Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni–6
Riflessioni su Paul. D. 25.2.1
Sassari 1989
Cap. III
APERTURE E LIMITI DELLA DOTTRINA ROMANISTICA
CONTEMPORANEA SU SOCIETA' E (CON)DOMINIO CONIUGALI
Sommario:
1. La sequenza delle diverse tesi sulla origine
della actio rerum amotarum. a. Paul.
D. 25.2.1 e il problema della 'comunione domestica' nel Diritto romano. b. La tesi della societas coniugalis, sebbene soltanto 'religiosa' (Tigerström, Bechmann). c. La
tesi della “copropriété” della uxor loco filiae e, quindi, heres
sua nel matrimonio cd. cum manu
(Czyhlarz, Esmein, Pampaloni, Zanzucchi). d. La tesi
della "Dosgemeinschaft" nel matrimonio cd. sine manu (Levy). e. La tesi della "faktische
Vermögensgemeinschaft" nel matrimonio cd. sine manu (Wacke). f. Le critiche alla tesi della "faktische
Vermögensgemeinschaft" e il ritorno alla tesi della origine della actio rerum amotarum nello status di loco filiae della uxor nel matrimonio cd. cum manu (Burdese, Guarino). 2. Una critica complessiva. a. Nucleo comune, al di là delle
differenziazioni, della odierna dottrina su Paul. D. 25.2.1. b. Inserimento
nella opinione di Nerva-Cassio di elementi della opinione di Sabino-Proculo e
viceversa. c. Affermazione della
determinante influenza, sulla definizione del regime delle amotiones tra coniugi, dell'imporsi di una nuova opinione
giurisprudenziale che ammette una fattispecie di furto sprovvista di actio. d. Irrilevanza e contradizione interna della opinione di
Nerva-Cassio? e. Oppure:
illogicità della contrapposizione (nella ricostruzione proposta da
Paolo) delle opinioni di Nerva - Cassio e di Sabino-Proculo?
[p. 113]
Paul. ad Sab.
7 Rerum amotarum iudicium singulare
introductum est adversus eam quae uxor fuit, quia non placuit cum ea furti
agere posse: quibusdam existimantibus ne quidem furtum eam faceret, ut Nerva
Cassio, quia societas vitae quodammodo dominam eam faceret: aliis, ut Sabino et
Proculo, furto quidem eam facere, sicut filia patri faciat, sed furti non esse
actionem constituto iure, in qua sententia et Iulianus rectissime est.
Si
tratta di un passo fondamentale nella materia della 'comunione domestica', di
quella entità per la quale il dominium sarebbe dal pater con-diviso
con altri componenti la familia, filii e uxor. Come si è visto, di tale entità si trovano
nelle fonti letterarie e giuridiche svariati, diretti richiami, riferimenti e
attestazioni i quali appaiono
però non soltanto urtare contro il principio e il connesso regime della
esclusiva capacità paterna di titolarità e amministrazione dei
beni patrimoniali, ma anche essere o, quanto meno, sembrare elusivi sul piano
delle dirette conseguenze funzionali dei principi da essi stessi affermati.
E'
proprio in questa ultima caratteristica delle nostre fonti che risiede la
tutt'affatto speciale ragione della rilevanza di Paul D. 25.2.1: in tale passo,
[p.
114]
dal principio che
la uxor è quodammodo domina dei beni del marito in quanto sua socia vitae, alcuni giuristi fanno con
ogni evidenza discendere la conseguenza funzionale o di regime per cui uxor furtum non facit; anzi, l'ordine
logico del discorso di Nerva-Cassio parte, nel passo in esame, addirittura
dalla osservazione del regime (la non esperibilità di actio furti nei confronti della uxor) per cercarne quindi la
giustificazione nel principio della societas
e del, connesso, condominio tra coniugi. Paul. D. 25.2.1 si presenta per tanto come naturale punto di partenza per
la ricerca e lo studio circa la esistenza (e, quindi, le forme) della ipotetica
'comunione domestica', prospettandone inoltre immediatamente
una immagine 'nuova' per la specificità che, sotto
il profilo del fondamento e sotto il profilo del contenuto, appare in esso
attribuita allo status di quodammodo domina della uxor, anche in manu, rispetto a quello dei filii
familias[1].
Paul.
D. 25.2.1 è però anche
uno di quei testi particolarmente noti per essersene più volte
interessata la dottrina
contemporanea. Le interpretazioni sin'ora propostene convergono – sebbene
nelle reciproche differenze – nella tendenza a svuotare il passo in esame
delle implicazioni dogmatico-sistematiche, che pure appaiono ovvie, facendone
un testo che contiene opinioni o giuridicamente inconsistenti o proposte in
maniera confusa e contraddittoria.
I
problemi direttamente o indirettamente connessi alla interpretazione di Paul. D. 25.2.1 sono svariati[2],
ma – come intuibile – la fonte principale di
[p.
115]
difficoltà
ad una sua lettura non corrosiva è stata posta alla dottrina
contemporanea sopra tutto dalla opinione, che Paolo attribuisce a Nerva-Cassio
(opinione considerata sia in sé, sia nel suo rapporto con la opinione da
Paolo attribuita invece a Sabino-Proculo), che uxor furtum non facit quia societas vitae eam quodammodo dominam facit.
Si
tratta, infatti, di una formula che contrasta con i principi che correntemente
si affermano governare il regime matrimoniale romano, quello 'classico' in particolare.
Tuttavia,
la opinione di Nerva-Cassio ha generalmente 'forzato' – è il caso di dire
– gli autori che, studiando la actio
rerum amotarum, hanno dovuto interessarsene. Così, pure professando
essi sempre quei 'principi' ora richiamati, forse in nessuna altra
materia istituzionale si trova presso la dottrina romanistica una altrettale
sequenza di aperture alla esistenza e rilevanza della societas coniugalis e del connesso "condominio". Quindi,
la stessa dottrina contemporanea su Paul. D.
25.2.1 concorre – specie se esaminata nel complesso di un congruo arco
temporale – a fornire una immagine del regime (anche) patrimoniale del
matrimonio romano, tutto sommato, abbastanza provocatoria rispetto agli schemi
dominanti[3].
[p.
116]
Credo
dunque si possa legittimamente avanzare la ipotesi che Paul. D. 25.2.1, proprio in quanto conserva la
opinione di Nerva-Cassio (nel suo contrasto con quella di Sabino-Proculo) possa
rivelarsi (ove si provi a sospendere, nella sua lettura, la applicazione di
contrari giudizi dogmatico-sistematici, che potrebbero infine rivelarsi 'pre'-giudizi)
un testo che esprime in maniera tutto sommato limpida ed efficace, sebbene 'di scorcio', opinioni giurisprudenziali estremamente interessanti e preziose,
un testo-chiave per avviarsi a intendere, partendo dal rapporto – anche
– patrimoniale tra coniugi, i diversi regimi della organizzazione
familiare romana e, più in generale, gli status personarum che a quella organizzazione sono riferiti ma che
hanno un valore assoluto o che, comunque, quella organizzazione trascendono.
La
verifica della fondatezza di questa affermazione postula dunque in avvio una
ricognizione chiara – per quanto sintetica – della moderna dottrina
su Paul. D. 25.2.1 che valga per un verso
a cogliere e valorizzare i fermenti critici e, per altro verso, a verificare la
possibilità di liberarci dalla sua altrimenti inibente ipoteca.
[p. 117]
La
nozione storico-dogmatica della actio
rerum amotarum propria alla romanistica dell'inizio del secolo scorso
può essere ravvisata nella esposizione che ne fa (1832) il
Tigerström nel suo trattato di diritto dotale[4].
Secondo il Tigerström, la origine (pretoria?) della actio rerum amotarum sarebbe da collocare anche cronologicamente
tra Nerva-Cassio e Sabino-Proculo. Nel tempo necessario, cioè, a passare
dal prevalere della opinione che la societas
vitae coniugale impedisse di concepire il furto a danno del marito da parte
della uxor – conseguentemente
escludendo ogni ipotesi sia di actio furti sia di condictio furtiva – al prevalere della opinione che tale
furto fosse possibile ma che, tuttavia, le infamanti azioni di furto non si
dovessero dare al fine di tutelare l'honor
matrimonii, con quelle incompatibile.
La introduzione della actio rerum
amotarum ("condictio furtiva
in forma raddolcita", "actio
reipersecutoria sebbene nasca da un delitto”)[5]
sarebbe seguita a tale seconda opinione[6]
per i soli furti commessi in vista di un
[p.
118]
divorzio poi
realmente avvenuto[7].
La retentio propter res amotas
avrebbe costituito di quella azione, per così dire, il bozzolo,
ciò che spiega – a detta del Tigerström – perché
inizialmente l'esercizio di quella azione fosse concesso soltanto al marito;
successivamente però (già in epoca 'classica') la iniziativa
della actio rerum motarum sarebbe
stata riconosciuta anche alla moglie, alle stesse condizioni[8].
Occorre
[p. 119]
sottolineare che,
secondo il Tigerström, la societas vitae
coniugale in forza della quale alcuni giuristi romani escludevano la ipotesi
del furto da parte della uxor sarebbe
stata (la contradictio in adiecto del
Tigerström mi appare qui evidente) "intesa in senso non giuridico ma
religioso"[9]
e che, sempre secondo questa concezione, è l'honor matrimonii il sostrato del constitutum ius di cui parla Paolo[10].
La
dottrina che abbiamo visto nella esposizione del Tigerström risulta
sostanzialmente confermata, circa 30 anni dopo, nel trattato di diritto dotale
del Bechmann[11].
In questo troviamo tuttavia qualche importante 'precisazione'. La actio rerum amotarum sarebbe, sì,
di recente origine, collocandosi nella epoca del conflitto di opinioni tra
Nerva-Cassio e Sabino-Proculo, ma «come compromesso tra le due opposte opinioni».
Nerva-Cassio infatti – secondo il Bechmann – avrebbero negato
soltanto la esistenza del concetto civilistico di furto della uxor a danno del marito (e anche qui
vale il rilievo, già fatto a proposito della dottrina del
Tigeström, del carattere intrinsecamente, formalmente giuridico, ad onta
delle negazioni, della societas vitae
coniugale secondo queste ricostruzioni) ma anche questi giuristi avrebbero
riconosciuto la sostanziale illiceità dal punto di vista del bonum et aequum delle amotiones intraconiugali. A esse si
sarebbe quindi ovviato forgiando l'apposito (singulare) iudicium delle
res amotae nonché,
[p.
120]
già prima,
con il ricorso agli strumenti dell'aequius
melius in occasione della richiesta di restituzione delle cose dotali.
