeps: così in Res Gestae I.3.15-16, si legge: Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui. Cfr. Cicerone, De off. 1.35: Quare suscipienda quidem bella sunt ob eani causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi ii, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem etiam acceperunt; Livio 30.42.16-17: Populum Romanum eo invictum esse, quod in secundis rebus sapere et consulere meminerit; et hercule mirandum fuisse, si aliter faceret; ex insolentia, quibus nova bona fortuna sit, impotentis laetitiae insanire; populo Romano usitata ac propre tam obsoleta ex victorta gaudia esse, ac plus paene parcendo victis quam vincendo imperium auxisse. Sulle implicazioni del testo virgiliano, vedi l’approfondita analisi di F. Eggerding, Parcere subiectis. Ein Beitrag zur Vergilinterpretation, in Gymnasium 59, 1952, pp. 31 s.

 

[20] Sulle ragioni che giustificano il debellare superbos, si vedano le penetranti considerazioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino 1987, p. 84: «Le parole chiave sono: regere, imperium, populi, pax, subicere, debellare. Tutte parole cariche di senso e di valore, tra le quali la pace si presenta, al centro, come lo strumento per governare tutto il mondo con un potere che va al di là del puro esercizio del potere, manifestandosi come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia, nel senso che esso esige la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato: chi non lo accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non v’è né perdono né clemenza». Per la comprensione del testo virgiliano, vedi anche H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, in Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, pp. 52 ss., in particolare p. 53: «Der Kampf gilt Gegnern, deren Wesen und Gebaren eine Herausforderung darstellt. Wer die durch das imperium Romanum verkörperte politische, rechtliche, sittliche und kulturelle Ordnung nicht anerkennt, ist ein Feind aller, ist ein Verächter dessen, was der Völkergemeinschaft frommt, ist ein superbus»; da ultimo A. Traina, v. Superbia, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 1072 ss., in partic. p. 1074, il quale sottolinea come il verso parcere subiectis et debellare superbos costituisca «la giustificazione etico-politica dell’imperialismo romano almeno sin dai tempi di Plauto e di Catone». Più in generale, sulla superbia come categoria della lotta politica vedi, per tutti, j. Helleguarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République, Paris 1963, pp. 339 ss. Lo studioso francese sottolinea peraltro, proprio con riferimento a Aen. 6.851-853, la profonda avversione dei Romani per tale concetto: «Cette aversion pour la superbia était même si familière à Rome qu’elle avait tendance à l’imputer à ses ennemis et qu’elle se fixa comme l’un des bouts de sa politique extérieure de triompher des peuples qui s’en rendraient coupables».

 

[21] Cfr. in tal senso, V. Pöschl, Virgil und Augustus, cit., p. 714; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, Bruxelles 1987, p. 358. Da ultimo, vedi I. Lana, Rapporto sullo stato degli studi intorno all’idea della pace a Roma e proposta di alcune linee di ricerca, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, p. 23, il quale evidenzia, peraltro, una fondamentale differenza tra Virgilio e Tito Livio:mentre per lo storico patavino il destino di Roma si concretizza nella superiorità delle armi romane (cfr. Livio 1.16.7), per il poeta invece la missione che gli dèi hanno voluto per i Romani consiste nell’instaurazione della pace per tutti gli uomini: «Il discorso di Virgilio ‑ scrive il Lana ‑ più complesso e più ricco di quello di Livio, pone un nesso, assente nello storico, fra la guerra e la pace ed introduce una valutazione di ordine morale nella presentazione di quello che in Livio appare come un puro dato di potenza: la guerra intesa come funzionale alla pace. è esplicitamente rifiutata, da Virgilio, la visione corrente, che nella guerra individua la condizione normale di vita per l’umanità: il tradizionale rapporto tra guerra e pace viene da lui capovolto. L’ideologia della guerra in Virgilio si collega, ma restando in subordine, con quella della pace. Evidentemente quest’idea di pace non intende la pace semplicemente come cessazione temporanea della guerra: la pace politica da Virglio è presentata come il punto di arrivo, veramente terminale, di tutta la vicenda di tutta l’umanità, riassunta nel destino di Roma» (= Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., p. 7 dell’estratto).

 

[22] Aen. 12.110-112

 

[23] Aen. 12.821-822

 

[24] Aen. 7.284-285.

 

[25] Sulla figura e le opere di questo antiquario vedi, per tutti, W. S. Teuffel, Geschichte der römischen Literatur, II, 7. Aufl., Leipzig 1920 (rist. an. Aalen 1965), pp. 137 s.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, vierte neubearb. Aufl., München 1935 (rist. 1967), p. 380; i frammenti sono stati raccolti in H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae 1907 (rist. Roma 1964), pp. 457 ss.

 

[26] Festo, p. 260 L.; Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., p. 461 fragm. 10; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del ‘de verborum significatu’ di Verrio Flacco, Milano 1964, pp. 66 s. Cfr., sempre di Festo, p. 296 L.: Pacionem antiqui dicebant, quam nunc pactionem dicimus; unde et pacisci adhuc, et paceo in usu remanet.

 

[27] D. 2.14.1.1-2. Cfr. anche Isidoro, Orig. 5.24.18: Pactum dicitur inter partes ex pace conveniens scriptura, legibus ac moribus comprobata: et dictum pactum quasi ex pace factum, ab eo quod est panco, unde, et pepegit foedus. Sul frammento ulpianeo vedi l. ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 165; F. De Visscher, Pactes et religio, ora in Id., études de droit romain public et privé, trois. ser., Milano 1966, p. 410; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli 1966, p. 199, il quale considera il contenuto del frammento un «esempio di definizione (etimologica) persuasiva».

 

[28] Cfr. per tutti, A. Walde-j.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuck, II, Heidelberg 1954, pp. 231 s.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., p. 473.

 

[29] Il verbo pacere compare in due frammenti del codice decemvirale. Il primo è XII Tab. I.6-7: Rem ubi pacunt, orato. Ni pacunt in comitio aut in foro ante meridiem caussam coiciunto (cfr. Fontes Iuris Romani Anteiustiniani, I, 2a ed., Florentiae 1940, p. 28; P.F. Girard-F. Senn, Les lois des Romains, 7a ed., a cura di V. Giuffrè, Napoli 1977, p. 25); per la discussione di questo testo vedi, pur nella diversità di interpretazioni: C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma 1955, p. 151; Id., Rem ubi pacunt orato: XII Tab. I, 6-9 (Per la critica del testo decemvirale), in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 76, 1973, pp. 271 ss.; H. Lévy-Bruhl, Recherches sur les actions de la loi, Paris 1960, pp. 206 s.; G. Pugliese, Il processo civile romano, I. Le legis actiones, Roma 1962, pp. 402 s.; M. Kaser, Das Römische Zivilprozess, München 1966, pp. 83 s:, 0. Behrends, Der Zwölftafelprozess. Zur Geschichte der römischen Obligationenrecht, Göttingen 1974, pp. 77 ss.; G. G. ARCHI, Ait praetor: «pacta conventa servabo». (Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell’"Edictum Perpetuum”), in Id., Scritti di diritto romano, I, Milano 1981, p. 493 n. 28; g. Nicosia, Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale, Torino 1986 (rist. ed. Catania 1984), pp. 68 ss.; infine a. Manfredini, Rem ubi pacunt, orato, in AA.VV., Atti del seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano, Milano 1988, pp. 73 ss.

