Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-8
A quibus iura civibus praescribebantur – Parte I – Cap. II
LA
PALINGENESIA IURIS CIVILIS DI OTTO
LENEL: OMISSIONI E IDEOLOGIA
Sommario:
1. Cultura e ideologia delle omissioni leneliane:
«Staatsrecht» e separazione di «sacro\pubblico\privato» nella pandettistica
tedesca. – 2. «Omissa sunt quaecumque sive ius
publicum sive sacrum spectant fragmenta extra digesta tradita»: il programma.
– 3. Canoni palingenetici e logica delle
omissioni. – 4. Tra omissioni di testi ed
esclusioni di giuristi. A) I frammenti di C. Elio Gallo. – 5.- B) L'esclusione di Lucio Cincio.
Ancora
nella prima metà dell'Ottocento, il concetto di «Römische Altertümer»
comprendeva tutto ciò che non riguardava il diritto privato. Pertanto, anche
gli studi romanistici in materia di ius
publicum e di ius sacrum si
presentavano improntati ad un metodo d'indagine, che potremo definire
"antiquario'': di norma, mancava in tali studi l'analisi dei fattori che
presiedevano alla formazione del diritto, a cominciare dalle forze sociali;
generalmente mancava anche, o si presentava fortemente limitata, la scansione
temporale dello sviluppo storico; infine, l'esposizione delle materie procedeva
seguendo un sistema ordinatorio, improntato a quella che Yan Thomas chiama
«logique de la contiguïté»[1].
[p. 38]
Per
quanto temperato dalla rinnovata storiografia critica del Niebuhr[2],
il metodo "antiquario" influenzava
[p.
39]
ancora
in larga parte il più grande trattato sulle istituzioni romane pubbliche e
private, prodotto dalla scienza romanistica tedesca anteriormente alla
fondazione del «Römisches Staatsrecht»: intendo riferirmi al Handbuch der römischen Alterthümer di W.
A. Becker e J. Marquardt, nove densi volumi pubblicati tra il 1843 e il 1867,
in cui i due grandi studiosi lumeggiarono con mirabile sintesi gli immensi
campi della topografia antica, delle istituzioni politiche di Roma,
dell'amministrazione dell'Italia e delle province, dell'organizzazione fiscale
e finanziaria, delle strutture militari, della religione romana e delle
"antichità private''[3].
Del
resto, neppure il contemporaneo fiorire della "Scuola storica del
diritto''[4],
che proprio in quegli anni
[p.
40]
andava
rimodellando contenuti e metodi per lo studio del diritto privato romano, aveva
contribuito ad avviare nuovi processi culturali verso la conoscenza storica
moderna del diritto pubblico romano.
Sulle
cause di questo ritardo mi sembrano convincenti le ragioni addotte da V.
Giuffrè, il quale imputa la scelta dei romanisti di privilegiare la storia del
diritto privato (a differenza dei germanisti, che invece rivolsero i loro
interessi anche alla storia del diritto pubblico), al fatto che «la
"Scuola storica'', malgrado il suo nome, non ebbe esclusivamente, e
neppure in via primaria, un indirizzo storico. Subordinò anch'essa il suo
interesse per la storia a scopi pratici. E la realtà presentava come oggetto di
recezione nei paesi europei soltanto il diritto privato»[5].
Da
condividere anche una riflessione di Franz Wieacker: laddove l'illustre
studioso rimarca l'assoluta mancanza della dimensione storica nei giuristi
della "Scuola storica del diritto", i quali si caratterizzarono
piuttosto per «il tentativo, profondamente antistorico, di utilizzare per la
rappresentazione della dogmatica romana quella stessa sistematica e quelle
stesse categorie di cui essa si andava servendo per il rinnovamento della
scienza del diritto»[6].
[p.
41]
Ed
è esattamente questo il metodo prescelto da Theodor Mommsen nell'edificare il
superbo sistema del «Römisches Staatsrecht»[7].
Fin
dai primi approcci al diritto pubblico romano[8],
[p.
42]
il
giovane Mommsen aveva manifestato tutta la propria insoddisfazione nei
confronti dell'allora usuale definizione dei rispettivi ambiti tra storici e
giuristi, sulla base della quale lo ius
publicum e lo ius sacrum venivano
considerati pertinenza degli studi storici[9].
Aveva deplorato, inoltre, la totale mancanza
di strumenti testuali, elaborati e affidabili, per la ricostruzione
dello ius publicum, come avveniva
ormai da secoli per lo ius privatum;
ritenendo, tuttavia, che non potesse spiegarsi in alcun modo l'organizzazione
statuale dei Romani senza ricorrere ai lumi della giurisprudenza romana[10].
Scrivendo
l'«avant-propos» per la recente riedizione di Droit public romain, C. Nicolet ha sostenuto che non si potrebbe in
alcun modo comprendere lo «Staatsrecht» mommseniano se non lo si ponesse in
stretto rapporto «à une triple tradition qu'éblouis par l'éclat de Mommsen nous
oublions trop souvent»: da una parte gli studi storici sulle istituzioni di
Roma, dall'altra le costruzioni giuridiche del diritto delle Pandette, infine
le nuove teorie della «Staatslehre»[11].
[p. 43]
In
ragione della raffinata cultura interdisciplinare, che permea l'immenso ed
esaustivo apparato critico, il Römisches
Staatsrecht poteva, per un verso, presentarsi come la sublimazione della
scienza antiquaria del suo tempo; nel cui solco peraltro si collocava anche
formalmente, essendo stato concepito in sostituzione dei tre volumi sulla
«Staatsverfassung» di Roma antica precedentemente curati dal Becker, nel
progetto di riedizione del Handbuch der
römischen Alterthümer, che vide coinvolto il Mommsen proprio a fianco del
Marquardt. Per altro verso, il Römisches
Staatsrecht ha significato soprattutto il superamento definitivo, nella
forma e nella sostanza, di tale scienza antiquaria[12];
poiché il Mommsen si proponeva
[p.
44]
la
riforma radicale dei metodi tradizionali di trattazione della materia, come
provano le dichiarazioni del «Vorwort» alla prima edizione: presa di distanza
dall'opera del Becker[13]
e assunzione dei canoni metodici della
[p.
45]
sistematica
pandettistica del diritto privato[14].
Non
è certo questo il luogo per svolgere lunghi e articolati discorsi critici
intorno al Römisches Staatsrecht di
Theodor Mommsen; discorsi peraltro già fatti, e con ben altra autorevolezza,
nel corso dell'ultimo secolo di studi romanistici[15].
[p. 46]
Basterà
pertanto rilevare che nel complesso il rapporto «così instaurato tra
"materiale'' romano e sistematica contemporanea»[16],
quel voler ridurre la concreta realtà dello ius
publicum all'astratto sistema dello «Staatsrecht», ha prodotto risultati a
dir poco unilaterali, inadeguati e parziali. Appaiono in tutta evidenza i gravi
limiti di un metodo che, oltre a prospettare un'interpretazione
[p.
47]
"statualista''[17]
del sistema giuridico-religioso romano[18],
pretendeva di ricondurre le molteplicità di forme e di tempi storici ad
astrazioni concettuali generalizzanti, "Grundbegriffe''[19];
fra i quali primeggiava il "Grundbegriff''
[p.
48]
di
Magistratura, concepito come perno dell'intero sistema[20],
quantunque il Mommsen non ignorasse che
[p. 49]
presso gli antichi «eine zusammenfassende Behandlung der
Magistraturen nur ausnahmsweise stattfindet» [21].
Come abbiamo appena accennato, con la concettualizzazione
sistematica del «Römisches Staatsrecht» la Pandettistica tedesca acquisisce
«pour le droit théorique un nouveau territoire, en érigeant en
""science du droit public'' tout cette espace institutionell laissé
aux antiquaires, aux historiens, ou aux juristes»[22]. Ciò non avviene senza effetti
profondi e duraturi nella dottrina romanistica contemporanea, su due dei quali
conviene soffermarsi brevemente.
Il
primo effetto consiste nella definitiva reciproca alterità tra «Privatrecht» e
«Staatsrecht» anche negli studi romanistici[23]:
al punto che poi, identificata tale alterità
[p.
50]
col
binomio ius publicum/ius privatum, se
ne sosterrà l'appartenenza agli originari «principi del diritto romano»[24];
da cui consegue l'attrazione dell'antico diritto giurisprudenziale, ratione materiae, al «römisches
Privatrecht»[25].
Il
secondo può invece sintetizzarsi come segue: a fronte dell'elevazione a dignità
di scienza giuridica positiva della ""confusa materia'' dell'antico ius publicum, confusione determinata
anche dall'apparente mancanza di metodo da parte dei giuristi romani nel
trattarla, l'esigenza di sistematizzazione e di uniformizzazione dell'
"antico'' al "moderno'' ha finito per determinare l'esclusione dello ius sacrum sia dal campo dello
«Staatsrecht» [26],
sia da quello del «Privatrecht»[27].
