N° 2 – Marzo 2003 – In Memoriam – De Martino
Università di Napoli “Federico II”
Francesco De Martino.
Il fascino della storia
Signore, signori, autorità, permettete che mi
rivolga direttamente al professor De Martino; e perdonate, perdoni lei, mio
caro e venerato maestro, il tono dimesso, frammentario delle mie parole[1]. Le quali, per quanto povere, scaturiscono tuttavia
dall’affetto filiale che a lei mi lega; da decenni di consuetudine;
dall’ammirazione profonda per la sua figura e il suo impegno di uomo, di
studioso, di politico, per la sua opera di storico, al cui dispiegarsi ho
potuto in parte assistere, per cosí dire, dall’interno.
Ma non del mio affetto parlerò; né tenterò di
ritrarre la sua figura umana e scientifica: non potrei che ripetere ciò che è
stato detto e scritto da suoi allievi e recensori, dagli studiosi che si sono
confrontati con lei, da uomini politici e giornalisti. Tra l’altro resterei
sempre indietro, da un lato, al rinnovato manifestarsi della sua passione
civile – ricordo solo la recente intervista a Sergio Zavoli –; dall’altro,
all’inesausta curiosità che continua e continuerà ad arricchire la ricerca
storico-giuridica. Preferisco piuttosto dichiararle la mia gratitudine per il
fascino delle sue opere. Gratitudine mia, ma che condivido con schiere di
studiosi, di studenti, di lettori: giovani, meno giovani, futuri.
Sono passati quarant’anni, eppure l’entusiasmo è
impresso con vigore nella memoria. Per un giovane studente la lettura della sua
Storia della costituzione, ravvivata,
per chi ha avuto la fortuna di ascoltarle, dalle sue lezioni, era, ed è,
un’esperienza avvincente. In primo luogo per la passione che talora prorompe,
quasi a forzare la sobrietà che è dote comune al suo costume di vita e al suo
stile letterario.
Ricordo la pagina conclusiva del capitolo sui
Gracchi: «dopo aver annientato nel sangue e nella repressione crudele il
movimento graccano», l’aristocrazia «ha influenzato tutta la tradizione
posteriore, anche se non è riuscita a soffocare i gravi problemi venuti alla
luce per opera dei due infelici fratelli, che la fantasia popolare non
considerò mai come tiranni assetati di potere personale, ma come nobili
campioni della libertà. Si racconta anzi che il popolo continuò ad onorarne la
memoria, compiendo sacrifici sui luoghi dove erano caduti ed offrendo, come a
divinità tutelari, le primizie dei frutti in ciascuna stagione»[2].
Ha
ragione Federico D’Ippolito[3]: la riproposizione del celebre brano plutarcheo[4], cosí piena di “passione rattenuta”, si staglia nel
ricordo. Altrettanto fremente il racconto sulla fine di Spartaco e la crocefissione
di seimila suoi seguaci, contro i quali i proprietari di schiavi si avvalsero
«delle norme legali, senza pietà ... Nonostante il castigo spietato, la
storiografia antica non riesce a nascondere i tratti nobili ed impressionanti
della figura di Spartaco ... Le fonti riferiscono vari episodi, dai quali
Spartaco appare nella luce di alti sentimenti, eroe generoso, appassionato e
giusto. La sua morte in battaglia è degna di questo grande combattente per la
libertà degli schiavi. Egli lascia il cavallo e preferisce di battersi a piedi
per morire o per vincere assieme ai suoi, colpisce due centurioni e cerca di
abbattere Crasso; quando cade, sopraffatto dalla forza del numero, il suo corpo
scompare e non viene piú ritrovato. Cosí la sua fine viene circondata di colori
mitici, il che prova quanto profondamente questo capo di schiavi avesse colpito
la fantasia degli antichi e come indistintamente molti avessero avvertito che
le basi della società potevano anche crollare»[5].