Il secondo frammento è XII Tab. VIII.2: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (cfr. Fontes, cit., p. 53; Girard-senn, Les lois des Romains, cit., p. 41); su questa norma decemvirale vedi, da ultimo, J. M. Alburquerque, Historia del "pactum” antes del “edictum”: “pactum” como acto de paz en las XII Tablas, in Estudios en omenaje al profesor juan Iglesias, III, Madrid 1988, pp. 1110 ss.; e la rapida sintesi di b. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989, p. 40.

 

[30] Cfr. C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, in AA.VV., La pace nel mondo antico, Contributi dell’Istituto di storia antica XI, a cura di m. sordi, Milano 1985, p. 24; m. L. Porzio gernia, Considerazioni linguistiche sulla famiglia del lat. “pax”, “paciscor” ecc., in I. Lana, La concezione della pace a Roma, cit., Appendice III, pp. 205 s.

 

[31] Così Ernout-Meillet, Dictionnaire étimologique de la langue latine, cit., p. 473; nello stesso senso, vedi C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, cit., p. 25.

 

[32] I Lana, La pace nel mondo antico, in Studia et documenta historiae et iuris 33, 1967, p. 9; nello stesso senso, vedi ora Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., p. 21 (estratto).

 

[33] Si tratterebbe, tuttavia, di un ritorno all’«antico valore sacrale di pax», come sostiene M. Viano, Contributo alla storia semantica della famiglia latina di “pax", in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino 88, 1953-54, p. 15 (estratto): «In conclusione possiamo quindi affermare che attraverso la rinnovata vitalità del suo senso religioso, il latino pax ritorna nell’ambiente al quale appartiene originariamente e in questo modo conferma l’ipotesi di una derivazione analoga per i concetti giuridici connessi agli altri vocaboli della sua famiglia».

 

[34] M. Sordi, ‘Pax deorum’ e libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, cit., pp. 146 ss.

 

[35] Livio 7, 3, 3-6: Itaque Cn. Genucio L. Aemilio Mamerco iterum consulibus, cum piaculorum magis conquisitio animos quam corpora morbi adficerent, repetitum ex seniorum memoria dicitur pestilentiam quondam clavo a dictatore fixo sedatam. Ea religione adductus senatus dictatorem clavi figendi causa dici iussit. Dictus L. Manlius Imperiosus L. Pinarium magistrum equitum dixit. Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut, qui praetor maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa luit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est. Eum clavum, quia rarae per ea tempora litterae erant, notam numeri annorum fuisse ferunt eoque Minervae templo dicatam legem, quia numerus Minervae inventum sit. Cfr. 8.18.11-12.

Sulla lex vetusta e sulle implicazioni giuridiche e religiose connesse al rito della clavifixio, si vedano, fra gli altri: j. Heurgon, L. Cincius et la loi du "clavus annalis”, in Athenaeum 42, 1964, pp. 432 ss.; Id., Magistratures romaines et magistratures étrusques, in AA.VV., Les origines de la Rèpublique romaine, Entretiens de la Fond. Hardt XIII, Vandoeuvres-Genève 1966, pp. 105 ss.; A. Magdelain, Praetor maximus et comitiatus maximus, in Iura 20, 1969, pp. 257 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, pp. 238 s.; M.j. Pena, La “lex de clavo pangendo”, in Historia Antiqua 6, 1976, pp. 239 ss.; G. Poma, Le secessioni della plebe e il rito dell’infissione del «clavus», in Rivista di storia antica 8, 1978, pp. 39 ss.; brevemente anche D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Milano 1988, pp. 313 s.

 

[36] Utilizzo l’espressione di m. Viano, Contributo alla storia semantica della famiglia latina di “pax", cit., p. 12 (estratto).

 

[37] Cfr. Res Gestae II.13.43: cum per totum imperium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax. Tale situazione è ben colta da i. Lana, La pace nel mondo antico, cit., p. 9: «Perciò i Romani, quando sono in guerra e dichiarano che il loro scopo è quello di pacem dare, leges pacis imponere, ovvero, come si esprime Virgilio nel famoso passo del libro VI dell’Eneide, paci imponere morem, intendono dire che con la guerra mirano a realizzare una situazione di superiorità che consenta loro di dettare all’avversario le condizioni per l’instaurazione di un certo rapporto fra Roma e il nemico vinto. In questo senso preciso essi pacem dant ai vinti». Cfr. Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., p. 21 dell’estratto.

 

[38] j. Eckhel, Doctrina numorum veterum, VI, 236, 321, 372; j. Toutain, v. Pax, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, 4.1, Paris s.d., p. 363; j. Imbert, Pax Romana, in AA.VV., La paix. Recueils Bodin XIV, I, Bruxelles 1962, p. 316. Sulla connessione tra pax e victoria, vedi già Ovidio, Fast. 1.711-712; Trist. 3.1.43-44; Met. 15.591; Plinio, Nat. hist. 15.133. Fra la dottrina più recente, cfr. per tutti, C. Koch, v. Pax, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 18.2, Stuttgart 1949, coll. 2434 s.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 300 s.

 

[39] Per queste iscrizioni al dio Marte, vedi G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, p. 153; C. Koch, v. Pax, cit. in n. precedente, col. 2435; F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, cit., p. 601; e da ultimo R. Turcan, Immages et idées romaines de la paix, in Concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, Relazioni e comunicazioni, 1, cit., p. 69.

 

[40] Non vi è in ciò, per l’ideologia romana, alcuna contraddizione, come coglie assai acutamente D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., p. 293: «Niente di sinistro dunque comportava l’apertura del mundus, e niente di negativo, a meno di voler vedere la pace come la negazione della guerra. In tal senso, però, non dovremmo lasciarci guidare da un’etica irenista, ma dovremmo intendere il tutto nei termini della dialettica, più volte rilevata, tra il divenire (espresso soprattutto dalla guerra) e l’essere. La pax romana era sostanzialmente un "patto" con gli dèi (pax deorum), tra popoli, tra cittadini; ma un "patto" da conseguire, e se per conseguirlo con gli dèi bisognava operare ritualmente, per conseguirlo con i popoli bisognava operare bellicosamente, come pure si doveva lottare all’interno della città per ottenere il patto civile tra le sue componenti».

 

[41] Su questi termini vedi, per tutti, I. Lana, La pace nel mondo antico, cit., pp. 10 ss.; Id., La concezione della pace a Roma. Lezioni, cit., pp. 66 ss. (Cicerone), 71 ss. (Sallustio), 86 ss. (Virgilio). Più specificamente, riguardo alla concezione virgiliana di otium cfr. M. André, L’otium dans la vie morale et intellectuelle romaine, dès origines à l’epoque augustéenne, Paris 1966, pp. 511 ss.

 

[42] Si vedano, in tal senso, g. Funaioli, Virgilio poeta della pace, in AA.VV., Conferenze virgiliane, cit., p. 136; F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, cit., p. 616; da ultimo R. F. Rossi., v. Pace, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, p. 916. Quanto ai contenuti della pax, ne abbiamo un esempio in ciò che scrive, a proposito della fine delle guerre civili, dopo la vittoria ad Azio da parte di Ottaviano, Velleio Patercolo, Hist. Rom. 2.89.3-4: Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratum ad pristinum reductum modum; tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Rediit cultus agris, sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio; leges emendatae utiliter, latae salubriter, senatus sine asperitate nec sine severitate lectus.