[p.
51]
Nel
paragrafo iniziale della Praefatio
alla sua Palingensia iuris civilis,
Otto Lenel[28]
dava conto in maniera articolata dei criteri adottati per la scelta dei frammenti
giurisprudenziali, soffermandosi ampiamente anche sulle esclusioni operate.
[p. 52]
Al fine di
cogliere appieno le implicazioni metodologiche ivi esplicitate o sottese, sarà
utile prendere le mosse proprio da quella pagina leneliana, rileggendone il
testo:
«Exceptis
igitur iis fragmentis quae mox enumerabuntur – scriveva il grande giurista
tedesco – omnia recepi quae Iustiniani digestis continentur quaeque praeterea e
civili Romanorum iuris prudentia servata sunt. Gai autem institutiones, Pauli sententias,
Ulpiani regularum librum singularem, Dositheana quae vocantur fragmenta,
fragmentum de iure fisci propterea exclusi, quod molem per se iam satis amplam
huius collectionis inutiliter auxissent. Omissa sunt praeterea quaecumque sive
ius publicum sive sacrum spectant fagmenta extra digesta tradita: quod invitus
et quodam modo coactus feci, cum propter difficultatem satis accurate
discernendi quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad antiquitates
refenda sint, tum ob miseram condicionem, qua longe maxima pars fragmentorum
quae huc faciunt - ea praesertim quae Festo debentur - tradita sunt. Nec tamen
nimis anxius fui in excludendis huius generis fragmentis, cum tres illae iuris
partes - ius sacrum publicum privatum - arta saepe necessitate inter se connexa
sint: eorum librorum, in quibus et de iure sacro vel publico et de iure privato
quaeritur, omnia fragmenta recepi vel saltem indicavi»[29].
[p.
53]
Il
Lenel passa, quindi, ad illustrare i criteri adottati nella disposizione dei singoli
giureconsulti, nella restituzione delle loro opere e nell'esegesi dei frammenti
ad essi attribuiti. Quanto al primo punto, dichiara di aver preferito seguire
l'ordine alfabetico, non solo «quod ad usum maiorem commoditatem praebet», ma
soprattutto perché non sempre la sucessione cronologica dei giureconsulti
risulta determinabile con assoluta certezza[30];
nella restituzione delle opere giurisprudenziali prevale invece l'esigenza di
individuare «ratio et conexus totius operis», da cui la conseguente collocazione
dei relativi frammenti; solo quando ciò sia risultato impossibile, si è seguito
il criterio di anteporre i frammenti dei Digesta
a quelli reperito «in ceteris de iure libris» e a quelli «quae alibi tradita
sunt»[31].
[p.
54]
Dalla
lettura della citata pagina leneliana emergano dati di rilevante ed immediato
interesse metodologico, quali ad esempio l' estremo rigore professato nella
scelta dei testi[32]
e nella loro esegesi[33];
o ancora, la manifesta
[p.
55]
intenzione
di utilizzare in maniera quasi esclusiva, quale strumentario di base per la
ricostruzione dei frammenti, l'edizione mommseniana dei Digesta Iustiniani[34].
Tuttavia, sono le ragioni addotte a sostegno della lista delle omissioni che
rivelano con più chiarezza le motivazioni culturali e metodologiche, che hanno
determinato la linea di condotta del Lenel nella sua impresa palingentica.
Ma
veniamo a queste ragioni. Argomenti di carattere squisitamente editoriale
(«quod molem per se iam satis amplam huius collectionis inutiliter auxissent»)
giustificano un primo gruppo di esclusioni: perciò restarono fuori dalla Palingenesia le Istituzioni di Gaio, le Pauli Sententiae, il Liber singularis regularum di Ulpiano, i
fragmenta Dositheana e il Fragmentum de iure fisci.
Più
discutibile appare, invero, la scelta di escludere dalla raccolta «quaecumque
sive ius publicum sive sacrum spectant fragmenta extra digesta tradita». Non si
possono di certo condividere le motivazioni che indussero il Lenel a omettere,
seppure a suo dire «invitus et quodam modo coactus», da una parte la quasi
totalità dei testi in materia di ius
publicum e di ius sacrum, dall'
altra i frammenti di opere giuridiche citati nell'epitome festina[35].
[p. 56]
Anche
a proposito di queste motivazioni conviene distinguere. Mentre per i frammenti
giurisprudenziali contenuti nel De
verborum significatu si adducevano ragioni di critica filologica, legate in
gran parte alla consapevolezza della misera
condicio delle principali edizioni dell'opera allora esistenti[36];
alla praticabilità (e utilità) di una Palingenesia
iuris publici il Lenel opponeva obiezioni metodologiche e "fattuali''
ritenute veramente insuperabili. Non a caso lo studioso sottolineava con vigore
le immani difficoltà che avrebbe dovuto affrontare colui che avesse voluto
distinguere, con buona approssimazione, fra le
[p.
57]
variegate
fonti di ius publicum e di ius sacrum «quaenam ad ius proprie sic
dictum spectent quaeve ad antiquitates referenda sint»[37].
Prevaleva, insomma, nella valutazione del Lenel un radicato pessimismo sulla
qualità delle fonti, in gran parte "letterarie'', da utilizzare per la
raccolta di questo tipo di materiali; dovendo muoversi più tra fonti
storico-antiquarie che giuridiche, il giurista moderno rischiava di smarrire in
quel terreno infido e senza confini la dimensione stessa del "giuridico''[38].
Mette
conto, infine, formulare un'ultima notazione riguardo all'assunto leneliano che
nello «ius proprie sic dictum» non potessero trovare collocazione sia lo ius publicum, sia lo ius sacrum; segnalandone, in
particolare,
[p.
58]
l'omogeneità
con le posizioni dottrinali di quella parte della storiografia romanistica
ottocentesca - peraltro di gran lunga maggioritaria -, che identificava il diritto
romano esclusivamente nel Corpus iuris
civilis di Giustiniano. Il pensiero del Lenel non si discostava, dunque,
dalla communis opinio della
pandettistica del suo tempo, nel considerare oggetto dell'indagine giuridica
unicamente quello che, parafrasando il titolo di un celebre manuale di A.
Heimberger[39],
potrebbe definirsi «il diritto romano privato e puro»; sarà facile perciò
intendere come, in questa prospettiva, ius
publicum e ius sacrum non fossero
ritenuti riconducibili al «vero diritto romano», ma alla «parte storica e
archeologica del medesimo»[40].
Per
chiarire quanto i criteri di esclusione del Lenel abbiano pesato concretamente
nella Palingenesia, sarà opportuno, a
questo punto, discutere di alcuni giuristi, le cui opere siano state
parzialmente omesse o del tutto ecluse dalla raccolta.
Iniziamo con un esempio di parziale omissione: il caso di C. Elio Gallo. Autore di un'opera dedicata alla
[p.
59]
significatio verborum
nello ius civile[41],
il giurista figura nella raccolta leneliana, ma nei suoi lo studioso tedesco ha
praticato una vistosa censura per quanto riguarda gli oltre venti frammenti
pervenuti al di fuori della tradizione giustinianea, adducendo questa scarna
annotazione: «Ex eo auctore, cum incertissimum sit, num in iuris consultorum
numero sit referendus, nil recipiendum putavi nisi duo illa fragmenta, quae in
D. servantur»[42].
Al
di la dell'incertezza se Elio Gallo fosse o no da includere nel «numerus
iurisconsultorum», non sarà comunque difficile individuare l'intrinseca logica
omissiva, che ha determinato la censura del Lenel, se si considera che la
maggior parte dei frammenti superstiti, di indiscutibile contenuto civilistico,
si legge in glosse del De verborum
significatu di (Verrio Flacco e) Pompeo Festo[43].
[p.
60]
Siamo
dunque in presenza di uno dei canoni omissivi dichiarati nella Praefatio.
Vissuto
quasi per certo nel I secolo a. C., Elio Gallo[44],
risulta essere autore di un'opera di almeno due libri intitolata,
probabilmente, De verborum, quae ad ius
civile pertinent, significatione[45];
opera pervenutaci - come si
[p.
61]
è
appena detto - in un buon numero di frammenti conservati nell'epitome festina. Questa
circostanza, peraltro, ha indotto qualche studioso (Reitzenstein) a ipotizzare
che proprio il De verborum, quae ad ius
pertinent, significatione abbia costituto uno dei modelli del lavoro
lessicografico di Verrio Flacco[46].
Nel
corso del biennio appena trascorso, all'opera di Elio Gallo sono stati dedicati
due saggi di rilevante interesse da F. Bona e G. Falcone[47].