Una prosa scarna e vibrante[6], di cui potrei addurre
qualche altro esempio. Ma sono rari i luoghi in cui la passione dello storico
affiora cosí esplicita. Piuttosto, essa anima l’intera opera, si compone
sapientemente con il rigore dell’analisi, in cui storia politica, sociale,
economica, giuridica si intrecciano. Prendiamo ancora il lungo capitolo sui
Gracchi. Nel paragrafo introduttivo, dopo aver riassunto i problemi che
quell’età convulsa pone agli storici della politica, dell’economia, del
diritto, De Martino traccia le linee della sua indagine: «L’indole delle nostre
ricerche non ci consente di esaminare tutti insieme questi problemi. Convinti
peraltro che la storia non si può mai dividere in settori e che non può
configurarsi una storia del diritto se non come un momento della storia della
società, ... ci sforzeremo di fissare i fattori fondamentali del movimento ed
in ispecie la sua natura e composizione, i termini della riforma agraria ed
infine la vera e propria disputa costituzionale»[7]. Poi le varie questioni
sono scrupolosamente esaminate, discusse, collegate per ottanta pagine.
Il lettore è immerso nei dati delle fonti, nei
dibattiti dei moderni, è stimolato a parteciparvi, sente di poter concorrere a
formare la propria opinione, si appassiona. La mano dell’autore lo guida, s’addentra
nei particolari piú minuti, si solleva al giudizio, con un argomentare pacato e
deciso, in cui, di tanto in tanto, trapela, rapida ed efficace, l’insofferenza
dello storico e del cittadino. Per esempio, dopo aver ricordato la tradizione
oligarchica -raccolta soprattutto da Cicerone- che tendeva a banalizzare i
motivi che spinsero Tiberio all’azione, De Martino s’inalbera: «Come se i fatti
storici dell’entità di quelli dell’epoca graccana si possano ridurre ai
personali risentimenti di un uomo!». E poco dopo, a proposito della reazione
degli oligarchici: «Essi organizzarono una resistenza ad oltranza e la lotta
non si poté svolgere secondo le norme legali consuete ed alla fine si chiuse
con l’uccisione di Tiberio e dei suoi seguaci. Come esempio di sistemi
legalitari, per difendere l’ordine costituito, non c’è male!”»[8].
E qua e là emerge in piú rapidi lampi l’emozione che
abbiamo visto animare le pagine conclusive del capitolo. Per esempio, a
proposito del voltafaccia di Caio Papirio Carbone, un tempo amico e partigiano
di Caio Gracco: «Era evidente che Papirio aveva tradito il partito democratico
e si era posto al servizio dell’oligarchia, non disdegnando di usare la
calunnia e la menzogna, come è costume dei traditori». O, poco dopo, a
proposito dell’azione del console Lucio Opimio contro i seguaci di Caio e di
Marco Fulvio Flacco: «Spietata e crudele fu la reazione, lo stesso giovinetto
figlio di Flacco, che era stato inviato come parlamentare, venne ucciso e 3000
prigionieri fatti strangolare nelle carceri; le case dei capi plebei rase al
suolo, confiscati i loro beni e la stessa dote della moglie di Caio. Non ci
risultano perdite dalla parte di Opimio!»[9]
Leggi, rogazioni, assemblee, senato, magistrati,
giudizi, comunità, province si intrecciano alla terra, all’industria, ai
traffici, alle correnti di pensiero, alla religione: una rete complessa di
influssi reciproci, in cui sono protagonisti gli uomini e i loro legami,
famiglie, amicizie, clientele, alleanze, fazioni, classi. Il diritto dismette
l’arcigna maschera dell’astrazione. Norme, poteri, istituzioni non si
sorreggono soltanto vicendevolmente, quali elementi di mirabili ma raggelanti
sistemi architettonici, non traggono soltanto dall’interno di questi gli
impulsi e i modelli evolutivi.
Il giovane lettore è incantato da questo racconto
che intesse il fenomeno giuridico alla storia sociale, economica, politica,
culturale. Il lettore piú anziano o avveduto non lo è di meno: ma io vorrei
ancora rifarmi alla mia esperienza giovanile. Per merito suo, caro professore,
il diritto mi apparve subito con il volto crudele o benevolo, esultante o
piegato, mai indifferente, degli uomini che lo creavano o lo subivano,
dell’incontro di interessi, del loro collidere, degli equilibri raggiunti o
delle lacerazioni, di vittorie e di oppressioni, di repressioni e rivalse. Mi
apparve, insomma, parte della storia; di quella storia – lei ha scritto – che,
anche per merito delle «categorie della conoscenza» fornite dal marxismo, le
quali sono «esattamente l’opposto di una filosofia della storia», è divenuta
«storia nei suoi molteplici aspetti, storia degli eroi, ma anche delle masse,
delle classi inferiori, degli uomini oscuri, delle grandi creazioni del
pensiero e dell’arte ma anche della cultura materiale»[10].