Anche dal Bechman troviamo ribadito che "l'actio rerum amotarum è uno sviluppo formale e materiale
della retenzione"[12].
[p.121]
Presso
un altro specialista di diritto dotale, lo Czyhlarz, il discorso sull'istituto
della actio rerum amotarum è
quindi semplificato in termini dogmatici, a scapito della sua componente di
ermeneutica in chiave storica[13].
«Se
la donna ha sottratto alcunché a suo marito durante il matrimonio,
ciò è senza dubbio materialmente un furto; tuttavia la actio
furti non veniva concessa a causa del suo carattere penale e infamante
inconciliabile con l'onore del matrimonio. Di queste sottrazioni l'uomo poteva
rifarsi inizialmente soltanto sulla dos con
il sistema della retentio. Questo
rimedio giuridico era efficace fintanto che la totalità dei beni della
donna ricadevano come dote in potere dell'uomo. Quando non fu più
così e furono anche possibili sottrazioni da parte dell'uomo a danno
della moglie, la retentio non fu
più sufficiente e venne creata una speciale azione da delitto per il
coniuge derubato contro l'altro»[14].
In
una nota però lo Czyhlarz introduce – proprio sul piano della
storia dell'istituto – elementi di novità che dovevano poi trovare
ampi sviluppi: «Questa è la spiegazione che si trova presso i
giuristi classici per la inesperibilità della actio furti: "nam in
honorem matrimonii turpis actio non datur" (Gai. D. 25.2.2). Oltre a ciò si trovano tracce di una più
antica opinione (Sabino e Proculo) che riconducono la
[p.
122]
giuridica
inesperibilità della actio furti
ai rapporti tra filia familias e
titolare della potestas. Quest'ultima
opinione è valida soltanto per il matrimonium
cum manu. Con il venire meno della manus
si dovette cercare un'altra spiegazione della inesperibilità della actio furti e fu trovata nell'honor matrimonii (cfr. D. 25.2.1).»
Con
ciò lo Czyhlarz sposta la questione del sorgere della actio rerum amotarum dal dibattito giurisprudenziale
tra Nerva-Cassio e Sabino-Proculo al passaggio dal regime matrimoniale cum manu al regime matrimoniale sine manu. La opinione di Nerva-Cassio
che "uxor furtum non facit quia
societas vitae eam quodammodo dominam facit" neppure è
menzionata.
L'elemento
che, nella dottrina sulla actio rerum
amotarum secondo lo Czyhlarz, costituisce ancora soltanto materia per una
nota diviene il fulcro della trattazione dello stesso istituto da parte dello
Esmein[15],
così che a questi ne viene attribuita 'tout court' la
paternità[16].
[p. 123]
«Ces motifs <di introduzione della actio rerum amotarum secondo Paul. D. 25.2.1>, appliqués à
la situation de la femme dans le mariage libre – scrive l'Esmein –,
ne sont plus que de considérations morales. Appliqués au contraire
à celle de la femme in manu, ils reprennent leur précision
juridique. Tous convenaient que la actio furti ne pouvait être
intentée contre la femme. L'épouse dont il s'agit ne peut voler
son mari, disaient Nerva et Cassius, car elle est en quelque sorte
copropriétaire des biens de son époux: cela ne convient-il pas
à merveille à la femme in
manu, heres sua de son mari? D'autres jurisconsultes, Sabinus,
Proculus, Julien, comparaient cette épouse à une filia familias: elle peut bien,
disaient - ils, voler son conjoint, comme la filia familias peut voler son père, mais l'action furti ne
naît point contre elle: cela ne s'applique-t-il pas, au pied de la
lettre, à la femme in manu,
qui, pour son mari, est loco filiae?»[17].
La
actio rerum amotarum, che si sarebbe
in origine applicata soltanto al matrimonio cd. cum manu (restando i furti tra coniugi del matrimonio sine manu perseguibili in forma
ordinaria: cioè con la actio furti),
si sarebbe quindi, con il tempo, estesa anche al matrimonio cd. sine manu. «Mais les motifs sur lesquels s'appuya cette application nouvelle de
l'action different profondément de ceux qui soutenaient l'ancienne:
"In honorem matrimonii, nous dit Gaius"»[18].
[p.
124]
In
effetti, si deve all'Esmein uno sviluppo importante -per quanto implicito- del
discorso dello Czyhlarz: il richiamo al, la sottolineatura – anzi –
del con-dominio ("copropriété") tra marito e moglie
come causa prima del sorgere della actio
rerum amotarum. Registriamo così il passaggio, nella dottrina, della
imputazione del con-dominio coniugale dalla societas
vitae tra marito e moglie al rapporto filiale (e, quindi, di heres sua) della uxor in manu nei confronti del marito. Ciò comporta (anche
questo è implicito e lo ho rimarcato nel discorso dello Czyhlarz) una
certa 'confusione' tra le opposte opinioni di Nerva – Cassio e Sabino –
Proculo (almeno come formulate da Paolo). Si tratta di una impostazione
destinata, come vedremo, a notevole fortuna.
Il
nuovo orientamento trova più matura formulazione presso un romanista italiano,
M. Pampaloni[19].
Nella sua ricostruzione di natura e disciplina della actio rerum amotarum, punto di partenza è proprio la
distinzione tra il regime del matrimonio cd. cum manu e il regime del matrimonio cd. sine manu in materia patrimoniale, sotto i profili sostanziale e
processuale, con particolare riferimento a possibilità e conseguenze del
furto fra coniugi. Nel matrimonio cd. cum
manu – secondo il Pampaloni – non era possibile la actio furti in quanto le persone in potestate non hanno capacità
patrimoniale. Il marito constante
matrimonio neppure poteva commettere furto a danno della moglie e se
l'avesse commesso prima del matrimonio con il subentrare di questo si
estingueva l'azione; la moglie invece poteva commettere furto anche constante
matrimonio ma non poteva essere convenuta con la actio furti;
[p.
125]
anche la
conservazione della refurtiva da parte della moglie dopo un eventuale ripudio
non comportava actio furti dal momento
che il Diritto romano antico conosceva solo il cd. furto proprio (per
ciò si crea ab antiquo la retentio dotis ob res amotas)[20].
Nel matrimonium cd. sine manu era possibile furto e azione
di furto fra coniugi[21].
Il pretore che nelle azioni edittali ha sempre comprese ambedue le forme di
matrimonio crea una azione (actio rerum
amotarum) adversus eam quae uxor fuit
nel caso speciale che il furto avvenisse divortii causa e il matrimonio fosse poi sciolto per divorzio[22].
La actio rerum amotarum era una azione
penale diretta al doppio del valore (duplum)
dell'oggetto rubato[23].
Era anche azione nossale a riguardo delle persone in potestate: il diritto giustinianeo ne fa un'azione di peculio[24].
Particolarmente significativa è, per noi, la trattazione della opinione
di Nerva e Cassio: questi riterrebbero che il pretore, avendo considerato come
delitto speciale un caso particolare di furto fra coniugi (divortii causa), avesse implicitamente escluso il furto in tutti
gli altri casi; «L'espressione quia
societas vitae etc. non mi appare
concludente» chiosa quindi con notevole – ma non eccezionale
– disinvoltura il Pampaloni[25].
Nerva-Cassio e i loro seguaci escludono
[p. 126]
pertanto anche la
condictio furtiva ammettendo soltanto
una condictio non ex delicto per semplice arricchimento.
Secondo i compilatori delle Pandette
se un coniuge sottrae una cosa all'altro commette furto: ma constituto iure sono escluse in massima
ambedue le azioni da furto, oltre la speciale actio rerum amotarum non si dà per il furto fra coniugi che
una condictio non ex delicto[26].
I compilatori del Codice consentono
una speciale actio in factum de damno[27].
Esclusa di regola (in diritto giustinianeo) la condictio furtiva fra coniugi, i compilatori ne eliminarono il
ricordo dai passi classici[28].
Il Pampaloni spiega infine perché i compilatori hanno fatto della actio rerum amotarum una azione
meramente reipersecutoria: in 'diritto
classico' sulla scorta della unica
disposizione pretoria (introduzione della
actio rerum amotarum) la giurisprudenza escluse in conseguenza l'actio furti e, per analogia, l'actio expilatae hereditatis e
«probabilmente tutte le azioni ex
delicto famose». I compilatori andarono oltre escludendo tutte le
azioni penali[29].
[p.
127]
La
apodittica formula di liquidazione della societas
vitae coniugale con le conseguenti affermazioni del carattere penale
dell'azione rerum amotarum e della
distinzione (che comincia a prendere corpo presso questo autore) tra 'classici' (sostanzialmente Sabino-Proculo con i loro seguaci) e
giustinianei in materia di actio rerum
amotarum e, più in generale, di matrimonio, sono gli elementi della
ricostruzione del Pampaloni nei quali possono intravedersi i prodromi della
dottrina dello Zanzucchi.
Il
punto di forza della dottrina dello Zanzucchi[30]
è concordemente visto appunto nella distinzione che questi opera con
vigore tra concezione 'classica' e concezione giustinianea della actio rerum amotarum. In particolare lo
Zanzucchi afferma essere proprio soltanto a questa ultima concezione la idea
dell'obbligo giuridico di reverentia
tra coniugi e, quindi, il richiamo ad esso come argomento per escludere la
esperibilità di azioni di furto e, in genere, di azioni infamanti tra
marito e moglie. Il constitutum ius
dei giuristi 'classici', oramai sganciato dal principio dell'honor matrimonii, è soltanto la
forma di sopravvivenza, nel matrimonium
cd. sine manu, della "signoria
di fatto" della uxor sui beni
del marito, "signoria di fatto" invece propria, natura rei, al regime del matrimonium
cd. cum manu. «Per i classici» scrive lo Zanzucchi[31]
«si tratta di ciò che
[p.
128]
non esiste
neppure furto o quanto meno l'azione non nasce per le sottrazioni commesse
dalla moglie prevalendosi di questa sua qualità. - Per Giustiniano si tratta
di un divieto di esercitare l'actio furti
in costanza di matrimonio. I primi escludono l'azione con riguardo al momento
in cui fu commesso il reato. - Il secondo esclude l'azione con riguardo al
momento in cui essa si esercita.» Secondo i classici «a base della
esclusione dell'actio furti sta la
posizione di signora di fatto in cui si trova la donna rispetto ai beni del
marito»[32].
Per sopperire ai casi più gravi di mancanza di actio furti (amotiones
commesse in vista del divorzio) a divorzio avvenuto si dava l'actio rerum amotarum, la quale ha natura penale, come sostiene il
Pampaloni: "era un'azione diretta a perseguire una poena e non la res"[33].
