Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-6
Riflessioni su Paul. D. 25.2.1
Sassari 1989
Cap. II
FONTI SULLA NATURA COMUNITARIA DEL MATRIMONIO ROMANO
Sommario:
1. Una questione preliminare: ius o humanitas?. 2. La definizione del matrimonio come consortium e/o societas. a. Consortium omnis vitae. b. Societas coniugalis. 3. Definizioni
della uxor come (con) domina. a. «Dove tu Gaio io Gaia ... dove tu signore e padrone anche io
signora e padrona». b. Uxor domina nelle formule testamentarie.
4. Uxor amministratrice domestica. Il 'potere delle chiavi'
delle uxores dalle XII tabulae a Tertulliano. 5. Attestazioni di una comunità coniugale di
beni nel matrimonio cd. cum manu.
a. Communio
omnium bonorum. b. Ripudio e divisione dei
beni comuni. c. Successione reciproca
tra coniugi? 6. Continuità
— anche — di regime patrimoniale tra il matrimonium cd. cum manu
e il regime dotale. a. La
dottrina più recente: continuità nel segno del potere maritale ed
'evoluzione' nel segno della liberazione muliebre. b. La laudatio Turiae
e il patrimonium commune. c. Il Senatoconsulto silaniano: i servi del maritus
'e' della uxor. d. La dos dal matrimonio cd. cum
manu al matrimonio cd. sine manu.
e. Regime patrimoniale del divorzio dopo
Spurio Carvilio Ruga: dalla divisione dei beni comuni alla actio rei uxoriae.
[p.
39]
Per
quanto sia nota la frequenza presso le fonti romane di ogni epoca, della
nozione societaria e comunitaria del matrimonio, non mi consta che sia stata
realizzata una raccolta organica delle fonti sia 'giuridiche' sia 'letterarie' in materia di societé/o comunione coniugale.
A
una simile iniziativa ha — credo — ostato la chiusura —
sarebbe forse più giusto parlare di 'rigetto
— di natura dogmatico — sistematica consolidatasi nei confronti di
tutte le fonti — pur giuridiche — le quali affermino o lascino
comunque intendere la esistenza di una comunione domestica, anche soltanto tra
coniugi.
Tentare
una raccolta e una considerazione complessiva di tali fonti può allora
apparire in partenza fatica sprecata, almeno sotto il profilo e ai fini di una
ricostruzione giuridica dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
In
realtà, la pregiudiziale chiusura dottrinaria a ogni loro valutazione
giuridica è, già allo stato della dottrina, molto meno solida di
quanto, in forma tralatizia, si soglia credere.
Il
rigetto (della rilevanza giuridica) delle fonti in questione infatti è,
per quanto concorde, operato in forza di due argomenti che, essendo di segno
opposto, si elidono a vicenda, lasciandolo così oggettivamente
ingiustificato.
L'argomento
più diffuso, che si fa comunemente risalire allo Schulz e che, comunque,
ha avuto dallo Schulz la formulazione più completa è che questo
tipo
[p.
40]
di fonti non
esprime lo stato di diritto ma — soltanto — uno stato di fatto che
a quello di diritto si oppone, bilanciandolo in forza e in nome di una "humanitas" capace di temperare
nella vita pratica i rigori dogmatico-sistematici della giuridicità,
pure restando ad essa assolutamente estranea: «Was das Ehegüterrecht
angeht, so ist die Frau bei der Manusehe vermögensunfähig; alles was
sie hat und erwirbt, fällt an den Mann zu dessen freier Verfügung. Bei der freien Ehe gilt Gütertrennung, und nur durch
die Dosbestellung erhält der Mann Rechte am Frauengut. Die humanitas mildert diese schroffen
Rechtssätze. Sie verpflichtet die Frau, wenn irgend möglich, dem Mann
eine dos zu bestellen; sie bewirckt
auch, daß die römischen Ehegatten tats„chlich in Gütergemeinschaft leben: alles
ist gemeinschaftlich, keiner hat eine sondergut etc.etc.»[1]. In effetti lo Schulz ha costruito nei
suoi Principii una coerente teoria
generale del Diritto romano ove — come suol dirsi — 'tout se tient'. In particolare il suo concetto della romana 'Humanität' la quale
proprio nell'ambito familiare troverebbe le massime forme di espressione) si
sostiene, vicendevolmente puntellandosi, con quello altrettanto se non ancora
più fortunato di 'Isolierung' per cui, mentre «In der
Jugendzeit der Völker sind Recht, Sittlichkeit und Sitte überall
ineinander verwoben ... haben die Römer bereits in früher Zeit mit
ihrer Durchführung begonnen»[2].
Lo Schulz appoggia per altro la propria costruzione alla autorità di un
altro grande romanista tedesco, Rudolph von Jhering, sia per quanto concerne
[p. 41]
la idea che «der Fortschritt des Rechts besteht in der
Zerstörung jenes natürlichen Zusammenhangs, in unausgesetzter
Trennung und Isolierung» e che «Was Sitte ist, ist nicht bloß
darum schon Recht, wohl aber, was Gesetz ist», sia per quanto concerne la
idea che la famiglia sia la sede
specifica di "Sitte und Sittlichkeit": «Die Familie ist die
sittliche Erziehungsanstalt des Einzelnen, der Gatten sowohl wie der Kinder,
und sie ist eben damit die Quelle, aus der sich der sittliche Geist und die
sittliche Kraft des Volks immer von neuem ergänzt und verjüngt»[3]. Per altro, pure separando nettamente
'costume' da 'diritto', entrambi
questi autori sottolineano con forza carattere societario e comunitario del
matrimonio romano e della corrispondente dignità femminile in Roma
rispetto alla società greca, che viene invece — sotto questo
aspetto — assimilata a quelle 'orientali'[4].
Tra
questi autori, nello stesso ordine di idee — non cioè soltanto
cronologicamente — , si colloca, sotto il profilo che qui ci interessa,
anche il contributo del Bonfante.
Il
Bonfante sembra differenziarsene là dove critica la separazione (che
egli conosce ancora nella formulazione jheringhiana) tra costume e diritto sia,
in generale, sia in particolare a proposito della organizzazione familiare
romana: «dove diritto, morale, costume, religione penetrano egualmente;
il contenuto del precetto etico vuole essere identico <a quello
giuridico>:
[p.
42]
è questa
la base della presunzione che il diritto si debba conoscere da tutti, è
questa una delle leve dell'ordine sociale»[5].
Tuttavia anche secondo il Bonfante «La donna nella vita romana e nella
legge è il tema di una delle antitesi tra società romana e
diritto»[6]. Dopo avere esposto in termini quasi
epici il ruolo tutt'affatto speciale delle donne nella società romana (a
differenza, ancora, di quella greca) il Bonfante infatti scrive: «Ma se
dal quadro sociale ci volgiamo al diritto, l'immagine delle cose appare, per
così dire, capovolta.» La chiave che il Bonfante usa per uscire
dalla interna contraddizione è quella della natura politica (ovvero
"statuale") della famiglia romana: il «conflitto tra la
società e la legge» è soltanto "apparente"[7]
come soltanto apparente è la antitesi tra gli status di mater familias e di filia familias entrambi propri alla uxor in manu. Ma l'esempio che ci viene proposto per farci capire
è invero deludente: «Anche la sposa del re è detta regina:
nondimeno essa non è che suddita là dove le donne non
regnano»; in altri termini, il «carattere di mater familias non toglie nulla della sua condizione legale <di filia familias>, evidentemente non
è che un titolo di onore»[8].
L'‘escamotage' ricorda quello santiromaniano
[p.
43]
dei rapporti tra
ordinamenti per attribuire e negare al contempo il carattere della
giuridicità a fenomeni sociali determinati.
Questa
dottrina è risultata nelle conclusioni 'giuridiche' stranamente
corroborata, nel complessivo patrimonio del 'ciò
che si sa' della scienza romanistica,
da quella di autori, quali il Voigt prima e quindi il Solazzi, i quali
concorrono però in tutt'altro modo alla svalutazione delle fonti romane
— specialmente di quelle 'giuridiche' — attestanti un rapporto di
società — comunione tra i coniugi, sostenendone — in maniere
per altro anche tra loro difformi — origini esogene. Secondo il Voigt,
infatti, la concezione consortile del matrimonio non sarebbe (in origine)
romana ma giungerebbe in Roma attraverso la filosofia greca e sarebbe quindi
recepita dai letterati e dai giuristi romani della epoca cd. 'classica' come concezione esotica, sovrapposta sulle perduranti strutture
del Diritto romano. Tale tesi, avanzata sin dal 1858[9]
resiste sino a quando il Solazzi (1929) formula — riprendendo una
osservazione del Bonfante — la tesi della origine cristiana di quella
concezione e, per tanto (in forza di applicazioni del metodo
interpolazionistico), della datazione post-classica del suo inserimento nei
testi giuridici[10].
[p.
44]
E'
a questa ultima tesi che si connette la più rilevante differenziazione interpretativa
rispetto alla costruzione schulziana: viene cioè drasticamente negata la
stessa possibilità da parte di giuristi romani 'classici' di
affermazioni quali, ad esempio, quella famosa di Modestino in D. 23.2.1 o quella che Paolo (D. 25.2.1) attribuisce a Nerva e
Cassio. Il Solazzi ha cioè
fermamente contestato la possibilità di interpretare in termini
meramente 'umanitari' le proposizioni dei giuristi 'classici' ed egli è tanto più insospettabile in tale sua
critica quanto più (a prescindere dalle sue doti di giurista e di
esegeta) è tuttavia negatore intransigente della rilevanza delle fonti
in questione per il sistema giuridico romano, specialmente 'classico'.
Osserva
il Solazzi — a proposito della definizione di Modestino — che
«I giuristi romani che l'avessero <il matrimonio> chiamato consortium omnis vitae, avrebbero
scritto una frase che suona, ma a vuoto. E i giuristi romani non fanno
letteratura.» Sempre il Solazzi afferma quindi — a proposito,
anche, della uxor quodammodo domina di Nerva e Cassio (Paul. D.
25.2.1) — che «in una opera giuridica la proposizione domini existimantur non potrebbe essere
accolta con un valore diverso da quello del diritto dominicale». Ma,
poiché non è per ciò disposto ad alcuna apertura di
credito nei confronti della ipotesi della comunione domestica, il Solazzi
risolve il problema con una sprezzante attitudine a vedere in ogni passo
giuridico che contenga proposizioni di quella natura "raffazzonate"
interpolazioni di «commentatori postclassici sedotti da istituzioni e
costumi provinciali», con un conseguente implacabile esercizio di critica
distruttiva nei confronti di tali proposizioni; proposizioni che invece
imperatori anche attenti alla tutela del Diritto romano, come Diocleziano (con
i suoi consiglieri),
[p.
45]
dovevano tenersi
«per la impossibilità di sottoporre le fonti alla critica che noi
sappiamo e dobbiamo esercitare»[11].
Ma
la espunzione, come raffazzonate interpolazioni, di tutte le
"proposizioni" scomode si è dimostrata impresa superiore anche
alla puntigliosa acribia filologica della moderna dottrina giusromanistica, la
quale (avendo rinunciato a purgare di presunte interpolazioni le fonti
principalmente attestanti 'Personen-' e 'Vermögensgemeinschaft' tra i coniugi)[12]
è rimasta, in conclusione, sbilanciata tra la inalterata fermezza nel
non dare loro séguito dogmatico-sistematico e la invece profondamente
scossa fiducia in entrambi i due possibili, alternativi argomenti su cui quella
fermezza dovrebbe basarsi: sulla possibilità cioè di ritenere o non giuridiche o non di giuristi ('classici') le proposizioni sub iudice.
Se
dunque questi due generi argomentativi, lungi dal sostenersi — come di
fatto e contra rationem accade
— , si elidono a vicenda, diverso è il discorso che va condotto a proposito
della tesi sostenuta dall'Ehrhardt e consacrata nella Real-Encyclopädie di Pauly e Wissowa alla voce "Nuptiae" (1937). Secondo questo
autore (il quale pure si riallaccia programmaticamente allo Jhering, facendone
intendere una lettura diversa da quella operatane — ad esempio —
dallo Schulz) nelle fonti romane sia giuridiche sia letterarie occorrerebbe
[p.
46]
distinguere due
diversi tipi di affermazioni relative alla società coniugale: uno
proto-romano di natura giuridica (al quale farebbero capo Mod D. 23.2.1[13];
Paul. D 25.2.1[14];
Triph. D. 47.1.52[15];
Gord. C. 9.32.4[16])
e uno greco di origine socratica e di natura filosofica al quale, una volta
penetrato attraverso Cicerone nella cultura romana, farebbero invece capo,
oltre che i testi ciceroniani[17],
vari passi del retore Quintiliano[18]
e, tra le fonti giuridiche, Pap. D.
39.5.31 pr.[19]
Mentre il primo 'tipo' comporta una vera e propria 'Vermögensgemeinschaft' tra i coniugi, il secondo evocherebbe
soltanto un sodalizio 'spirituale'. Quindi — secondo l'Ehrhardt-[20]
il Diritto romano
[p.
47]
ha conosciuto e
disciplinato la comunione dei beni tra coniugi ma — ed è questo il
punto su cui occorrerà tornare — solamente nel matrimonium cd. cum manu, ed è esclusivamente a questo matrimonio che si
riferirebbero tutte le fonti — anche tarde — del primo tipo.
Occorre
infine ricordare che, secondo lo studio del Maschi[21],
la humanitas — come la aequitas — è categoria non 'alternativa' al giuridico bensì giuridicamente rilevante, attraverso la
quale il pretore (forse) prima e il principe (cautamente) poi vanno correggendo
il ius civile tramandato dai veteres. Per quanto attiene la
applicazione della humanitas alla
istituzione coniugale, il Maschi presuppone il modificarsi della concezione di
fondo del matrimonio nel senso di una crescente dignità del ruolo
femminile in parallelo a una sua crescente 'parificazione' a quello maschile[22].
Ma occorre chiedersi: non possiamo invece credere che tale 'recente' concezione sia
invece risalente, cambiando piuttosto altri elementi della istituzione
coniugale, ciò che rende i 'vecchi' strumenti di diritto civile inadeguati
a darle quella realizzazione che le avevano assicurato in precedenza,
così da doversi invocare la humanitas
per il necessario adeguamento? In altri termini, potrebbe ben essere non la
idea della società e della comunione coniugale (idea la quale
rappresenterebbe anzi proprio l'elemento di continuità) ma piuttosto la
sua traduzione giuridica, a venire realizzata attraverso lo strumento di 'ideologia giuridica' della humanitas.