Non intendo fermarmi sul suo marxismo, benché esso,
un «marxismo non schematico o dogmatico, ma sempre impegnato nella ricerca
della verità storica»[11], contribuisca in maniera determinante al vigore
delle sue opere: lei stesso ne ha trattato e frequentemente esso è stato al
centro delle discussioni su di lei. Insisto, piuttosto, sui «metodi della
storia, vale a dire i suoi mezzi e procedimenti», i quali, lascio ancora a lei
la parola, «non possono essere di ordine ideologico, proprio perché
appartengono alla tecnica. Consistono nella filologia, nella critica del testo,
nello studio di tutte le fonti disponibili e nella loro ricerca e quindi nel
concorso delle varie discipline un tempo chiamate impropriamente ausiliarie,
dall’archeologia ed epigrafia alla papirologia e numismatica, ma che formano
tutte insieme parti indispensabili della ricerca storica dell’antichità, non
meno delle fonti giuridiche, essenziali per la conoscenza delle varie forme
economico-sociali»[12].
Negli ultimi decenni simili dichiarazioni sono tanto
frequenti quanto inattuate. Nelle sue opere, e in particolare nelle due grandi Storie, è l’inverso, anche perché lei –
lo ha giustamente osservato Franco Casavola – è «alieno dall’intervenire in
discussioni metodologiche e questioni teoriche»[13].
Le sue Storie,
appunto: opere di sintesi, certo, ma in cui – cito ancora Casavola – «capitoli
e paragrafi ... sono spesso piccole monografie»[14]. Il suo rigore di storico è
universalmente riconosciuto e non sta a me parlarne. Io voglio solo
testimoniare, col mio ricordo, come proprio il rigore e l’approfondimento
monografico conquistino il lettore delle sue Storie. Certo, solo lo studioso piú accorto saprà giovarsi della
miniera di fonti e di letteratura che gli offrono. Ma anche il principiante
gode del dialogo con gli antichi e i moderni, s’incuriosisce alle indagini piú
minute, impara a ricondurre ad esse le valutazioni che concludono e talora
squarciano il racconto, a ripercorrere i sentieri dell’autore, ma anche, magari
timidamente, a distaccarsene. Le sue Storie,
insomma, non tollerano la passività, stimolano a quel “giudizio storico” che –
lei ha scritto – «non può essere disgiunto da quello morale e politico, perché
non vi è storia che non implichi giudizi di valore»[15]. Non solo l’ampiezza
dell’orizzonte, l’esposizione problematica, la sapienza letteraria, la passione
storico-politica, ma perfino -direi anzi: soprattutto- la ricchezza dei dati e
il rigore dell’analisi liberano la fantasia, le porgono i primi sostegni per
esercitarsi criticamente.
La fantasia: lo storico ne ha gran bisogno, lei mi
disse, piú o meno, quando, appena laureato, le dichiarai la mia attrazione per
gli studi storico-giuridici. Non so se capii, ma certo la sua frase mi colpí
molto. Rifletteva, sia pur condensandola in un motto sorridente, un’opinione
radicata e ancor da ultimo ripetuta: per esempio, a proposito di un libro di
storia numismatico-politica, sul quale, dopo essersi addentrato nell’analisi di
ardue indagini statistiche computerizzate ed averne apprezzato l’utilità e
auspicato la prosecuzione, lei osserva: «I miei dubbi ... riguardano il
rapporto tra la storia e l’analisi matematica o statistica in genere. Nascono
dal timore che si perda di vista la sostanziale diversità tra i fatti storici
ed il calcolo delle probabilità affidato a serie matematiche, cioè massime
astrazioni logiche. La storia umana è molto capricciosa e non obbedisce a
nessuna logica. Anche nel campo della moneta non vi sono leggi naturali o
logiche, vi sono solo fatti storici»; e, poco oltre: «L’oggetto della storia è la
vicenda umana nel suo insieme, complessa e con molte facce. Scrutare nel
profondo questa vicenda spesso misteriosa è il compito affascinante
dell’intelligenza e se si vuole della fantasia dello storico e nessun computer
può sostituirsi a questo»[16].