Nel
primo, F. Bona concentra la sua attenzione soprattutto sul «criterio o, se si
vuole, lo schema seguito da Elio Gallo nell'impianto dell'opera»[48];
percorrendo con fine esegesi l'analisi dei frammenti superstiti, lo studioso
patavino ci offre un quadro vivido delle significationes
eliane, del loro concatenarsi, al di là della divisione alfabetica dell'opera
festina, in un ordine logico, da cui traspaiono interpretazioni più generali,
come ad esempio sono quelle di sacrum,
di sanctum, di religiosum «che Elio espose congiuntamente nell'opera De verborum, quae ad ius civile pertinet
significatione»[49].
Nel secondo saggio, la prospettiva di G. Falcone si presenta in apparenza più limitata. Lo scopo professato è quello di stabilire attraverso l'analisi testuale una precisa cronologia dell'opera eliana, che finora ha oscillato nelle
[p.
62]
ipotesi
degli studiosi tra la metà del II secolo a. C. e l'età di Augusto[50].
Il puntuale esame di alcuni fra i più significativi frammenti, o meglio per
dirla con l'autore - «di quei (pochi) frammenti dell'opera eliana per i quali è
possibile rinvenire elementi esterni di raffronto», ha consentito al giovane
studioso di formulare una precisa proposta di datazione: «non pare azzardato
ipotizzare che Elio Gallo abbia composto il lessico non dopo l'inizio del I
secolo» [51].
Anche
alla luce di questi studi recenti, non resta che ribadire il carattere
arbitrari della logica omissiva del Lenel. Leggendo i frammenti del
giureconsulto si acquisisce l'immediata convinzione di un suo interesse
spiccato a definire, sempre, nel modo più breve possibile i concetti giuridici
oggetto della sua indagine[52];
non appaiono altresì prevalenti nelle sue definizioni interessi etimologici,
anche se talvolta non mancano accenni all'etimologia; infine – ulteriore
conferma di metodo giuridico – si ha la
[p.
63]
sensazione
che l'opera fosse ordinata non alfabeticamente ma seguendo il criterio della
distribuzione per materie[53].
In
conclusione, pare difficile non convenire con le osservazioni di H. Bardon [54],
quando scrive che in Elio Gallo «Le juriste y avait le pas sur le grammairien»,
al punto da condizionarne anche lo stile di scrittura, che infatti «porte la
marque du style du droit» [55].
[p.
64]
La
decisione di omettere nella Palingenesia
i frammenti di contenuto non strettamente privatistico, extra Digesta tradita, ha determinato l'esclusione da essa di un
buon numero di giuristi.
Ai
giuristi del III secolo a.C., esclusi o omessi nella quasi totalità dei casi, è
dedicata la seconda parte di questo lavoro, con l'esame dei frammenti
superstiti della giurisprudenza romana più antica; mentre, qui di seguito,
tratteremo di un'altra esclusione emblematica: quella del giurista L. Cincio[56].
Di
questo giurista possediamo oltre trenta frammenti, la maggior parte dei quali
di provenienza festina, tratti da opere che - a giudicare dai titoli - ne
rivelano una solida cultura giuridica e un campo di interessi che spaziava con
eguale padronanza della materia tra ius
sacrum, ius publicum, ius privatum. Basta scorrere soltanto i titoli di
quelle
[p.
65]
opere,
per percepire l'eco dei molteplici interessi presenti nella riflessione del
giurista: scrisse un liber de fastis,
un liber de comitiis, un liber de consulum potestate; almeno sei de re militari libri, almeno due de officio iurisconsulti libri, e ancora
un liber de verbis priscis e dei Mystagogicon libri[57].
La
trama interpretativa del giurista si misurava con i temi più scottanti dello ius publicum tardo-repubblicano: quali
la potestas populi, di cui non poteva
non occuparsi nel liber de comitiis;
o il potere dei magistrati, alla cui definizione doveva essere dedicato il de consulum potestate libri. Temi,
dunque, legati a quel dibattito sulla definizione dei rapporti tra poteri dei
magistrati e poteri del popolo, che aveva appassionato la giurisprudenza romana,
almeno a partire dall'età dei Gracchi[58].
Non è dato
[p.
66]
sapere
la collocazione ideologica di Cincio; forse antipopolare, stando almeno al
testo dell'unico frammento del de
comitiis in cui il giurista, per spiegare il valore del termine patricii, richiamava l'antica
identificazione tra ingenui e patricii[59].
Ugualmente legata alla ridefinizione dei poteri magistratuali della tarda
repubblica, sembra essere l'acquisita autonomia della res militaris, che L. Cincio, primo fra i giuristi, trattò in
un'opera specialistica[60].
Anche nel caso dell'esclusione di questo giurista, è possibile delineare le ragioni interne alla logica omissiva del Lenel. Siamo, infatti, per lo più in presenza di frammenti che «sive ius publicum sive ius sacrum spectant», tramandati inoltre nell'epitome festina.
[p. 67]
Ma
nel complesso, l'esclusione appare immotivata: alcuni dei frammenti omessi, per
caratteristiche dei contenuti e peculiarità delle opere di provenienza, ben si
sarebbero potuti adattare anche ai pur rigidi criteri della Palingenesia. Penso soprattutto ai tre
frammenti del De officio iuris consulti
libri e al più significativo di essi, la glossa festina Nuncupata pecunia[61];
ma penso anche a testi del de verbis
priscis, di indubitabile contenuto civilistico[62].
[1]
Y. Thomas, Mommsen et l'«Isolierung» du droit, saggio premesso alla riedizione
della traduzione francese di Th. Mommsen, Droit
public romain, I, Paris 1984, pp. 10 s. Esempio eccellente di questo tipo
di studi sarebbe, secondo lo studioso francese, la classico opera di Carlo
Sigonio De antiquo iure populi Romani,
pubblicata peraltro quasi trecento anni prima (1560), ma più volte ripubblicata
(vedine l'edizione dell'ultimo decennio del XVII secolo in J. G. Graevii, Thesaurus Antiquitatum Romanorum, I, Trajecti ad Rhenum 1694).
Nella prospettiva di quest'opera - osserva
il Thomas - si assume come punto di riferimento il cittadino romano, con
l'intento di ricostruire per suo tramite tutte le relazioni giuridiche della civitas: «Le plan, on le voit, obéit à un
schéma circulaire: Sigonius part du tout q'est la cité pour considérer en elle
le citoyen dans ses activités familiales et civiques. Les frontières entre vie publique et vie privée
s'effacent au profit de la structure englobante qui les contient et les transcende».
[2]
G. Niebuhr, Römische Geschichte, I-II, Berlin 1811-1812; III, pubblicato
postumo, Berlin 1833. Dei primi due volumi si ebbero in seguito diverse
edizioni: il primo fu ripubblicato una seconda volta nel 1827, una terza nel 1828,
una quarta nel 1833; il secondo fu invece riedito nel 1830 e poi una terza
volta nel 1836.
Che
l'opera del Niebuhr rappresenti, pur con le sue contraddizioni, il vero punto
di partenza della metodologia e delle tematiche proprie della dottrina romanistica
contemporanea, è opinione generalmente condivisa: vedi, in tal senso, C. Barbagallo, Il problema delle origini di Roma da Vico a Noi, Milano 1926 (rist.
an. Roma 1970), pp. 12 ss.; E. Kornemann,
Niebuhr und die Aufbau der altrömischen
Geschichte, in Historische
Zeitschrift 145, 1932, pp. 277 ss.; S.
Mazzarino, Storia romana e
storiografia moderna, Napoli 1954, pp. 32 s.; A. Momigliano, Perizonius,
Niebuhr and the Character of Early Roman Tradition, in Journal of Roman Studies 47, 1957, pp. 104 ss. (= Id., Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp.
68 ss.); Id., Alle origini dell'interesse su Roma arcaica:
Niebuhr e l'India, in Rivista storica
italiana 92, 1980, pp 561 ss. (= Id., Roma arcaica, Firenze 1989, pp. 479 ss.); H. Bengtson, Barthold
Georg Niebuhr und die Idee der Universalgeschichte des Altertums,
Rektoratsrede, Würzburg 1960 (= Id.,
Kleine Schriften zur alten Geschichte,
München 1974, pp. 26 ss.); A. Heuss,
Niebuhr und Mommsen, in Antike und Abendland 14, 1968, pp. 1 ss.;
K. Christ, Römische Geschichte und Universal Geschichte bei Barthold Georg Niebuhr,
in Saeculum 19, 1969, pp. 172 ss.; Id., Römische Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft, München
1982, pp. 35 ss.
Fondamentale,
per quanto riguarda la biografia intellettuale e politica del Niebuhr, resta
sempre il lavoro di S. Rytkönen, Barthold Georg Niebuhr als Historiker und
Politiker. Zeitgeschehen und Zeitgeist in den geschichtlichen Beurteilungen von
B. G. Niebuhr, Helsinki 1968; per il rapporto tra le ideologie politiche
del grande storico e la sua ricostruzione delle istituzioni romane, cfr. P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 21 ss.; seguito da G. Lobrano, Il tribunato della plebe, Milano 1982, pp. 51 ss. (relativamente al
fondamento e al contenuto del potere tribunizio).