[p. 48]
E'
notissima la definizione di Modestino, nel libro primo delle sue Regulae:
Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et
humani iuris communicatio (D. 23.2.1).
Non
mi soffermerò a discutere del 'valore
giuridico' del testo di Modestino. Mi
basterà ricordare, con il Solazzi, che i testi dei giuristi romani 'classici' non sono "letteratura" e, con l'Albertario, che si tratta
appunto di un testo 'classico'[23]
. Il problema
[p.
49]
è,
piuttosto, capire se il consortium,
di cui Modestino parla, si riferisca soltanto o meno al matrimonium cd. cum manu
e in che cosa, quindi, consista sia in termini di principî sia in termini
di regime. A tale fine — secondo il metodo proposto — occorre,
prima di tutto, una ricognizione delle fonti romane sulla natura societaria
ovvero — appunto — consortile del matrimonio, al fine di collocare
ciascuna di esse — a partire precisamente dallo stesso Mod. D. 23.2.1 — nel giusto contesto
di lettura.
La
categoria di consortium/consors
corrisponde ad un preciso istituto (i cui ruolo e memoria sono nella storia del
Diritto romano certamente significativi) definito da Gaio (3.154)[24]
— in riferimento al rapporto tra gli heredes
sui "mortuo patre familias"
— legitima simul et naturalis
societas, la cui caratteristica era quella di un dominium indivisum del quale ciascun socio aveva la piena
titolarità e disponibilità[25].
Merita inoltre sottolineare l'uso
[p.
50]
dell'aggettivo 'naturalis' perché il matrimonium é considerato
istituto di ius naturale per
eccellenza[26].
I
termini consortium — consors/tes sono tutt'altro che
ricorrenti nel lessico delle fonti giuridiche romane[27]
ma proprio per ciò acquista un particolare rilievo il loro ricorso,
sempre in fonti giuridiche, nella specifica accezione volta a designare il
rapporto coniugale e, rispettivamente, ciascuno dei due coniugi[28].
Per
altro, l'uso che ne fa Modestino è ben lungi dall'essere un fenomeno
isolato nel quadro della letteratura romana.
Esso
appare frequentemente già presso autori dell'ultimo secolo a.C. e del
primo secolo d.C. In Ovidio, che
definisce Giunone "consors"
di Giove (met. 6.94),
[p.
51]
si incontrano
anche le espressioni consors tori (met. 1.319) e consors thalami (met. 10.
246) per indicare le spose[29].
La espressione consors thalami si
ritrova quindi presso Seneca figlio (Agam.
256; Thiest. 235), il quale anche
definisce Giunone "consors sceptri" di Giove (Agam. 349), e presso Silio Italico (Pun. 3.63).
Quintiliano
ricorre prevalentemente alla categoria di societas
– socius[30]
ma talvolta accompagna a questa categoria la categoria di consortium - consors per definire il matrimonio e il coniuge:
Matrimonium vero tum
perpetuum est si mutua voluntate iungitur. Cum ergo quaeratur mihi uxor, socia
tori, vitae consors, in omne saeculum mihi eligenda est (decl. 376; p.417 ed. Ritter); Sane cedat vobis circa regendas communius
pignorum mentes sexus infirmior: vos mores, vos vitae genus, vos matrimonia,
ceterosque actus vestra persuasione firmetis: numquid arrogans consortium,
numquid impotens societas est, liberos communes esse languentes? (Ps. Quint. decl.mai.
8.7)
Secondo
Tacito (ann. 2.34) i matrimoni sono consortia secundarum adversarumque[31].
Il ricorso alla categoria del consortium
appare ancora presso due autori
[p.
52]
africani
(cartaginesi): Tertulliano (Cast.
12.2: consors onerum domesticorum) e
Draconzio, poeta cristiano del V secolo, il quale chiama consors matrona la uxor (Carmen de Deo 10.249).
Circa
il senso della definizione del matrimonio quale consortium e dei coniugi quali consortes
nella letteratura romana, può essere utile ricordare quanto dicono, sul
significato della parola in esame, autori per eccellenza attenti all'uso e al
significato delle parole:
Paul.Fest.p.269 M. Sors et patrimonium significat. Unde consortes dicimus;
Gell.n.A.
1.9.12 Societas inseparabilis, tamquam
illud fuit anticum consortium.
Due,
dunque, gli elementi evocati nell'uso di consortium
/ consortes a proposito — anche — di matrimonium / coniuges:
la comunione di beni e la — almeno tendenziale — perpetuità.
Ma,
dall'esame delle fonti letterarie, emerge una ulteriore caratterizzazione del
significato di consortium. Se già in Gellio il consortium è — come appena
visto — una societas ma, al
contempo, qualche cosa di più che una 'mera' societas: è una "societas inseparabilis",
Seneca contrappone addirittura il consortium
alla societas, in quanto soltanto nel primo si avrebbe la vera, integrale
comunione di beni il cui esempio è visto proprio nel rapporto coniugale
(ove la perfetta comunione si realizzerebbe — soltanto? — nei figli
comuni):
non enim mihi sic
cum amico communia omnia sunt, quomodo cum socio, ut pars mea sit, pars illius,
sed quomodo patri matrique communes liberi sunt, quibus cum duo sunt, non
singuli singulos
[p. 53]
habent, sed singuli binos. Primum omnium iam efficiam, ut, quisquis est
iste, qui me in societatem vocat, sciat se nihil mecum habere commune: quare?
quia hoc inter sapientes solum consortium est, inter quos <solos>
amicitia est; ceteri non magis amici sunt quam socii. Deinde pluribus modis communia sunt (benef. 7.12.1 ss.).
Tuttavia,
lo stesso Seneca usa la espressione societatem
contrahere come equivalente di uxorem
ducere (ben. 5.11.2) e afferma
nullius boni sine
socio iucunda possessio est (ad Lucil. 6.4; cfr. dial. 2.1.1).
Rispetto
alla categoria di consortium / consors
appare senz'altro più ricorrente il ricorso alla categoria di societas / socius per indicare
caratteristicamente il rapporto coniugale e il connesso status di coniuge.
Nel
CJC. si ricorre tre volte alla
menzione dell'istituto della societas
al fine di definire il reciproco status
dei coniugi e la natura del matrimonio:
Paul. D.
25.2.1 Rerum amotarum iudicium singulare
introductum est adversus eam quae uxor fuit, quia non placuit cum ea furti
agere posse: quibusdam existimantibus ne quidem furtum eam facere, ut Nerva
Cassio, quia societas vitae quodammodo dominam eam faceret: aliis, ut Sabino et
Proculo, furto quidem eam facere, sicuti filia patri faciat, sed furti non esse
actionem constituto iure, in qua sententia et Iulianus rectissime est;
Triph. D.
42.1.52 Si rerum amotarum cum viro
agatur, quamquam videatur ea quoque actio praecedentis societatis vitae causam
habuisse, in solidum condemnari debet, quoniam ex male contractu et delicto oritur;
Gord. CJ.
9.32.4 pr. (a.242) Adversus uxorem quae
socia rei humanae atque divinae domus suscipitur, mariti diem suum functi
successores expilatae hereditatis crimen intendere non possunt.
[p.
55]
Anche
a proposito di questi testi vale la osservazione metodologica, già fatta
a proposito di Mod. D. 23.2.11, circa
il valore giuridico dell'uso da parte di giuristi ('classici') di termini
cui corrispondono precisi istituti. Si può quindi specificamente
aggiungere la osservazione secondo cui i giuristi romani «in origine e
verosimilmente per tutta l'epoca classica ... col termine societas intendessero riferirsi non ad un atto giuridico bilaterale
o plurilaterale, ma semplicemente a un rapporto associativo, durevole, di
coordinazione e collaborazione fra più soggetti, indipendentemente dalla
fonte che gli dava origine»[32].
In
ogni caso, in tutti e tre i testi tale ricorso è finalizzato a
determinare o ad evocare precise conseguenze di regime patrimoniale: la
condizione di quodammodo domina della
uxor e, per tanto, la
impossibilità di furtum della
stessa a danno del marito in Paolo (il quale riferisce, senza accoglierla, la
opinione di Nerva e Cassio), la applicabilità del cd. beneficium competentiae nelle azioni tra coniugi a séguito
di divorzio in Trifonino e la impossibilità di intentare la actio expilatae hereditatis contro la
vedova in Gordiano.
Torneremo
su questi testi nei capitoli terzo e quarto della presente indagine[33]. Ci limitiamo ora a considerarli nel
contesto di una complessiva ricognizione dell'uso di societas — soci in
relazione a matrimonio e coniugi.
[p.
56]
L'uso
di socia per designare la condizione
con la quale la uxor veniva assunta
presso il marito è testimoniato già per il terzo secolo a.C.
dallo Stichus di Plauto:
Eos nos
magnificari, qui nos socias sumpserunt sibi (Stich. 1.2 v.44; cfr.<?> Truc. 434 s.).
Sallustio,
negando la qualità e la dignità di socia alle mogli nei paesi ove
si pratica la poligamia, mostra di connettere un contenuto non generico al
rapporto evocato dall'appellativo di socia
che i Romani usano nei confronti delle loro mogli (e viceversa):
apud Numidas
Maurosque ... singuli pro opibus quisque quam plurumas uxores, denas alii alii plures
habent, sed reges eo amplius. ita animus multitudine distrahitur:
nulla<m> pro socia optinet, pariter omnes viles sunt (Iug. 80.6 s.).
Con
Varrone e Cicerone l'uso della categoria di societas
a proposito della coppia coniugale assume o rivela motivazioni che definirei 'giusnaturalistiche'[34]
sino alla individuazione, in quella coppia, della cellula primigenia della
società civile:
Mas et femina
habent inter se natura quandam societatem (Varr. 1.L. 9.59; cfr. lo stesso Mod. D. 23.2.1
e Ulp. D. 1.1.1.3[35];
prima societas in ipso coniugio ...
[p.
57]
principium urbis et quasi seminarium
rei publicae (Cic. de
off. 1.17.54[36];
cfr. id., pro Font. 21.47...Nam ceterae feminae gignere ipsa praesidia
et habere domi fortunarum omnium socium participemque possunt ...).
La
concezione del matrimonium come societas fondante la 'società civile' appare per altro proiettarsi, nella
tradizione, alle origini 'storiche' di Roma, alla occasione cioè
del ratto delle Sabine e dei successivi connubî romano-sabini, dove
troviamo quindi una prima conferma in ordine ai contenuti patrimoniali della
stessa:
Tum, ex consilio
patrum, Romulus legatos circa vicinas gentes misit, qui societatem conubium
novo populo peterent (Liv.1.9.2); ipse Romulus circumibat, ... illas
tamen in matrimonio, in societate fortunarum omnium civitatisque, et, quo nihil
carius humano generi sit, liberum fore ... (1.9.14)[37].
[p.
58]
Ancora
presso Livio (4.5.5) le nozioni di consortium
e societas sono poste congiuntamente
a base, in indissolubile intreccio, e della res
publica e del conubium:
si in consortio,
si in societate rei publicae esse, ... si haec impediet aliquis ... nemo
dimicaturus pro superbis dominis, cum quibus nec in re publica honorum nec in
privata conubii societas est.
La
societas coniugale risulta, dunque,
sostanziarsi della 'comunione' di tre elementi fondamentali: tutti i
beni (fortunae omnes), la
cittadinanza e i figli.
In
Ovidio (di cui abbiamo visto il ricorso alla espressione consors tori, thalami) la espressione tori socia/ius per indicare la moglie o
il marito è così ricorrente da potersi dire topica (amor. 2.11.7[38];
3.6.82; met. 1.620; 8.521; 10.268;
14.67; ex Ponto 2.8.29)
[p.
59]
mentre in Seneca,
accanto alla espressione sociare tori
(Herc. 413; Oct. 284; Oed. 661 s.)[39]
si incontra la espressione socia thalami
(Phaedra 864 s.; cfr. Troades 677) e così in Silio
Italico (8.117 s.).
In
autori di questa epoca si incontra anche l'uso di socia 'tout court' per
indicare, senza nessun altro elemento di specificazione, la uxor:
Sen. Herc.
<Oet. > 880 Tonantis socia; Val.Flacc. 6.449 s. ergo opibus magis et virginitatem tremendam
<Medea> Iuno duci sociam coniungere quaerit Achivo <Giasone>; Stat.
Achill. 2.53 aetherii sociam rectoris.
Columella
definisce il maritale coniugium:
non solum
iucundissima, verum etiam utilissima vitae societas
(r.r. 12 praef. 1)
alla quale
attribuisce non soltanto compiti di propagazione del genere umano e di mutui
aiuto e difesa per gli esseri umani nella vecchiaia, ma anche precise
finalità di cooperazione economico-patrimoniale[40].
Nelle opere
retoriche di Quintiliano (e dello pseudo-Quintiliano) ricorre in varie
occasioni la categoria di societas
per definire il matrimonio.
Abbiamo
[p.
60]
visto l'uso di societas/socia tori accanto a quello di consors vitae a proposito della uxor in uno specifico contesto di
definizione del matrimonium nella declamatio minor 376 e nella declamatio maior 8. Anche nella declamatio <?> 368 il tema
è la natura del matrimonio:
Matrimonia sunt
ab ipsa rerum natura inventa. Sic mares feminis iunguntur ut imbecillior sexus
praesidium ex mutua societate sumat (p. 403
ed.Ritter),
con un
riferimento quindi abbastanza preciso della funzione del matrimonium / mutua societas alla funzione del contratto di
società. Nella declamatio 19 si parte dal presupposto
che nella societas coniugalis tutto
venga posto in comune per rivendicare contro tale fusione il diritto di ciascun
coniuge ad avere almeno qualche propria e diversa intenzione:
nec adeo
coniugali societate cuncta miscentur, ut nihil sibi adversus hanc concordiam
proprium relinquat animus (decl.
19.7).
Ma
la declamatio più
interessante, sotto il profilo della
coniugalis societas, è la declamatio
247, essenzialmente dedicata proprio a stabilire se la (menzione della) societas vitae sia requisito necessario
o meno (nella definizione: finitio)
del matrimonium.
[p. 61]
Il
tema della declamatio 247 è,
secondo il solito, alquanto paradossale:
Adulescens
locuples rapuit; priusquam optaret puella, misit ad eam propinquos rogatum ut
nuptias haberet. Auditis illa precibus tacuit et flevit. Percussit se adulescens. Priusquam
expiraret, optavit illa nuptias. Petunt bona propinqui et uxor.