Solo per antichi invaghimenti giovanili mi sono
soffermato soprattutto sulla sua Storia
costituzionale e sul capitolo relativo ai Gracchi, certo uno dei piú
avvincenti. Ma l’impianto, le tecniche d’indagine e di esposizione, che fondano
non dico il valore -sul quale, lo ripeto, non ardisco pronunciarmi- ma
l’attrattiva -di quel capitolo, pervadono tutta
Per conto suo, lei aveva già cominciato da capo:
qualche anno dopo uscí
Dalla Storia
economica sono trascorsi vent’anni: ma la sua curiosità di storico non si è
placata. Basta guardare i volumi dei suoi scritti: gli articoli apparsi dal
1979 occupano quasi tutto il terzo (Economia
e società) e circa metà del secondo (Diritto
pubblico): e molti altri, già pubblicati o in stampa o in preparazione,
saranno raccolti nei prossimi volumi. Anche se non mancano saggi piú generali,
come quelli inseriti nella Storia di Roma
edita da Einaudi, si tratta per lo piú di studi specifici, talora assai
complessi. Molti si collegano, piú o meno visibilmente, a temi trattati già
nelle due opere maggiori ed ora riesaminati, approfonditi, precisati: a
testimonianza della sua fertile insoddisfazione, dell’apertura ai contributi
altrui, della disponibilità a ridiscutere e correggere opinioni e risultati. In
altri la sua curiosità storiografica si addentra in sentieri decisamente
inconsueti. Io credo che da questi studi possano trarre godimento anche i
lettori non specialisti, benché la mente sia sollecitata a maggior attenzione,
o forse proprio per questo. Scelgo come solo esempio l’articolo del 1994 sul
faro di Alessandria[22]: per valutarne portata e funzione, De Martino
calcola la probabile misura dello stadio in Giuseppe Flavio, si serve della
formula di visibiltà in rapporto alla sfericità della terra, su cui ha
interrogato un professore di elettronica della Facoltà di Ingegneria, discute
le notizie di viaggiatori bizantini e arabi, di geografi persiani,
raffigurazioni di monete, bassorilievi, vasi, mosaici. Come non divertirsi?
È difficile, caro professore, non essere contagiati
dal suo gusto per la ricerca, che non s’arresta dinanzi alle indagini piú
ardue, alle fonti piú insolite; anzi se ne compiace, nello sforzo continuo di
disvelare i nessi tra norme, istituzioni, prassi giuridica, fatti economici,
sociali, militari, politici, culturali. Nessi e connessioni, senza i quali, ha
scritto, «i fatti del diritto perdono concretezza e si riducono a storia delle
forme, come è stato in generale nel campo degli storici del diritto». «Forme
vane,» – sono ancora parole sue – «ombre che si aggiravano in una sorta di
empireo fuori della realtà, se in esse non si riusciva a porre gli uomini vivi,
con i loro interessi e i loro pensieri»[23].
Come pochissimi, forse nessuno in questo secolo,
almeno per ampiezza di orizzonti, padronanza delle varie discipline antichistiche,
intreccio di ricerche minute e sintesi possenti, lei ha contribuito a
restituire queste ombre alla corposità del loro tempo; ha dimostrato, non a
parole, ma con la profondità ed il fascino delle sue opere, che non c’è
comprensione critica dei fenomeni giuridici se li si estrae dalla dimensione
cronologica. «La temporalità» – è stato scritto – «è inerente all’essere del
diritto e ... solo per il suo tramite il fenomeno giuridico diventa realmente
accessibile»[24]. Una verità che pochi contestano, ma che in
concreto sembra spaventare studiosi e interpreti del diritto vigente; e
-stranamente- perfino molti storici del diritto: i quali, indulgendo forse a
nobili ma inattuali nostalgie pandettistiche, preferiscono ricercare nella
storia improbabili, quando non distorcenti, prefigurazioni del diritto vigente
o di quello da fondare; e finiscono con l’occuparsi di «un passato fittizio per
influenzare un futuro incerto»[25], senza percepire il crescente distacco con cui i
loro sforzi, per quanto generosi e raffinati, sono accolti dai giuristi
positivi.
Da decenni lei pratica tutt’altra via, l’immersione
totale nel tempo. Con l’esempio ed il fascino della sua opera richiama storici
e giuristi alla visione unitaria della storia, allo «assioma» – per dirlo con
parole un po’ desuete – «che il diritto può essere compreso solo con la storia
e la storia solo con il diritto». Non sono parole mie. Piú di cento anni fa le
rivolsero a Mommsen tre studiosi destinati ad eccellere nella storia antica,
Paul Jörs, Eduard Schwartz e Richard Reitzenstein: “due filologi e un
giurista”, come essi stessi dicono, «uniti dall’eros che incontestabilmente
pervade la scienza dell’antico»[26].