Col consolidarsi del principato, l’impero e la stessa civiltà vengono identificati con la pax Romana; la mancanza di essa determina la condizione di barbarie per i popoli che non la praticano, come si evince da Seneca (il quale, peraltro, è stato il primo ad usare l’espressione pax Romana in luogo dell’usuale pax Augusta: così I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., p. 34 estratto), De providentia 4.14: gentes in quibus pax Romana desinit, Germanos dico et quidquid circa Histrum vagarum gentium occursat.

 

[43] Aen. 11.352-356; cfr. Servio, Ad Aen. 11.356: Aeterno foedere firmes natae scilicet coniunctione: nam munera et contemni poterant, generis vero coniunctione in aeternum pacis foedera firmabantur. Hoc autem dicto latentur etiam Latini pudorem exonerat, qui Turno etiam suam promiserat filiam, dicens causam reipublicae praeponderare debere et propter pacem civium Turno Aenean esse praelerendum.

 

[44] Cfr. soprattutto Livio 1.24.4-9; 30.43.9; ma anche Polibio 3.25.6-9; Cicerone, De leg. 2.21; Varrone, De ling. Lat. 5.86; Dionigi d’Alicarnasso 2.72; Plutarco, Num. 12.4-8; Svetonio, Claud. 25.5; Servio, Ad Aen. 1.62; Paolo, Fest. ep., p. 81 L. Fra la letteratura più recente, vedi per tutti J. Van Ooteghen, Le cérémonial romain d’un traité de paix, in Les études classiques 23, 1955, pp. 310 ss.; P. De Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 472 ss.; P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue historique de droit français et étranger 38, 1960, pp. 94 ss.; Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du “ius fetiale” à Rome, in ibid. 58, 1980, pp. 171 ss.; A. Valvo, Istituti di pace in Roma repubblicana, in AA.VV., La pace nel mondo antico, cit., pp. 155 ss.; G. Luraschi, ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, in AA.VV., Atti del III Seminario romanistico gardesano, cit., p. 298.

 

            [45] Aen. 12.195-200; cfr. 4.112; 8.640-641; 12.178; 496. Su Aen. 12.200, oltre l’importante commento di Servio (ad loc.: ‘Qui foedera fulmine sancit’ confirmat, sancta esse facit, quia cum fiunt foedera, si coruscatio fuerit, confirmantur: vel certe, quia apud maiores arae non incendebantur, sed ignem divinum precibus eliciebant, qui incendebat altaria. Sancire autem proprie est sanctum aliquid, id est consecratum, facere fuso sanguine hostiae: et dictum’ sanctum’ quasi sanguine consecratum), vedi E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939, p. 224; P. Boyancé, Fides et serment, ora in Id., Études sur la religion romaine, cit., pp. 100 ss.; R. Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo 30, 1967, p. 522; A. Wlosok, Vergil als Theologe: Iuppiter-pater onnipotens, in Gymnasium 90, 1983, p. 200; G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 547; Id., ’Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., p. 289; G. Freyburger, Fides. Etude sémantique et religieuse depuis les origines iusqu’à l’époque augustéenne, Paris 1986, p. 285.

 

[46] Aen. 8.639-641.

 

[47] Aen. 12.169-215. Dubita che il patto sia stato concluso T. E. Kinsey, Was there a treaty between the Troians and tbe Latins?, in Studi italiani di filologia classica 2 (3a ser.), 1984, pp. 240 ss.; per le diverse interpretazioni di questo foedus da parte della dottrina più recente, vedi G. Luraschi, ’Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., pp. 301 ss.

 

[48] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3a ed., Leipzig 1887, I, pp. 246 ss.; III, pp. 340 s., 1158 ss., 1166 s. (= Droit public romain, rist. an. Paris 1984. I, pp. 280 ss.; VI,1, pp. 389 s.; VII, pp. 378 ss., 386 s.).

 

[49] G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., p. 548; Id., ‘Foedus‘ nell’ideologia virgiliana, cit., p. 301.

 

[50] L. Lersch, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonn 1843, pp. 116 ss.

 

[51] Aen. 12.169-171. Cfr. L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 118; G. Luraschi, v. Foedus, cit., p. 548; Id., ’Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., p. 300: «Il sacerdote (che Virgilio non chiama fetialis semplicemente perché la parola non entra nell’esametro), laddove compare, si limita a condurre all’altare le vittime destinate al sacrificio».

 

[52] Aen. 10.15.

 

[53] Aen. 11.320-322.

 

[54] Aen. 12.13. Su questi e altri verba solemnia dello ius fetiale nell’epica virgiliana, si veda L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 116.

Precisi riferimenti ai riti dei feziali sembra avere anche Aen. 12.120 (Velati lino et verbena tempora vincti), come osserva Servio nel suo commento al verso (Verbena proprie est herba sacra, sumpta de loco sacro Capitolii, qua coronabantur fetiales et pater patratus, foedera facturi vel bella indicturi); cfr. anche L. Lersch, Op. cit., p. 117.

 

[55] Aen. 8.639-641. Cfr. L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 118; G. Luraschi, v. Foedus, cit., p. 548; Id., ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., p. 300. È stato già notato che nel testo di Virgilio la vittima immolata è una porca, in luogo del consueto porcus (cfr. Livio 1.24.9: Id ubi dixit, porcum saxo silice percussit; 9.5.3: ut eum ita Iuppiter feriat, quemadmodum a fetialibus porcus feriatur; Varrone, De re rust. 2.4.9: et quod initiis pacis, foedus cum fleritur, porcus occiditur). Gli stessi commentatori antichi non appaiono unanimi nello spiegare quest’anomalia virgiliana. Quintiliano, ad esempio, adduce quale motivazione l’eleganza del discorso: Inst. Orat. 8.3.18-19: Ut autem in oratione nitida notabile humilius verbum et velut macula, ita a sermone tenui sublime nitidumque discordat fitque corruptum, quia in plano tumet. Quaedam non tam ratione quam sensu iudicantur, ut illud “caesa iungebant foedera porca” fecit elegans fictio nominis, quod si fuisset “porco”, vile erat. Mentre Servio offre una giustificazione “teologica”: Ad Aen. 8, 64 1: Aut certe illud ostendit, quia in omnibus sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem litare non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non litassent, succidanea adhiberi non poterat.

 

[56] Aen. 12.107-109.

 

[57] Aen. 12.112.

 

[58] Aen. 7.339: dissice composita pacem, sere crimina belli; 12.821-822: cum tam conubiis pacem felicibus (esto) / component, cum iam leges et foedera iungent.

 

[59] Aen. 12.201-203; cfr. 11.356.

 

[60] Servio, Ad Aen. 7.266.

 

[61] In Virgilio il termine ricorre 39 volte, 2 nelle Georgiche e 37 nell’Eneide: cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Leipzig 1912 (rist. an. Hildesheim-New York 1969), p. 504; per un rapido sguardo d’insieme, vedi ora R.F. Rossi, v. Pace, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp. 915 s.