In
sostanza, la discussione che segue verte sulla sussistenza o meno del
matrimonio tra i due giovani e tale sussistenza come la negazione di essa
vengono fatte discendere da diverse definizioni del matrimonio. Secondo i propinqui del defunto
«uxor est quae femina viro nuptiis conlocata
in societatem vitae venit»
e, per tanto, il
mero consenso non perfezionerebbe il matrimonio[41],
mentre la puella afferma:
«Uxor sum: nuptias enim optavi. Optando statim maritum habere illum
coepi: necesse enim erat illi marito esse si viveret; nec tempore fit
matrimonium sed iure».
Fermo
restando che «nuptias enim non
concubitus, sed consensus facit» (Ulp. D. 35.1.15), la natura giuridica del matrimonio romano è
argomento dibattuto
[p.
62]
presso la
dottrina moderna; in particolare resta aperto il quesito della rilevanza di una
volontà iniziale rispetto alla continuazione della stessa[42].
Parrebbe che un problema simile dividesse le parti della nostra retorica
controversia. Il problema posto da
Quintiliano non è, infatti, se con il matrimonium si instauri o meno la societas vitae, ma se il matrimonium
venga in essere per il semplice fatto che lo si è voluto e fino a
insorgere di volontà contraria o se occorra invece che siano
continuamente posti in essere atti che lo realizzino. La puella si reclama uxor
in forza della prima tesi (che è anche la tesi del retore). La
argomentazione — ovviamente — da retore anzi che da giurista,
appare tutt'altro che cristallina, ma il concetto che in questa sede ci
interessa cogliere risulta, in definitiva, chiaro, i beni si devono unire,
«patrimonium iungendum <est>»:
«est quidem ius matrimonii expletum, tamen
expecto et coitum et (id quod peto) patrimonium iungendum».
Occorre
sottolineare in questo testo il preciso riferimento agli aspetti patrimoniali
della societas coniugale. Secondo lo Ehrhardt infatti le
declamazioni dello Ps. Quintiliano (ivi compresa la decl. 247) sarebbero
la sede ove «An die Stelle der Idee einer materiellen und religiösen
Hausgemeinschaft, die durch
[p. 63]
das Recht begründet wird, tritt hier die Vorstellung personaler
Gemeinschaft, seelischer Übereinstimmung...»[43]
Se
la espressione di Stazio
creavit me tibi,
me socium longos adstrinxit in annos (ad Claudiam uxorem, Silvae 50.3.5 vv.106 s.)
non va al di
là della ulteriore prova della diffusione del concetto, più
interessante è l'uso che di koinonòs
(=socius) fa Plutarco a proposito del
matrimonio di Bruto:
«Io, o Bruto <dice la moglie, Porcia>,
essendo figlia di Catone, sono stata condotta alla tua casa non come una
concubina, che dividesse con te il letto e la mensa, ma per essere socia nelle
cose favorevoli e socia nelle avversità» (Brut. 13).
La
contrapposizione operata da Plutarco tra la condizione di concubina e quella di socia
(che rammenta la osservazione di Sallustio circa le mogli dei poligami —
Iug. 80.6 s.cit. supra, in questo
stesso prgf. — ) fornisce a questa ultima una rilevanza giuridica tanto
più precisa in quanto echeggia la contrapposizione tra concubina e uxor oggetto di attenzione da parte di vari giuristi 'classici'[44].
Può
[p.
64]
essere, a questo
proposito, interessante rilevare come già per la epoca di Plauto sia
attestato essere — nel matrimonio cd. sine
manu — discriminante tra matrimonio e concubinato la presenza o meno
della dote = patrimonio familiare:
Nolo ego mihi te
tam prospicere, qui meam egestatem leves / sed ut inops, infamis ne sim, me
mihi hanc famam differant / me germanam sororem in concubinatum tibi / sic sine
dote dedisse, magis quam in matrimonium[45].
A proposito del quale
patrimonio così, efficacemente, si esprime il García Garrido:
«La dote es para el matrimonio y, por tanto, es del marido como titular y
administrador de la sociedad coniugal en tanto ésta esista»[46].
Tornando
a Plutarco occorre, per altro, dire che egli appare un osservatore abbastanza
attento dell'istituto coniugale romano; è a lui, ad esempio, che
[p.
65]
dobbiamo la
conoscenza della famosissima formula
"Ubi tu Gaius, ego Gaia"
(q.R. 30 su cui v., infra, prgf.
3.a.).
Una
menzione merita anche Tac. ann.
12.5.16. Si tratta del discorso con
il quale Vitellio si incarica di ottenere il consenso del Senato alle nozze,
considerate incestuose[47],
tra Agrippina e l'Imperatore Claudio, suo zio:
«gravissimos
principis labores, quis orbem terrae capesset, egere adminiculis ut domestica
cura vacuus in commune consulat. Quod porro honestius censoriae mentis
levamentum quam adsumere coniugem, prosperis dubiisque sociam, cui cogitationes
intimas, cui parvos liberos tradat...».
Questo
discorso, in cui si colloca la consueta definizione della uxor come socia, ha di
notevole — innanzi tutto, ma non soltanto — il contesto. Si deve,
infatti, supporre che Vitellio, in un discorso rivolto a una assemblea di
senatori, voglia presentare l'eccezionale matrimonio tra Claudio e Agrippina
sotto le speci più rigorosamente consone al consolidato costume
giuridico. Ciò che è, per altro, confermato da vari elementi: la
stessa locuzione "prosperis
dubiisque socia" che suona come topica (cfr. lo stesso Tac. ann. 2.34; Germ. 18.10 ipsis incipientis matrimonii auspiciis
admonetur <mulier> venisse se laborum periculorum socia e
Plut. Brut. 13; q.R. 1) e le altre
[p.
66]
funzioni cui
viene dichiarata preposta la uxor: la
cura dei figli piccoli e, in generale, della amministrazione domestica (cfr., infra, prgf.4).
Con
S. Agostino, infine, conoscitore profondo della letteratura romana 'classica', la concezione tradizionalmente romana del matrimonio come societas si sovrappone sulla (o funge da
supporto alla) nuova visione cristiana;
la societas vitae matrimoniale
di Gaio e Gaia si proietta così nella Genesi, dove — per altro
— deve oramai fare i conti con il peccato originale:
vel ille
<Adamo> Dei mandato uxoris <Eva> praeponerat voluntatem putaretque
se venialiter transgressorem esse praecepti, si vitae suae sociam non desereret
etiam in societate peccati.
[p.
67]
Abbiamo
visto che tra le fonti nelle quali la uxor
è detta socia del marito
alcune (Paul. D. 25.2.1; Liv.
1.9.14; Quint. decl. 19.7 e decl. 247)
fanno anche esplicito riferimento ad una comunione dei beni coniugali. Paolo,
riportando una opinione di Nerva e di Cassio, scrive che la societas vitae fa la uxor "quodammodo domina", Livio parla di
una societas fortunarum omnium e
Quintiliano (decl. 19) di una coniugalis societas in cui cuncta miscentur, mentre nella decl. 247 ricorre quindi la espressione,
di significato ancora più chiaramente economico,: ius matrimonii expletum ... patrimonium
iungendum.
Dunque,
la societas coniugale non intesa
soltanto come società di affetti ma anche come società di beni: fortunarum omnium.
Realmente,
presso le fonti letterarie non mancano espliciti riferimenti ad una condizione
di (con) domina della uxor rispetto ai beni che siamo avvezzi
a considerare di esclusiva titolarità del marito.
Già
Plauto, nel "Prologo" della Casina
presenta in termini condominiali il rapporto di una coppia coniugale: il marito
ha un servo "Est ei quidam servus"
(prol. 37) ma di questo servo la uxor
è indicata come "era sua"
(prol. 44 s.).
Cicerone
afferma che
Neque enim
civitas in seditione beata esse potest, nec in discordia dominorum domus
(de fin. 1.18.58).
[p.
68]
La
domus ha, per tanto, non uno ma due domini e si tratta di una affermazione
rilevante poiché ricorda proprio i termini della definizione ulpianea
del pater familias:
pater autem
familias appellatur, qui in domo dominium habet (D. 50.16.195.2).
Il
tema della uxor domina nella domus si ritrova ancora in Macrobio:
postridie autem
nuptam in domo viri dominium incipere oportet adipisci et rem facere divinam (sat. 1.15.22)
e anche per il
suo contemporaneo S.Agostino le donne che si sposano diventano dominae, con una importante precisazione
— sulla quale torneremo — circa la specifica competenza muliebre:
Cum autem ad
maritos veneritis, factae dominae apothecarum et cellariorum
(conf. 9.8.17).
Ma
che la uxor sia domina 'allo stesso modo del marito' risulta sopra tutto dalla famosa
formula del sacrum nuptiale
"dove tu Gaio, io Gaia"
la quale ci è riferita per intiero da Plutarco e che doveva
essere — ovviamente — per i Romani notissima tant'è che
autori romani come Cicerone (pro Mur.
12.27), Quintiliano (inst. or.
1.7.20) e l'anonimo autore del de
praenominibus (c.7)[48]
vi fanno riferimento senza però sentire
[p.
69]
la esigenza di
riprodurla. Scrive Plutarco:
Dià
tí tèn nínfen eiságontes légein
keleíusin. Opu sì Gaíos, egò Gaía ...
ópu sì kírios kaì oikodespótes, kaì
egò kuría kaì oikodé‚ spoina
(Perché coloro che conducono la sposa la invitano a dire: "dove tu
Gaio, io Gaia ... dove tu sei signore e padrone, anche io sono signora e
padrona[49]; Oti deí koinà gúnaixin
eînai tá andrôn kaì andràsi tà
gonaikôn (=dovevano essere comuni alle donne le cose degli uomini e
agli uomini le cose delle donne)[50].
La
equivalenza di titoli (Gaius — Gaia, pater
familias — mater familias)[51]
e, quindi, di status tra marito e moglie appare confermata dalla formula della coemptio così come ci è
riportata da Boezio
[p.
70]
Coemptio certis solemnitatibus
peragebatur: et sese in comeendo invicem interrogabant: Vir ita: an sibi mulier
materfamilias esse vellet? Illa respondebat: Velle. Item mulier interrogabat: An vir sibi paterfamilias esse vellet? Ille
respondebat: Velle[52].
Per
altro — anche se la dottrina romanistica ritiene che 'compratore' sia il
marito — e fermo restando che, in ogni caso, tale compera non comporta
stato servile (Gai. 1.123; Cic. de or.
1.56; Isid. or. 5.24.26), le fonti romane (sebbene tarde e letterarie) sono
concordi nell'affermare che la coemptio
sarebbe stata in realtà una compera reciproca: della moglie da parte del
marito e del marito da parte della moglie. Così affermano Nonio Marcello
(v. nubentes) che si rifà a
Varrone, Servio (in Verg.Aen. 4.103;
214; in Verg.Georg. 1.31), Boezio (loc.cit.) e Isidoro (loc. cit.)[53].
Lo stesso passo delle Istituzioni di
Gaio, cui si appoggia la dottrina moderna per respingere queste testimonianze,:
"emit is mulierem" (Gai.
1.113)[54].
[p.
71]
è il
risultato di una emendazione dello Studemund dall'originale "emit eum mulierem" che, secondo il
Bonfante con "probabilità per
lo meno eguale"[55],
l'Huschke corregge invece "emit eum
(mulier et is) mulierem".
La
connessione evidenziata nella formula «Dove tu Gaio io Gaia, dove tu
signore e padrone io signora e padrona» tra la equivalenza di nomi e la
equivalenza di diritti ricorda il famoso, sebbene contestato[56],
passo di Paolo ove il giurista argomenta al medesimo modo il 'condominio' tra padri e figli:
In suis heredibus
evidentius apparet continuationem dominii eo rem perducere, ut nulla videatur hereditas
fuisse, quasi olim hi domini essent, qui etiam vivo patre quodammodo domini
existimantur. Unde etiam filius familias appellatur sicut pater familias, sola
nota hac
adiecta, per quam distinguitur genitor ab eo qui genitus sit. (D. 28.2.11).
[p.
72]
L'epiteto
di domina a proposito della uxor si trova non soltanto presso fonti 'letterarie' ma anche in testi di giuristi ai quali — come ricorda il
Solazzi — non potevano certo sfuggire valore e pregnanza della categoria
di dominus. Oltre Paolo (che
riferisce la opinione di Nerva — Cassio: D. 25.2.1) anche Scevola — secondo quanto è provato da
due passi del Digesto — usa il termine domina a proposito della uxor, riportando la formula con il quale
il marito la menziona nel proprio testamento:
Uxorem et filium communem heredes instituit et uxoris fidei commisit in haec
verba: «peto a te, domina uxor, ...» (D.32.1.41 pr.)
Qui Marco homini
docto certa annua praestabat, testamento cavit: «domina sanctissima, scio
te de amicis meis curaturam ...» (D. 33.1.19.1).[57]
Questi
testi non soltanto sono riportati senza censure, anzi 'esemplarmente' da un
giurista 'classico', ma si deve anche supporre che la loro
stessa formulazione sia stata suggerita da giuristi nell'espletamento di una
delle più tipiche funzioni del 'cavere',
la predisposizione, cioè, delle formule testamentarie.
[p.
73]
Abbiamo
visto le fonti che definiscono il matrimonio come consortium — societas
nonché — corrispondentemente — la uxor come consors —
socia del marito e le fonti —a
quelle connesse — che fanno riferimento o, direttamente, affermano essere
la uxor 'quodammodo' (con) domina dei beni 'del' marito.
Questa
prima rassegna non può chiudersi senza una menzione delle fonti che
attestano il ruolo della uxor di
amministratrice dei beni familiari.
Già
la formula di ripudio che, secondo Cicerone, risale alle XII tavole
Illam suam suas
res sibi habere
iussit ex XII tab., claves ademit, exegit
(Cic. phil. 2.28.69)
lascia
chiaramente trasparire la natura 'istituzionale' della funzione di amministratrice
della domus coniugale propria della uxor nonché il nesso tra tale
funzione e il condominio coniugale. La fine del matrimonio è
giuridicamente espressa con la divisione delle "cose" (ognuno
riprende le "proprie") e con la restituzione da parte della donna
delle chiavi di casa, del simbolo cioè — oltre che concreto
strumento — del potere di gestione domestica[58].
[p.