[3]
Sul piano dell'opera e la divisione delle singole materie tra i due autori,
vedi brevemente G. Humbert, Introduction générale du Manuel d'Antiquités
romaines, in Th. Mommsen, Droit public romain, I, Paris 1892, pp.
XVI ss.
[4]
La vastissima mole di letteratura esistente sulla Scuola storica del diritto,
esime dal fornire in questa nota referenze bibliografiche, seppure parziali;
rimando perciò ad alcune valutazioni sintesi di F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte
der Neuzeit, II, neubearb. Aufl., Göttingen 1967; cit. in trad. it., Storia del diritto privato moderno, II,
Milano 1980, pp. 3 ss.; e R. Orestano,
Introduzione allo studio del diritto
romano, Bologna 1987, pp. 239 ss.
[5]
V. Giuffrè, Il «diritto pubblico» nell'esperienza romana. Appunti di parte generale
del corso, Napoli 1977, p. 24: «Il diritto penale - continua lo studioso -
aveva trovato nella "Constitutio criminalis Carolina'' un regolamento
legislativo imperiale, che non si fondava sul diritto romano (a sua volta, per
il processo criminale era assai più inportante il diritto canonico che quello
romano). Il diritto pubblico contenuto nel Corpus iuris era troppo scarso e
troppo legato a particolari condizioni di tempo per poter servire di base ad
una scienza giuridica pubblicistica (ancora in nuce, del resto)».
[6]
Così F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II,
cit., p. 108; sempre nella stessa pag., il Wieacker sottolinea, assai
acutamente, come per i giuristi della "Scuola storica'', «una più
accentuata concezione storica avrebbe infatti compromesso una interpretazione
delle Pandette che potesse esser valida anche per il presente; una critica
testuale completamente libera avrebbe finito per minacciare quell'ingegnoso
edificio di risultati sicuri che si era venuto costruendo sulla base delle
Pandette».
[7]
Per la pubblicazione di tutta l'opera occorsero ben diciotto anni (1871-1888),
nel mentre però i volumi già editi conobbero successive riedizioni: Römisches Staatsrecht, I (1ª ed. Leipzig
1871; 3ª ed. Leipzig 1887); II (1ª ed.II 1 Leipzig 1874; II 2 Leipzig 1875; 3ª
ed. Leipzig 1887); III 1
(Leipzig 1887); III 2 (Leipzig 1888).
Sulle temperie politiche e culturali in cui l'opera fu
composta, vedi le rapide notazioni di Y.
Thomas, Mommsen et l'«Isolierung»
du droit, cit., pp. 16 s.: «C'est vers les années 1860-1880 seulement que
l'État, en Allemagne, devient un objet de droit; que naît un Staatsrecht
construit lui aussi, selon la démarche des pandectistes, sur quelques principes
dont se déduit un système clos de concepts hiérarchiquement ordonnés; que le
statut scientifique de cette nouvelle discipline est assuré, en dehors de
l'histoire, par la structure logico-déductive de son discours et par la
cohérence interne de ses parties. Bref, ce sont les contemporains de Mommsen,
et Mommsen au premier chef, qui, vers le moment où se constitue l'état
bismarckien, récusent cette marginalisation du droit public, revendiquent pour
lui sa place à l'intérieur du savoir juridique, le constituent dogmatiquement
sur la base même des définitions qui avaient d'abord servi à l'en exclure».
Più
in generale, sul ruolo del Mommsen nella storia giuridica e politica
contemporanea vedi A. Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert,
Kiel 1956; A. Wucher, Theodor Mommsen. Geschichtsschreibung und
Politik, Göttingen 1956; G. Liberati,
Mommsen e il diritto romano, in Materiali per una storia della cultura
giuridica 6, 1976, pp. 215 ss.
[8]
Si tratta di due "tesi'' giovanili, una in latino - come usava allora il
costume accademico delle Università tedesche - e l'altra in tedesco: De collegiis et sodaliciis Romanorum,
Kiel 1843; Die römische Tribus in
administrativer Beziehung, Altona 1844.
[10] Sul punto vedi Y.
Thomas, Mommsen et l'«Isolierung»
du droit, cit., p. 2: «Dès son livre sur les tribus ( Die römischen Tribus
in administrativer Beziehung ), il déplorait l'absence d'instruments de
travail: "seule ma convinction, écrivait-il, que l'état romain ne peut
s'éclairer qu'à la lumière de la jurisprudence romaine, me retient de passer
entièrement à une autre discipline''».
[11]
C. Nicolet, Avant-propos, alla ristampa di Th.
Mommsen, Droit public romain, I, cit., p. V: «on ne peut comprendre le Römische Staatsrecht que par rapport à
une triple tradition qu'éblouis par l'éclat de Mommsen nous oublions trop
souvent: d'une part les historiens des institutions de Rome, d'autre part les
pandectistes (théoriciens, plus qu'historiens, de son droit privé), enfin les
théoriciens du Staatslehre, ou Science Politique. Dès lors le Römische Staatsrecht doit cesser d'être
seulement l'instrument d'une histoire (celle de Rome ), pour devenir à son tour
objet d'histoire: un monument de la pensée allemande, de la philosophie de
l'État, exprimée indirectement dans une réflexion qui s'applique à Rome».
[12]
Questo fatto fu subito percepito da gran parte della dottrina, anche fuori
dalla Germania, immediatamente dopo la pubblicazione dei due tomi del primo
volume, sulla teoria generale della magistratura e sulle singole magistrature.
In
Italia, avvertì prima di altri l'importante innovazione metodologica E. De Ruggiero, Studi sul diritto pubblico romano da Niebuhr a Mommsen, Firenze
1875, pp. 133 ss.; per questo studioso la concettualizzazione del Mommsen non
era che la controparte di una «trattazione scientifica dei poteri e delle
funzioni dello Stato», che esclude del tutto la descrizione delle istituzioni e
l'esposizione della loro evoluzione: l'una, perché ha per oggetto dei fatti
positivi, dei fenomeni, mentre il Mommsen indaga sulle categorie di pensiero
giuridico che si realizzano nelle istituzioni; l'altra, perché dietro le
trasformazioni che interessano le singole parti della costituzione permane
integra una struttura concettuale e normativa, dove resta immutata la relazione
di ciascun elemento con il tutto. Al rapporto tra De Ruggiero e Mommsen e
all'influenza del Maestro tedesco sulla formazione e sulle ricerche
dell'allievo italiano, dedica alcune stimolanti pagine S. Mazzarino, Storia e
diritto nello studio delle società classiche, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del primo
congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto,
Firenze 1966, pp. 39 ss.
Anche
la cultura romanistica francese fu subito influenzata dalla sistematica
mommseniana: vedi, ad esempio, J. R.
Mispoulet, Les institutions
politiques des Romains, 2 voll., Paris 1882-1883, in quale appena alcuni
anni dopo la comparsa del "Römisches Staatsrecht'' testimonia
nell'introduzione il convincimento che l'opera abbia reso superata in maniera
irreversibile la dottrina precedente: «Le Droit public de Mommsen est conçu sur
un plan absolument nouveau. C'est un véritable exposé des principes de la constitution romaine. Le
savant auteur a appliqué à cette matière la méthode familière aux juristes: il
a degagé des faits connus, la loi qui les régit. [...] Le Droit public de
Mommsen peut, à notre avis, servir de point de départ à toute étude nouvelle
sur cette matière; il rend presque complétement inutile la lecture des auteurs
qui l'ont précédé» (Op. cit., I, pp.
IV-V). Per l'influenza mommseniana sulla scienza romanistica francese, rinvio a
J. Gaudemet, Tendences et méthodes en droit romain, in Revue philosophique, 1955, pp. 147 ss.; A. Fernández-Barreiro, Los
estudios de derecho romano en Francia después del código de Napoleón,
Roma-Madrid 1970, p. 75.
[13] Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., «Vorwort zur ersten Auflage», pp. VII s.; si tratta
invero di un totale rovesciamento della prospettiva del Becker, eliminando
principalmente la storicizzazione delle istituzioni: «Bei der Anordnung des
Stoffes bin ich davon ausgegangen, dass, wie für die Geschichte die Zeitfolge,
so für das Staatsrecht die sachliche Zusammengehörigkeit die Darstellung
bedingt und habe darum verzichtet auf das nothwendig vergebliche und nur die
Orientierung erschwerende Bestreben in einer Darstellung dieser Art die geschichtliche
Entwicklung in ihrem Verlauf zur Anschauung zu bringen. Man wird hier also die
übliche Eintheilung in Königs-, republikanische und Kaiserzeit nicht» (= Droit public romain, I, cit., «Préface
de la première édition», p. XXII).