 

[62] Cicerone, Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabusque immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto; Livio 39.10.5: pacem veniamque precata deorum dearumque; Ovidio, Amor. 1.2.19: veniam pacemque rogamus. Cfr. inoltre Plauto, Merc. 678: Apollo, quaeso te ut des pacem propitius; Livio 1.16.3: pacem praecibus exposcunt; 3.7.8: veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt; 42.2.3: prodigia expiari pacemque deum peti precationibus, qui editi ex fatalibus libris essent, placuit; Seneca, Med. 595: Parcite o divi, veniamque precamur. Per un’ampia raccolta di fonti sul pacem deum petere degli uomini e sul pacem dare degli dèi, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedensgedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.

 

[63] Aen. 12.849-852.

 

[64] Tale espressione, nella sua forma arcaica pax divom o deum, risulta attestata in Plauto, Poen. 253: sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse?; Lucrezio, De rer. nat. 5.1229: non divom pacis votis adit, ac prece quaesit; Virgilio, Aen. 3.370: exorat pacem divom; Livio 3.5.14: His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur; 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam, urbem lectisternium fuit. Sull’autenticità e risalenza dell’espressione pax deum, si veda il recente saggio di M. Sordi, ’Pax deorum’ e la libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, cit., pp. 146 ss., in part. p. 147: «L’antichità della formula e la derivazione di pax dalla radice di pangere, che si ritrova nell’uso arcaico di pangere clavum, che Livio ricorda tra i piacula destinati, durante la pestilenza del 364 e del 364 varr., “pacis deum exposcendae causa” (Liv. VII, 2 e 3), mi induce ad avanzare l’ipotesi che pax deum sia addirittura all’origine del concetto romano di pax». Le conclusioni della studiosa non sono del tutto condivise da E. Montanari, Il concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum’, in Concezioni della pace, cit., p. 56: «In definitiva, la principale obiezione che riteniamo di muovere all’interpretazione della Sordi, concerne il suo tentativo di dimostrare l’anteriorità genetica del concetto religioso di pax deorum rispetto al concetto politico-giuridico di pax. Ci sembra più opportuno parlare di concomitanza tra simili valenze: sia perché si rischierebbe altrimenti di postulare una categoria a-priori di "religione", anteriore e ben distinta rispetto a quella di “diritto”, cosa difficilmente proponibile per la Roma arcaica; sia perché, sovente, tanto le situazioni da espiare quanto gli operatori scelti per l’espiazione implicano non soltanto un prodigium, segno della deorum ira, ma anche un elevato grado di tensione politico-sociale; sia perché ogni pax giuridica avente pubblica rilevanza è comunque pronunciata sotto la tutela dei di testes foederis ed, anzitutto, di Giove».

 

[65] Cfr. P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, p. 49: «Pax deorum è la situazione per cui gli dèi sono in amicitia con gli uomini, ai quali concedono i benefici che essi si aspettano da loro» (= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, p. 224).

 

[66] L’espressione è del Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 50, per il quale «Legalismo religioso è l’insieme delle regole che insegnano a mantenere la pax deorum» (= Scritti di diritto romano, I, cit., p. 225).

 

[67] Questo spiega, tra l’altro, l’attenzione precisa e minuziosa dell’annalistica romana, erede diretta dell’attività “storiografica” del collegio pontificale (su tale attività e sull’influenza di essa per il formarsi della tradizione annalistica, vedi da ultimo B. W. Frier, ‘Libri Annales pontificum Maximorum’: the origins of the Annalistic Tradition, Papers and Monographs of the American Academy in Rome, Vol. XXVII, Roma 1979), nel documentare i fatti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i rimedi rituali posti in essere per espiare. Cfr., giusto a titolo d’esempio, Livio 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8. Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell’opera liviana, certo improntati ‑ direttamente o indirettamente ‑ agli Annales Maximi, vedi E. De Saint-Denis, Les énumerations de prodiges dans l’oeuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16, 1942, pp. 126 ss.; J.Ph. Packard, Official notices in Livy’s fourth decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, pp. 125 ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in Classical Quarterly 21, 1971, pp. 158 ss.

 

[68] In questo senso, C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932 (rist. Westport, Conn. 1972), p. 76: «Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult. recognized four means (caerimoniae) for securing and maintaining the pax deorum, the relation of kindliness between gods and men».

 

[69] Tale sistematica giurisprudenziale dello ius publicum, sebbene citata esplicitamente solo nel celebre e discusso passo delle Institutiones di Ulpiano in D. 1.1.1.2 (Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit), si trova tuttavia sottesa anche nel De legibus ciceroniano (cfr. 2.19 ss.; 3.6 ss.); può perciò sostenersi con buone ragioni che si tratta «di una suddivisione propria della giurisprudenza repubblicana, tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»: così P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi Grosso, VI, Torino 1974, p. 676; nello stesso senso C. Nicolet, Notes complémentaires, in Polybe, Histotres, Livre VI, a c. di R. Weil, Paris 1977, 149 s.; cfr. anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 213 s.

In questa prospettiva mi pare debbano essere superate sia affermazioni contrarie alla genuinità del frammento di Ulpiano, (E Schulz, I principii del diritto romano, cit., p. 23 n. 33; U. Von Lübtow, Das römische Volk, Frankfurt am Main 1955, p. 618), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premesse allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p. 192 n. 295); cfr., fra gli altri, G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano; vedi infine G. Aricò Anselmo, “Ius publicum-ius privatum” in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo 37, 1983, pp. 447 ss., in part. pp. 461 ss.

 

[70] Aen. 3.259-262.

 

[71] R. G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber tertius, Oxford 1962, p. 109: «votis ... exposcere pacem: this is a religious formula».

 

[72] Servio, Ad Aen. 3,261.

 

[73] Georg. 4.534-535; da notare che Servio interpreta pax nel senso di beneficium, benevolentia (Ad Georg. 4, 534).

 

[74] Aen. 4.56-59. Anche in questo caso Servio, Ad Aen. 4.56, rende pace con benevolentia: per un esauriente commento del v. 56, vedi A. S. Pease, P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, cit., p. 132.

 

[75] G. Appel, De Romanorum precationibus (Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten, VII, 2), Gissae 1909 (rist. an. New York 1975), p. 200: «Quae praecipue indicantur supplex vocabulo passim in scriptoribus invento. Ac supplex vocari potest hostis victus, qui ad pedes victoris prostratus manibus sublatis vitam rogat». Quanto poi al rapporto tra supplex e supplizio nella poesia di Virgilio, vedi ora, brevemente, M. Massenzio, v. Supplex/supplicium, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 1085 s.

 

[76] Aen. 3.369-373. Sul testo vedi C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, p. 47.

 

[77] Cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, cit., p. 504.

 

[78] Servio, Ad Aen. 3.370: ‘Exorat pacem divum’ aut de sacrificantum more requirit, utrum tempus consulendì esset; nam et boc vehementer quaeritur, ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est, de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad vaticinationem. Ut autem hic expiatam famen intellegamus sequens efficit locus, ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco ‘exorat’ facit; nam ‘orare’ est petere, ‘exorare’ impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus, aut ad mitigandum famis periculum.