74]
Che
sia propria alla uxor la funzione
(simboleggiata nella detenzione delle chiavi) della amministrazione del
complesso dei beni domestici è, per altro, confermato in vari altri
luoghi della letteratura romana.
Ancora
Cicerone ricorda in una lettera al fratello Quinto il compito proprio della
loro madre di sigillare (obsignare)
le anfore contenenti le derrate domestiche
Plane te rogo sic
tu olim matrem nostram facere memini, quae lagonas etiam inanes obsignabat, ne
dicerentur inanes aliquae fuisse quae furtim essent exsiccatae, sic tu etiam si
quod scribas non habebis, scribito tamen, ne furtum cessationis quaesivisse
videaris (Cic. fam.
16.26.2).
Columella,
che nel suo trattato sulla agricoltura attribuisce alla società
coniugale finalità economiche, descrive e propone, sia pure in termini
assai schematici, la divisione tradizionale dei compiti economici tra marito e
moglie, fornendone una spiegazione teorica in termini naturalistici. Non si tratta di una teoria originale di
Columella; egli cita l'Economico di
Senofonte ma nella traduzione e adattamento ai costumi romani fattane da
Cicerone[59]
in una opera andata perduta.
[p.
75]
Il
discorso di Columella prende le mosse dalla affermazione che con il maritale coniugium si costitisca una vitae societas per ricollegare quindi a
tale societas la divisione dei
compiti economici:
Tum etiam, cum
victus et cultus humanus non, uti feris, in propatulo ac silvestribus locis sed
domi sub tecto adcurandus erat, necessarium fuit alterutrum foris et sub divo
esse, qui labore et industria compararet, quae tectis reconderentur
— siquidem vel rusticari vel
navigare vel etiam genere alio negotiari necesse erat, ut aliquas facultates
adquireremus. Cum vero paratae res sub tectum essent congestae, alium esse
oportuit, qui et inlatas custodiret et ea conficeret opera, quae domi deberent
administrari: nam et fruges ceteraque alimenta terrestria indigebant tecti, et
ovium ceterarumque pecudum fetus atque fructus clauso custodiendi erant nec
minus reliqua utensilia, quibus aut alitur hominum genus aut etiam excolitur.
Quare, cum et operam et diligentiam
desiderarent ea, quae proposuimus, nec exigua cura foris adquirerentur, quae
domi custodiri oporteret, iure, ut dixi, natura comparata est <opera>
mulieris ad domesticam diligentiam, viri autem ad exercitationem forensem et
extraneam; itaque viro calores et frigora perpetienda,
tum etiam itinera et labores pacis ac
belli, id est rusticationis et militarium
stipendiorum, deus tribuit. Mulieri deinceps, quod omnibus his rebus eam fecerat inhabilem, domestica negotia curanda tradidit ... (Col. de r.r. 12 praef. 2-4).
[p.
76]
Quali
siano i domestica negotia di
competenza muliebre Columella spiega in dettaglio più oltre: guidare e
curare la servitù (12.1.4; 12.3.1°cpv.); custodire ordinatamente e
tenere la contabilità di quanto viene portato in casa, si tratti di
prodotti, di suppellettili o di attrezzi (12.2 e 12.3.1-5); provvedere —
dirigendo — alla lavorazione della lana, al vitto e alla pulizia
nonché a una serie di veri e propri lavori aziendali, quali
l'allevamento del bestiame, la tosatura delle pecore etc. (12.3. 4°cpv.).
Insomma, nella
società coniugale Columella vede una divisione tra maritus e uxor di compiti
economici che, come osserva il Tozzi[60],
sono sullo stesso piano anche se distinti: è maschile la crematistica
(la acquisizione di ricchezza tramite il commercio) mentre è femminile
la gestione della azienda domestica.
Non
va, per altro, dimenticato che la unità della societas vitae è garantita pur sempre dalla unità di
direzione riconosciuta all'uomo anche nell'ambito della domus (12.1.1°cpv. e 12.3.10 dove il ruolo dell'uomo nella casa
è assimigliato a quello dei nomofílakoi
spartani). Ciò che rammenta quel passo della laudatio Turiae in cui è menzione, a proposito del "patrimonium commune", di "arbitrium" del marito e di "ministerium" della moglie (Laud.Turiae 2.36 ss.cit.)[61]
[p.
77]
La
interpretazione del muliebre 'potere
delle chiavi', di cui è
memoria nelle dodici tavole, attraverso la lettura di Columella potrebbe
apparire opinabile in conseguenza della influenza senofontea sulla prefazione e
primi capitoli del 12° libro del De
re rustica, ma per convincersi del contrario si può confrontare la
concezione columelliana del ruolo di amministratrice domestica proprio alla
donna romana con altre due fonti, tanto opposte nella ispirazione quanto coincidenti nella
testimonianza che forniscono circa la concezione romana dei compiti della uxor.
La
prima fonte è costituita dalla relazione tacitiana circa gli argomenti
invocati da Vitellio per perorare la approvazione del Senato alle nozze tra
l'Imperatore Claudio e Agrippina[62]:
si tratta, fondamentalmente, della necessità di permettere
all'Imperatore la piena dedizione alle questioni pubbliche, sottraendolo agli
oneri della "cura domestica",
oneri da lasciare alla coniunx "prosperis dubiisque socia", cui
affidare anche l'allevamento dei figli.
E'
difficile pensare a qualcuno più lontano, per forma mentis, dal corrotto Vitellio del cartaginese Tertulliano,
apologista cristiano rigoroso sino alla eterodossia. Eppure, in prospettiva
speculare, egli fornisce la medesima informazione, sebbene con una precisione
analitica che più la avvicina a quella fornita da Columella:
[p.
78]
Scio quibus
causationibus coloremus insatiabilem carnis cupiditatem. Praetendimus
necessitate admniculorum: domum administrandam, familiam regendam, loculos,
claves custodiendas, lanificium dispensandum, victum procurandum, curas comminuendas.
Scilicet solis maritorum domibus bene est. Perierunt caelibum familiae, res
spadonum, fortunae militum aut peregrinantium sine uxoribus ... Nunc et consors
onerum domesticorum necessaria est? Tert. exhort.cast. 12.1 s.)[63]
La
funzione della amministrazione della domus
(direzione della servitù, custodia dei beni attraverso quelle medesime 'chiavi' di cui in XII tab. 4.3, lavorazione della lana, cucina etc.)
è non soltanto funzione della uxor
secondo il comune sentire, ma anche funzione insostituibile. E tale funzione si
riallaccia alla condizione della uxor
di "consors onerum domesticorum".
Il cerchio logico è così, ancora una volta, perfezionato.
Né — come ovvio — si tratta di una influenza della visione
cristiana del matrimonio, dal momento che — esattamente al contrario
— Tertulliano richiama con sufficienza gli argomenti del consorzio
domestico, come argomenti — a suo avviso — tralatizi, dei quali
proprio la dottrina cristiana metterebbe a nudo la mancanza di consistenza e la
natura di mere coperture della cupiditas
carnis.
[p.
79]
Dionigi
di Alicarnasso attribuisce espressamente ad una legge romulea la istituzione della
comunione di beni tra coniugi nel matrimonium
cd. cum manu:
Romulus una lege
lata ad modestiam adduxit mulieres. Quae lex haec erat: uxorem iustam, quae
nuptiis sacratis (confarreatione) in manum mariti convenisset, communionem cum
eo habere omnium bonorum et sacrorum (Dion.Hal.2.25.1
= BRUNS, Fontes 7^ed., 6 nt.2).
Di
questa precisa testimonianza non possiamo liberarci con la sufficienza di chi
afferma che mai sono esistiti né Romolo né, tanto meno, alcuna 'sua'
legge[64].
[p.
80]
Plutarco
non soltanto — come abbiamo visto — conserva anche egli la memoria
di questo antico regime patrimoniale del matrimonium
(cum manu?) quando spiega il
significato della formula "dove tu Gaio io Gaia" come "dove tu
signore e padrone io signora e padrona"[65]
ma fornisce poi, a proposito del regime del ripudio, elementi i quali si
intendono solo se si leggono in 'combinazione' con Dion.Hal. 25.2.1 ss.
Secondo
il Perozzi siamo dunque — almeno nel caso dei matrimoni confarreati
— dinnanzi ad una comunione di beni coniugale e di ciò egli trova
precisa conferma nel regime del ripudio: «DIONIGI ci dice che nei
matrimonii
[p.
81]
confarreati la
donna acquistava la comunione dei beni col marito, PLUTARCO deve riferirsi alle
stesse nozze quando ci dice che se la donna era ripudiata senza motivo,
metà di codesti beni divenivano suoi, metà era sacra a Cerere. La
norma per quel che riflette la donna non è infatti nient'altro che la
conseguenza della comunione affermata da DIONIGI.»[66]
[p.
82]
Pare anche a me
chiaro che al regime di comunione e alla connessa condizione di domina della uxor si riconnette la notizia circa la disciplina (patrimoniale)
del ripudio. Come ricorda il Perozzi, un'altra 'legge regia', attribuita
a Romolo da Plutarco,
uxori non
permittit divertere a marito, at marito permittit uxorem repudiare propter
veneficium circa prolem vel subiectionem clavium vel adulterium commissum, si
vero aliter quis a se dimitteret uxorem, bonorum eius partem uxoris fieri
partem Cereri sacram esse iussit; qui autem venderet uxorem, diis inferi
immolari (Rom.22 = BRUNS, Fontes7 p.6 nt.5)[67]
Pure
questa legge romulea appare riferirsi al matrimonium
cd. cum manu, come risulta dalla
possibilità giuridica di vendita della uxor da parte del marito (sebbene duramente repressa in forma che
potremmo dire minus quam perfecta)[68].
In tale contesto il ripudio, se non è fondato su alcuna delle —
poche — ipotesi
[p.
83]
di 'colpevolezza' della uxor
espressamente e tassativamente previste dalla legge, comporta che i beni 'del marito' siano a questo tolti e divisi in parti, che si debbono intendere
uguali, tra la moglie ripudiata e la dea Cerere. La metà dei beni va
dunque alla moglie in caso di ripudio che ella non abbia meritato a titolo di
sanzione. Ciò postula (così, appunto, come afferma Dionigi) che
la titolarità dei beni da parte dell'uomo sposato 'nasconda' o, meglio, 'contenga in sé' una loro (con-)titolarità da
parte della moglie, contitolarità che si manifesta con la attribuzione
ad essa della loro metà nelle ipotesi di rottura del vincolo coniugale
di cui la moglie stessa non sia responsabile per un qualche comportamento
illecito e non debba, quindi, subire pene.
A
suffragare tale interpretazione della legge romulea, contro quella — pure
possibile — di una mera pena pecuniaria a carico del marito ripudiante
senza giusto motivo e a favore della uxor,
milita la formula del ripudio, quale sancita dalla legge delle Dodici tavole:
Illam suam suas
res sibi habere iussit ex XII tab., claves ademit,
exegit (4.2 = Cic. phil. 2.28.69 = BRUNS, Fontes 7^ed., 22)[69],
la cui rilevanza
giuridica risulta da Gai.l.III ad XII tab.:
[p.
84]
Si ex lege
repudium missum non sit et idcirco mulier adhuc nupta esse videatur ...
(D.48.5.44 (43)).
E
ancora Gaio, pure senza citare la legge delle XII tavole, conferma il contenuto
della formula di ripudio, quale Cicerone attribuisce alla legge decemvirale:
In repudiis
autem, id est renuntiatione comprobata sunt haec verba: «tuas res tibi
habeto», item «tuas res tibi agito»
(D.24.2.2.1).
Anche
qui vale lo stesso quesito: quali "res
suae" avrebbe potuto avere una uxor
del V secolo a.C., cioè — di regola — in manu, se non si ammette una sua 'qualche' partecipazione
al dominium del marito e,
precisamente, nella misura che la legge romulea fissa nella metà?
Ciò che
inoltre colpisce e che ritengo vada sottolineato, contro la idea di un drastico
mutamento di regime patrimoniale nel corso della storia del matrimonio romano,
è la continuità dalle XII tavole a Gaio (e, quindi, dalla regola del matrimonio
cd. cum manu alla regola del
matrimonio cd. sine manu) della
medesima formula: «tuas res tibi
habeto»[70].
[p.
85]
La
corrispondenza di posizione patrimoniale tra pater e mater familias è testimoniata anche da
un passo del commento serviano alla Eneide:
Nam per
coemptionem facto matrimonio, sibi invicem succedebant
(ad Aen. 7.423).
Normalmente
questo passo serviano non viene ricordato se non per osservare che qui il
commentatore di Virgilio ha preso una cantonata giuridica[71].
In realtà la uxor in manu
essendo loco filiae del proprio
marito, per quel che 'sappiamo', non avrebbe dovuto avere alcun
patrimonio suo né, conseguentemente, avrebbe dovuto poter lasciare al
marito alcunché in eredità. Il discorso non è però
così piano come la dogmatica moderna vorrebbe. Per un lato, infatti, la
espressione di Servio ricorda quella dei giuristi 'classici' (Giuliano,
Papiniano, Ulpiano, Venuleio) i quali, in materia di matrimonium cd. sine manu,
affermano che il marito, non tenuto — per un motivo qualsiasi —
alla restituzione della dote una volta venuto meno il vincolo matrimoniale,
"lucra" (lucrat, lucrum facit) la dos della quale pure, sempre stando a quel che 'sappiamo', già
è dominus[72].
Per altro verso l'uso (improprio?) del verbo "succedere" a proposito del marito nei confronti della uxor filiae loco ricorda, in forma
speculare, la affermazione di Paolo (nella prosecuzione del passo or ora
citato) circa la improprietà
[p.
86]
della espressione
"hereditatem percipere"
usata a proposito degli heredes sui,
tra i quali è, appunto, la uxor in
manu:
itaque post mortem patris non
hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem
consequuntur.
[p.
87]
Se,
per trovare chi presta fede al
koinonós apánton kremáton tra uomo e donna nel matrimonium cd. cum manu, occorre rimontare alla dottrina romanistica più
risalente, è invece orientamento più recente quello della
reazione alla, una volta diffusa, convinzione della frattura profondissima,
anzi della completa contrapposizione fra matrimonium
cd. cum manu (o 'rigoroso') e matrimonium cd. sine manu (o 'libero')[73].
E' stato sopra tutti il Volterra a battersi contro questa convinzione,
tenacemente sostenendo in una lunga serie di scritti la continuità, anzi
la unità della natura del matrimonio romano nel corso dei secoli
(indipendentemente dalla accessione o meno dell'istituto della conventio in manum) come consortium omnis vitae, secondo la
definizione di Modestino (D. 23.2.1).