Il nome di Mommsen, del «grande Mommsen», come lei
piú volte lo chiama[27], è stato spesso, e quasi naturalmente, accostato al
suo, soprattutto per rilevare la distanza che separa la sua Storia della costituzione dalle
aspirazioni sistematiche dello Staatsrecht.
E giustamente. Ma vi sono piú profonde affinità. Perché, se è vero che la
«maestria sistematrice di Mommsen»[28] è talora d’ostacolo alla comprensione delle
dinamiche storiche, è tanto piú vero che lo straordinario e quasi sovrumano
dominio dei dati e delle tecniche delle varie discipline antichistiche incrina
spesso la rigidità degli schemi o consente a chi sappia leggere di superarli.
Proprio lei, professore, ha scritto di recente che se da un lato appare
criticabile «la concezione ispiratrice dello Staatsrecht di Mommsen, dall’altro
lato questo rimane come un riferimento insostituibile per gli storici, compresi
quelli del diritto»; ha anzi sottolineato «l’utilità pratica di un’esposizione
sistematica, che rende possibile ed agevole di conoscere anche in minuti
dettagli argomenti determinati e la documentazione testuale»[29].
Mi sembra perciò che, al di là delle indubbie
differenze d’impostazione, perfino ovvie data la distanza cronologica, tratti
piú solidi e duraturi colleghino De Martino a Mommsen: la visione unitaria
della scienza antichistica, praticata, senza proclami, nell’approfondimento
delle sue varie discipline; la consapevolezza della necessaria compenetrazione
della storia giuridica con quella politica, economica, sociale, culturale; il
rifiuto – purtroppo cosí poco ascoltato – di rinserrarla in un geloso e sterile
isolamento, di asservirla al diritto vigente o futuro; infine l’apertura
mentale, la fiducia negli altri, nei piú giovani, lo spirito di tolleranza e
libertà, la passione che anima le loro opere. Perché anche Mommsen – sono
parole di De Martino – «non era un freddo professore fuori della vita reale e
solo intento a costruire schemi formali giuridici, ma era un politico pieno di
passione»[30].
Quarant’anni fa, caro professore, lei mi ha
incantato con la sua Storia: come
pena ha dovuto subire questo mio elogio. Ma lei sa, al di là delle parole, che
la mia gratitudine e la mia ammirazione sono vere e profonde, e ancor piú il
mio affetto. So di esprimere sentimenti comuni: la sua figura umana, la sua
statura morale, la sua opera di studioso, il suo impegno civile li hanno
ispirati a molti.
Come suo allievo posso forse aggiungere un’ulteriore
testimonianza: collaborare con lei non è stato solo un’esperienza scientifica
ineguagliabile; ha anche significato respirare uno spirito particolare. Lo ha
detto lei stesso nell’ultimo volume della sua Storia: «Caratteristica principale di questa feconda collaborazione
è stata che essa non implicava l’adesione a metodi e principi, ma era fondata
sulla piena libertà di ciascuno e perciò non era una scuola nel senso comune
del termine. La varietà degli interessi e delle idee è sempre, a me pare, piú
utile per la scienza che vincoli piú o meno dogmatici»[31]. Anche per questo desidero ringraziarla: almeno
nello spirito di libertà e tolleranza i suoi allievi sentono di appartenere ad
una scuola e ne sono fieri, per quanto inadeguati siano all’insegnamento del
loro maestro.
Ma anche in questo siamo tutt’altro che soli:
l’intera sua vita di uomo, di politico, di studioso si è ispirata a quei valori
e ne ha trasmesso il fascino, guadagnandole «l’amore e la venerazione di tutti
coloro che hanno avvertito anche un solo alito del suo spirito». Uso ancora
parole rivolte a Mommsen. Come Mommsen lei ha ricevuto, caro professore, il
raro dono della “giovinezza nella vecchiaia”: io le auguro di guidarci ancora a
lungo con il suo esempio e con la sua opera scientifica; anzi lo auguro a noi,
ai suoi familiari, ai suoi allievi, alla comunità scientifica, al mondo
politico, ai giovani. Grazie!