Precisazione ancora più netta nel «Vorwort» dettato per
l' Abriss des römischen Staatsrechts,
Leipzig 1893, dove si sostiene che la storia non è compatibile col sistema in
quanto irrazionale: «Die einzelnen Institute sind historisch entstanden, also
irrationell; man muss ein jedes sowohl in seiner Selbständigkeit zusammenfassen
wie auch nach seinen oft sehr mannigfaltigen politischen Functionen
auseinanderlegen» (= Disegno del diritto
pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, 2ª ed. a cura di V. Arangio-Ruiz,
Milano 1943, rist. an. 1970, p. 22).
[14] Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., «Vorwort zur ersten Auflage», p. VIII: «Jede
Institution in sich abgeschlossen finden, wie dies seit langem in den
Handbüchern des Privatrechts hergebraucht ist» (= Droit public romain, I, cit., «Préface de la première édition», p.
XXII).
In proposito vedi W.
Kunkel, Berichte über neuere
Arbeiten zur römischen Verfassungsrecht (1955), ora in Id., Kleine Scriften, Weimar 1974, p. 442; J. Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in römischen Republik, Berlin-New York 1975, p. 36; più ampiamente G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo,
in Index 7, 1977 (ma 1979), pp. 65
ss.; cfr. infine quanto scrive Y. Thomas,
Mommsen et l'«Isolierung» du droit,
cit., p. 11: «Ce n'est pas le lieu de nous demander si une telle vision de la
cité est ou non préférable à celle des juristes du XIXe siècle, postulant au
contraire la valeur absolue de l'opposition entre la société civile et l'État.
Mommsen appartient en ce sens au pandectisme, non seulement parce qu'il en est
méthodologiquement tributaire, mais parce que surtout l'autonomie du droit
public supposait que fût hypostasiée d'abord l'autonomie du droit privé, qui
devait lui servir de modèle: on reviendra plus loin ser ce rapport dialectique
qui noue en un mouvement d'opposition puis d'imitation les deux branches de la
science du droit au XIXe siècle».
[15]
Invero, le critiche arrivarono quasi subito da diversi settori della stessa cultura
antichistica tedesca: così, se il filologo J.
Bernays, Behandlung des römischen
Staatsrechtes bis auf Theodor Mommsen, in Deutsche Rundschau 2, 1875, pp. 54 ss., lamentava l'eccessivo peso
dell'astrazione, di quella che chiamava «Metaphysik des Staatsrechtes»; L. Lange, Römische Alterthümer, I, 3ª ed., Berlin 1876, p. 6, difendeva
ancora la concezione tradizionale della «Verfassungsgeschichte», denunciando il
dogmatismo del Römisches Staatsrecht
mommseniano come una intollerabile forzatura; J.
N. Madvig, autore di un poderoso trattato dal titolo già di per sè
significativo (Die Verfassung und
Verwaltung des römischen Staates, 2 voll., Leipzig 1881-1882), criticava
varie parti della costruzione mommseniana, rifiutandone in particolare la
teoria generale della magistratura; mentre E.
Herzog, Geschichte und System der
römischer Staatsverfassung, 2 voll., Leipzig 1884-1891 (rist. 1965), I, pp.
38 ss., metteva in discussione la stessa nozione mommseniana di «Rechtssystem»:
questo studioso, non solo rifiutava l'ordine sistematico dello Römisches Staatsrecht, ma rivalutava in
maniera originale il ruolo del tribunato della plebe (Op. cit., I, 2, pp. 1135 ss.; su questo aspetto, vedi G. Lobrano, Fondamento e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica
contemporanea, in Index 3, 1972,
pp. 242 s.; Id., Il potere dei tribuni della plebe,
Milano 1982, pp. 27 ss.).
[16]
La frase è di G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di
diritto pubblico» nel XIX secolo, cit., p. 66; al quale rimando anche per
quanto riguarda le reazioni ostili all'opera mommseniana, in particolare nella
dottrina italiana dell'Ottocento (p. 70): critiche che investono da una parte
l'ordine sistematico, dall'altra la preminenza della magistratura nel sistema.
Sempre del Lobrano, vedi anche Diritto
pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1990, in part. pp. 81
ss. («'Romani' e 'germani' tra storia e sistema: problemi di metodo, ovvero la
questione del Diritto romano»).
[17]
Per una serrata critica all'interpretazione "statualista'' del sistema
giuridico-religioso romano operata dal Mommsen, vedi P. Catalano, Populus
Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 41 ss. (con ampia analisi [pp. 52 ss.]
dei motivi di opposizione nei confronti della «Staatslehre» mommseniana,
presenti nella coeva cultura giuspublicistica italiana); Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di G. Grosso, VI,
Torino 1974, pp. 273 ss.; ma anche J.
Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik, cit., pp. 16 ss. («Kritik der
Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»); e G.
Lobrano, Il potere dei tribuni
della plebe, cit., pp. 6 ss.
[18]
Sull'opportunità di utilizzare l'espressione «sistema giuridico-religioso», in
luogo di «ordinamento giuridico», si vedano le motivazioni di P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss.,
in part. 37 n. 75; Aspetti del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in
Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II. 16, 1, Berlin-New York 1978, pp. 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano,
Torino 1990, p. 57.
Il
concetto di «ordinamento giuridico» viene riproposto negli ultimi scritti di R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano,
cit., pp. 348 ss.; mentre sulla «nozione di ordinamento giuridico e sua
applicabilità all'esperienza romana», insiste ancora P. Cerami, Potere e
ordinamento nell'esperienza costituzionale romana, 2ª ed., Torino 1967, pp.
10 ss.
Si
sofferma piuttosto sulla parte aggettivale dell'espressione «sistema
giuridico-religioso», da ultimo, G.
Lombardi, Persecuzioni, laicità,
libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'',
Roma 1991, pp. 34 s., al quale non sembra, tuttavia, del tutto adeguata per
rappresentare «l'ordinamento di Roma», caratterizzato da «una costante
commistione tra quanto più tardi si chiamerà "religioso'' e quanto più
tardi si chiamerà "giuridico''».
[19]
Nella premessa alla seconda edizione del I volume (Leipzig 1876), troviamo
ribadita una puntigliosa difesa di questo metodo: Th. Mommsen, «Vorwort zur zweiten
Auflage», Römisches Staatsrecht, I,
cit., p. XI: «Wenn der Staat ein organisches Ganze ist, so müssen wir, um ihn
zu begreifen, theils die Organe als solche in ihrer Besonderheit, theils die
aus dem Zusammenwirken mehrer Organe hervorgehenden Functionen verstehen; und
wenn das letztere durch die materiell geordnete Darlegung geschieht, so ist das
erstere die Aufgabe des Staatsrechts. Es genügt nicht, dass uns der Prätor
theils im Krieg commandierend, theils im Civilprozess rechtsprechend, theils
bei den Volksfesten spielgebend begegnet; wir müssen das Amt als solches in
seiner Einheit anschauen, um sein Eingreifen in jede einzelne Function zu
verstehen. Insbesondere die Eigenthümlichkeit des römischen Gemeinwesens, das
in den oberen Sphären nicht ein einzelnes Organ für eine einzelne Function entwickelt
hat, sondern dessen Wesen es ist die höheren Behörden an dem ganzen Staatswesen
zu betheiligen, fordert diese Behandlung mit zwingender Nothwendigkeit»(= Droit public romain, I, cit., p. XXIII).
Cfr. J. Bleicken,
Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen
Republik, cit., pp. 36 ss.; G. Lobrano, Note su
«diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo, cit., pp.
65 ss.
[20]
Il "Grundbegriff'' di Magistratura emerge fin dalle sommarie
esemplificazioni di metodo fornite nel «Vorwort» alla prima edizione: Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., pp. VIII s.: «Dass der allgemeinen Lehre von der
Magistratur eine weit größere Ausdehnung gegeben worden ist als sie bei Becker
und sonst einnimmt und dass hier vieles vorgetragen wird, welches in den
bisherigen Darstellung sich entweder gar nicht oder zerstückelt findet, wird
sich hoffentlich im Gebrauch als zweckmäßig erweisen. Wie in der Behandlung des
Privatrecht der rationelle Fortschritt sich darin darstellt, dass neben und vor
den einzelnen Rechtsverhältnissen die Grundbegriffe systematische Darstellung
gefunden haben, so wird aus das Staatsrecht sich erst dann einigermaßen
ebenbürtig neben das - jetzt allerdings in der Forschung und der Darlegung ihm
eben so weit wie in der Ueberlieferung voranstehende - Privatrecht stellen
dürfen, wenn, wie dort der Begriff der Obligation als primärer steht über Kauf
und Miethe, sie hier Consulat und Dictatur erwogen werden als Modificationen
des Grundbegriffs der Magistratur. Beispielsweise führe ich die Lehre von der
Cooperation und dem Turnus bei den Amtshandlungen und die von Intercession an;
eine klare Darstellung der ersteren lässt sich unmöglich geben, wenn die
einzelnen Notizen bei den verschiedenen Magistraturen untergebracht werden, und
die übliche Abhandlung der Intercession bei der tribunicischen Gewalt giebt
sogar ein durchaus schiefes Bild» (= Droit
public romain, I, cit., p. XXIII).