 

[79] Aen. 10.31-35. Assai significativo quanto scrive M. Viano, Contributo alla storia semantica della famiglia latina di “pax”, cit., p. 5: «Analogamente il concetto espresso dal termine paśe è vicinissimo a quello della pax deorum, così frequente in tutta la tradizione letteraria latina. Tra i numerosi esempi che ci sono forniti in particolare da autori di indiscussa autorità in materia di tradizione sacrale, basta ricordare Verg. Aen X, 31... che presenta una costruzione perfettamente analoga a quella della formula umbra» (sulla formula d’invocazione futu fos pacer paśe tua, a cui si riferisce la Viano, vedi G. Devoto, Tabulae Iguvinae, 2a ed., Roma 1940, pp. 187 ss.). Alquanto riduttiva l’interpretazione proposta da E. Paratore, Virgilio, Eneide, V (Libri IX-X), Milano 1982, p. 217, per il quale «pace: indica il consenso».

 

[80] Servio, Ad Aen. 10.31: ‘Si sine pace tua’ si sine tua benevolentia, ut orantes pacem, veniamque precantes, item exorat pacem divum: ergo ‘pace’ benevolentia, suffragio. Dicendo autem, si ad Italiam sine deorum voluntatem venerunt, dent poenas, ostendit statum esse absolutum.

 

[81] Servio, Ad Aen. 10.32 (Luant id est absolvant); cfr. Livio 29.18.9: Quibus, per vos fidemque vestram, patres conscripti, priusquam eorum scelus expietis, neque in Italia neque in Africa quicquam rei gesseritis, ne, quod piaculi commiserunt, non suo solum sanguine, sed etiam publica clade luant. Per gli impieghi virgiliani del verbo, cfr. R. M. D’angelo, v. Luo, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., p. 281 s.

 

[82] Cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, cit., p. 504.

 

[83] Sulle implicazioni più generali di questi versi, si veda G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968, p. 357.

 

[84] E. Paratore, Virgilio, Eneide, VI (Libri XI-XII), Milano 1983, p. 240.

 

 

[85] B. Tilly, Vergil’s Latium, Oxford 1947, pp. 46 ss., ritiene che il personaggio fosse sacerdotessa del tempio di Giunone di Ardea; brevemente, vedi anche T. Gargiulo, v. Calibe, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, p. 616. Fin da Omero, l’apparizione di una divinità sotto mentite spoglie ad un personaggio che dorme, allo scopo di comunicare con lui, è un espediente epico abbastanza tradizionale: per i precedenti omerici e la loro influenza su Virgilio, cfr. h.r. steiner, Der Traum in der Aeneis, (Diss. Bern), Bern-Stuttgart 1952, pp. 62 ss.

 

[86] Aen. 7.421-426. Più in generale, sul ruolo della furia Alletto nel poema virgiliano si vedano: M. von Duhn, Die Gleichnisse in der Allectoszenen des 7. Buches von Vergils Aeneis, in Gymnasium 64, 1957, pp. 59 ss.; B. Otis, Virgil. A study in civilized poetry, Oxford 1963, pp. 320 ss.; G. Garuti, v. Alletto, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 112 s.; da ultimo J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., pp. 270 s.

 

[87] Aen. 11.108-111.

 

[88] Cfr. Aen. 12.111-112.

 

[89] Aen. 4.618-620. Cfr. Servio, Ad Aen., 4, 618: Pacis iniquae ut supra diximus, propter perditam linguam, babitum, nomen, quae solet victor imponere, sicut in XII postulat Iuno; nello stesso senso A. S. PEASE, Publi Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, cit., p. 490; A.-M. Guillemin, Virgile, énéide, livre IV, Paris 1935, p. 74; R. G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneldos liber quartus, 6a ed., Oxford 1982, p. 180. Di avviso differente si mostra E. Paratore, Virgilio, Eneide, II (Libri III‑IV), Milano 1978, p. 238, per il quale «forse è meglio ravvisare l’eco delle leggende relative allo stato ancora incerto in cui Enea morendo avrebbe lasciato la situazione».

 

[90] Aen. 12.187-191. R. Syme, La rivoluzione romana, trad. it., Torino 1962 (rist. 1974), p. 467, riferisce i versi ad Augusto: «Il suo trionfo non portava una dominazione personale, ma l’unità fra Roma e l’Italia, la riconciliazione finale». Anche J. Perret, Le serment d’Enée (Aen. XII, 188-194) et les événements politiques de janvier 27, in Revue des études latines 47 bis (= Mélanges M. Durry), 1969, pp. 277 ss., ritiene che il brano si ispirasse alla politica di conciliazione praticata da Ottaviano nel 27 a.C.

 

[91] Livio 34.57.7-9: Esse autem tria genera foederum, quibus inter se paciscerentur amicitias civitates regesque: unum, cum bello victis dicerentur leges; ubi enim omnia ei, qui armis plus posset, dedita essent, quae ex iis habere victos, quibus multari eos velit, ipsius ius atque arbitrium esse; alterum, cum pares bello aequo foedere in pacem atque amicitiam venirent; tunc enim repeti reddique per conventionem res et, si quarum turbata bello possessio sit, eas aut ex formula iuris antiqui aut ex partis utriusque commodo componi; tertium esse genus, cum, qui numquam hostes fuerint, ad amicitiam sociali foedere inter se iungendam coeant; eos neque dicere nec accipere leges; id enim victoris et victi esse (sul testo liviano J. Briscoe, A commentary on Livy. Books XXXIV-XXXVII, Oxford 1981, pp. 138 s.); D. 49.15.7.1 (Proculo, Libr. VIII epist.): Liber autem populus est is, qui nullius alterius populi potestate est subiectus: sive is foederatus est item, sive aequo foedere in amicitiam venit sive foedere comprehensum est, ut is populus alterius populi maiestatem comiter conservaret. Cfr. Cicerone, Pro Balbo 35.

La distinzione tra foedera aequa e iniqua è tradizionalmente accettata dalla dottrina dominante: cfr., per tutti, P. Bonfante, Storia del diritto romano, rist. della 4a ed., Milano 1958, pp. 230, 254 ss.; P. De Francisci, Storia del diritto romano, rist. Milano 1943, p. 339; G. Grosso, Lezioni di storia del diritto romano, 5a ed., Torino 1965, pp. 238 s.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, pp. 73, 108 s.; P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 2a ed., Roma 1974, p. 217; A. Guarino, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1987, pp. 105, 223, 225; F. Cassola-L. Labruna, in M. Talamanca (a cura di), Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, p. 260. Tuttavia di recente non sono mancate critiche e rifiuti cfr., in tal senso, K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, p. 92 s. (con bibliografia precedente); e da ultimo G. Luraschi, ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., pp. 295 ss. (ivi altra bibliografia).

 

[92] Aen. 11.411-414.

 

[93] Aen. 7.152-155; cfr. Aen. 11.227-230: nihil omnibus actum tantorum impensis operum, nil dona neque aurum / nec magnas valuisse preces, alia arma Latinis / quaerenda aut pacem Troiano ab rege petendum.

 

[94] Aen. 10.80: pacem orare manu, praeligere puppibus arma?

 

[95] Aen. 8.114-116: Qui genus? unde domo? pacemne huc fertis an arma? / Tum pater Aeneas puppi sic fatur ab alta / paciferaeque manu ramum praetendit olivae (cfr. Servio Dan., Ad Aen. 8.116: Quoniam Pallas prius de pace quaesierat. Et ideo mox signum pacis ostendit, ut cetera Pallas securus audiret; K.W. Gransden, Virgil Aeneid, book VIII, Cambridge 1976, p. 97); Aen. 11.100-101: Iamque oratores aderant ex urbe Latina, / velati ramis oleae veniamque rogantes. Perciò la pianta dell’olivo è detta placitam Paci in Georg. 2.425 (Hoc pinguem et placitam Paci nutritor olivam); più in generale vedi ora G. Maggiulli, v. Olivo, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp. 836 ss.