Nel 'diritto classico' la actio
furti non era esclusa contro il marito, ma soltanto contro la moglie:
«contro il marito non c'era bisogno di questo iudicium singulare, perché contro di lui non era negata l'actio furti»[34].
Al contrario Giustiniano concepisce l'esclusione dell'actio furti come un divieto
di esercitare l'azione in costanza di matrimonio; invocando la reverentia personarum e compiendo le
necessarie interpolazioni elimina i casi in cui nel 'diritto classico' il
marito poteva convenire di furto la moglie; considera la actio rerum amotarum
[p.
129]
non più
volta a perseguire penalmente il reo ma soltanto a ottenere il risarcimento e
– per tanto – compatibile con la reverentia personarum, l'honor
e il pudor matrimonii.
La
disputa circa la giustificazione del diniego dell'actio furti (Paul. D.
25.2.1) lo rivela «un'eredità» di altri tempi, un prodotto
di antichi princìpi cui nel corso dell'evoluzione storica è
venuta mancando la base»: il diniego deve essere sorto nei matrimoni cd. cum manu.[35]
Sulle persone che facevano parte del consorzio familiare: liberi (filii familias,
uxores in manu), servi e persone
in mancipium o in condizione varia di
sudditanza (liberti, clienti, mercennarii)
il pater familias aveva il
diritto-dovere di esercitare una potestà di correzione che escludeva il
ricorso ai magistrati della città (Ulp. D. 47.2.17). Tale ampio
organismo familiare andò disgregandosi, in luogo del matrimonio cd. cum manu si affermò il
matrimonio libero ma restò il principio che non c'è actio furti contro liberti, clienti e mercennarii (D. 47.2.90) e la moglie continua a essere menzionata in ordine alla
esclusione dell'actio furti assieme a
filii familias e servi (Ulp. D. 47.2.36)[36].
La opinione di Nerva-Cassio (i quali, secondo la logica del romanista italiano
e dei suoi auctores Esmein e Pampaloni,
sarebbero gli epigoni, in epoca di oramai diffuso matrimonio cd. sine manu, di concezioni proprie al
matrimonio cd. cum manu) urta e si
infrange contro gli orientamenti della 'migliore' giurisprudenza (Sabino-Proculo etc.) a
riconoscere alle sottrazioni compiute dalle persone in potestate (servi e figli di famiglia)
[p. 130]
natura di furto,
sia pure non 'azionabile', al fine di tutelare più
efficacemente padroni e padri di famiglia derubati[37].
La prevalente giurisprudenza riconosce però di trovarsi di fronte a una
mera sopravvivenza storica (ius constitum) cui manca oramai un fondamento razionale
(natura rei): Sabino, Proculo,
Giuliano, Paolo[38].
[p. 131]
Una
volta eliminato (o meglio: attribuito a Giustiniano) l'argomento della reverentia tra coniugi, si consolida il
richiamo al condominio come spiegazione della mancanza della azione di furto
tra coniugi in epoca 'classica' e 'pre-classica'. Anche il Levy (che
pure è, su una serie di punti, polemico con le tesi di Esmein, Pampaloni
e Zanzucchi) si muove in questo ordine di idee; soltanto che tale condominio
("Vermögensgemeinschaft") coniugale è visto in
riferimento non al regime patrimoniale del matrimonio cd. cum manu ma al regime della dos.
La
specificità del contributo del Levy alla materia della actio rerum amotarum prende le mosse dal
rifiuto della «dottrina (cresciuta in Francia e in Italia) che trova le
radici della nostra azione sul terreno del matrimonium
cum manu»[39].
I giuristi che parlano della actio rerum
amotarum vivono in epoca di dominante matrimonio cd. sine manu né si fa rinvio ai veteres. La considerazione di Nerva e Cassio (fr.1) si applica
altrettanto bene alle due forme di matrimonio. «Per la opinione dominante degli alii, la filia familias è soltanto un termine di paragone»: se
la figlia commette furto ai danni del padre non nasce alcuna azione (Gai.4.78)
e anche se la moglie in manu in alienam potestatem pervenerit aut sui iuris esse coeperit,
neque cum ipsa neque cum eo, cuius nunc in potestate est, agi potest (ibidem).
In
positivo la attenzione del Levy si posa sul fatto che «Mentre i classici
scorgevano la actio rerum amotarum
soltanto se la sottrazione avesse
avuto luogo
[p.
132]
divortii causa e fosse quindi
seguito il divorzio, lasciando al di fuori di questo ambito il furti agere, cioè la actio furti più la condictio furtiva, Triboniano confonde
i terreni di applicazione della actio
rerum amotarum; egli pensa semplicemente al generale rapporto tra marito e
moglie, tra i quali può sempre avere luogo la condictio furtiva e mai la actio
furti. A tal fine è introdotta la seconda frase in C. 5.21.2 e altre sono
interpolate»[40].
E' in primo luogo «Tale indifferenza di Giustiniano verso la specificità giuridica
della actio rerum amotarum» che
conduce il Levy a ritenere «che la actio
rerum amotarum debba la propria nascita a un pensiero giuridico che non
aveva più valore nel diritto coniugale giustinianeo» e a posare
quindi «lo sguardo sul diritto dotale»[41]:
«In un matrimonio in cui si profilava il divorzio non poteva naturalmente
regnare più nessuna mutua fiducia tra gli sposi. In particolare, la
donna, la cui dote si trovava nelle mani e nella proprietà del marito,
poteva alimentare dubbi magari fondati a che il marito -nel caso che il
divorzio seguisse- fosse disposto a restituire la dote o che la azione al
servizio della separazione (ex stipulatu,
rei uxoriae) sarebbe stata accolta senza raggiri. Così ella poteva,
sia che ella stessa intendesse dichiarare il divorzio sia che se lo attendesse
da parte del marito, facilmente ricorrere al 'far da sé'
appropriandosi delle cose dotali o (nel caso che la dote fosse stata ordinata
sotto taxatio e, forse, per
sicurezza, anche altrimenti) di altre parti del patrimonio dell'uomo.
[p. 133]
Nel
caso che il divorzio si fosse poi verificato e che la dote fosse stata
restituita, emergeva necessariamente il problema se la donna si fosse resa
responsabile di furto e se fosse possibile contro di lei una azione di furto.
Probabilmente in conseguenza della opinione (anche altrimenti dimostrabile) che
in un certo senso la donna fosse rimasta proprietaria della dote ... si poteva
giungere (Nerva e Cassio) alla concezione di una certa
'Vermögensgemeinschaft' degli sposi e da ciò negare la sussunzione
<della amotiones uxoriae> nel
concetto di furto. D'altra parte una simile maniera di pensare non ottenne un
fermo consenso giurisprudenziale: dal punto di vista del diritto, la dote ...
era proprietà del solo uomo, e un comportamento della donna come quello
appena descritto era per ciò da considerarsi furto. La rigida
conseguenza giuridica avrebbe comportato una applicazione della actio furti. Ma una riflessione di tipo
analogico lo impedì. Come
nel caso di un furto eseguito dal filius
familias contro il padre la natura
rei impediva la actio furti a
vantaggio del tribunale domestico e la condictio
doveva fare luogo al regime del peculio, così contro quel furto della
donna si stabilì (per consuetudine) il principio che contro di lei non
si poteva agire furti (né penalmente né
reipersecutoriamente)»[42].
[p. 134]
Come
si vede, il ragionamento del Levy appare esitare e oscillare tra il richiamo
alla idea del condominio coniugale, per quanto limitato alla dote, e il
principio che giuridicamente la dote è proprietà del solo uomo:
«Secondo la opinione dominante, la donna commetteva furto come il
creditore che rem clam abstulisset al
debitore. Ma la opinione, la
quale negava la actio furti per
mancanza di interesse poiché il creditore suum recepisset <D.
47.2.60; D. 47.2.15.2> dovette
trovare accoglienza anche perché era insopprimibile l'idea di una
qualche (quodammodo) 'Dosgemeinschaft' durante il matrimonio.»[43]
La specifica actio rerum amotarum,
per quanto caratterizzata dalle «stesse conseguenze giuridiche che la condictio furtiva avrebbe prodotto
laddove fosse stata praticabile», sarebbe nata non perché, secondo
la coscienza giuridica dei Romani, la donna commetteva furto ma perché
quella stessa coscienza non tollerava che alcuno si facesse ragione da
sé[44].
Non
sono chiarissimi, nella costruzione del Levy, i termini del passaggio
<già in epoca pre-giustinianea?>[45]
della applicazione della actio rerum
amotarum dalle sole amotiones
dotali alle amotiones in generale. In
ogni caso, per i giuristi giustinianei «il diritto classico di questa actio, fintanto che esso
[p.
135]
riguardava le
cose dotali, era decisamente inapplicabile, poiché di queste la donna
otteneva una quasi-proprietà al momento della separazione, ciò
che doveva escludere ogni idea di furto e la stessa actio rerum amotarum. Triboniano (come egli dice direttamente per
bocca di Gaio in D. 25.2.26) trattò la azione come una vera condictio furtiva; che la actio rerum amotarum non sia stata fatta sparire dipende molto probabilmente
soltanto dal fatto che il nome del furtum
gli appariva contrastare con la idea della reverentia
personarum»[46].
La
costruzione del Levy non appare imporsi nella dottrina romanistica successiva.
Il Perozzi -ad esempio- che, pochi anni dopo, dà, nel suo manuale di Istituzioni, ampio spazio alla
trattazione della actio rerum amotarum,
continua ad accogliere la tesi della origine dal regime del matrimonio cd. cum manu dell'istituto nella
formulazione dello Zanzucchi (che possiamo considerare 'dominante'), con
aperture però verso la rilevanza nel matrimonio cd. sine manu del "comportamento pratico da quasi condomina delle
cose maritali" da parte femminile, ciò che sembra anticipare la
tesi poi sviluppata dal Wacke[47].
Autori più recenti,
[p.
136]
come il Longo[48]
e il Marrone[49],
si tengono invece prudentemente in superficie, senza affrontare le questioni
[p. 137]
di origine
né‚ tentare, quindi, di dare spiegazione della controversia
giurisprudenziale su di esse impiantata.
[p. 138]
Nel
1963 il Wacke dedica all'istituto della actio
rerum amotarum una monografia, nella quale uno spazio importante è
ancora attribuito alla questione della sua origine, anche per i riflessi sulla
ricostruzione del connesso regime.
La
interessante costruzione del Wacke in materia di esperibilità della actio furti e della stessa
possibilità di sussistenza della fattispecie del furtum tra coniugi, nel cui contesto si colloca la interpretazione
di Paul. D. 25.2.1, è la
seguente.