[21] Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., pp. 4 s.; la frase si legge in un contesto, che
mostra come il Mommsen per delineare «die allgemeine Lehre von der Magistratur»
debba sacrificare all'astrazione la "concretezza storica'' dei magistrati
nel sistema giuridico-religioso romano: «Diese knüpfen vielmehr, ausgehend von
den Grundeintheilung des Gemeinwesens in die Beziehungen zu den Göttern und die
Verhältnisse der Menschen, wie für jene an die Priesterthümer, so für diese an
die Aemter in der Weise an, dass eine zusammenfassende Behandlung der
Magistraturen nur ausnahmsweise stattfindet, im Ganzen vielmehr diese
Litteratur hervorgeht aus Instructionen, welche für die einzelnen Magistraturen
und ähnlich für die nicht magistratische Verwaltung öffentlicher Geschäfte
bestimmt waren» (= Droit public romain,
I, cit., pp. 2 s.).
[23]
Significativo, al riguardo, quanto scriveva nel suo manuale S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, Roma 1928, p. 4: «Il nome di
diritto romano indica [...] per antonomasia il diritto privato romano e non
comprende il publico. Ciò pure dipende da ragioni storiche, dal fatto cioè che
la codificazione giustinianea nella parte prevalente e di maggior pregio è una
codificazione del diritto privato e quasi esclusivamente questa sola parte ebbe
nei paesi e dal tempo accennati valore di legge e trattazione scientifica»;
ma, contro tale tendenza, vedi le forti obiezioni di F. Stella Maranca, Il
diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine
politiche, Id., Scritti vari di diritto
romano, Bari 1931, pp. 86 ss.
[24]
Intendo riferirmi alla nota tesi dell’«Isolierung» formulata da F. Schulz, I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V.
Arangio-Ruiz, Firenze 1949, p. 23: «Ancora più importante era la separazione
del diritto pubblico ( ius publicum)
dal privato (ius privatum)».
[25]
In tal senso, già Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, cit., pp. 3 s., fra le ragioni che deponevano a favore
della sua scelta di trattare in primo luogo la magistratura, annoverava anche
la «Behandlung des römischen Staatsrechts bei den Römern», scrivendo quanto
segue: «Für unseren Zweck aber kommt vor allem noch in Betracht, dass die
römischen Juristen zwar den Begriff des Staatsrechts unter der Bezeichnung ius publicum gekannt, aber ihrer wissenschaftlichen
Darstellungen nicht als solchen zu Grunde gelegt haben» (= Droit public romain, I, cit., pp. 1 s.).
[26]
Da ciò la conseguente irriducibilità del sacerdozio romano al quadro
sistematico dello «Staatsrecht»: cfr. le difficoltà di classificare alcuni
poteri sacerdotali da parte di Th.
Mommsen, Römisches Staatsrecht,
I, 2, 3ª ed., Leipzig 1887, pp. 18 ss. (= Droit
public romain, III, cit., pp. 20 ss.).
[27] Cfr. A. Pernice,
Zum römischen Sacralrechte. I, in Sitzungsberichte der Akademie der Wissenschaften
zu Berlin 51, 1885, p. 1443: «Der Rechtsverkehr mit den Göttern bewegt sich
ausschließlich in den Formen des Sacralrechts; des Privatrechtes ist die
Gottheit schlechthin untheilhaft: es kann ihr nicht Stipulationsweise
versprochen (promittirt) und sonst keine Privatobligation ihr gegenüber
ingegangen werden; es wird ihr nicht in iure cediert, mancipirt, tradirt; sie
kann nicht zum Erben eingesetzt und es kann ihr kein Vermächtnis hinterlassen
werden. Zum Ausfüllung dieser Lücke giebt es Sacralrechtsgeschäfte, durch
welche ähnliche Wirkungen wie durch die privatrechtlichen erreicht werden
können».
[28]
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, 2 voll., Lipsiae 1889. Di recente,
nella prestigiosa collana "Antiqua'', diretta da L. Labruna, sono stati ripubblicati
in due volumi gli scritti del grande romanista tedesco: O. Lenel, Gesammelte
Schriften, herausgegeben und eingeleitet von Okko Behrends und Federico
D'Ippolito, Napoli 1990; con due importanti saggi dei curatori (O. Behrends, Otto Lenel [13.12.1849 - 7.2.1935]. Positivismus im
nationalen Rechtsstaat als Haltung und Methode. Zur Herausgabe seiner
gesammelten Schriften, pp. XIII ss.; F.
D'Ippolito, Otto Lenel e la
giurisprudenza romana, pp. XXXV ss.).
Per
il profilo biografico e scientifico, nonché per la valutazione del suo
contributo alla scienza giuridica contemporanea, oltre i saggi appena citati,
vedi fra gli altri: E. Al(bertario),
Otto Lenel, in Enciclopedia Italiana 20, rist. 1933, col. 836; F.
Pringsheim, In memoriam, in Studia et documenta historiae et iuris
1, 1935, pp. 466 ss.; M. Wlassak,
Erinnerungen an Otto Lenel, in Almanach der Akademie der Wissenschaften in
Wien 85, 1935 (ma 1936), pp. 309 ss.; E.
Bund, Otto Lenel, in J. Vincke, Freiburger Professoren des 19. und 20. Jahrhunderts, Freiburg 1957,
pp. 77 ss. (ivi altra letteratura biografica); brevemente anche F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, cit., p. 108.
[29]
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, cit., I, Praefatio, § I. Non è certo senza significato, che in merito
all'adozione del termine palingenesia
quale titolo della raccolta, quasi certamente ispirato dall'opera di C. F. Hommel (Hommelii, Palingenesia
librorum iuris veterum, sive Pandectarum loca integra ad modum indicis Labitti
et Wielingii oculis exposita et ab exemplari Florentini Taurelli accuratissime
descripta, 3 voll., Lipsiae 1767-1768), il Lenel ricordasse di aver dovuto
superare anche le forti obiezioni espressegli dal Mommsen, il quale forse in
tale titolo vedeva un proposito quasi impossibile da mantenere: cfr. O. Behrends, Otto Lenel, cit. in n. precedente, p. XIX n. 26.
[30]
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., Praefatio, § II: «Singulos scriptores, ratione habita non ubique
gentis nominis, sed quo designari solent, secundum litterarum ordinem disposui.
Ita ex. gr. Caelius Sabinus sub littera C, Masurius Sabinus sub littera S
invenientur. Qui ordo, praeterquam quod ad usum maiorem commoditatem praebet,
minoribus difficultatibus obnoxius est quam secundum tempora dispositio, quippe
cum non semper satis certo definire possit quo quisque saeculo vixerit. In fine totius operis duplex additur index, alter
alphabeticus, alter chronologicus».
Sui
criteri adottati dal Lenel per ordinare i materiali dei singoli giureconsulti,
vedi la valutazione, stringata ma efficace, di L. Wenger, Die Quellen
des römischen Rechts, Wien 1953, p. 876 e n. 214.
[31]
O. Lenel, Palingensia iuris civilis, I, cit., Praefatio, § III: «Singulorum librorum fragmenta ita disponere
conatus sum, ut inde ratio et conexus totius operis e quo desumpta sunt
perspiceretur. Quod ubi fieri non potuit, hunc ordinem secutus sum, ut primum
ponerentur e digestis fragmenta, deinde quae in ceteris de iure libris
inveniuntur, ultimo vero loco quae alibi tradita sunt, insertis tamen inter
digestorum fragmenta iis quae similis argumenti videbantur. Caute autem in illa
restitutione procedendum esse censui et ita ut artis nesciendi numquam immemor
essem. De varia ratione rerum disponendarum, qua iuris auctores usi sint, suo
quoque loco diximus neque hic accuratius inquiremus. Singula singulorum
librorum capita, ubi fieri potuit, rubricis distinxi».