[1] [Pubblicato in Au-delà des
frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz,
II, Varsovie 2000, pp. 967-977]
Aggiungo
poche note all’elogio che il 12 ottobre 1998 rivolsi a Francesco De Martino,
quando l’Università degli studi di Napoli “Federico II” gli conferí il premio
internazionale intitolato al suo fondatore. Lo offro con animo fraterno a
Witold Wolodkiewicz, napoletano.
[3] Nella Nota
di lettura premessa al primo volume della raccolta di scritti di De Martino
(Diritto economia e società nel mondo
romano, finora 3 volumi [Antiqua
72-74], Napoli 1995-
[5] SCR.
III (Napoli 19732) 125 sg. Possente anche l’immagine che precede: dopo che
Marco Licinio Crasso ebbe infine sconfitto Spartaco, «il governo volle dare un
esempio memorabile. Cosí seimila schiavi caduti prigionieri furono crocefissi
sulla strada da Capua a Roma ed esposti per lunghi giorni. La classe dei proprietari
di schiavi si avvaleva delle norme legali, senza pietà, e quelle norme
prescrivevano appunto l’estremo supplizio per mezzo della croce contro gli
schiavi ribelli».
[6] Tanto piú efficace in quanto all’uno e
all’altro movimento, ai Gracchi come a Spartaco, De Martino nega sia intenzioni
che risultati rivoluzionari; i primi -si legge nella Storia economica animarono «il piú generoso tentativo riformatore e
forse la sola genuina manifestazione di una concezione democratica dello
stato»; il secondo scatenò «una guerra, che può essere definita di liberazione»
(Storia economica di Roma antica [2
volumi, Firenze
[9] SCR.
II, 533 e 534 sg. Pari emozione si ritrova talora anche nel luogo che
sembrerebbe meno adatto, le note. Per esempio in quella ove sono discussi i
particolari, «drammatici ed appassionati», che le fonti ci tramandano sulla
fine di Caio: come il commiato dalla moglie “scena tenerissima”, o «l’episodio
ignominioso di L. Septumuleius, il quale riempie di piombo la testa di Caio per
guadagnare un peso maggiore di oro dal console, che aveva cosí promesso», 535
sg. nt. 214.
[16] F. DE MARTINO, Monete, tesori e metodo storico, in Index 24 (1996) 136 sg. e 141 (discussione di R. Duncan-Jones, Money and Government in the Roman Empire[1994]);
vd. anche Nota sui fondamenti del sistema
fiscale del tardo impero, in Nozione
formazione e interpretazione del diritto ..., Ricerche dedicate al prof. F.
Gallo (Napoli 1997)
[22] F. DE MARTINO, Il faro di Alessandria e Giuseppe Flavio (bell. Iud. IV.613)
(1994), in DESMR. III, 651 sgg.
[23] F. DE MARTINO, Prefazione a Diritto e società nell’antica Roma: Scritti
di diritto romano I (Roma 1979), p. XIV e XIII.
[24] P. CARONI, Storia
del diritto: esperienze transalpine, in L’insegnamento
della storia del diritto medievale e moderno. Atti Incontro Firenze 1992
(Milano 1993) 321 sgg., part. 329; vd. anche, dello stesso, Die andere Evidenz der Rechtsgeschichte,
in G. ARZT, P. CARONI, W. KÄLIN (edd.), Juristenausbildung
als Denkmalpflege? (Bern 1993) 27 sgg.; Der
Schiffbruch der Geschichtlichkeit. Anmerkungen zum Neo-Pandektismus, in ZNR. 16 (1994) 85 sgg.; un’ampia veduta
delle diverse tendenze si può ricavare dai contributi raccolti in P. CARONI, G.
DILCHER (edd.), Norm und Tradition. Welche
Geschichtlichkeit für die Rechtsgeschichte? Fra norma e tradizione. Quale storicità per la storia giuridica? (Köln
– Weimar – Wien 1998).
[26] P. JÖRS, E. SCHWARTZ, R. REITZENSTEIN, dedica
premessa ai loro scritti raccolti nella Festschrift
Th. Mommsen zum fünfzigjährigen Doctorjubiläum (Marburg 1893); ristampata
in P. JÖRS, Iuliae rogationes (Napoli
1985 = Antiqua 36).
[27] F. DE MARTINO, Considerazioni su alcuni temi di storia costituzionale romana, in Mélanges de droit romain et d’histoire
ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain (Paris 1998) 133.