Per
altro, il Volterra non ritiene che tale continuità involga gli aspetti
patrimoniali del matrimonio romano[74].
In realtà, anche sul piano dei rapporti
[p.
88]
patrimoniali, la
differenza tra il matrimonium cd. cum manu e il matrimonium cd. sine manu
è decisamente meno consistente di quanto correntemente si creda e stimo
anzi lecito parlare di importanti elementi di omogeneità e/o
continuità della natura di tali rapporti patrimoniali tra il regime
matrimoniale in cui la uxor era loco filiae e quello non corroborato
dalla manus maritale. Lo sviluppo del
nuovo orientamento dottrinario, nel senso della continuità anzi che
della netta cesura nella storia dell'istituto matrimoniale romano, tende
infatti a involgerne ora gli aspetti patrimoniali, così oggettivamente
comportando la necessità di una ridiscussione della tesi schulziana
dell'individualismo giuridico (e della connessa schizofrenia tra regime
giuridico e regime di fatto: ius —
humanitas) del matrimonio di epoca cd.
'classica'.
Tuttavia,
anche chi in dottrina sostiene la sostanziale continuità di regime
patrimoniale tra matrimonio cd. cum manu
e matrimonio cd. sine manu non
è poi giunto a rimettere realmente in discussione quella tesi in forza,
sopra tutto, di un corrente schema interpretativo che sin per le 'origini' del matrimonio non vede alcuna forma di 'Vermögensgemeinschaft'
coniugale ma soltanto una assoluta, assorbente ed esclusiva 'Herrschaft' maritale. Così, esemplarmente, secondo uno studioso dello ius uxorium quale Garc¡a Garrido,
«los principios aplicables a la mujer en la conventio in manum..., por fuerza de la tradición, se
aplican también al matrimonio libre» e anche se sorgono
«normas particulares que, por imperativo de las nuevas circunstancias
sociales, van imponiéndose hasta integrar el régimen dotal y de
separación de bienes»,
[p. 89]
questo «nunca pierde su conexión con el
originario sistema de principios fuertemente arraigados, en las costumbres
romanas.»[75] Per altro, sempre secondo il
García Garrido, la storia del matrimonio romano è quella di un progressivo
affrancamento da una situazione di subordinazione della uxor al marito a una situazione di almeno tendenziale
parità attraverso, appunto,
il regime di divisione dei beni.
Sembra la sintesi della storia del matrimonio in età moderna
presso i Paesi di 'common law'[76].
[p.
90]
In
realtà, un testo assai noto, la laudatio
Turiae, la cui redazione viene datata all'inizio del I secolo d.C. e che il
Bruns ha inserito nella sua raccolta di Fontes
iuris Romani antiqui (Pars secunda:
Negotia), offre un quadro del regime patrimoniale del matrimonio cd. sine manu che appare ispirato alla
stessa idea della communio omnium bonorum
che Dionigi di Alicarnasso attribuisce alla legislazione matrimoniale romulea:
"patrimonium nostrum commune"
dice il vedovo di Turia, riferendosi ai beni 'suoi' e 'della moglie'.
Occorre
preliminarmente rimarcare che
Il
matrimonio di Turia è uno di quei matrimonî cd. sine manu. Non si tratta di una presunzione fondata
sulla ipotesi della infrequenza dei matrimonî cd. cum manu nella epoca della fine della Repubblica, ma di una
informazione che fornisce la stessa laudatio,
[p.
91]
seppure a contrario, per opposizione alla situazione
della sorella di Turia, la quale —invece— è appunto passata
nella manus del di lei marito Cluvius:
sororem omnium
rerum fore expertem <della eredità legittima
paterna>, quod emancupata esset Cluvio
(1.15 s.)[77].
Il
padre defunto ha, nel proprio testamento, istituito eredi sia ella medesima sia
suo marito:
testamentum
patris, quo nos eramus heredes (1.13) ... hereditatem teneremus (1.19)
dice infatti il
vedovo autore della laudatio. Turia
ha quindi certamente beni 'suoi' che si aggiungono alla certa dote e ai
beni 'originarî' del marito (tra i quali rientra, ad
es., quanto egli ha ereditato dal suocero). Tutti questi beni — non
soltanto quelli 'proprî’ della uxor, sono gestiti congiuntamente da marito e moglie:
Omne tuom
patrimonium acceptum ab parentibus communi diligentia conservavimus neque enim
erat adquirendi tibi cura, quod mihi tradidisti. Officia ita partiti sumus ut
ego tutelam tuae fortunae gererem, tu meae custodiam sustineres
(1.37 ss.).
In
questa affermazione appaiono, sopra tutto, tecnici i riferimenti alla tutela del marito e alla custodia della
moglie. La tutela del marito sulla
[p.
92]
fortuna della
moglie doveva essere quella testamentaria, attribuita dal pater di Turia o direttamente o attraverso l'istituto della optio tutoris (Gai. 1.148 ss.), mentre
il custodiam sustinere richiama
l'istituto del custodiam praestare,
cui era tenuto — tra gli altri — anche il socius che aveva l'uso della res
in societatem[78].
La gestione in comune del patrimonio coniugale che così risulta è
confermata da un ulteriore passaggio della laudatio,
quando il marito ricorda come Turia, essendo sterile, fosse giunta a
suggerirgli il divorzio (che egli per altro respinge) pur di permettergli di
generare dei figli:
ac futuros
liberos te communes proque tuis habituram adfirmares, neque patrimoni nostri, quod
adhuc fuerat commune, separationem facturam, sed in eodem arbitrio meo id et si
vellem tuo ministerio futurum
(2.45 ss.).
Ciò
che Turia propone è la continuazione, anche dopo l'eventuale divorzio,
del regime patrimoniale coniugale già descritto: patrimonio comune nell'arbitrium del marito e nel ministerium della moglie, ciò
che corrisponde appunto alla tutela
dell'uno e, rispettivamente, alla custodia
dell'altra.
Il
quadro offerto dalla Laudatio Turiae
è confermato, circa due generazioni dopo, da Columella, autore nel quale
ci siamo già imbattuti esaminando le fonti letterarie che menzionano la societas vitae coniugale. Anche per il
massimo commentatore della vita di una comunità agricola (o che,
comunque, ancora si ispira a valori agricoli), la societas vitae coniugale ha un contenuto giuridico di comunione di
beni, oltre
[p.
93]
che contenuti e
finalità economici — come già abbiamo visto — di
specializzazione dei ruoli e di cooperazione paritaria nella gestione degli
stessi:
Nihil
conspiciebatur in domo dividuum[79],
nihil, quod aut maritus aut femina proprium esse iuris sui diceret, sed in
commune conspirabatur ab utroque, ut cum forensibus negotiis matronalis
industria rationem parem faceret (12 praef. 8).
E'
vero che Columella parla all'imperfetto ma, al proposito, occorre osservare,
per un verso, che il regime da cui, secondo l'autore del De agricoltura, ci si allontana onde tendere verso la separazione
dei beni non è il regime del monopolio maschile ma quello di una
gestione condominiale di tutti i beni da parte dei coniugi e, per altro verso,
questo ultimo regime viene ulteriormente ribadito mezzo secolo dopo, da
Giovenale, secondo cui nulla il marito compra, vende o dona senza il consenso
della uxor:
nihil unquam invita donabis coniuge,
vendes. Haec obstante nihil,
haec si nolet, emetur (sat. 4
v.212).
[p.
94]
Commentando
il senatoconsulto silaniano (del 10 circa d.C.), anche Ulpiano appare avere
problemi interpretativi simili a quelli che (nella materia del 'con-dominio' coniugale) pongono la legge romulea e le XII tabulae:
Si vir aut uxor
occisi esse proponantur, de servis eorum quaestio habetur, quamquam neque viri
servi proprie uxoris dicantur neque uxoris proprie viri: sed quia commixta
familia est et una domus est, ita vindicando atque in propriis servis senatur
censuit (D.
29.5.1.15).
La
cautela di Ulpiano nel trattare la questione della proprietà dei servi 'del'
marito e dei servi 'della' moglie merita di essere
sottolineata. Egli non afferma che,
'tout court', i servi del marito non siano proprietà della moglie e
viceversa, ma ammorbidisce, per così dire, la negazione inserendo
l'avverbio "proprie", il
quale ricorda, in forma speculare, quella locuzione "quodam modo" sovente usata in contesti omologhi. Sebbene non via sia, dunque "propriamente" un con-dominio dei
servi, tuttavia la familia è commixta e una è la domus.
Qui
la moderna esegesi spiega (forse
non del tutto a torto ma, a mio avviso, in maniera certamente riduttiva) il
richiamo ulpianeo alla "commixta
familia" e alla "una domus"
con il criterio, proprio del senatoconsulto silaniano, del "sub eodem tecto esse" per la
individuazione dei servi dell'ucciso da sottoporsi a pubblica quaestio. Bisogna però non
dimenticare come, nel lungo frammento del liber
quinquagesimus ad edictum di Ulpiano, la interpretatio che questi
[p.
95]
opera del testo 'legislativo' si articola in una serie di questioni principali all'interno di
ciascuna delle quali vengono quindi individuate varie altre
sotto-questioni. La prima delle
questioni 'principali' consiste nella definizione di chi
siano i servi 'appartenenti' all'ucciso e, quindi, da inquisirsi.
La norma senatoria infatti, per dissuadere i servi dall'attentare alla vita dei
loro domini e, anzi, per costringerli a difenderla in ogni modo, stabiliva che
la familia necatorum fosse sottoposta a pubblica quaestio. Ulpiano si chiede
dunque, prima di tutto, cosa debba intendersi per "padroni (dei
servi)". Egli fornisce così una serie di risposte assai minuziose.
"Domini appellatione continetur"
— secondo Ulpiano — anche chi ha soltanto la nuda proprietà
dei servi, ma non chi ne ha il
possesso di buona fede o il solo usufrutto, chi li ha dati in pegno, l'erede
che, all'avverarsi di una determinata condizione, debba trasmetterli al
legatario o liberarli (nam medio tempore
heredis <servi> sunt), il condomino, il filius familias (prgf. 7 Domini appellatione et filius familias
ceterique liberi, qui in potestate sunt continentur: senatus consultum enim
Silanianum non solum ad patres familias, verum ad liberos quoque pertinet)
nonché i liberi non in potestate, in quanto i figli
manomessi conservavano una aspettativa ereditaria[80],
ma non (sempre per la stessa ratio)
[p.
96]
quelli dati in
adozione né le persone (libere) allevate in casa come figli. La estensione del concetto di dominus tra padre e figli (che coinvolge
non soltanto i servi del pater nella inquisitio per la uccisione del figlio
ma anche i servi del peculio
castrense del figlio nella inquisitio
per la uccisione del pater) non ha
luogo tra madre e figli[81].
La questione della definizione del nesso di proprietà-ppartenenza tra dominus ucciso e servi da inquisire si apre a questo punto al tema dei rapporti tra
coniugi. E in tale contesto 'cade' il prgf. 15 del frammento ulpianeo. Il
tema della rilevanza dei rapporti di cognazione ai fini della individuazione
dei soggetti del rapporto domini—servi
prosegue quindi con il
[p.
97]
quesito circa la
sorte dei servi del suocero
dell'ucciso, quesito che viene anche esso (come tutti quelli della questione
principale cui afferisce) deciso sulla scorta di un criterio certamente
giuridico di 'appartenenza' (ancorché non di immediata e
ovvia percezione) e non 'di fatto' (quale invece è, almeno
prevalentemente, quello del "sub
eodem tecto esse" ) tant'è che, in forza del senatoconsulto
silaniano, ucciso il marito, si procedeva non soltanto nei confronti dei servi della moglie ma anche di quelli
del suocero, mentre nel caso della uccisione della moglie sono inquisiti i servi della moglie e del marito ma non
quelli del suocero.[82]
Ulpiano prosegue la propria interpretatio
del senatoconsulto affrontando successivamente la questione del significato di
"uccisi" (prgf. 17 Occisorum
appellatione eos contineri Labeo scribit etc. e prgff. ss.), la questione del significato di "quaestio" (prgf. 25) e, solamente a
partire dal prgf. 26, la questione del significato di "sub eodem tecto", questione tale
ultima — come già ho osservato— impostata e risolta, a
differenza della prima, in forza di criteri 'di
fatto': possibilità fisica dei servi di rendersi conto di ciò
che avviene e di fare alcunché — sia pure soltanto gridando
— per salvare il 'proprio' dominus.
Si
può e si deve, per tanto, annoverare Ulp. D. 29.5.1.15 tra le fonti giuridiche che attestano la esistenza
ancora nella epoca cd. 'classica' (e
anche dal "punto di vista" del diritto pubblico)[83]
della
[p.
98]
idea —
rilevante sul piano del 'regime' sebbene sfumata — di una
condizione di domina[84]
della uxor nei confronti dei beni
coniugali.
Una
simile lettura di Ulp. D. 29.5.1.15
è in particolare rafforzata dalla con-presenza nel medesimo contesto di entrambi
i consueti poli della tematica della comunione familiare: il rapporto
con-dominiale padri-figli e quello marito-moglie; entrambi nei termini
rispettivamente tipici: della aspettativa ereditaria per i figli nei confronti
dei patres familiarum e della
comunanza (societas, consortium) di vita per le mogli nei
confronti dei mariti, quale è evocata nel richiamo alla commixta familia e alla una domus.
Può
per altro essere che la idea della società coniugale come divini et humani iuris communicatio si 'incroci' con quella di una — mera! — commistione di beni tra
le pareti di una stessa casa e la (antica) nozione sacrale della unità
di domus con la più banale
nozione di una co-abitazione implicante "promiscuità d'uso" di
beni. E chissà che proprio
fenomeni di "evoluzione interpretativa", quale quella che si sarebbe
verificata a proposito del senatoconsulto silaniano e del connesso criterio del
"sub eodem tecto"[85],
non
[p.
99]
possa avere
concorso a tale 'incrocio'.
E' in questi termini che, alla fine del III secolo d.C., una
costituzione di Diocleziano ripresa nel Codice di Giustiniano appare fornire in
sintetica formulazione una veduta d'insieme del rapporto tra coniugi in ordine
ai loro beni:
... hereditatis
expilatae crimine promiscuus usus exemplo actionis furti ream uxorem fieri non
patiatur ... (CJ. 6.2.17, a.294).