 

[96] Aen. 8.314-327. Per l’analisi del testo virgiliano e delle relative implicazioni ideologiche, politiche e religiose si vedano, fra gli altri: I.S. Ryberg, Vergil’s Golden age, in Transactions and Proceedings of the American Philological Association 89, 1958, pp. 112 ss.; H. Reynen, Ewiger Frühling und goldene Zett. Zum Mythos des goldenen Zettalters bei Ovid und Vergil, in Gymnasium 72, 1965, pp. 415 ss.; G. Binder, Aeneas und Augustus. Interpretationen zum 8. Buck der Aeneis, Meisenheim am Glan 1971, pp. 84 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, IV (Libri VII-VIII), Milano 1981, pp. 255 ss.; A. Novara, Poésie virgilienne de la mémoire. Questions sur l’histoire dans l’énéide 8, Clermont-Ferrand 1986, pp. 72 ss.; K.D. Bracher, Verfall und Fortschritt in Denken der frühen römischen Kaiserzeit, Wien-Köln-Graz 1987, pp. 282 s.

 

[97] Tale connessione risulta ben compresa da F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, cit., pp. 621 s., il quale scrive: «mos und cultus, leges, aurea saecula, placida populos in pace regebat: das sind Grundworte der Rom-Idee Virgils».

 

[98] Per quanto riguarda Saturno, divinità che «anche nell’Eneide, non perde del tutto le caratteristiche palingenetiche che gli erano attribuite nelle Bucoliche» (E. Montanari, v. Saturno, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., p. 688), e l’utilizzazione del suo mito nella poesia virgiliana, vedi: W.S. Anderson, Iuno and Saturn in the Aeneld, in Studies in Philology 55, 1958, pp. 519 ss.; M. Bollack, Le retour de Saturne, in Revue des études latines 45, 1967, pp. 304 ss.; A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, 2a ed., Roma 1976, pp. 92 s.; P.A. Johnston, Vergil’s Conception of Saturn, in California Studies in Classical Antiquity 10, 1977, pp. 57 ss.; Ead., Vergil’s agricultural Golden Age. A study of tbe Georgics, Leiden 1980, pp. 62 ss.; C. Guittard, Saturnia terra, mythe et réalité, in Caesarodunum 15 bis, 1980, pp. 177 ss.; M.W. Schiebe, The Saturn of the Aeneid. Tradition or innovation?, in Vergilius 32, 1986, pp. 43 ss.

Sul carattere originario della divinità e sulla sua trasfigurazione teologica, dovuta forse alla contaminazione col Crono ellenico, vedi invece G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 204 ss.; E. Manni, A proposito del culto di Saturno, in Athenaeum 16, 1938, pp. 223 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, pp. 173 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 254 s.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, pp. 281 s. (= La religione romana arcaica, Milano 1977, pp. 244 s.); C. Guittard, Recherches sur la nature de Saturne dès origines à la réforme de 217 avant J.-C., in R. Bloch e altri, Recherches sur les religions de l’Italie antique, Genève 1976, pp. 43 ss.

 

[99] Cfr. in tal senso V. Buchheit, Vergil über die Sendung Roms. Untersuchungen zum Bellum Punicum und zur Aeneis (Gymnasium, Heft 3), Heidelberg 1963, pp. 92 s.; G. Binder, Aeneas und Augustus, cit., pp. 95 ss. A ben vedere la placida pax non significa semplicemente l’assenza della guerra, quanto piuttosto l’instaurazione di un perfetto ordine sociale; è sostanzialmente questo il motivo per cui nell’ideologia virgiliana (Aen. 8.319 ss.) si configura «la rappresentazione dell’età di Saturno come successiva a quella selvaggia dell’uomo, giusta la descrizione del Lazio arcaico fatta da Evandro»: M. Pavan, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit. p. 417.

 

[100] Vedi supra, cap. IV, pp. 225 s.

 

[101] Il grammatico Servio e il Servio Danielino fanno derivare l’enunciazione virgiliana dalla dottrina esiodea: Servio, Ad Aen. 8.326: Decolor aetas vitiosa, quae decoloraret veteres mores: in omni enim vitioso corpore inest pessimus color. Et adludit ad naturam metalli, quam cernimus discolorem: nec immerito; supra enim dixerat ‘aurea saecula’, ideo nunc dixit ‘aetas decolor’, (Servio Dan.) id est aurea et ferrea, sicuti Hesiodus dicit. Sane ‘decolor aetas’ quis ante hunc? Sulla successione delle cinque età teorizzata da Esiodo e sulla concezione della storia umana come processo di degenerazione, vedi lo studio di B. Gatz, Weltalter, goldene Zeit und sinnverwandte Vorstellung (Spudasmata, Band XVI), Hildesheim 1967, pp. 35 ss.; e ora, brevemente, anche M. Pavan, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 412 s.

 

[102] Proprio riguardo allo ius naturale, P. Catalano, v. Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., p. 762, indica nei versi Aen. 8.319 ss. «lo schema argomentativo della teoria dello ius naturale che riconduce tale ius ad un inizio felice della storia degli uomini, anteriore cioè alle lotte e alle divisioni prodotte dalla società»; schema che troviamo in diversi testi giuridici confluiti nella compilazione giustinianea. Cfr. D. 1.1.4 (su cui vedi O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, col. 927 fragm. 1912; C. A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, p. 167; G. Lombardi, Sul concetto di “ius gentium”, Milano 1947, p. 205; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo, mezzi e fini, cit., p. 193; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, p. 318; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la iurisprudence romaine des IIe et IIIe Siècles, in Studia et documenta historiae et iuris 47, 1981, p. 249); D. 40.11.2; Inst. 1.2.2 (sul passo delle istituzioni giustinianee vedi, fra gli altri: L. Lantella, Il lavoro sistematico nel diritto romano, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, p. 219; F. Goria, Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali del principato, ibid., pp. 372 ss.); Nov. 74.1; 89.1 (sulle due costituzione cfr. C. Castello, Il pensiero giustinianeo sull’origine degli “status hominum”, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, pp. 197 ss.).

 

[103] La visione storica che unisce i giuristi classici e Virgilio si coglie pienamente nel noto frammento del libro I iuris epitomarum di Ermogeniano, relativo allo ius gentium: D. 1.1.5: Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi, aedificia collocata, commercium, emptiones venditiones, locationes conductiones, obligationes institutae: exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt. Il nesso causale, sotteso nel testo del giurista classico, tra lo ius gentium e la fine dell’età dell’oro è evidenziato da Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe siècles, cit., pp. 248 s.: «Un des derniers jurisconsultes classiques, Hermogenien, dans un texte très général, véritable résumé de la dernière philosophie sociale grecque, qui pour le lecteur du XXe siècle semble surtout annoncer étrangement le "Contrat social" de Rousseau, présente l’apparition du ius gentium comme la fin de l’âge d’or: la guerre, la diversité des nations, l’existence de l’état, la propriété divise du sol, la vie des affaires naissent avec le ius gentium, forme première du ius civile».