Nel
matrimonium cd. cum manu, tra la uxor,
che si trova loco filiae all'interno
della stessa potestas del marito, e
questo ultimo non può
sorgere alcuna obligatio (né ex contractu né ex delicto) né - ovviamente -
alcuna legittimazione ad azioni processuali di qualsivoglia natura: così
come tra tutte le altre persone che si trovano all'interno di una stessa potestas, pater familias, filii
familias, servi.[50]
[p.
139]
Il
Wacke si chiede tuttavia, riprendendo la tesi della sopravveniente (rispetto a
Nerva) opinione sabiniana della configurabilità del furtum senza che sorga la actio
corrispondente[51],
come mai tale opinione, discussa per la uxor
(Cassio, Pedio)[52],
sia stata, invece, pacificamente accolta dalla giurisprudenza romana per filii familiarum e servi: in ciò subito scorgendo una manifestazione della
particolarità rispetto a costoro della posizione della uxor nella specifica materia.
La
inesperibilità della actio furti
nel matrimonium cd. sine manu, che non si spiega in termini
di tutela dell'honor matrimonii,
neppure sarebbe dunque una "sopravvivenza oramai destituita di fondamento
razionale" del regime matrimoniale c.d. cum manu precedentemente diffuso. Il Wacke respinge anche la tesi del
Levy affermando che in occasione della actio
rerum amotarum non veniva affatto in esame se la donna avesse sottratto
beni dotali o altri beni del marito, anzi tale actio avrebbe avuto significato pratico sopra tutto in occasione di
sottrazioni di cose non dotali.[53]
Il fondamento della inesperibilità della actio furti tra coniugi non collocati all'interno di una unica potestas e, quindi, del sorgere della actio rerum amotarum consisterebbe
invece nel "consolidato
[p.
140]
costume
giuridico" (= constituto iure)
delle concezioni, proprie (ancora?) alla epoca 'classica', del matrimonium (anche?) cd. sine manu come "faktische
Vermögensgemeinschaft": allo stesso modo – a un di presso
– di quanto avviene per i domestica
furta operati dal cliens, dal libertus e dal mercennarius (durante la residenza di costoro nella domus del patronus o del conductor)
e contro i quali pure non vi ha actio
furti[54].
In
ogni caso e ovviamente, tale fondamento non sarebbe proprio alla logica del
rapporto potestativo instaurato nel matrimonium
cd. cum manu. Gli argomenti
addotti sono – come si è visto – sostanzialmente due.
Sarebbe inspiegabile la sola sopravvivenza, nel matrimonium cd. sine manu,
della inesperibilità della sola actio
furti tra tutte le azioni
già egualmente inesperibili nel matrimonium cd. cum manu:
tra persone, cioè, all'interno di una stessa potestas. Inoltre la actio furti è inesperibile anche
nei confronti di persone che il Wacke afferma essere non in potestate ma soltanto in uno stretto rapporto domestico (di coabitazione)
con il derubato.
A
ciò si riconnette, come altra faccia di una medesima medaglia, la idea
del Wacke che la societas vitae tra
coniugi con il connesso (con)dominio della
uxor abbia una natura meramente fattuale, anche se sono da lui in proposito
richiamati altri, specifici argomenti: il rescritto di Diocleziano contro la
prassi provinciale del condominio tra coniugi[55]
e, per
[p.
141]
converso, la
sussistenza – almeno secondo Sabino – e del furtum e della actio furti
fra i 'veri' condomini, ovverosia tra le parti di un contratto di societas[56].
Non
è per altro completamente chiarito dal Wacke se tale
particolarità dello stato della uxor
già rilevasse o potesse comunque – in qualche modo –
rilevare anche nel matrimonio cd. cum
manu. Appare però dal complesso del suo discorso che si debba rispondere negativamente: la particolarità
del rapporto tra coniugi verrebbe in rilievo soltanto nel matrimonium cd. sine manu,
quando cioè quel rapporto assume autonomia rispetto al rapporto potestativo
nel cui schema la condizione della uxor
loco filiae era livellata a quella della più generale categoria
delle personae in aliena potestate.
Di
certo il Wacke ritiene che lo status
– di fatto – di quodammodo
domina, attribuito alla uxor
dalla societas vitae - intesa come
con-vivenza - con il marito, costituisca l'unico comune fondamento sia della
opinione giurisprudenziale della esclusione del furtum, sia della opposta opinione giurisprudenziale della sola
esclusione della actio furti nei
rapporti fra coniugi in (epoca di) matrimonium
cd. sine manu.
Il
contrasto tra Nerva-Cassio e Sabino-Proculo, pure a proposito della
realizzabilità o meno della
fattispecie del furtum tra
coniugi (non vi è infatti discussione sul
non insorgere comunque della legittimazione ad agire furti), concernerebbe dunque soltanto la applicabilità
ai rapporti tra vir e uxor della più generale (e
"più evoluta") opinione (di Sabino?) circa la
possibilità (che riguarda
sopra tutto i rapporti tra persone all'interno di una stessa potestas) di concepire la sussistenza
della fattispecie
[p.
142]
del furtum senza necessariamente
riconnetterle l'insorgere della legittimazione ad agire furti, ovverossia circa la possibilità di affermare la
esistenza del furtum pure di fronte
alla non insorgenza della legittimazione ad agire
furti.
In
altri termini, Sabino-Proculo non soltanto non contesterebbero che la uxor (anche) non in manu sia quodammodo domina
dei beni del marito in quanto sua socia
vitae (così come affermato da Nerva-Cassio): anzi tale societas (la quale, in quanto di mero
fatto, non avrebbe 'natura rei'[57]
conseguenze giuridiche) costituirebbe il fondamento e la spiegazione di quel constitutum ius (richiamato proprio da
Sabino-Proculo come – sempre secondo il Wacke – un ius moribus constitutum) che inibisce la
actio furti contro la uxor e, in genere, tra coniugi. Restando
con ciò circoscritto il dissenso tra le due coppie di giurisperiti alla
sola questione se, con la actio furti,
questo constitutum ius (fondato sul
presupposto di fatto della societas vitae)
escludesse (meglio, poiché parliamo di opinioni, dovesse escludere)
anche la fattispecie del furtum
così Nerva-Cassio) oppure no (così Sabino-Proculo).
[p. 143]
Nel
dibattito che ha fatto séguito allo studio del Wacke, punto
"centrale"[58]
nonché il pi- innovativo di tale studio[59]
è apparsa esserne la spiegazione della mancanza (di furtum e) di actio furti
tra i coniugi in termini di "faktische Vermögensgemeinschaft"
tra gli stessi, contro «la dottrina, molto diffusa, per la quale l'esclusione
dell'actio furti tra coniugi sarebbe stata una reminiscenza storica dei
matrimoni cd. cum manu (per i quali
l'esclusione dell'actio furti trovava
la sua ragion d'essere nel rapporto potestativo che s'istituiva fra vir e uxor)»[60].
La
tesi della 'faktische
Vermögensgemeinschaft' ha
però trovato da parte del solo Marrone – almeno tra i recensori-
un avallo esplicito, seppure un poco generico[61].
Non prende partito il Wesener e sfuma il proprio dissenso il Labruna[62].La
tesi del Wacke è
[p.
144]
invece respinta
senz'altro dal Voci, il quale ne propone, in sostituzione, una compromissoria:
la societas vitae sarebbe, sì,
il generale fondamento della non
ravvisabilità del furtum nelle
amotiones uxoriae, ma tale societas vitae, di carattere
esclusivamente personale (cioè senza riflessi comunitario-patrimoniali),
sarebbe nient'altro se non il presupposto sociologico della
"presunzione" che ciascun coniuge disponga delle cose dell'altro con
l'assenso di questo[63].
Tale 'teoria della presunzione' – più antica – non
sarebbe stata «più accolta in età classica. Da Sabino in
poi si ritenne che il furto tra coniugi, in sé, fosse possibile: solo
continuò a rimanere vigente il regime della non perseguibilità
con l'actio furti. Ciò
significa che la norma positiva rimase immutata, mentre veniva meno la sua
giustificazione razionale». La costruzione del Voci, incidentalmente
sbozzata e rapidamente argomentata, è certamente suggestiva ma appare
priva di sostegni nelle fonti, anzi apertamente in contrasto con esse ad iniziare
dallo stesso Paul. D. 25.2.1, secondo
il quale Nerva-Cassio fanno conseguire esplicitamente dalla societas vitae coniugale uno status di quodammodo domina della uxor e, soltanto attraverso la
intermediazione di tale (con-)dominium,
la non ricorribilità degli estremi del furtum.
[p.
145]
Quella
che già era, in sostanza, la dottrina dominante nella materia della
inesperibilità della actio furti
nei confronti della uxor viene
ribadita e perfezionata nelle recensioni – tra loro fondamentalmente
coincidenti (almeno per i punti in nostro esame) – del Burdese e del
Guarino. Entrambi gli autori rifiutano la spiegazione che il Wacke ex novo
propone della disciplina 'classica' del furtum della uxor (e,
più in generale, tra coniugi): la esistenza, cioè, – anche?
– in regime di matrimonium cd. sine manu di una 'faktische Vermögensgemeinschaft' coniugale[64].
Osserva
il Guarino (con logica che mi appare ineccepibile) neppure capirsi
perché mai tale 'faktische
Vermögensgemeinschaft' che
comunque, almeno a
[146]
partire da
Sabino, non impedisce il furtum tra
coniugi debba tuttavia – continuare a – escludere la actio furti tra gli stessi.
Con
argomentazione altrettanto stringente, il Burdese, osservato che per la tesi
del Wacke mancherebbe soltanto il "profilo interno"[65]
del furtum tra coniugi, la respinge
come contraria alla lettera e al senso delle fonti che esprimono la
giurisprudenza dominante (di Sabino-Proculo): mancare cioè la actio furti, non il furtum, tra coniugi.
La
razionalità delle critiche del Guarino e del Burdese alla teoria del
Wacke emerge compiutamente se si considera che alla base di quella moderna
dottrina[66]
(cui, per altro, anche il Wacke aderisce) secondo la quale Sabino (o chi per
lui) avrebbe innovato la antica dottrina sul furtum introducendo la separazione (meglio: la capacità di
separare) tra la (nozione della) sussistenza della fattispecie del furtum e la (nozione della) sussistenza
della actio furti, è il
presupposto che la inesperibilità
[p.
147]
della actio furti non fosse una conseguenza
della insussistenza del furtum ma che
-al contrario- fosse la idea della insussistenza del furtum la conseguenza della inesperibilità della actio furti, giusta la 'incapacità', per insufficienza scientifica di analisi, di concepire la
esistenza di una obbligazione non 'azionabile'.