Per
rendersi conto della differenza di prospettiva, ma anche quanto meno della
compresenza di diverse prospettive, basta confrontare questa costituzione di
Diocleziano con quella, di soli 50 anni prima, di Gordiano nella medesima
materia[86].
In
ogni caso sembra doversi escludere un fenomeno di 'evoluzione' o comunque
di cambiamento della concezione (e della connessa disciplina) dei rapporti
patrimoniali tra coniugi nel senso di una subentrante socializzazione o
comunitarizzazione degli stessi contro un preteso individualismo 'classico'.
Caso
mai, il contrario.
[p.
100]
Nella
affermazione del García Garrido circa la sostanziale continuità
— pure in forme diversificantisi — del regime patrimoniale del
matrimonio romano mi appare, comunque, corretta la individuazione nella dos di
elementi di quella continuità: la gestione durante il matrimonio e i
connessi regimi per le ipotesi di divorzio e di successione.
Nel
matrimonium cd. cum manu la massa dei beni muliebri, sia che fossero già
della donna in quanto sui iuris, sia
che venissero dal patrimonio del di lei pater
familias (come equivalente della sua aspettativa ereditaria)[87]
entrano a far parte del patrimonio di cui il maritus (o il di lui pater
familias) è 'titolare' (sebbene con quelle caratteristiche di
concezione comunitaria che abbiamo ricordato):
Cic. top. 4 quum mulier viro in manum convenit, omnia
quae mulieris fuerunt viri fiunt dotis nomine. Cfr. Paul. Fr.Vat. 115 Omnia in dotem ... dari posse, argumento esse in manum conventionem
Si
tratta, come noto, di una questione fortemente dibattuta nella dottrina
romanistica, ma che registra oramai il prevalere della tesi favorevole[88].
[p.
101]
Anche
nel matrimonium cd. libero o sine manu si ha motivo di credere che,
salvo situazioni eccezionali, tutti i beni della donna venissero ricompresi
nella dos. Tanto è vero che,
per indicare i beni che la donna poteva mantenere fuori della dote si usa una
espressione (parapherna) doppiamente
indicativa (e per il suo significato letterale e per la sua origine esterna,
non romana) del carattere marginale di tali beni. In ogni caso, ai tempi di Plauto (e
secondo la testimonianza di questo stesso autore) anche la uxor non in manu nulla
doveva possedere che fosse sottratto alla potestà del marito[89],
ciò che ricorda la praesumptio
Muciana in materia di acquisti della uxor[90].
Di una prassi di 'potere' del marito sui beni parafernali
è per altro conservata traccia sia in Ulp. D. 23.3.9.3[91]
(che è il testo fondamentale in questa materia)
[p.
102]
sia in CJ. 5.14.8 che pure negano tale potere.
In questo ultimo testo (una costituzione di Teodosio e Valentiniano datata 450)
merita poi rilevare la espressione adoperata per negare il potere del marito
sui paraferna:
Hac lege
decernimus, ut vir in his rebus, quas extra dotem mulier habet, quas Graeci
parapherna dicunt, nullam uxore prohibente habeat communionem.
Se
si considera che il regime di riferimento e che comunque doveva esercitare una
attrazione sul regime dei paraferna
non poteva, infatti, essere se non quello dei beni dotali appare senz'altro
notevole che per definire il regime che negano per i paraferna Teodosio e Valentiniano adoperino la parola "communio"[92].
[p.
103]
Si
ricordi, per altro, che la uxor
è definita socia per
opposizione alla concubina[93]
e che proprio la presenza della dos
era elemento (giuridicamente?) rilevante per distinguere il matrimonio dal
concubinato[94].
[p.
104]
Ora,
della dos — che molteplici
testi definiscono quale patrimonio funzionalmente destinato agli onera matrimonii[95],
cioè alle esigenze economiche della coppia matrimoniale nel suo insieme[96]
è noto che, dopo lunga discussione, la dottrina più recente
è giunta ad affermarne (per il 'diritto
classico') la
"proprietà" del marito al quale spetta appunto la
responsabilità di fare fronte agli onera
matrimonii. In realtà, se tralasciamo di porre problemi che suonano
di "heutiges römisches Recht"
più che di "Diritto romano attuale", il dato delle fonti
è quello di una oscillazione, per quanto concerne la definizione della
titolarità della dos, e di un
regime tutt'affatto particolare di concorso di diritti/doveri tra maritus e uxor per quanto concerne la sua gestione[97].
[p.
105]
La
spiegazione che comunemente se ne fornisce, in forza però o di
interpretazioni selettive nelle fonti tra valore giuridico e valore meramente
sociale o tra origine 'classica' e più o meno raffazzonate
interpolazioni 'post-classiche', è quella di un lento processo di
allontanamento dalla e — anzi— di rovesciamento della concezione 'originaria', attraverso il quale processo si afferma e consolida la idea di
un diritto della donna sui beni dotali. Questo processo si esprimerebbe nella
creazione giurisprudenziale, pretoria e legislativa di una serie di
accorgimenti atti a fornire consistenza e tutela a tale 'nuovo' diritto e si
perfezionerebbe nella famosa constitutio di Giustiniano ove si afferma essere,
per diritto naturale, la dos della uxor[98]
.
[p.
106]
La
complessiva prospettiva in cui si colloca la spiegazione dominante è
cioè quella di un succedersi tra il regime patrimoniale del matrimonio
cd. cum manu, caratterizzato dalla
totale ed assorbente 'proprietà' di ogni bene da parte del marito (o
del di lui pater familias) e il
regime patrimoniale del matrimonio cd. sine
manu, caratterizzato invece da una totale separazione tra i beni della
moglie e i beni del marito. In tale prospettiva, la 'novità’ dottrinaria
— costituita dalla individuazione nel complesso dotale di un forte
elemento di continuità tra i due regimi — si riduce quindi alla
spiegazione della titolarità maritale dei beni dotali in termini di
sopravvivenza del regime della manus e
del lento spostamento, nel sopra veniente regime del matrimonio cd. 'libero', dei beni dotali dalla categoria dei beni del marito alla
categoria dei beni della moglie.
Mi
sembra tuttavia che la lettura delle fonti legittimi una prospettiva diversa
(e, per certi aspetti, addirittura opposta). Una prospettiva, cioè, in
cui la continuità tra il regime patrimoniale connesso al (diffondersi
del) matrimonio cd. sine manu e il regime patrimoniale più
antico, connesso al matrimonio cd. cum
manu, sia data non dalla titolarità maschile dei beni dotali
nonché dalle pretese — sempre maschili — sui beni
parafernali ma dagli elementi di comunione (oltre che di società)
coniugale presenti e nell'uno come nell'altro regime patrimoniale.
[p.
107]
Una
testimonianza diretta e chiara a favore di questa diversa prospettiva è
la nota affermazione di Servio Sulpicio Rufo (giurista contemporaneo di Cicerone,
tra i maggiori della Repubblica nonché particolarmente esperto nella
materia dei rapporti patrimoniali fra coniugi essendo autore di un apposito
trattato De dotibus) secondo cui le
cauzioni (e, quindi, le azioni) rei
uxoriae presero il via dal primo divorzio della storia di Roma: il divorzio
di Spurio Carvilio Ruga nell'anno
Servius quoque
Sulpicius in libro, quem composuit de dotibus, tum primum cautiones rei uxoriae
necessarias esse visas scripsit, cum Spurius Carvilius, cui Ruga cognomentum
fuit, vir nobilis, divortium cum uxore fecit, quia liberi ex ea corporis vitio
non gignerentur, anno urbis conditae quingentesimo vicesimo tertio
(M.Attilio, P.Valerio consulibus).
Anche
qui la dottrina moderna ha colto in fallo il giurista antico, osservando non
essere affatto quello di Sp.Carvilio Ruga il primo divorzio della storia
romana. Ma, anche qui, il problema è un altro.
Carvilio
Ruga è il primo (almeno nella memoria collettiva) che dimostra
sperimentalmente la possibilità di ripudiare la moglie fuori dei casi
espressamente e tassativamente previsti[99],
senza per ciò dovere
[p.
108]
incorrere nella connessa
sanzione. Sanzione che, come ricordato, consisteva appunto nella perdita del
patrimonio, la cui metà andava alla uxor
ingiustamente (illegittimamente) ripudiata[100].
Con Carvilio Ruga viene meno il principio della illiceità del divorzio,
in forza del quale principio ogni divorzio postulava un colpevole[101]
da punire con la perdita dei beni: la donna, se si trattava di ripudio in uno
dei casi tassativamente previsti, l'uomo fuori di quei casi[102].
Ma con Carvilio Ruga cade anche la protezione che tale antico regime assicurava
ai diritti patrimoniali della donna, la quale veniva sì ad acquisire
— anche lei — un reciproco diritto alla iniziativa del divorzio, ma
che, stante il principio della titolarità/gestione dei beni 'matrimoniali' da parte del marito (cui appunto corrispondentemente andavano gli
oneri matrimoniali), laddove non scattasse un qualche meccanismo di tutela,
restava totalmente, ingiustamente espropriata di quegli
[p.
109]
stessi beni, sia
che si trattasse del regime della communio
omnium bonorum del matrimonium
cd. cum manu sia che si trattasse del
regime dotale del matrimonium cd. sine manu.
A
una nuova situazione (la intrinseca liceità del divorzio) corrispondono
quindi nuovi rimedi giuridici (cautiones
e actiones rei uxoriae) ma per
conservare il vecchio principio: quello del diritto della uxor su una parte dei beni matrimoniali e che si manifesta (ovvero
che manifesta una specifica esigenza di tutela) nel momento della rottura del
vincolo matrimoniale.
Accanto
ai ripudi per le cause espressamente previste dalla legge, cioè per
colpa della donna e quindi con certa sanzione economica a carico di questa,
sono venuti ammettendosi ripudi per cause diverse, le quali, pur senza
importare sanzione economica a carico dell'uomo tuttavia non necessariamente
dovevano implicare 'colpe' delle uxores ripudiate. E' per ciò che il giudice che decide in
materia di actio rei uxoriae promossa
dalla donna deve principalmente inquisire
more censorio il comportamento della donna stessa per decidere sull'an e
sul modo della assegnazione a lei dei beni dotali. Ancora ci è testimone Gellio
laddove reca le parole di Catone "ex
oratione, quae inscribitur de dote":
vir cum divortium
fecit, mulieri iudex pro censore est, imperium, quod videtur, habet; si quid
perverse tetraeque factum est a muliere, multitatur; si vinum bibit, si cum
alieno viro probri quid fecit,
condemnatur (n.A. 10.23)[103]
.
[p.
110]
Alle
poche e rigide ipotesi di legittimo ripudio maritale, fuori delle quali vi
è non soltanto la assegnazione — restituzione della metà
dei beni comuni alla uxor ma anche la
confisca a favore di Cerere della metà 'maritale' di quegli
stessi beni, subentra così un sistema articolato, per cui, nei divorzi
di iniziativa tanto maschile quanto femminile, venuta comunque meno la confisca
a favore di Cerere, spetta al giudice valutare le eventuali colpe muliebri ai
fini della restituzione alla uxor:
Ulp. D.
4.4.9.3 Si mulier, cum culpa divertisset,
velit sibi subveniri, vel si maritus, puto restitutionem non habendam: est enim
delictum non modicum[104].
In
altri termini, anche nel matrimonium
cd. sine manu (meglio sarebbe dire:
nella epoca dell'affermarsi e generalizzarsi del matrimonium cd. sine manu)
in caso di divorzio, chi non ha colpa non perde i propri beni. Tutto il regime cd. 'classico' della
amministrazione della dos e della sua
restituzione risulta ispirato esattamente alla stessa logica delle leggi
romulee.
[p. 111]
«Dos enim licet matrimonio constante in bonis
viri sit, est tamen in uxoris iure et post divortium velut res uxoria peti
potest»
scrive Boezio
(commentando Cic. top. 4.19) con
parole tolte da Paolo institutionum libri
secundi titulo de dotibus[105].
La vera, sostanziale differenza (come, appunto, insegna Servio Sulpicio Rufo)
è che, a partire dal
In
questa logica l'interesse dei figli è certamente importante (Pap. D. 49.17.16 pr.; Paul. D. 23.3.56.1 s.) e viene tutelato dal
sistema delle retentiones, ma non
è l'unico criterio ispiratore e regolatore né (come vorrebbe il
Gide)[106]
della sorte e del regime della dos
(cfr., infatti, D. 23.3.2 rei publicae interest mulieres dotes salvas
habere propter quas nubere possunt; D.
42.5.18 interest enim rei publicae et
hanc solidum consequi ut aetate permittente nubere possit) né,
più in generale, del regime patrimoniale matrimoniale in cui la dos si colloca.
E'
invece la idea di societas coniugalis
che è sottesa a questo regime (come già a quello della manus) e che si manifesta soprattutto
— ma non soltanto—
[p.
112]
alla fine (o in
vista della fine) del matrimonio: in materia di restituzione della dos ricordo in particolare Triph. D. 42.1.52 circa il cd. beneficium competentiae accordato al maritus convenuto con l'actio rei uxoriae, in quanto
già socius della uxor[107].
[1] F.SCHULZ, Prinzipien
des römischen Rechts. Vorlesungen gehalten an der Universität Berlin
(München 1934) 132 s.
[3] R.VON JHERING, Geist
des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung
II 16 (Leipzig 1921) 202.
[5]
P.BONFANTE, Corso di Diritto romano.
Della famiglia Parte Ia Lezioni
raccolte e compilate da A.Cettuzzi e C.Del Corno (Pavia 1908) 43.
[6] Op.cit. 40.
[9] M.VOIGT, Ius
naturale II (1858) 850; 938.
Cfr. nello stesso senso, con specifico riferimento
alla definizione di Modestino (D.
23.2.1) HRUZA, in Beiträge zur
Geschichte des griechischen und römischen Familienrechtes II (1894) 7
s.
[10]
S.SOLAZZI, 'Consortium omnis vitae'
in Annali Macerata 5 (1929) 27 ss.,
quindi in Id., Scritti di Diritto romano
3 (Napoli 1960).
[11]
S.SOLAZZI, La comunione domestica nei
rescritti di Diocleziano (1954) quindi in Id., Scritti di Diritto romano V (1947 — 1956) 571 s.; cfr. Id., 'Consortium omnis vitae' cit. 316 nt.12
e 319.