Contro l’attendibilità del frammento si schiera G. Lombardi, Il concetto di “ius gentium”, cit., pp. 260 ss., con critica all’interpretazione del Savigny; ma in altro senso vedi C. Castello, Il pensiero giustinianeo sull’origine degli “status bominum”, cit., pp. 214 ss.

 

[104] Per un rapido inquadramento delle varie tradizioni mitologiche legate alla figura del re Latino, vedi J.A. Hild, v. Latinus, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines 3.2, Paris 1904, pp. 980 ss.; W. Schur, v. Latinus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 12.1, Stuttgart 1924, coll. 928 ss.; R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, p. 34 (con particolare riferimento alla “versione” catoniana); A. Alföldi, Die Penaten, Aeneas und Latinus, in Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts (Röm. Abt.) 78, 1971, pp. 1 ss.; V.J. Rosivach, The Genealogy of Latinus and the palace of Picus, in Classical Quarterly 30, 1980, pp. 140 ss.; Id., v. Latino, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp. 131 ss.

 

[105] Aen. 7.45-46; sui versi vedi il commento di E. Paratore, Virgilio, Eneide, IV, cit., pp. 132 ss. Alla «Deutung der Gestalt des Latinus in Buch 7» dedica alcune belle pagine V. Buchheit, Vergil über die Sendung Roms, cit., pp. 86 ss. (per l’analisi dei vv. citati p. 92), il quale non trascura di evidenziare il rapporto che Virgilio tende ad instaurare, proprio attraverso la pace, tra Latino e Augusto: «Das heisst für Vergil, der durch sein ganzes Lebenswerk hindurch mit den Vorstellungen der aetas aurea arbeitet und ihre Wiederkehr in der aetas Augusta feiert, dass Latinus und sein Wirken ein Abbild des Augustus und der durch ihn heraufgeführten Friedenszeit darstellen, dass also ein grosser Bogen gespannt ist, der die gesamte römische Geschichte zu einer Einheit verschmilzt, an deren Anfang und Ende der Frieden einer aetas aurea steht. Es führte hier zu weit zu zeigen, dass Vergil die römische Geschichte in der Tat in dieser Weise zeichnet: man braucht nur zu beachten, dass die Bücher 7 und 8 der Aeneis genau diesen Kreis beschreiben: von Saturn-Latinus, den Friedensfürsten, zu Augustus, dem Befreier des orbis durch den Sieg von Actium, eine Oberschau über die römische Geschichte, wie sie grossartiger vor und nach Vergil nicht mehr gestaltet worden ist» (p. 93).

Una diversa interpretazione del testo è offerta da G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, cit., p. 360, per il quale il re Latino e il popolo latino sarebbero nel contesto virgiliano rappresentanti della terza funzione: «Considérons d’abord Latinus et son peuple latin. Beaucoup de traits font d’eux, par-delà leur rôle précis ‑ donner aux Troyens une terre et à Ėnée une femme –, les représentants généraux de la "troisième fonction" dans ce qu’elle a partout de plus apparent, dans ce que la légende romuléenne attribue aux Sabins: la prospérité, la richesse et aussi, avant les combats, la paix et le goût de la paix».

 

[106] Aen. 1.286-290. Sulla base del commento di Servio (Ad Aen. 1.286: Caesar hic est, qui dictus est Gaius Iulius Caesar. Gaius praenomen est, Iulius ab Iulo, Caesar vel quod caeso matris ventre natus est, vel quod avus eius in Africa manu propria occidit elephantem, qui caesa dicitur lingua Poenorum) e del Servio Danielino (Ibid.: Hic sane Gaius Iulius Caesar quattuor et sexaginta victis Galliarum civitatibus cum a senatu petisset consulatum et triumphum nec impetrasset adversante Cn. Pompeio magno eiusque amicis, qui Caesaris processibus invidebant, bellum civile gessit in Farsalia, quo Pompeius victus Alexandriae occiditur. Caesar Romam compositis rebus et Alexandria debellata reversus in curia Pompeiana a Cassio et Bruto aliisque Pompeianis occisus est. Cuius heres Augustus cum intrasset urbem coegit a senatu interfectores Caesaris parricidas et hostes iudicari, eumque in deorum numerum referri et divum appellari.) si discute tra gli studiosi sull’identità del Caesar menzionato nel verso 1.286. Alcuni dubitano che si tratti di Augusto e pensano piuttosto a C. Giulio Cesare, come del resto il testo di Servio sembra suggerire (così, ad esempio, R.S. Conway, P. Vergili Maronis Aeneidos liber primus, cit., pp. 65 s. Favorevole all’identificazione con Augusto è invece E. Paratore, Virgilio, Eneide, I, cit., pp. 174 s., il quale osserva, fra l’altro, che nell’Eneide «l’unica volta in cui il personaggio di Cesare compare indiscutibilmente è per sentirsi rimproverare di aver scatenato la guerra civile». Nello stesso senso vedi J. Perret, Virgile, Enéide, I, (Livr. I-IV), 2a ed., Paris 1981, p. 146: «En 20 comme déjà en 29, Caesar” est celui que nous appellons Auguste»; sarebbe infatti assai sorprendente ‑ a parere dello studioso francese ‑ che la profezia di Giove menzionasse Cesare, e non Augusto, come ultimo rappresentante della discendenza troiana. Anche per J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans Énéide de Virgile, cit., p. 248: «Auguste apparaît ainsi comme l’heureux aboutissement, et la justification, des siècles qui le précèdent. En retour, il est étroitement solidaire et dépendant de toute l’histoire romaine, dont il hérite, et même de l’histoire du monde. Virgile reste fidèle ici au principe consistant à immerger profondément Auguste dans l’histoire et la légende».

 

[107] Aen. 6.788-795. è opinione del Paratore, Virgilio, Eneide, III, cit., pp. 345 s., che fin dal Caesar del v. 789 il poeta si riferisca ad Ottaviano; solo nei vv. 826 ss., Cesare viene indicato da Anchise «per la prima volta accanto a Pompeo dopo una lunga serie di altri personaggi; ciò non sarebbe possibile se Anchise l’avesse additato ora. Perciò, modificando la nostra esegesi precedente, proponiamo di scorgere già Augusto in Caesar, collegando Hic Caesar con Hic vir, hic est... Augustus Caesar dei vv. 791-2». Nello stesso senso, vedi già E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, cit., pp. 322 ss., il quale sottolinea anche la valenza religiosa della formula condere saecula, utilizzata da Virgilio nei vv. 792-93 per qualificare l’azione politica di Augusto.

Sempre a proposito dei versi citati, R. Syme, La rivoluzione romana, cit. p. 465, ne rileva il valore politico in riferimento all’azione di Augusto, raffigurato non tanto nella sua qualità di conquistatore del mondo, bensì come «il futuro instauratore della nuova era»; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, cit, pp. 243 S., ipotizza che la nuova età aurea rimandi alle riforme sociali, religiose e morali varate da Augusto tra il 28 e il 18 a.C. e culminate nella celebrazione dei Ludi Saeculares di quest’ultimo anno. Infine, vedi anche B. Otis, Virgil. A study in civilized poetry, cit., pp. 302 s.; V. Pöschl, Virgil und Augustus, cit., pp. 711 ss.; J.- J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans Énéide de Virgile, cit., p. 251.