Nella
logica del Wacke, per cui il fondamento della inesperibilità della actio furti è il rapporto seppure
solamente "di fatto") di 'Vermögensgemeinschaft', la insussistenza del furtum deve invece postularsi 'prima' e come causa (anzi che 'poi' e come conseguenza) della
inesperibilità della actio furti.
E ciò – come ovvio – indipendentemente dalla capacità
o meno della scienza giuridica coeva di concepire la sussistenza di una
obbligazione in assenza della azione corrispondente. In tale logica l'eventuale
sopravvenire di questa 'capacità' scientifica non dovrebbe dunque
incidere assolutamente.
Il
Guarino e il Burdese continuano per contro a credere al sopravvivere, constituto iure (inteso – a
differenza del Wacke – come una sorta di diritto 'positivo')[67]
nei confronti dei coniugi sine manu
del regime già proprio al
matrimonium cd. cum manu, quando
la esclusione (del furtum prima e)
della (sola) actio furti (poi) tra
coniugi era un postulato, natura rei
(cfr. Paul. D. 47.2.16), del
più generale rapporto potestativo in cui quella forma matrimoniale si colloca.
[p.
148]
Il
Guarino ha ripreso e sviluppato il proprio discorso sulla actio rerum amotarum in uno scritto più ampio[68],
ove è ulteriormente esplicitata la propria tesi circa origine e
fondamento di tale azione. Sino a Sabino, nel matrimonium cd. cum manu
non vi ha furto fra coniugi come, più in generale, non vi ha furto tra personae unius potestati subiectae:
«non era concepibile un furtum in
senso tecnico operato dalla mulier in
manu a danno dell'avente potestà: le sottrazioni eventualmente
operate dalla prima davano luogo ad una reazione potestativa di carattere
intimamente familiare»[69].
Va, per altro detto che il Guarino recupera il tema del condominio della uxor in manu in quanto loco filiae (tema proprio al filone
dottrinario cui egli si riconnette): «L'opinione di Nerva padre e di
Cassio è evidentemente influenzata dalla visione del tuttora vigente
anche se decadente matrimonium cum manu,
in cui la moglie, essendo filiae loco, può dirsi quodammodo domina anch'essa»[70].
Nel matrimonium cd. sine manu, dove non ci sarebbe di per
sé motivo alcuno di escludere furto e azione di furto tra coniugi, non
vi ha tuttavia actio furti tra gli
stessi per il prevalere del modello organizzativo offerto dal matrimonium cd. cum manu. A partire dal III secolo a.C., soluto matrimonio, si offre al marito nel matrimonium cd. cum manu
(e, quindi, in quello cd. sine manu) lo
[p.
149]
strumento della actio rerum amotarum contro le amotiones compiute a suo danno dalla uxor. Con Sabino si ammette la
possibilità di furto della uxor in
manu (nonché, più in generale, dei filii familias) tuttavia constituto
iure (ovvero per 'diritto posto' come 'conservazione della prassi precedente') si continua a non dare actio
furti tra coniugi e la actio rerum
amotaarum si estende all'uso da parte della uxor contro il marito in una più ampia concezione della
stessa come condictio ex causa furtiva.
[p. 150]
In
sintesi e semplificando, lo stato odierno del dibattito in dottrina su Paul. D. 25.2.1 è il seguente.
Secondo
il Wacke, sino a Sabino nel matrimonium
cd. cum manu non vi ha actio furti tra coniugi in quanto
neppure vi ha furto tra personae unius
potestati subiectae. Nel matrimonium
cd. sine manu invece il constitutum ius[71],
inteso come diritto moribus constitutum,
esclude il furtum (Nerva e Cassio) o
la sola actio furti (Sabino e
Proculo) in forza della societas vitae
coniugale, intesa come "faktische Vermögensgemeinschaft". Per le
amotiones (divortii causa) tra
coniugi[72]
la interpretazione giurisprudenziale (attraverso l'editto pretorio) offre, matrimonio soluto, il rimedio della actio rerum amotaarum in uxorem. Con la
dottrina di Sabino, che permette di riconoscere la esistenza del furtum anche in assenza della
corrispettiva azione, si ammette la possibilità del furtum sia
[p.
151]
da parte delle personae in aliena potestate (quindi
della uxor nel matrimonium cd. cum manu)
sia tra i coniugi condomini di fatto nel matrimonium
cd. sine manu[73].
Secondo
il Guarino, la opinione di Nerva-Cassio niente altro esprimerebbe se non il
regime più arcaico delle amotiones
di res fra persone all'interno di una
stessa potestas: cioè la
esclusione tra di esse della possibilità e della actio furti e – conseguentemente – del furtum.
La
più fortunata opinione di Sabino-Proculo, invece, esprimerebbe innanzi
tutto la nuova idea scientifica che tra persone all'interno di una stessa potestas possa ben esservi furtum, anche se tra le stesse (quindi
anche tra vir e uxor in manu) non è possibile (natura rei) l'esperimento della connessa actio; la esclusione della actio
furti nei confronti della uxor non in
manu avviene invece 'perché
così si è stabilito': constituto iure.
La
interpretazione di Paul. D. 25.2.1
è dunque oggi, in dottrina, sostanzialmente concorde sotto aspetti
fondamentali. Essi sono:
a)
la convinzione che fosse unico il regime, in materia di furtum e di actio furti,
per la uxor in manu (loco filiae) e per i filii familias (nonché per i servi) in forza della comune
sottoposizione ad una stessa potestas
e sul presupposto del succedersi nel tempo della dottrina e, quindi, del regime
della sola inesperibilità
della actio furti alla dottrina e al
regime della stessa impossibilità del furtum facere;
[p.
152]
b)
la – corrispondente – disattenzione o sotto-valutazione (nonostante
contrarie apparenze) per il tema del quodammodo
domina (comune alla condizione della uxor
e a quella dei filii familias ma non
a quella dei servi) e per il tema
connesso della societas vitae
(esclusivo, invece, della condizione della uxor).
Il Wacke considera l'argomento della
societas vitae menzionato da Nerva-Cassio la reale motivazione 'classica' (comune, cioè, anche a Sabino, Proculo, Giuliano, Paolo
etc.) della inesperibilità della
actio furti nei confronti della uxor non
in manu. Tuttavia (forse proprio
perché nega un nesso tra
tale motivazione e il rapporto potestativo caratteristico del matrimonium cd. cum manu) ha un atteggiamento assolutamente negativo circa la
natura giuridica dello 'status' di quodammodo domina che Nerva-Cassio
attribuiscono alla uxor sulla base
della societas vitae con il marito.
Lo status della uxor è infatti
dal Wacke espressamente assimilato -almeno sotto il profilo che ci riguarda-
allo status prodotto da situazioni
che sarebbero di mera
coabitazione, quali quelle
del libertus e del cliens (con il patronus) e del mercennarius
(con il conductor), persone tutte che
sono dette essere n o n in potestate e che certamente né
sono sociae né sono (quodammodo) dominae.
[p. 153]
Nel
complesso, la costruzione contemporanea appare avere un rapporto assai tenue
con Paul. ad Sab. 7 = D. 25.2.1 che dovrebbe esserne la fonte
principale.
Stando
semplicemente al testo di Paolo, infatti, in epoca 'classica' (cioè
in epoca di diffuso e prevalente
matrimonium cd. sine manu) si
contrappongono due ugualmente autorevoli, anche se non egualmente fortunate,
opinioni giurisprudenziali.
Secondo
la prima (che fa capo a Nerva-Cassio) nei confronti della uxor non è
esperibile la actio furti perché neppure è da lei realizzabile la
fattispecie del furtum, dal momento
che ella è resa dalla societas
vitae con il marito quodammodo domina
dei beni 'di lui'.
Per
la seconda opinione (che fa capo a Sabino-Proculo e che, con il conforto della
autorità di Giuliano, lo stesso Paolo preferisce e professa)[74]
sotto il profilo del diritto sostanziale la posizione della uxor è riferita a quella della filia familias: la uxor può commettere furtum
a danno del proprio marito così come la filia familias può commettere furtum a danno del proprio pater
familias; tuttavia (si intende: a differenza di questa ultima nei cui
confronti la inesperibilità della actio
furti dipende dalla natura rei,
cioè dall'essere all'interno della stessa potestas del derubato) nei confronti della uxor (scl. non in manu) la actio furti è inesperibile constituto iure.
[p.
154]
Dal
testo di Paolo (sempre che – come pare – esso non sia stato
alterato con tagli e/o aggiunte da manipolatori tardo-classici o dai
compilatori giustinianei)[75]
risulta dunque che:
a)
il richiamo alla societas vitae con
il marito e il connesso status di quodammodo domina della uxor come fondamento del iudicium singulare della actio rerum
amotarum è proprio soltanto della (e vale soltanto per la) opinione
di Nerva-Cassio): non è proprio della né vale per la contrapposta
opinione di Sabino-Proculo);
b)
la assimilazione agli stessi fini della situazione della uxor a quella della filia
familias è presente soltanto nella (e vale soltanto per la) opinione
di Sabino-Proculo: non nella (e per
la) contrapposta opinione di Nerva-Cassio.
Appare
per tanto forzare quanto meno la lettera del testo in esame sia la
interpretazione secondo cui la
opinione di Nerva-Cassio (della impossibilità di furtum da parte della uxor)
sarebbe fondata sul presupposto dello status
di loco filiae della uxor (in manu) richiamata da Sabino-Proculo[76],
sia la interpretazione
[p. 155]
secondo cui la
opinione di Sabino-Proculo della giustificazione in termini di constitutum ius della
inesperibilità della actio furti
a carico della uxor sarebbe fondata
sul presupposto della societas vitae
della uxor medesima richiamato da
Nerva-Cassio.
[p. 156]
Entrambe
tali interpretazioni si reggono, in realtà, su di un argomento esterno
rispetto al testo di Paolo e, precisamente, che nella epoca sino a Sabino tra filia familias e pater familias (e, in genere, tra tutte le persone collocate
all'interno di una stessa potestas)
fossero esclusi non soltanto la actio furti ma anche il furtum: la nozione di una fattispecie di
furtum cui non corrispondesse –
o potesse non corrispondere – la
actio furti sarebbe stata introdotta forse proprio ad opera di Sabino. In
altri termini, occorre tenere presente che i ragionamenti sviluppati in
dottrina per la interpretazione delle contrapposte opinioni giurisprudenziali,
poste a confronto da Paolo in Ad Sab.