[17]
Tra cui quel frammento della traduzione dell'Oikonomikòs di Senofonte conservatoci in Col. de re agr. XII praef. su cui v., infra, prgf. 4.
[19]
Donationes in concubinam collatas non
posse revocari convenit nec, si matrimonium inter eosdem postea fuerit
contractum, ad irritum reccidere quod ante iure valuit. an autem maritalis
honor et affectio pridem praecesserit, personis comparatis, vitae
coniunctione considerata
perpendendum esse respondi: neque enim tabulas facere matrimonium.
[23]
Si tratterebbe di un testo di origine Ulpianea secondo FERRINI, Pandette 867. Per la citazione di espressioni
consimili nelle fonti v. BRINI, Matrimonio
e divorzio I (Bologna 1887) 26 e BRUGI, Istituzioni
di diritto privato giustinianeo II2 274 (riportati dal ROBERTI 234 nt.1).
Dichiarano 'classico' il testo di Modestino E.ALBERTARIO, La definizione del matrimonio secondo Modestino in Studi Albertoni (Padova 1933) cfr. Apollinaris 1932) quindi in Id., Studi di Diritto romano I Persone e famiglia
(Milano 1933) (il quale tuttavia considera di valore soltanto etico-sociale la
nozione di consortium — p.184
— e di valore giuridico soltanto in riferimento al matrimonio cd. cum manu la affermazione della divini et humani iuris communicatio
— p.188 — ) ed E.VOLTERRA, La
conception du mariage à Rome in RIDA s.3^ 2 (1955) 374, secondo il
quale, per altro, la definizione del matrimonio da parte di Modestino (come
quella offerta da Ulpiano — Giustiniano in IJ. 1.9.1 e, in genere, ogni riferimento dei giuristi romani al
matrimonio) riguarderebbe invece esclusivamente la «volonté
d'établir une union monogamique durable, pour toute la durée de
l'existence, ayante comme but la formation d'une famille, c'est-à-dire
d'une société domestique pour la procréation et
l'éducation des enfants issus de cette union, fondée sur des
rapports mutuels de protection et d'assistance.» (p.373) senza alcun
riferimento alla organizzazione anche economica di quella 'società',
organizzazione che può dunque, secondo questo autore, atteggiarsi nei
modi più diversi senza mai incidere sulla sostanza di essa.
[25]
Il Gaudemet pensa — a questo proposito — che la mancanza di una
direzione unitaria del consortium sia
dovuta al concorrente principio della autonomia dei singoli patres familiarum e si chiede «se
le forme comunitarie e la struttura patriarcale della famiglia sono coesistite
in Roma dalla più alta antichità o se la seconda non sia apparsa
più recentemente» (J.GAUDEMET, Les
communautés familiales — Paris 1963 — 72). Nel
matrimonio romano i due principi appaiono invece compenetrarsi e sovviene
— a proposito del primo — la affermazione, da parte di Giovenale (sat. 4.212), di una sorta di 'potere di veto' muliebre nei confronti degli atti maritali di disposizione dei
beni; potere che non può non rammentare quello intercorrente appunto tra
i membri di un consortium.
[27]
Sulla scorta del VIR la parola consortium risulta apparire ancora due
volte, una volta dove Ermogeniano parla di collationis
consortium (D. 14.2.5 pr.), a
proposito di una comunità tra fratelli, poi in D. 17.2.52.8, una
citazione di Papiniano presso Ulpiano, dove ancora si tratta di un consorzio
tra fratelli. I 'consortes' si
trovano soltanto una volta come 'fratres
consortes' (D. 27.1.31.4). Non è invece certa la
appartenenza ad una unica familia dei
membri del consortium di cui in D. 46.3.96.3.
[28]
Si trova la espressione 'consortes'
per designare i coniugi in C.Th.
3.7.3 e 'servile consortium' in IJ. 3.6.10.
[33]
Circa la tesi dell'EHRHARDT del riferimento al solo matrimonio cd. cum manu di questi testi, v., supra, prgf.1.
[34]
In proposito, C.A.MASCHI, La concezione
naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani (Milano 1937).
[35]
Il Bachofen ritiene di potere scorgere nel testo di Ulpiano «che era di
origine fenicia» la prova di una origine orientale del concetto di
diritto naturale e una sua connessione con il principio — sempre
orientale — “femminile-materiale" (J.J.BACHOFEN, Il matriarcato — 1861 —
tr.it.di f.Jesi e G.Schiavoni I — Torino 1988 — 311).
[36]
Definizione che viene ripresa da Vico: cfr. WOLOWSKI, Op.cit. I 5 s. Secondo BRISSON (cfr. ancora WOLOWSKI 338 s.) ci
sarebbe un nesso tra il rito di fondazione della città che vuole un toro
e una giovenca aggiogati all'aratro che segna i confini e il significato della
parola 'coniuges', in quanto
portatori insieme di un giogo.
[37]
Cfr. Varr. I.L. 6.68; Fest.p.245 M.;
Flor. ep. 1.1.14; Aug. c.d. 3.13;
nonché Verg. Aen. 1.600 dove
la nozione della associazione coniugale e civile insieme è attribuita a
Didone che la propone a Enea e ai suoi compagni "urbe domo socias" <v. anche Aen. 7.96; 9.591; 12.27> e
Tac. hist. 4.65.11 dove la medesima
nozione è attribuita ai maggiorenti della germanica Colonia Agrippinensis nel 70 d.C. in riferimento ai Romani
colà stabilitisi: «Deductis
olim et nobiscum per conubium sociatis quique mox provenerunt haec patria est».
[38]
Dove sono i comuni penati della coppia coniugale ad essere detti torum socii,
ciò che è anche segno di un valore non superficiale e riduttivo
della espressione.
[39]
Il ricorso al verbo sociare per indicare il costituirsi del legame coniugale
è anche esso diffuso: Verg. Aen.
1.600; 7.96; 9.591; 12.27 citt.; Lygd. 3.1 ss.; Man. 1.350; Sil.It. 13.810
<?>; Stat. Theb. 3.281; Silv. 5.1.45 ss.; Tac. hist.
4.65.11 cit.; ann. 2.3.2; Flor. ep.
1.1.14 cit.; Apul. met. 9.27; Aug.
c.d. 3.13 cit.
[41]
Cfr., supra, prgf. II 2 b, la
osservazione della Bianchini a proposito del significato di societas nel linguaggio — anche
— dei giuristi romani.
[42]
Per la molta dottrina v. G.LONGO, Il
requisito della convivenza nella nozione romana di matrimonio in AUMA 14 (1940); (1955) 269 ss. <=Id., Ricerche
romanistiche — 523 ss.>. e, più recentemente, O.ROBLEDA, El matrimonio en derecho romano (Roma
1960).
[44] Lab. D. 32.29
pr. (ovvero: Iavolenus libro secundo ex
posterioribus Labeonis): Qui
concubinam habebat, ei vestem prioris concubinae utendam dederat, deinde ita
legavit: "vestem, quae eius
causa empta parata esset". Cascellius
Trebatius negant ei deberi prioris concubinae causa parata, quia alia condicio
esset in uxore. Labeo id non probat, quia in eiusmodi legato non ius uxorium
sequendum, sed verborum interpretatio esset facienda idemque vel in filia vel
in quaelibet alia persona iuris esset. Labeonis sententia vera est; Paul.
sent. 2.20.1 Eo tempore quo qui
uxorem habet, concubinam habere non potest (cit.WOLOWSKI 21,2).
[45]
Plaut. Trin. 3.2.64 s. (cit. in
MASCHI, 'Humanitas' 83; oppure
3.2.667; cfr. F.STELLA MARANCA, 'Dos
necessaria' in Id., Scritti vari di Diritto romano — Bari 1931
— 135 che rinvia ulteriormente al BEAUCHET).
[46] M.J.GARCIA GARRIDO, El patrimonio de la mujer casada en el derecho civil I La
tradición romanística (Barcelona 1982) 53.
[47]
Un senatoconsulto del 49 d.C. permette il conubium
tra zio e nipote; C.Th. 3.12.1
(ri)stabilisce il divieto.
[48]
Il quale ne tenta anche una spiegazione eziologica: Ferunt ... Gaiam Caeciliam, Tarquinii Prisci regis uxorem, optimam
lanificam fuisse, et ideo institutum, ut novae nuptae ante ianuam mariti
interrogatae, quaenam vocarentur, Gaias esse dicerent. Cfr. ancora
Val.Max.10 etc. Fest.v. Gaia citt. in
P.BONFANTE, Della famiglia (Pavia
1908) 48.
[49]
In proposito R.PARIBENI, La famiglia
romana <=Istituto di studi romani — P.N.F. Opera nazionale del
lavoro Roma mater VI> (Roma 1939)
22 s.; L.WOLOWSKI, De la
société coniugale in Revue
de législation et de jurisprudence 18 (1852) 339 s.
[51]
E' relativamente frequente nelle fonti romane l'uso della parola 'pater' al plurale ('patres') per indicare congiuntamente padre e madre; cfr., in
proposito, G.LOBRANO, in Enciclopedia
virgiliana (1986) s.v. Pater. Ivi
indicazioni di fonti e di dottrina.
[52]
Boet. ad Top.Cic. 2.3.14. Circa la
riferibilità del titolo di mater
familias anche alle uxores non in
manu v. W.WOLODKIEWICZ, Attorno al
significato della nozione di 'mater familias' in Studi in onore di Cesare Sanfilippo III (Milano 1983) 735 ss. (contra Wolowski,
cit. 355 che si richiama a Troplong).
[53]
Cui sembra fare riscontro l'elogio di Turia 1.14; cfr. per altro Gai. 1.114 potest coemptionem facere mulier ... cum marito suo; cfr. ancora Gai.1.195;
Pap. Coll.leg. 4.2.2; Pap. Coll.leg. 4.7 su cui G.BRINI, Matrimonio e divorzio nel Diritto romano
(Bologna 1886) 50 ss; P.BONFANTE, Della
famiglia cit.52.
[54]
Argomento testuale a favore della dottrina dominante è anche considerato
la lin.17 della laud.Turiae ove si trova
la espressione "emancupata esset
Cluvio".
[56]
V.ARANGIO RUIZ, Societas 1950 p.8
nt.1: «valore piuttosto sociale che giuridico» tuttavia
«critiche esasperate» quelle dell'Albanese.
[58]
In questa materia occorre ricordare per un verso il gravissimo divieto alle
donne di toccare le chiavi della cantina e, per altro verso, il valore
giuridico della consegna delle chiavi del magazzino come forma di traditio (si tratta dunque soltanto di res nec mancipi?)
[59]
«Haec in Oeconomico Xenophon et
deinde Cicero, qui eum Latinae consuetudini tradidit»; cfr. Cic. de off. 2.24.87 su cui EHRHARDT, 'Consortium' cit. 360 nt.1.
[61]
CI. 5.14.8 mulierem quae se ipsam marito committit, res etiam eiusdem pati
arbitrio gubernari; conseguente esigenza di varî rescritti imperiali
per tenere i beni parafernali fuori della discrezione del marito: Ulp. D. 23.3.9.3 (cit.E.COSTA, La condizione patrimoniale del coniuge
superstite nel diritto romano classico — Roma 1964; r.a.ed.Bologna
1889 — ); cfr.Plaut. Casina
2.2.26-9: ai tempi di Plauto anche la
uxor non in manu nulla doveva possedere che fosse sottratto alla
potestà del marito (ancora cit. COSTA, 53); Sen. dial. 2.1.1 Tantum inter
Stoicos, Serene, et ceteros sapientiam professo interesse quantum inter feminas
et mares non inmerito dixerim, cum utraque turba ad vitae societatem tantundem
conferat, sed altera pars ad obsequendum, altera imperio nata est.
[63]
Circa l'atteggiamento di Tertulliano nei confronti del matrimonio e la sua
adesione al Montanismo, v. C.MORESCHINI, "Introduction" a Tert. cast. con tr.fr. <=Sources chretiennes 339> (Paris 1985)
7 ss.; a p.61 ss. una "Bibliographie sommaire"; cfr. Ch.MOUNIER,
"Introduction" a Tert. ad
uxorem con tr.fr. [=Sources
chretiennes 273] (Paris 1980) 9 ss., in part.13 s.
[64]
C.LONGO, Corso di Diritto romano. Diritto
di famiglia (Milano 1934) 399 s. a proposito dell'altra legge romulea di
cui in Plut. Rom. 22 (v., infra, prgf. II 5 b): «Questa
legge di Romolo naturalmente non è mai esistita, come non è mai
esistito Romolo».
Le
testimonianze di Dionigi di Alicarnasso sono state svalutate in dottrina sopra
tutti dallo Schwartz, secondo il quale lo storico greco è ignorante dei
principi fondamentali del diritto <pubblico> romano. Lo Schwartz basa la
propria affermazione sulla — asserita — confusione di Dionigi tra senatus consultum e patrum auctoritas, da lui promiscuamente chiamati proboúleuma (E. SCHWARTZ, Dionysios von Halikarnassos in PW 5 — 1905 — 934 ss. ora in
Id., Griechische Geschichtsschreiber
— Leipzig 1957 — ). La tesi dello Schwartz è stata tuttavia
puntualmente contestata dal Bux, il quale ha dimostrato che Dionigi riproduce
fedelmente il tentativo della sua fonte romana — un annalista
post-graccano — di accreditare con esempi storici una determinata
concezione dei rapporti tra senato e comizi (E.BUX, Das Probuleuma bei Dionysios.
Ein Beitrag zur Geschichte der römischen
Historiographie der ersten vorchristlichen Jahrhunderts — Diss.Leipzig 1915 — ). Anche
secondo il Catalano (P. CATALANO, Contributi
allo studio del Diritto augurale cit. 624) Dionigi "usa di una buona
fonte" mentre, secondo il Gabba, la narrazione di Dionigi di Alicarnasso
è spesso «ampia e prolissa proprio perché segue da vicino
le fonti» così consentendo di «conoscere meglio le tendenze
e gli orientamenti della annalistica romana» (E.GABBA, La 'Storia di Roma arcaica' di Dionigi
d'Alicarnasso, in ANRW II 30, 1
— 1982 — 808) ciò che, in particolare per l'epoca più
arcaica, è la migliore garanzia anche per la conoscenza del diritto (in
proposito S. MAZZARINO, Il pensiero storico
classico II 1 — Bari 1966 — 278 s.; cfr. 43 ss.; 301 ss.; I 85
ss.; Id., Intorno ai rapporti fra
annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale in La critica
del testo. Atti II Congr. Intern. Soc. Ital. St. Dir. I — Firenze
1971 — 441 ss. e più recentemente F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica I 'Libri' e 'commentari'
Sassari 1983 — 179 nt.4). Si noti che il 'democratico' Dionigi
(cfr. P. CATALANO, loc.cit.) in
quanto sostenitore della superiorità politica romana non ha interesse a
forzarne la fisionomia in senso greco ed anzi la sua trattazione appare
infiorata di spunti polemici probabilmente anti-polibiani (E. GABBA, Op.cit. 810).