[32]
Da notare che tale rigore risulta, ancora oggi, condiviso almeno in parte da
settori non trascurabili della scienza romanistica: cfr., ad esempio, F. Bona, Cicerone e i "libri iuris civilis'' di Quinto Mucio Scevola,
in Questioni di Giurisprudenza
tardo-repubblicana. Atti di un Seminario - Firenze 27-28 maggio 1983, a
cura di G. G. Archi, Milano 1985, pp. 244-246: «Non si loderà mai abbastanza la
prudenza del Lenel. Ed a giustificarla basterebbe rifarsi alla circostanza che
di pari passo con il processo di laicizzazione della giurisprudenza, alla
produzione giuridico-letteraria di ius
civile che andò infittendosi nel corso del 2° e 1° sec. a. Cr., si affiancò
una autonoma produzione letteraria di Ius
pontificium, che, se in un primo tempo sembra sia stata esclusiva opera di
appartenenti al collegio pontificale, venne espressa, a partire, almeno, dalla
metà del 1° sec. a. Cr., anche da giuristi non pontefici». Tuttavia, non sfugge
allo studioso l’esigenza di temperare la rigidità del metodo leneliano, quando
avverte in maniera assai acuta il bisogno «di esprimere qualche riflessione
che, se non vuole mettere in discussione la bontà in sé del criterio di
esclusione leneliano, metta in guardia dal pericolo di precluderci, col suo
impiego acritico, una più compiuta conoscenza delle opere giurisprudenziali del
2° e 1° sec. a. Cr.».
[33] O.
Behrends, Otto Lenel,
cit., p. XIX, sottolinea, a proposito della Palingenesia,
la acribia ricostruttiva e la «methodische Strenge» del giurista: «Und auch die
Palingenesie verdeutlicht, indem sie für die historisch arbeitende Romanistik
den Vorrang der klassischen Juristenschrift gegenüber den Digesten klarstellt
und mit methodischer Strenge in den Digestenfragmenten eine Fülle von
justinianischen Glättungen und Interpolationen nachweist, mit großem Nachdruck
den Abstand zwischen dem römischen und dem geltenden Recht».
[34]
Digesta Iustiniani Augusti. Recognovit
adsumto in operis societatem Paulo Kruegero Th. Mommsen, 2 voll., Berolini
1868-1870. Quanto alla profonda influenza di «quel monumentale lavoro di
edizione di fonti» del Mommsen nella scienza romanistica attuale, vedi le
rapide notazioni di F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II,
cit., pp. 106 s.; cfr. anche Y. Thomas,
Mommsen et l'«Isolierung» du droit, cit., pp. 3 ss.
[35]
Sui frammenti giuridici presenti nell'opera di Festo, disponiamo, ora, dei
lavori veramente fondamentali di F. Bona:
Contributo allo studio della composizione
del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964; Opusculum Festinum, Ticini 1982.
[36]
Sulla reale portata del pensiero del Lenel, riguardo alla «misera condicio» delle
edizioni del testo festino, vedi la riflessione di F. Bona, Cicerone e i
"libri iuris civilis'' di Quinto Mucio Scevola, cit., p. 244 n. 109
(«Non so se – con riguardo a Festo –, la "misera condicio'' lamentata,
attraverso cui i frammenti sono stati tramandati si debba intendere
esclusivamente con riguardo allo stato, veramente miserevole in cui versa, la
tradizione testuale dell'epitome, o se possa riferirsi anche alle difficoltà di
una sua lettura critica. Una domanda forse destinata a rimanere senza risposta
è se Lenel [...] abbia potuto o, pur potendolo, non abbia voluto tener conto
delle Verrianische Forschungen di R.
Reitzenstein, che sono del 1887 e che hanno aperto la strada all'esame
stratigrafico delle glosse delle "seconde'' parti delle singole lettere,
in cui si articola l'epitome festina e che non avrebbe mancato di suggerire o
qualche maggiore cautela nell'ordine di idee perseguito dal Lenel o, viceversa,
qualche maggiore fiducia nell'allargare la scelta anche fuori dell'opera
festina»); a cui aderisce, nella sostanza, F.
D'Ippolito, Otto Lenel e la
giurisprudenza romana, cit., pp. XLIII s.: «Vorrei qui attirare
l'attenzione sulla scelta dell'esclusione di Festo, Bisogna, infatti,
considerare che, quando la Palingenesia
vide la luce, l'edizione più attendibile dell'epitome festina era quella di
Karl Otfried Müller, la cui edizione è del 1839. [...] E forse ragionevole
pensare che Lenel considerasse l'edizione di Müller poco affidabile. Né, del
resto, appare immotivata la diffidenza di Lenel sulla tradizione letteraria dei
giuristi, esterna, per così dire alla Compilazione, se pensiamo alla non grande
diffusione delle edizioni critiche».
[37]
Contro questo atteggiamento, e contro altre e diverse motivazioni, tutte
comunque volte a negare la rilevanza dello ius
publicum per la scienza romanistica, vedi le penetranti critiche di R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, cit., pp. 532 ss.; il
grande studioso ribadisce ancora una volta in questo lavoro la ferma
convinzione che sarebbe «sommamente utile una Palingenesia iuris romani publici, in cui venissero raccolte tutte
le testimonianze e tutti gli squarci di autori giuridici e non giuridici
concernenti lo ius publicum» (p. 533
n. 26).
Per
la critica alle posizioni del Lenel, vedi anche L. Raggi, Storia
esterna e storia interna del diritto nella letteratura romanistica, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano
62, 1959, pp. 199 ss. = Id., Scritti, Milano 1975, pp. 72 ss., il
quale evidenzia il persistere in esse della distinzione formulata dal Leibniz
tra storia esterna e storia interna del diritto: «Da sottolienare inoltre come
questa concezione leibniziana riecheggi la convinzione – a tutt'oggi non ancora
scomparsa – dell'estraneità dello jus
publicum alla concezione romana dello jus»
(p. 85; ivi anche n. 30).
[38]
Per questo atteggiamento del Lenel, sembra trovare una qualche giustificazioni F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza
romana, cit., p. XLV, quando parla di un «suo inevitabile ritrarsi di fronte
alla sterminata platea della tradizione “letteraria”' della giurisprudenza
romana (ancora tutta da indagare)».
[39]
A. Heimberger, Il diritto romano privato e puro, trad.
it. di C. Bosio, 3ª ed., Bellinzona 1851.
[40]
Cfr., ad esempio, quanto scriveva a proposito del Sigonio C. Bosio, Prefazione del Traduttore alla versione italiana del manuale di A. Heimberger, Il diritto romano privato e puro, cit., p. IX: «L'opera del
Sigonio, De antiquo jure populi romani,
ancorché utilissima anche al presente, più che del vero diritto romano, si occupa della parte
storica e archeologica del medesimo».
[41]
Mette conto notare, per quanto riguarda il titolo dell'opera, una evidente
contraddizione da parte del Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit., col.
10; lo studioso tedesco adotta la forma De
verborum, quae ad ius civile pertinent significatione), discostandosi, in
tal modo, in tal modo, dalla tradizione dei Digesta
(che pure segue rigidamente per la scelta dei frammenti), dove nella inscriptio a D. 50, 16, 157 (Aelius
Gallus, libro primo de verborum quae ad
ius pertinent significatione: Paries est sive murus sive maceria est. Item via
est, sive semita sive iter est) non compare l'aggettivo civile riferito a ius.
Il
titolo dell'opera, nella forma accolta dal giurista tedesco, è attestato in
Gellio, Noct. Att. 16, 5, 3 (C. Aelius Gallus in libro de significatione
verborum, quae ad ius civile pertinent, secundo ...; cfr. anche Macrobio, Sat. 6, 8, 16; Servio, Ad Georg. 1, 264), che però non figura
nella Palingenesia.
[43]
Tali sono, ad esempio,le seguenti glosse: Festo, v. Municeps, p. 126 L.; v. Necessari,
p. 158 L.; v. Nexum, p. 160 L.; v. Perfugam, p. 236 L.; v. Possessio, p. 260 L.; v. Postliminium, p. 244 L.; v. Reciperatio, p. 342 L.; v. Relegati, p. 348 L.; v. Religiosus, p. 287 L.; v. Reus, p. 336L.; v. Rogatio, p. 326 L.; v. Sacer
mons, p. 424 L.; v. Saltum, p.
392 L.; v. Senatus decretum, p. 454;
v. Sepulchrum, p. 456 L.; v. Sobrinus, p. 379 L.; v. Stirpem, p. 412 L.
Su
questi passi, oltre alla bibliografia citata infra in n. seguente, vedi anche R.
Martini, Le definizioni dei
giuristi romani, Milano 1966, pp. 129 ss.
[44]
Sul giurista vedi, tra gli altri, E.
Klebs, Aelius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 1, 1, Stuttgart 1893, coll. 492 s.; H. Bardon, La littérature latine inconnue, I. L'époque républicaine, Paris
1952, p. 302; II, 1956, p. 110; R.
Orestano, Gallo C. Elio, in Novissimo Digesto Italiano, VII, Torino
1961, p. 738; A. Guarino, Esegesi delle fonti del diritto romano
(a cura di L. Labruna), I, Napoli 1968, pp. 145 s.; F. Bona, Alla ricerca
del "De verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione'' di C.