7 = D. 25.2.1, alla insopprimibile
esigenza di tenere presente in -e per- tale interpretazione il succedersi
(statisticamente realizzatosi già nell' ultimo secolo a.C.) dei due
regimi matrimoniali ccdd. cum- e sine manu aggiungono la ulteriore
complicazione di un'altra variabile: quella -ipotetica- della disciplina del furtum. Si ipotizza infatti -anzi, si
postula- in tale materia il passaggio dalla 'concezione
dei veteres' (i quali avrebbero
escluso con la actio furti anche la fattispecie del furtum tra persone
all'interno di una stessa potestas)
alla concezione di Sabino il quale, con riferimento alla medesima situazione
spiegherebbe la mancanza della actio
furti ricorrendo a mere ragioni procedurali e, sotto il profilo sostanziale,
ammetterebbe invece il furtum.
[p.
157]
La
considerazione dell'accavallarsi delle due vicende giuridiche (una certa,
quella del regime matrimoniale e l'altra ipotetica, quella della 'Furtumslehre') appare prendere nei ragionamenti contemporanei il sopravvento
sull'esame delle individualità delle – antiche – opinioni
giurisprudenziali, le quali vengono così, sostanzialmente, ricondotte (e
'ridotte', sia pure con qualche parziale resipiscenza: Wacke)[77]
ai termini della seconda vicenda (quella della dottrina del furtum) nella quale infatti la innovazione (rifiutata, in ipotesi,
da Nerva-Cassio) è ascritta proprio a Sabino.
Nei
confronti di tale argomentare
possono però sollevarsi alcune obiezioni.
Va,
anzi tutto, detto che la ipotesi di un simile cambiamento di orientamento
giurisprudenziale nella materia del
furtum presuppone una interpretazione forzata se non il rovesciamento di un
altro passo del Digesto:
Ulp. D.
47.2.17 Servi et filii nostri furtum
quidem nobis faciunt, ipsi autem furti non tenentur: neque enim, qui potest in
furem statuere, necesse habet adversum furem litigare, idcirco nec actio ei a
veteribus prodita est[78].
[p.
158]
Secondo
Ulpiano, infatti, già i veteres
affermavano la mancanza di actio furti
ma non la mancanza di furtum tra
persone poste all'interno di una stessa potestas,
sul presupposto che il potere coercitivo del pater-dominus rendeva per lui superfluo l'agire in giudizio. E'
facendo leva sull'"idcirco"
(opinabilmente tradotto come "all'incirca") che parte della dottrina
moderna crede di potere scorgere sotto e contro la affermazione di Ulpiano la
presenza di una diversa realtà, che sarebbe appunto quella della
giustificazione, da parte dei veteres,
della mancanza di actio furti nei
confronti di figli e servi con la affermazione della stessa
inipotizzabilità del furtum da
parte loro.
Che
in epoca 'pre-' e 'proto-classica' la filia
familias (come, per altro, i suoi fratelli e i servi) non potessero furtum facere al proprio pater familias è soltanto una ipotesi moderna, priva di
diretto riscontro testuale nelle fonti e la cui costruzione neppure appare, prima facie, troppo solida[79].
[p. 159]
Il
dato certo è invece che nelle fonti la affermazione della insussistenza
del furtum si trova soltanto a
proposito della uxor, mentre sono
varie le categorie
[p. 160]
e le situazioni
per le quali le stesse fonti (lo abbiamo visto) escludono la actio furti: non soltanto i filii familias e i servi (Paul. D. 47.2.16;
Ulp. D. 47.2.17), ma anche il libertus, il cliens e il mercennarius (Paul.
D. 47.2.90(89)) (anche se –
occorre non dimenticarlo – Sabino - Proculo assimilano il regime della uxor in materia di furtum a quello della sola
filia familias). Dal che consegue anche che la tesi del sopravvenire (ad
opera di Sabino?) della teoria di una fattispecie di furtum che non produce actio
furti, ben lungi dall'avere valore di assioma, appare piuttosto una sorta
di ipotesi di secondo grado: una ipotesi, cioè, costruita sopra (ma
anche, al contempo, per sostenere) un'altra ipotesi: quella, cioè, di
una opinione dei veteres di
generalizzata mancanza di furtum in
tutti i casi nei quali non era esperibile la actio furti.
[p. 161]
L'inserimento
della opinione di Nerva - Cassio, per cui la uxor furtum non facit, nella (ipotetica) più ampia, antica
regola della insussistenza del furtum tra tutte le persone collocate
all'interno di una stessa potestas
(come mera sopravvivenza di tale regola) comporta inoltre non soltanto la totale
irrilevanza giuridica della opinione di Nerva - Cassio in ordine alla forma
matrimoniale di gran lunga, già ai loro tempi, la più diffusa[80],
ma anche la sostanziale irrilevanza o proprio la contradittorietà interna dell'argomento da essi addotto
"quia societas vitae quodammodo
dominam eam - scl. la uxor - facit" per e con la stessa opinione da loro professata, se
(così la dottrina dominante) si considera comunque (indipendentemente
cioè dalla differenza di opinioni tra Nerva - Cassio e Sabino - Proculo)
la disciplina 'classica' del furtum tra coniugi (sine manu)
una mera sopravvivenza, destituita oramai di fondamento logico, della specifica
logica del più antico matrimonium
cd. cum manu.
Nel
matrimonium cd. cum manu la 'generica' condizione di persona in potestate, necessaria e sufficiente
("in ipotesi") appunto a escludere il furtum (almeno sino a Sabino) della uxor, renderebbe infatti irrilevante sia il richiamo allo 'status' di quodammodo domina (che la uxor ha in comune con i filii familias[81]
ma non con i servi, i quali pure non
farebbero però furtum) sia, a
maggiore ragione, la ulteriore
[p. 162]
specificazione
del riferimento di tale status al
rapporto di societas vitae della uxor con il marito rapporto –
ovviamente - esclusivamente proprio alla sola uxor).
[p.
163]
Se
invece (come fa il Wacke) si recupera 'in
qualche modo' senso all'argomento di
Nerva – Cassio[82]
riferendolo però (con tutta la disciplina 'classica' del furtum tra coniugi) al solo regime
matrimoniale cd. sine manu (a parte
il -perlomeno- curioso bisticcio logico del conservarsi nella opinione di Nerva
- Cassio della disciplina più antica (insussistenza del furtum tra coniugi) in forza dell'argomento più recente (societas vitae), mentre nella opinione
di Sabino-Proculo la disciplina
più recente (sussistenza del furtum
e inesperibilità della actio furti)
si fonderebbe (almeno parzialmente) sul richiamo a una situazione oramai
superata: lo status di loco filiae della uxor in manu) resterebbero comunque insuperabili le obiezioni
già avanzate[83]
della irrazionalità di una 'faktische
Vermögensgemeinschaft' cui
verrebbe riconosciuta capacità inibitoria della sola actio furti e non anche della medesima
fattispecie del furtum.
In
ogni caso, Paul. D. 25.2.1 appare
uscire piuttosto mal concio dalle operazioni ermeneutiche cui lo si assoggetta
da parte della dottrina contemporanea.
La
contrapposizione tra Nerva-Cassio da una parte e Sabino-Proculo dall'altra non
investirebbe né la questione del rapporto di societas vitae tra marito
[p.
164]
e moglie
né la questione della ('originaria') assimilazione della uxor (in manu) alla filia familias
(anzi!), trasformandosi in tutt'altra cosa (cui Paolo non fa però alcun
cenno): la applicazione cioè, o meno, alla uxor (in o sine manu, a seconda che si respinga o
si accolga la 'variante' del Wacke) della 'nuova' dottrina (sabiniana?) del furtum senza actio.
L'argomento di Nerva-Cassio (insussistenza del furtum della uxor come
conseguenza della societas vitae
coniugale) sarebbe o irrilevante o (secondo la correzione del Wacke)
verrebbe a coincidere con il (anzi: a fornire contenuto al) constitutum ius di Sabino-Proculo.
Mi
chiedo se tale smontaggio e rimontaggio secondo un nuovo ordine logico del
testo di Paolo (magari gettandone via qualche pezzo) sia, ancora prima che
legittimo, necessario.
[2] Rapporto della actio rerum amotarum con la actio rei uxoriae e la connessa retentio propter res amotae, sua 'data di nascita', significato di amovere, ambito della actio rerum amotarum (matrimonio, divorzio), ricostruzione della formula, natura della azione (penale, reipersecutoria, mista), applicazione alla sola uxor o anche al maritus etc.
[3] Cfr. L.PEPPE, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna in età repubblicana (Milano 1984) 34 nt. 52 sul ruolo della monografia del Wacke nel riaprire la questione della comunione familiare in Diritto romano.
[4] F.W.v.TIGERSTROM, Das römische Dotalrecht II (Berlin 1832 r.a. Berlin 1983) prgf. 62. "Actio rerum amotarum".
[5] TIGESTRÖM, op.cit. 295: «L'obiettivo di questa azione <l'actio rerum amotarum> è prima di tutto la restituzione degli oggetti sottratti; essa è una actio reipersecutoria sebbene nasca da un delitto (D. 25.2.21.5). Come tale essa non si estingue – come le azioni pretorie di natura penale – in un anno ma dura – come la stessa condictio furtiva – 30 anni (D. 25.2.21.5)».
[6] TIGESTRÖM, op.cit. 277: contro la ex moglie può essere esperita soltanto la actio rerum amotarum e non qualsiasi condictio furtiva; secondo la opinione di alcuni giuristi romani, fintanto che la societas vitae (intesa in senso non giuridico ma religioso) faceva partecipare la moglie a ogni proprietà del marito, non era possibile trattarla da ladra. Altri giuristi consideravano invece quella motivazione come troppo "sottile" e infondata. Essi affermarono la opinione che -così come la figlia al padre- anche la moglie potesse fare furto al marito, soltanto si sarebbe voluto evitare la azione infamante di furto e la esclusione di quella azione sarebbe stata posta dal diritto. Come tale prospettiva abbia trovato ingresso presso i Romani (attraverso il pretore e il ius honorarium?) è irrilevante: certo è che si ritenne non ammissibile per l'honor matrimonii la infamante azione di furto.
[7] TIGERSTRÖM, op.cit., 279: «Primo: quando trova applicazione questa azione? Essa presuppone che la donna abbia sottratto durante il matrimonio cose al marito in previsione del divorzio (divortii causa) e che il divorzio sia quindi seguito».
[8] TIGERSTRÖM, op.cit. 287 «Secondo: chi è l'attore? In origine poteva utilizzare questa azione soltanto il marito; appare infatti che fosse un requisito di questa azione potersi esercitarla soltanto come surrogato del mancato esercizio di una retentio. La azione si estende quindi alla moglie contro il marito e (p.288) alle medesime condizioni (D. 25.2.7; C. rer. amot. 2). … Terzo: chi è il convenuto? (p.291) Come l'uomo da parte sua appare di regola l'attore, cos’ di regola è la donna la convenuta. Però anche all'incontrario l'uomo può essere convenuto con questa azione se egli divortii causa abbia sottratto beni della moglie e quindi sia seguito il divorzio.»