[65]
V., supra, prgf.3; cfr. Plut. Q.R. 1
cit. in ALBERTARIO, Definizione cit.
Perenne comunione di ogni sorte".
[66]
S.PEROZZI, Problemi di origini. II 'Confarreatio'
e 'coemptio matrimonii causa' in Studi di Diritto romano, di Diritto moderno e di Storia del diritto
pubblicati in onore di Vittorio Scialoja nel xxv anniversario del suo
insegnamento II (Milano 1905) 200; sempre secondo il Perozzi, per altro,
«Nessun indizio o cenno qui di dote come, viceversa, non abbiamo nessun
cenno di comunione di beni per il matrimonio coempzionale».
[67] V. P.NOAILLES, Les
tabous du mariage dans le droit primitif des Romains in Id., Fas et jus. Etudes de droit romain
(Paris 1948) 1 ss.; cfr.M.KASER, Das
römische Privatrecht I2 (München 1971) 61 nt.10; 79 nt.31; 82
nt.13; 83 nt.19. Da vedere anche C.AMPOLO, La
vita di Romolo (in via di pubblicazione).
[68]
Questa incapacità della legge regia a modificare una — per quanto
odiosa — conseguenza del sistema di ius
civile depone per la sua complessiva coerenza al sistema stesso.
Cfr.
però BONFANTE, Della famiglia
cit.p.54 circa la mancanza degli effetti servili nella coemptio costitutiva della manus.
[69]
A proposito di questo passo M.KASER, Römisches
Privatrecht cit 82 nt.10 fa un discorso di segno opposto a quello or ora
citato (v.nt.prec.) del Perozzi: «Das
res tuas tibi habeto passt am ehrsten zur freien Ehe, kann aber auch bei der
manus-Ehe auf die Kleider und persönlichen Gegenstände der Frau
bezogen werden»; rinvia a YARON, TR
28 (1960) 5 s. e A.WATSON, TR 33
(1965) 42 ss., in part.48.
[70]
Circa la sostanziale continuità del regime patrimoniale connesso al
ripudio — divorzio, v., infra,
prgf.seguente.
[73]
«Il matrimonio classico è ispirato a princìpi profondamente
diversi da quelli arcaici. Non più sentita la religione familiare,
né sentita l'idea della perpetuità della famiglia, viene meno il
significato religioso del matrimonio. Caduto il diritto sacro, che imponeva
doveri al marito e limiti alla sua potestà, il divorzio non è
più legato a un regime di iustae
causae. Caduta la manus, marito e
moglie sono sostanzialmente eguali. Segue da tutto ciò che il matrimonio
(per uno sviluppo già compiuto nel I sec. a.C.) si regge su
princìpi nuovi» (P.VOCI, Istituzioni
di Diritto romano — Milano 1954 — 467).
[77]
Anche il padre di Turia aveva acquistato la manus
sulla propria moglie tramite una — tardiva — coemptio.
[79]
Cfr. la definizione del matrimonio nelle Istituzioni
di Giustiniano (1.9.1) Nuptiae autem sive
matrimonium est viri et mulieris coniunctio, individuam consuetudinem vitae
continens.
[80]
Così D.DALLA, Op.cit. 107 ss. Cfr.
P.VOCI, Storia della 'patria potestas' da
Augusto a Diocleziano in Iura 31
(1980) 86: «Sembra risalga a Sabino l'idea che i figli siano in certo
qual modo titolari, insieme col padre, del patrimonio familiare; tanto che
acquistano ipso iure l'eredità
paterna. Il modo stesso in cui l'aforisma viene enunciato indica che si intende
descrivere una situazione etico-sociale, non giuridica. Tuttavia qualche
conseguenza propriamente giuridica veniva tratta. Da un lato, si discuteva se persone
appartenenti alla stessa famiglia commettessero furto, quando sottraevano
qualche cosa al capofamiglia. Sappiamo che qualche giurista non ammetteva il
furto della moglie su cose del marito,
quia societas vitae quodammodo dominam eam faceret: e la stessa cosa doveva dire dei figli.
Ma questa opinione non prevalse: c'era il furto,
anche se, per ragioni diverse nei due casi, non c'era l'a.furti. Dall'altro lato, non si ebbe difficoltà ad
estendere la statuizione del sc. Silaniano. Presupposto d'applicazione di quel
senatoconsulto era che fosse stato ucciso il dominus degli schiavi, cioè il pater familias: gli stessi effetti furono ammessi in caso di
uccisione dei figli in
potestà; e alla fine Ulpiano, contro il parere di Marcello, incluse
anche gli emancipati.»
[81]
A meno che, ovviamente, la madre non sia
uxor in manu mariti e, quindi, loco
filiae di questi: in tal caso i suoi rapporti patrimoniali con il figlio
sono quelli che intercorrono tra fratelli; ma non è questa la situazione
coniugale alla quale si dirigono le norme del senatoconsulto velleiano. In
particolare, mentre già sotto Adriano il senatoconsulto tertulliano
riconosce alla madre la capacità di succedere al proprio figlio (Tit. Ulp. 26.8; Ulp. D. 38.17.1), a questi la
qualità di erede legittimo della madre viene attribuita soltanto con il
senatoconsulto orfiziano emanato nel 178 d.C. (Tit. Ulp. 26.7).
[84]
Se non proprio, forse, di un diritto di dominium,
termine/concetto, questo ultimo, del resto relativamente 'recente' e, comunque, di
scarsa utilizzazione rispetto a quello di dominus:
L.CAPOGROSSI-COLOGNESI, La struttura
della proprietà e la formazione dei 'iura praediorum' nell'età
repubblicana I (Milano 1969) 407 ss. (in part. 455, circa la netta
prevalenza ancora nelle Pandette di 'dominus' rispetto a 'dominium'). Ivi la bibliografia precedente a partire
dallo scritto di R.MONIER, La date
d'apparition du 'dominium' et de la
distinction juridique des 'res' en 'corporales' et 'incorporales' in Studi Solazzi (Napoli 1948) 357 ss.
[87]
Possibile ma — ovviamente — eccezionale la costituzione di dote
come mera liberalità di altri che il pater
familias.
[88]
Mentre il Bechman (Das römische
Dotalrecht I – Erlangen 1865 – 102 escludeva che si potesse
parlare di dote nei matrimoni con conventio
in manum (sulla scorta di Ulp. 6.1.2 Dos
aut datur, aut dicitur, aut promittitur), «... nada impide afirmar la
existencia de la dote en el régimen patrimonial de la conventio in manum, que parece, de otra
parte, configurar los primitivos caracteres del instituto dotal» scrive
ora M.J.GARCIA GARRIDO, El patrimonio de
la mujer casada I cit. 46.
Sulla connessa controversia v. S.SOLAZZI, La restituzione della dote nel Diritto romano (Città di
Castello 1899) 125 ss., che conclude in senso affermativo, e LAURIA, Matrimonio — dote in Diritto romano (Napoli 1952) 70 s.
[91]
Ceterum si res dentur in ea, quae Graeci
par ferna dicunt quaeque Galli peculium appellant, videamus, an statim
efficiuntur mariti. et putem, si sic dentur ut fiant, effici mariti. et cum
distractum fuerit matrimonium, non vindicari oportet, sed condici, nec dotis
actione peti, ut divus Marcus et imperator noster cum patre rescripserunt. plane
si rerum libellus marito detur, ut Romae vulgo fieri videmus (nam mulier res,
quas solet in usu habere in domo mariti neque in dotem hat, in libellum solet
conferre eumque libellum marito offerre, ut is suscribat, quasi res acceperit,
et velut chirographum eius uxor retinet res quae libello continentur in domum
eius se intulisse): hae igitur res an mariti fiant, videamus. et non puto, non
quod non ei traduntur (quid enim interest, inferantur volente eo in domum eius
an ei tradantur?), sed quia non puto hoc agi inter virum et uxorem, ut dominium
ad eum transferatur, sed magis ut certum sit in domum eius illata, ne, si
quandoque separatio fiat, negetur: et plerumque custodiam earum maritus
repromittit, nisi mulieri commissa sint. videbimus harum rerum nomine, si non
reddantur, utrumque rerum amotarum an depositi an mandati mulier agere possit.
et si custodia marito committitur, depositi vel mandati agi poterit: si minus,
agetur rerum amotarum, si animo amoventis maritus eas retineat, aut ad
exhibendum, si non amovere eas connisus est.
[92]
E' ben vero che (come si è osservato) potrà essere stata la
stessa dos fenomeno relativamente
poco diffuso, anzi senz'altro minoritario, ricorrente (secondo, ad es., il
Guarino) in un matrimonio su dieci. Ciò, tuttavia, non per disinteresse
o disistima sociale nei confronti della dos,
tutt'altro. Le fonti rammentano l'esempio di Cneo Cornelio Scipione che nel 218
o
[95]
Il testo più risalente appartiene a Papiniano (D. 49.17.16 pr. dos autem
matrimonio cohaerens oneribus eius ac liberis communibus, qui sunt in avi
familia, confertur) ma Paolo (D.
10.2.46 s.) appare farne risalire la formulazione del principio quanto meno a
Scevola: igitur et dotem praecipere debet
qui onus matrimonii post mortem patris sustinuit: et ita Scaevolae quoque
nostro visum est (contra O.GRADENWITZ, Zur
Natur der 'dos' in Mélanges Gérardin — Paris 1907
— cap.1 "Die onera matrimonii"
285 che ritiene non riconducibile agli
'onera' la menzione di Scevola).
[96]
Per la negazione, risalente al Bechman ed allo Czyhlarz, di tale
destinazione in epoca 'classica' (per altro — con dissociazione tipica della dottrina in
questa materia — soltanto sotto il profilo della rilevanza giuridica e
non invece sotto quello della rilevanza socio-economica) v. E.ALBERTARIO, La connessione della dote con gli oneri del
matrimonio in Diritto romano (1925) ora in Id., Studi I 293 ss. in part. 313; v. contra P.KOSCHAKER, Unterhalt der Ehefrau und Früchte der Dos in Studi Bonfante IV 3 ss. e ora M.J.
GARCIA GARRIDO, El patrimonio de la mujer
casada I cit. 53.
[97]
In proposito M.RICCA BARBERIS, Il
proprietario della dote in Rivista
trimestrale diritto e procedura civile (1949) 255 ss. con una rapida
ricostruzione del secolare dibattito; adde,
per la dottrina contemporanea, E. VON LÖHR, Wer ist Eigenthumer der 'dos'? in Magazin für Rechtswissenschaft und Gesetzgebung 4 (1820) 57
ss. a favore della proprietà maritale della dos e G. CALVINO CALVINO, Del
diritto di proprietà dell''uxor' sulla dote durante il matrimonio nel
periodo classico del Diritto romano in Circolo giuridico 44 <=serie 3^
4> (Palermo 1893) 123 ss. che sostiene invece la tesi contraria. V. anche JHERING, Geist6 II 1, 209 nt.319.
[98]
CJ. 5.12.30 In rebus dotalis, sive mobilibus, sive immobilibus, seu moventibus, si
tamen extant, sive aestimatae sive inaestimatae sint, mulierem in his
vindicandi omnem habere post dissolutum matrimonium praerogativam, jubemus: et
neminem creditorum mariti, qui anteriores sunt, posse sibi potiorem causam in
his per hypothecam vindicare: cum eadem res et ab initio uxoris fuerint, et
naturaliter in eius permanserint dominio.
Non enim quod legum subtilitate transitus earum in patrimonium mariti videatur
fieri, ideo rei veritas deleta vel confusa est. Volumus itaque eam in rem
actionem in huiusmodi rebus quasi propriis habere et hypothecariam omnibus
anteriorem possidere: ut sive ex naturali iure eiusdem mulieris res esse
intelliguntur, sive secundum legum subtilitatem ad mariti substantiam
pervenisse videantur, per utramque viam, sive in rem, sive hypothecariam, ei
plenissime consulatur. etc. etc.
[101]
P.BONFANTE, Corso I (rist. 1963);
cfr. A.GUARINO, 'Res amotae' in Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche
75 (Napoli 1965) 257 nt.20.
[102]
Per altro, occorre notarlo, si tratta di due diversi tipi di colpevolezza: la
colpa della donna consiste in comportamenti tali da legittimare il ripudio
mentre la colpa dell'uomo consiste nel ripudio stesso in assenza di quei
comportamenti muliebri. A ciò corrisponde non soltanto la asimmetria del
regime originale di sanzioni: tutto il patrimonio comune resta all'uomo in caso
di colpa femminile mentre soltanto metà del patrimonio comune va alla
donna in caso contrario, ma anche la omologa asimmetria del regime che si
sviluppa successivamente al divorzio di Carvilio Ruga: la sopravveniente
nozione della liceità di un divorzio senza colpa femminile comporta di
immediato e necessariamente la decadenza della sanzione a carico del marito.
[103]
Cfr.G.BRINI, Matrimonio e divorzio nel
Diritto romano II Il primo divorzio
nel Diritto romano (Bologna 1888) 204. Il Serrao, seguendo una diversa
lezione del testo di Gellio (Vir, quum
divortium fecit, mulieri iudex pro censore est etc.), ritiene che giudice pro
censore della uxor sia lo stesso vir, con la conseguenza di un ampio
potere discrezionale del marito (F.SERRAO, Diritto
privato economia e società nella storia di Roma I — Napoli
1984 — 196). Tale interpretazione mi sembra alquanto forzata, in
considerazione anche del potere di multa cui si fa cenno nel prosieguo del
passo.
[105]
V., a sostegno della 'Klassizität' del testo di Boezio, H. J. WOLFF, Zur Stellung der Frau im klassischen römischen Dotalrecht in ZSS r.A. 53 (1933) 357 s.
[106] P.GIDE, Du
caractère de la dot en Droit romain (Paris 1872) 3 ss.; cfr. Id., Etude sur la condition privée de la
femme dans le droit ancien et moderne
et en particulier sur le Sénatus-consulte Velleién (Paris
1867) 123 ss.