Elio Gallo, in Bullettino dell'Istituto
di diritto romano 90, 1990, pp. 119 ss.; G.
Falcone, Per una datazione del «de
verborum quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in Annali del Seminario Giuridico
dell'Università di Palermo 41, 1991, pp. 225 ss.
[45]
Il titolo dell'opera non è sicuro, essendo variamente citato nelle fonti. In
particolare non è per niente certo che in esso risultasse esplicito il
riferimento allo ius civile; tuttavia
la maggior parte della dottrina si orienta in tal senso: Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 10; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, p.
246; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae
1907, p. 545; Ph. E. Huschke - E. Seckel
- B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, 6ª ed., I, Lipsiae 1908, p. 37.
Cauto
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit., p. 119, parla di «titolo
usualmente tradito»; mentre propende per il titolo attestato nei Digesta e in alcune glosse festine G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit., p. 225 n. 2.
[47]
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit., pp. 119 ss.; G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit, pp. 225 ss.
[48]
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit, p. 126.
[49]
F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione'' di C. Elio Gallo, cit., 128 ss.
[50]
G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit., pp. 226 ss.
[51]
G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent
significatione» di Elio Gallo, cit., p. 260: in particolare si è affrontato
lo studio dei seguenti testi di Festo: v. Senatus
decretum, p. 454 L.; v. Sacer mons,
p. 424 L.; v. Possessio, p. 260 L.;
v. Reus, p. 336 L.; v. Rogatio, p. 326 L.
[52]
Ho trascritto quasi letteralmente l'opinione espressa al riguardo da L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 23:
«Leggendo i frammenti di Elio Gallo si acquista subito la convinzione che
questo giureconsulto mirava a definire colla maggiore brevità il concetto
giuridico. E che l'opera di Elio Gallo dovesse proprio avere questo carattere
di definizioni lo dimostra il fatto che negli excerpta verriani ricorre la formula: "Aelius Gallus o Gallus
Aelius sic (ita) definit''. E – si badi – solo negli estratti dell'opera di
Elio Gallo usa Verrio Flacco il "sic
definit''».
[53]
Allo stato, sembra prevalere in dottrina la tesi che Elio Gallo abbia seguito
un criterio di ripartizione per materia nella compilazione dell'opera.
Formulata da R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen, cit., p. 84 n.
2, tale tesi ha subito trovato convinte adesioni da parte di L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., p. 23; e di H. Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., p. 545; per una recente messa a punto
sulla questione, vedi F. Bona, Alla ricerca del "De verborum, quae ad
ius civile pertinent, significatione'' di C. Elio Gallo, cit., pp. 126 ss.,
a cui rimando per la dottrina precedente.
[54] H. Bardon, La littérature latine inconnue,
I. L'époque républicaine, cit., p. 302: «Le juriste y avait le pas sur le
grammairien; l'auteur s'est occupé de fixer le sens exact des termes du droit
civil: l'étude du vocabulaire n'est pour lui qu'un moyen. Cette précision va
jusqu'au détail le plus menu. Un évident mepris de la forme littéraire amène
Aelius à présenter de façon analogue les termes étudiés: municeps est - qui, ou necessari
sunt - qui, ou nexum est - quodcumque.
La lourdeur de la phrase, encombrée de si,
de aut, de sine et de relatifs, a l'inélégance voulue de nombreux textes
juridiques latins: Aelius obéit, d'abord, à des préoccupations de clarté; en
outre, il n'est pas fâché que sa prose porte le marque du style du droit».
[55]
Per la verità, sulla questione se debba qualificarsi o no giurista Elio Gallo,
l'atteggiamento di molti dei romanisti resta a tutt'oggi ancora incerto. Ha
pesato certamente il dubbio fortissimo espresso dal Lenel (vedi supra nel testo); così come ha pesato
l'opinione del Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit.,
p. 245 («grammaticus iuris non ignarus»), e di illustri maestri quali P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, 4ª ed., Roma 1934, cit. nell'ed.
Milano 1958, p. 409, e R. Orestano,
Gallo C. Elio, cit., p. 738.
Ma
in altro senso, vedi P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des
römischen Rechts, Leipzig 1888, p. 69 (= Histoire des sources du droit romain, trad. franc., Paris 1894, p.
92); e con atteggiamento decisamente positivo, E. Klebs, Aelius Gallus,
cit., col. 492. Senza incertezze e con valide motivazioni, considera Elio Gallo
un giurista G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad
ius pertinent significatione» di Elio Gallo, cit., p. 226 n. 5.
[56]
Vissuto presumibilmente nell'ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, L. Cincius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 3, 2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.),
L. Cincio viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo
non giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des
römisches Rechts, cit., p. 69 n. 83 (= Histoire
des sources de droit romain, cit., p. 92 n. 2); H. Peter, Historicorum
Romanorum reliquiae, I, 2ª ed., Stutgardiae 1914 (rist. an. 1967), p. CV; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I,
4ª ed., München 1927 (rist. 1966), pp. 175 s.; F. Bona, Contributo
allo studio del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, cit., p. 158; e
da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, I, cit., p.
570; ma in altro senso già L. Ceci,
Le etimologie dei giureconsulti romani,
cit., p. 71; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit.,
p. 252; Huschke - Seckel - Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae, I,
cit., p. 24; e più di recente M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
Napoli 1971, pp. 17 s. (= 2ª ed., Napoli 1982, p. 16); S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, in La critica del
testo. Atti del secondo congresso internazionale della Società Italiana di
Storia del diritto, Firenze 1971, pp. 461 s.; V. Giuffrè, La letteratura
"de re militari''. Appunti per una storia degli ordinamenti militari,
Napoli 1974, pp. 38 ss.
[57]
I frammenti superstiti di tali opere sono raccolti in L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., pp. 71 ss.; Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., pp. 252 ss.; Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., pp. 371 ss.; Huschke - Seckel - Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae, I, cit., pp. 24 ss.
[58]
Cfr. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit, p. 16: «Sulla potestas consulis,
fra le altre potestetes, si era soffermato
il pensiero storico-giuridico dell'età dei Gracchi, o immediatamente successivo
[...] Egli (Cincio) si occupava anche, in un libro apposito, dei comitia. Da una brevissima citazione di
Festo sul valore del termine patricii,
l'unica testimonianza che disponiamo, non è possibile farsi un'idea di quel libro.
Il suo carattere antiquario è scontato, ma non si deve neanche escludere
l'intento di riannodare i molti fili di una riflessione che, in stretto
rapporto con la prassi politica, si era più volte soffermata sui poteri
dell'assemblea cittadini».
[59]
Nel testo di Cincio S. Mazzarino,
Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., p. 462, vede una
«dottrina che, per il suo carattere arcaico, è precisamente vicina alla
originaria concezione del patriciato»; quanto alla posizione ideologica del
nostro giurista, vale il seguito della citata pagina del Mazzarino:
«Evidentemente ci sono in Livio due concezioni: quella volgata, che fa i plebei
liberi come i patricii; e l'altra,
secondo la quale i patricii, ed essi soltanto, sarebbero stati, in origine, gli
ingenui. La seconda tradizione è
tipica del giurista L. Cincius; ma può avvicinarsi a quella di Cicerone, che fa
la plebe romulea in clientelas principum
discriptam».
[60]
Così sostengono M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., p. 16 («Un oggetto nuovo d'indagine, destinato a una notevole fortuna
nella giurisprudenza fra il II e il III secolo d.C., era invece rappresentato
dalla res militaris, a cui si
intitola un ampio scritto di Lucio Cincio») e V.
Giuffrè, La letteratura "de
re militari''. Appunti per una storia degli ordinamenti militari, cit., p.
38 (anche per questo studioso «L. Cincius
fu il primo giurista ad introdurre come materia nuova d'indagine la res militaris»).
[61]
Festo, v. Nuncupata pecunia, p.176
L.: Nuncupata pecunia est, ut ait Cincius
in lib. II de officio iurisconsulti, nominata, certa, nominibus propriis
pronuntiata: “cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto”: id est uti nominarit, locutusve erit, ita ius esto. Vota nuncupata
dicuntur, quae consules, praetores, cum in provinciam proficiscuntur, faciunt:
ea in tabulas praesentibus multis referuntur.
[62]
Tali sono, ad esempio: Festo, v. Nuptias,
p. 174 L.; Festo, v. <Novalem
a>grum, p. 180 L.; Servio, Ad Aen.
4, 56 (Delubrum); Paolo, Fest. ep., v. Gentilis, p. 83 L.
Sul
carattere dell'opera, vedi le osservazione premesse dal Bremer alla raccolta dei relativi frammenti (Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit.,
p. 256: «Non de omnino priscis verbis, sed tantum de iis videtur scripsisse,
quae vel ad res publicas vel ad iurisconsultum pertinent. Certe quae reliqua
sunt, huius fere generis sunt»).