[12]
Loc.cit.: «Della actio rerum amotarum sappiamo che essa è di recente origine. Ancora
Nerva e Cassio avevano affermato che la donna non può commettere furto a
danno dell'uomo; Sabino e Proculo avevano invece ammesso questa
possibilità ma dichiarato inammissibile la actio furti e così è stato introdotto l'actio rerum amotarum iudicium singulare
come compromesso tra le due opposte opinioni.
Con
ciò si è però soltanto affermato che l'amovere res mariti ha avuto prima della
introduzione di tale actio quasi
nessuna attenzione, ovvero che l'uomo era esclusivamente limitato alla rei vindicatio. La opinione di Nerva e
Cassio giunge soltanto a negare la esistenza di un concetto civilistico di furtum, non deve però
assolutamente essere intesa nel senso che la sottrazione di cose del marito sia
lecita e improduttiva di contromisure anche del punto di vista del bonum et aequum.
Io ritengo ... che dai
veteres e a lungo prima di Sabino e
Proculo la asportazione di cose dell'uomo venisse presa in esame con il
criterio dell'aequius melius in occasione della richiesta di
restituzione delle cose dotali.
.........
La retentio propter res amotas non si è sviluppata dalla actio rerum amotarum ma, al contrario, la actio rerum amotarum è uno sviluppo formale e materiale della retenzione.»
[15] A.ESMEIN, La
manus, la paternité et le divorce dans l'ancient droit romain.
Mélanges d'histoire du droit et de critique (Paris 1886) 27 ss.
[16] P.HUVELIN, Etudes sur le 'furtum' dans le très ancien droit romain I Les sources (Lyon - Paris 1915) 631 cita per esteso l'Esmein di cui accoglie la opinione (v. infra) e prosegue affermando che nel matrimonium cd. sine manu non si applicava dunque contro l'uxor la actio rerum amotarum ma la actio furti e la condictio furtiva. Il marito avrebbe perduta la prima in un momento che ignoriamo mentre avrebbe conservato la condictio furtiva (in luogo sempre della actio rerum amotarum, par d'intendere) sino al Basso Impero, quando il nome della actio rerum amotarum avrebbe rimpiazzato quello di condictio furtiva; E.LEVY, Privatstrafe und Schadenersatz im klassischen römischen Recht (Berlin 1915) prgf. 9. "Die actio rerum amotarum" (pp.114 - 134) in part.p.121 respinge la «dottrina (cresciuta in Francia e in Italia) che trova le radici della nostra azione sul terreno del matrimonium cum manu».
[19] M.PAMPALONI, Sopra alcune azioni attinenti al delitto di furto ('actiones utiles') in Studi Senesi 17 (1900) 149 ss.
[25] Op.cit., 158 (nt.35). Seguono (?) la opinione di Nerva-Cassio: Pedio D. 25.2.21.1 alterato forse per svista (nt.36) e Marciano D. 25.2.25 ("forse" nt.39 p.159).
[27] Op.cit., 160; Questa decisione che differisce solo formalmente dall'opinione di Sabino-Proculo appare più corretta di quella seguita dai compilatori delle Pandette e deve essere preferita nel sistema giuridico giustinianeo.
[30] P.P.ZANZUCCHI, Il divieto delle azioni famose e la 'reverentia' tra coniugi in Diritto romano "Parte prima" in RISG 42 (1906) e "Parte seconda" in RISG 47 (1910).
[32] ZANZUCCHI -1906- 22; permanenza di tale qualità anche in caso di morte del marito: divieto di actio expilatae hereditatis, p.27.
[33]
Op.cit. 57; cfr. p.33. La actio
rerum amotarum è subordinata alla mancata restituzione e (1910 p.16)
si estingue se i due ex coniugi si risposano: Pap. D. 25.2.30
[34] ZANZUCCHI (1906) p.5 ss. in part. p.10, p.17 e p.20; cfr. p.62 s.
[37] La applicazione dei principi del matrimonio cd. cum manu al matrimonio cd. sine manu portava ad affermare la mancanza stessa del furto da parte della uxor «in contrasto con gli sforzi che la giurisprudenza faceva in riguardo alle sottrazioni degli schiavi e dei filii familias per affermare il principio che era negata la sola azione e non il delitto, a scopo di garantire meglio i diritti del derubato sulla sua cosa (inusucapibilità) e la persecuzione dei complici».
[38] ZANZUCCHI – 1906 – p.76. Con Gordiano e Diocleziano «caduta la giurisprudenza classica e venuta meno la forza di sceverare le buone dalle cattive dottrine, si fece ritorno all'idea, già abbandonata, del condominio come giustificazione del diniego».
[42] Op.cit., 126 s.; cfr. 130 s.: «Occorre che la sottrazione sia avvenuta 'in vista del divorzio' perché essa possa venire considerata come autotutela alla scopo di soddisfare e garantire le aspettative dotali. Inoltre 'il divorzio deve essersi verificato', perché soltanto dopo il consilium della donna ottiene la sua oggettiva rilevanza giuridica e maturano quelle <così> assicurate aspettative dotali. Restano estranei al singulare iudicium e sottoposti al generale regime del furto (actio furti e condictio furtiva) tutti gli altri casi: sia che la donna agisca con altra intenzione (ad esempio, un furto di carattere generale) <D. 25.2.17.1>, sia che il furto sia compiuto prima o dopo il matrimonio o anche durante il matrimonio ma senza che segua il divorzio <N.B.: argomenti testuali ricostruiti sulla base di presunte interpolazioni>. Dell'honor matrimonii qui non si parla.»
[46] Op.cit., p.134; cfr. p.133: «I classici debbono certamente avere esplicitamente parlato della qui ipotizzata origine della actio rerum amotarum, così probabilmente Paolo nel varco riempito dal fr.2 di Gaio. I compilatori non potevano utilizzarlo poiché - come dimostrato - essi consideravano impraticabile soltanto la actio furti e non anche la condictio furtiva. Che essi ammettessero questa senza distinguere un ambito di applicazione proprio della actio rerum amotarum provano le loro (in precedenza trattate) varie interpolazioni e C. 6.2.22.4».
[47] S.PEROZZI, Istituzioni di Diritto romano I 2^ed. (Roma 1928) prgf. 42 "Effetti giuridici del matrimonio rispetto ai coniugi" p.347 ss., in part. 350 s.: «Il diritto pregiustinianeo concedeva che i coniugi potessero intentarsi reciprocamente azioni penali e infamanti. Il diritto giustinianeo invece le esclude tutte. Finché non esistettero che matrimonii cum manu, dato che la moglie rubasse cose del marito, questi non poteva avere l'actio furti contro di lei, perché non nasce nessuna azione tra avente potestà e sottoposti. Né poteva il marito rubare cosa alcuna alla moglie, perché questa nulla aveva in proprio. Sorti i matrimonii sine manu, la donna poté avere beni propri e il marito poté quindi sottrarglieli. Siccome ora codesti beni restavano in tutto qualche cosa di estraneo al marito, si dovette ammettere che la donna potesse in tal caso agire contro il marito con l'actio furti. Ma mentre l'indipendenza della donna dalla potestà del marito avrebbe dovuto logicamente condurre ad ammettere anche a favore di questo l'actio furti contro la donna, che gli sottraesse cose sue, l'antica esclusione dell'actio furti contro di essa in ragione della potestà maritale, e il fatto che la donna entro la casa maritale si diportava praticamente come quasi una condomina delle cose maritali anche ora che non poteva più dirsi quasi una condomina a titolo di figlia <il corsivo è mio>, fecero sì che l'esclusione dell'actio furti fu mantenuta. In luogo di questa il pretore concesse contro la donna un'azione in factum concepta con condanna diretta al quanti ea res fuit vincolata però a particolari ipotesi».
[48]
G.LONGO, Diritto romano. Diritto di
famiglia 2^ ed. (Roma 1953) 52 s. La limitazione tra coniugi di azioni
penali o infamanti attestata in Cod.
5.21.2 sarebbe il frutto di una interpolazione giustinianea: «Il diniego
di esperibilità dell'azione di furto può desumersi, invece, da
luoghi sostanzialmente insospettabili (D.
25.2.1, ad esempio). Una volta sciolto il matrimonio per divorzio, le fonti
menzionano un iudicium singulare, l'actio rerum amotarum, avente lo scopo di
soccorrere il coniuge che, in costanza di matrimonio, avesse subito sottrazione
di cose di sua pertinenza. La costituzione dioclezianea superiormente riferita
(Cod. 5.21.2), nella parte di essa che
non rivela tracce di interventi dei compilatori del codice giustinianeo,
chiaramente esprime la regola: 'Divortii
gratia rebus uxoris amotis a marito ... rerum amotarum edicto perpetuo
permittitur actio'. Tale azione ha certamente carattere penale nel diritto
classico. Nel diritto della Compilazione,
essa ha, come sembra potersi ritenere, assunto carattere reipersecutorio
...»
[49] M.MARRONE, 'Actio ad exhibendum' in AUPA 26 (1957) 567 <=395 estr.> «In ordine alle cose sottratte da un coniuge all'altro in costanza di matrimonio, la giurisprudenza era divisa: mentre alcuni negavano che tra coniugi potesse avere luogo furto, altri lo ammettevano, pur essendo concordi con i primi nel negare la spettanza dell'actio furti Ma, per le res amotae in vista del divorzio aveva luogo tra coniugi, sciolto il matrimonio per divorzio, l'actio rerum amotarum» (p.378)
[50] La tesi della maggiore antichità della esclusione della fattispecie del furtum da parte della uxor (opinione di Nerva - Cassio e, pare, Pedio) rispetto alla esclusione della sola actio furti contro la uxor (opinione di Sabino - Proculo, Giuliano, Paolo, Trifonino, Ulpiano nonché, pare, Gaio) si inscrive nel quadro della dottrina dominante. Si ritiene infatti -per un verso- che, nei rapporti tra tutte le persone collocate all'interno di una stessa potestas, alla esclusione della actio furti (come di qualsiasi altra azione) dovesse corrispondere 'in origine' una esclusione anche della fattispecie del furtum. E', per altro verso, considerato ovvio che nel matrimonium cd. cum manu, quando la uxor era loco filiae, ovverossia in manu nonché in potestate del marito o del di lui pater familias, la esclusione del furtum (e della actio furti) era per lei fondata sugli stessi motivi che per gli altri sottoposti alla patria nonché dominica potestas: liberi e servi.
[52] Paul. D. 25.2.21.1 Si servus mulieris iussu dominae divortii causa res amoverit, Pedius putat nec furtum eum facere, quoniam nihil lucri sui causa contrectet, nec videtur furtum facienti opem ferre, cum mulier furtum non faciat, quamvis servus in facinoribus domino dicto audiens esse non debeat: sed rerum amotarum actio erit.