 

[108] Questo aspetto è colto, con felice sintesi, da M. PAVAN, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 418: «Ma Augusto, e cioè l’Ottaviano che in G. 2,171-2 tiene lontano dall’arce romana l’imbelle Indo, ora è ancora elogiato perché super et Garamantas et Indos / proferet imperium. Questo restauratore dell’età a(urea) di pace può essere esaltato per le sue imprese di guerra solo nel concetto che l’imperium, che egli estenderà, non soltanto salvaguarderà la sua sussistenza e quindi la pace stessa dei Romani ma solo nella sua massima estensione potrà assicurare una pace universale, una pace che per essere tale ha bisogno di un mos».

 

[109] Aen. 6.851.

 

[110] Leggono il verso soprattutto come indicazione di “doveri” F. Fabbrini, L’impero di Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano 1974, p. 115 («è questo il senso del “regere imperio populosvirgiliano: non già un’esortazione imperialistica, bensì l’indicazione dei doveri che, per vincolo di clientela incombevano sul patrono. Quel regere ha più il significato di “sostenere” e “difendere” che non quello di comandare»); S. D’elia, Lettura del sesto libro dell’Eneide, in M. Gigante, (a cura di), Lecturae Vergilianae, III. L’Eneide, cit., p. 217 («Il famoso tu regere imperio populos, Romane, memento non è un’esaltazione, ma la formulazione di una legge morale che è nello stesso tempo religiosa, eppure si risolve, tutta e integralmente, sul piano della storia»); da ultimo, G. Luraschi, Foedus’ nell’ideologia virgiliana, cit., p. 297 («Trovava così piena realizzazione la profezia di Anchise che assegnava all’Urbe il destino di regere imperio populos e di paci imponere mores; anche se bisogna riconoscere che Virgilio interpreta a suo modo tale destino: quella del poeta non vuole essere una esortazione imperialistica o una compiaciuta constatazione della "grandeur" di Roma, ma piuttosto una indicazione dei doveri che incombono sulla domina gentium, primo fra tutti quello di creare le condizioni politiche e giuridiche per una pace duratura ed universale»).

 

[111] Aen. 1.291-296. Nella prospettiva virgiliana l’attività dei nuovi Romolo e Remo (che Servio, Ad Aen. 1.292, intende nel senso di Augusto e Agrippa: questa interpretazione, già accettata dal Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, cit., p. 745 n. 2 = Droit public romain, V, cit., p. 2 n. 1, non appare inverosimile a G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 269 = La religione romana arcaica, cit., p. 234; J. Perret, Virgile, Énéide, I, cit., p. 146; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans Énéide de Virgile, cit., p. 80 n. 99) si presenta chiaramente proiettata verso la nuova età dell’oro: A. Novara, Poésie virgilienne de la mémoire. Questions sur l’histoire dans l’Énéide 8, cit., p. 13: «au chant I le poète avait mise dans la bouche de Jupiter au cours de ses révélations à Vénus sur les destinées romaines, avec l’annonce des triomphes d’Auguste et de la domination universelle réalisée, celle d’un temps de paix, comme seul l’âge d’or en jouit, toutefois le père des dieux n’avait pas usé du qualificatif». Cfr. anche A.M. Guillemin, L’unité de l’oeuvre virgilienne, in Revue des études latines 26, 1948, pp. 194 s.; V. Buchheit, Der Anspruch des Dichters in Vergils Georgika. Dichtertums und Heilsweg, Darmstadt 1972, pp. 178 s.; J. Beaujeu, Le frère de Quirinus (à propos de Virgile, Énéide I, 292 et de Properce IV, 1, 9), in Mélanges de philosophie, de littérature et d’histoire ancienne offerts à P. Boyancé, Roma 1974, pp. 57 ss.; V. Pöschl, Virgil und Augustus, cit., pp. 715 s.

Quanto poi alla connessione di Fides e Vesta con Iuppiter, vedi A. Wlosok, Vergil als Theologe: Iuppiter pater onnipotens, cit., pp. 197 ss.; sul significato di dare iura vedi invece G. Binder, Aeneas und Augustus. Interpretationen zum 8. Bucb der Aeneis, cit., p. 210; P. Catalano, v. Ius, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., pp. 66 s.

 

[112] Ricalco quest’espressione dal titolo del saggio di P.A. Carnemolla, Storia e profezia in La Pira e nuova Europa, in Aggiornamenti sociali 41, n. 11, nov. 1990, pp. 679 ss.; in questo saggio si discute, fra le altre cose, anche l’intervento a Sofia del 27 aprile 1972, in cui «La Pira delineò a grandi linee i pilastri su cui doveva svilupparsi tutta l’Europa “dall’Atlantico agli Urali”, includendo anche il Mediterraneo e il lago di Tiberiade» (p. 688). In quell’occasione l’illustre romanista prefigurò anche il ruolo del Continente Europeo nella futura civiltà della pace, la quale «troverà di nuovo in Europa (nell’Europa purificata dall’egoismo e posta al servizio di tutti i popoli) le tre fondamentali ed infrangibili pietre su cui edificarsi: la pietra profetica, di cui sono insieme, attraverso i Profeti di Israele e attraverso i successori di Pietro, immagini viventi Gerusalemme e Roma; la pietra metafisica, di cui è immagine, specie attraverso Aristotele ed Euclide, Atene, ordinatrice dell’intelletto; la pietra giuridica, di cui è immagine, specie attraverso Augusto e i giuristi romani, Roma, unificatrice dei popoli» (G. La Pira, Il sentiero di Isaia, Firenze 1978, p. 537).

 

[113] G. La Pira, Il sentiero di Isaia, cit., p. 625 «L’età di Augusto ci appare infatti come un momento privilegiato nella storia del mondo in cui per la prima volta i popoli si trovano pacificati e viene stabilito uno stato di cose che Virgilio non esita a paragonare alla mitica “età dell’oro”. Nell’ecloga IV c’è la percezione della grandezza di quest’epoca: “nasce una nuova e grande età”».

 

[114] Sugli anni fiorentini più fecondi del La Pira “giurista”, è possibile ora leggere alcune pagine nel libro di P. Grossi, Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana, 1859-1950, Firenze 1986, pp. 99 ss., 115 ss., 198 ss., a cui rimando per altra bibliografia.

 

[115] G. La Pira, Il sentiero di Isaia, cit., p. 625: «Cosa ha fatto di grande dunque Augusto? Perché la sua epoca è ricca d’ispirazione anche per oggi: non nel senso del ritorno al passato (Perché non ha senso nella storia tornare indietro), ma per cogliere i valori e gli sforzi che possono essere attuali? Augusto ha fatto la pace universale. Su tutte le frontiere di quel tempo c’è la pace: l’Ara Pacis (la Cattedrale della pace) ne è lo stupendo documento. Il tempio di Giano, il dio della guerra viene chiuso: è simbolico e significativo: dopo secoli di lotte finalmente regna la pace. Ciò che interessa è però che questa pace non è casuale o un fatto puramente sentimentale, è invece un organismo strutturato dal diritto. Gli stati, le nazioni si forgiano per fare l’unità del mondo. è il più grande capolavoro giuridico e politico che si sia mai avuto nella storia del genere umano: Roma diviene il “tempio della giustizia” e il diritto romano regola i rapporti fra gli uomini e gli stati».

 

[116] G. La Pira, Op. cit., p. 589.