[54] Paul. D. 47.2. 90 (89) Si libertus patrono, vel cliens, vel mercennarius ei qui eum conduxit, furtum fecerit, furti actio non nascitur; cfr. Marc. D. 48.19.11.1 a proposito dei furta domestica.
[57] Circa la contrapposizione tra la natura rei e il constitum ius cfr. Paul. D. 47.2.16 su cui infra, nt.67.
[59] In un contesto, per altro, di tesi "mai rivoluzionarie" e anzi tendenti a soluzioni persino più "tradizionali" di quelle correnti: MARRONE, in Tijd. (1965) 467.
[61] «l'idea della padronanza di fatto della moglie convivente sui beni del marito -idea più etica e sociale che giuridica, pur se espressa in fonti giuridiche (ma anche in fonti letterarie)- si è rivelata all'A. adatta a spiegare non pochi problemi giuridici: primo fra tutti, quello relativo alla negazione dell'actio furti fra coniugi»: Op.cit. 468.
[62] Anche se questo ultimo, considerate le obiezioni sollevate contro la tesi del Wacke, conclude «sinceramente non saprei cosa si possa rispondere» così riconoscendone, quanto meno implicitamente, la vis distruttiva.
[63] «E' null'altro che una presunzione, che serve a dare una interpretazione dignitosa al contegno del coniuge: interpretazione di una giurisprudenza aristocratica, simile a quella stabilita dalla praesumptio Muciana».
[64]
Il Burdese tuttavia, pure negando che la «idea etico-sociale
dell'esistenza tra di essi <i coniugi> di una sorta di comunione in fatto
di uso dei beni» possa «eliminare di per sé
l'esperibilità di azioni ricollegate al furto... non più di
quanto non elimini l'esperibilità tra coniugi della reivindicatio» ammette che tale idea possa avere facilitato
il costituirsi di un ius parzialmente
conservativo di quello (precedente e quindi venuto meno -per opera di Sabino?-)
della mancanza di furto tra coniugi nel
matrimonium cd. cum manu
(BURDESE, Op.cit., 333).
Entrambi concordano invece con il Wacke sull'allineamento alla dottrina attualmente dominante sia circa la tesi del carattere cristiano-giustinianeo della giustificazione del divieto della actio furti tra coniugi in termini di tutela dell'honor matrimonii, sia circa la tesi che la opinione di Nerva - Cassio (per quanto concerne la inesistenza del furtum, non per quanto concerne la connessa giustificazione) esprima la giurisprudenza più antica in materia di furtum tra persone collocate all'interno di una stessa potestas. Entrambi accolgono inoltre (più esplicitamente il Guarino) la tesi che fosse già propria al diritto 'classico' la esperibilità della actio rerum amotarum contro la uxor.
[65] Scrive il Burdese (Op.cit. 333) che «il riconoscimento della esistenza della fattispecie di furto debba ritenersi effettuato, secondo vuole l'a., solo per quanto concerne i rapporti esterni (ai fini cioè della responsabilità di furto dell'eventuale complice e della non usucapibilità della cosa sottratta) mentre nei rapporti interni tra coniugi continuerebbe a non essere ravvisabile il furto, da cui conseguirebbe l'esperibilità sia dell'actio furti sia della condictio furtiva appare interpretazione che va al di là della semplice affermazione testuale: la moglie commette furto, ma non si dà contro di lei l'actio furti».
[67] E' la interpretazione più diffusa già prima del contributo del Wacke (cfr.Id., Op.cit., 91 nt.67). Per quanto concerne i contributi successivi, la espressione "diritto positivo" si incontra presso LABRUNA, in Latomus (1965) 719; cfr., similmente, VOCI, in SDHI (1964) 433 ("norma positiva ... che si fondava sull'autorità e non sulla ragione") ma mi appare esprimere adeguatamente anche la concezione del Guarino, nonché quella sottesa alla recensione del Burdese.
[68] A.GUARINO, 'Res amotae' in Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche 75 (Napoli 1965) 253 ss.
[70] Op.cit., 275 nt.83 ove ci si richiama, per i filii in potestate, a Gai. 2.157 e 159; Ulp. D. 28.2.11 tuttavia menzionando la posizione critica del Solazzi.
[71] Siamo qui di fronte a un altro aspetto della più generale disattenzione nei confronti della contrapposizione di opinioni giurisprudenziali del testo di Paolo: il constitutum ius sarebbe, secondo il Wacke, l'argomento giurisprudenziale a tutti comune sulla scorta del quale si dà rilievo e séguito giuridico alla societas vitae / 'faktische Vermögengemeinschaft': inesperibilità della actio furti negando per ciò anche il furtum prima di Sabino e senza più - necessità di - negarlo a partire da Sabino.
[72] A partire dal I secolo a.C.: ma nella ottica di questo autore la datazione non appare determinante ai fini della definizione sostanziale della natura dell'istituto.
[73] Con Marcello si estende alla uxor il diritto di esperire la actio rerum amotarum - questa volta - in maritum.
[75] WESENER, in ZSS (1964) 473: «Dieser Passus scheint unverdachtig»; cita a sostegno WIEACKER, Textufen klassischer Juristen (1960) 328 nt.260; cfr. GUARINO, 'Res amotae' cit. 23 nt.76.
[76] Secondo il Burdese - ad esempio - la opinione di Nerva - Cassio, per cui la moglie non poteva commettere furto di cose del marito, sarebbe fondata, in D. 25.2.1 «sulla motivazione 'quia societas vitae quodammodo dominam eam (uxorem) faceret', con successivo richiamo analogico alla posizione della filia verso il pater» e, secondo il Guarino, «L'opinione di Nerva padre e di Cassio è evidentemente influenzata dalla visione del tuttora vigente, anche se decadente matrimonium cum manu, in cui la moglie, essendo filiae loco, può dirsi quodammodo domina anch'essa».
[77] Perché il Wacke si limita a 'spiegare' la differenza di opinioni tra Nerva Cassio e Sabino - Proculo con tale vicenda giurisprudenziale (sopravvenuta capacità scientifica, in riferimento ai rapporti tra personae unius potestati subiectae, di riconoscere la fattispecie del furtum pure in assenza di esperibilità di actio furti) non il porsi medesimo della questione (mancanza del furtum e/o della actio furti nelle amotiones coniugali) sulla cui soluzione Nerva-Cassio e Sabino-Proculo così si differenziano.
[79]
Lo stesso Guarino, secondo il quale «nel matrimonium cum manu non era concepibile un furtum in senso tecnico operato dalla mulier in manu ai danni dell'avente potestà», scrive
anche che «Essi (scl. Sabino e Proculo) riconoscono che non vi è
motivo alcuno per negare che la sottrazione compiuta dalla moglie, sia pure in
manu, sia un furto». Se si
afferma (GUARINO, 'Res amotae' cit.
268 ss. e, sopra tutto, 275 ss.) che la origine della actio rerum amotarum sta
nella impossibilità di furto tra personae unius potestati subiectae (tra le quali, appunto, si colloca la uxor in manu) non si può
affermare (GUARINO, Op.cit. 286 nt.144) che «A partire, quanto meno da
Sabino e da Proculo, le sottrazioni a danno del marito ... dovettero essere
tanto frequenti e rilevanti da indurre i giuristi a qualificarle come furti,
almeno per impedire la usucapio e per
rendere penalmente responsabili i complici». Infatti Sabino e Proculo
scrivono che la uxor non fa
furto come la filia al pater. Allora,
delle due l'una: o Sabino e Proculo pur di perseguire i 'furti' delle mogli hanno
terremotato tutta la dottrina del furtum
tra personae unius potestati subiectae
(e ciò appare oggettivamente eccessivo) oppure la mancanza di furtum tra coniugi non discende dalla
condizione di loco filiae della uxor in manu, con il ché si
riapre totalmente il "problema centrale". In questa seconda ipotesi
resterebbe inoltre da capire se si crede tuttavia ad una originaria natura rei impossibilità di actio furti tra personae unius potestati subiectae e si ammette quindi comunque un
cambio di dottrina in materia di furtum
dei filii (e dei servi) nei confronti
del pater-dominus o se si ritiene
(come credo necessario) che sempre i giuristi romani abbiano ammesso la
possibilità di tali furti. <rapporto con la contrapposizione di tesi
fra Wacke e Guarino circa la esperibilità di condictio furtiva soluto matrimonio? direi di no: una volta
comunque ammesso ...>
Anche
il Wacke appare tutt'altro che certo: «Coloro chiamati nel frg.17 pr. 'veteres', i predecessori di Sabino, negarono la azione (scl. di furto) al titolare del potere,
ma probabilmente <il corsivo
è mio> senza affermare la
materiale fattispecie del delitto».
Per
una posizione francamente critica della intiera costruzione moderna circa il
cambio di orientamento giurisprudenziale in materia di dottrina del furtum tra Sabino e i 'veteres' v. LABRUNA, in Latomus (1965) 718: «E non mi
sembra a questo proposito, - contra Wacke p.88 - che l'ultimo passo permetta di
stabilire l'originalità del pensiero di Sabino su questo problema: se
genuino, lo 'idcirco' -che io
tradurrei: 'appunto per questo', 'per questo motivo', 'per
ciò'...- più che una 'neuartige Begrundung' offerta dal grande giurista al divieto
affermato dai veteres, testimonia, a
mio avviso, di una identità di vedute tra questi ultimi ed Ulpiano,
probabile autore della motivazione.
Anche secondo B.ALBANESE, Il preteso condominio familiare in diritto romano in AUPA 20 (1949) 256, gli estremi del delictum di furtum erano ravvisati nella ipotesi di sottrazione da parte dei figli a danno del padre già prima di Sabino: «Sabino e Proculo, giuristi della prima età classica, riferiscono, come un principio pacifico e coerente al sistema generale del loro diritto, l'esistenza del furto in danno del padre perpetrato da parte dei figli».
[80] «E’ chiaro – scrive, ancora il Guarino – che la loro – scl. di Nerva e Cassio – affermazione non ha alcun valore giuridico rispetto al matrimonium sine manu». Cfr. anche la nt. seguente.
[81] Il GUARINO, 'Res amotae', quando, a p.283 ss., ricostruisce «l'evoluzione di pensiero della giurisprudenza romana classica in ordine ai furti commessi dalla moglie a danno del marito» omette di menzionare la opinione di Nerva - Cassio.
[82] Sia pure in misura parziale: la societas vitae coniugale e lo status di (quodammodo) domina della uxor quali presupposti meramente "di fatto" del constitutum ius.