[Saggio
apparso nel volume XVI dell’Annuario Camparato di Studi Legislativi (1941).
Il saggio è stato ripubblicato nella raccolta di scritti di Francesco De
Martino Diritto e società nell’antica Roma (Editori Riuniti, Roma 1979),
dalla quale è tratta la “Introduzione” dell’Autore. Infine, nel 1999, è stato
edito nella Collana “Diritto romano e Sistemi giuridici” (G. Giappichelli
Editore – Torino), curata dal Centro per gli studi su Diritto romano e e Sistemi
giuridici del Consiglio Nazionale delle Ricerche]
Introduzione (1979) *
[1.] Alcune
considerazioni sul mio scritto Individualismo e diritto romano privato,
che fu pubblicato nel 1941, allorché infuriava la guerra e l'Italia era
esposta al rischio di perdere qualsiasi autonomia nazionale di fronte alla
supremazia crudele della Germania hitleriana. Questo rischio non solo implicava
la continuazione del regime fascista ed anzi il suo inasprimento, del quale le
leggi razziali sul modello nazista erano state soltanto un'anticipazione, ma
assieme a questo ed anzi in dipendenza di questo la distruzione di tutti i
nostri valori culturali, che derivavano dalla nostra storia. Per coloro che
avevano compreso questo pericolo si imponeva il dovere di battersi con i mezzi
di cui potevano disporre anche sul piano strettamente culturale. Io scelsi la
difesa ad oltranza del diritto romano contro gli attacchi del
nazionalsocialismo, che aveva scritto nel suo programma, la lotta contro il
diritto romano in quanto diritto del capitalismo(1). Ma questa era
semplicemente una ipocrisia ed una mistificazione, perché il vero motivo
ispiratore di questa teoria nazista era la lotta contro i princìpi civili ereditati
dal diritto romano, i quali consistevano nella tutela della libera personalità.
Il diritto romano, come fu in altri periodi della storia, era dunque il diritto
della libertà contro il potere statale illimitato, cioè l'assolutismo. Fu
questa convinzione che mi spinse a scrivere quell'articolo, accettando in
qualche modo il terreno sul quale la polemica nazionalsocialista si era posta e
perciò mirando a contrastare l'accusa che il diritto romano fosse
individualistico e tentando di dimostrare che in esso erano invece molto forti
la considerazione degli interessi sociali e la preminenza di quelli collettivi
su quelli individuali. L'altro aspetto ben più sostanziale, cioè la natura del
diritto romano come diritto della libertà, veniva lasciato del tutto nell'ombra
e pour cause, perché in quei tempi non sarebbe stata possibile
una aperta esaltazione del diritto alla libertà. L'organicità dell'indagine è
certamente pregiudicata da questo limite ed il discorso può apparire parziale e
non sempre obiettivo. Se dovessi scrivere oggi uno studio su questo tema
dell'individualismo nel diritto romano esso sarebbe notevolmente diverso e più
equilibrato ed il momento della considerazione degli interessi individuali nei
confronti della società e del potere statale riceverebbe una ben maggiore
attenzione. Ma il lettore esigente dell'assoluta verità della trattazione
storica non dimentichi in quale clima e per quali finalità questo saggio fu
scritto e perciò sia indulgente con l'autore. In pieno 1941 non era agevole scegliere
come tema di studio un punto fondamentale di contrasto con le teorie
nazionalsocialiste, che per la verità non erano state fatte proprie da giuristi
italiani di osservanza fascista, ma non erano state nemmeno respinte con la
decisione necessaria.
[2.] Nel clima
attuale il discorso può essere ripreso ed in modo più obiettivo. Io continuo a
credere che il sistema romano non fosse individualistico nel senso che si può
dare a questo termine, un sistema cioè nel quale sempre e comunque prevalessero
gli interessi individuali su quelli sociali. Senza dubbio l'ordinamento
primitivo era quello dei poteri sovrani ed assoluti del pater familias,
in rapporto alla sua supremazia economica e politica sul gruppo. I caratteri
duri ed esclusivi del potere nel campo della famiglia e della proprietà possono
apparire intonati ad una concezione puramente individualistica. Sovrattutto nel
campo della proprietà e nella assoluta indifferenza del sistema giuridico nei
confronti dei doveri del proprietario può costruirsi un'immagine
individualistica del diritto di proprietà. L'ager limitatus, che è il
tipico fondo quiritario romano, è il fondo che al suo confine consacrato dalla limitatio
ha appunto il limes, cioè uno stretto viottolo di 5 piedi, che separa i
fondi vicini, quasi a simbolo della rispettiva indipendenza. Sì spieghino
questa e le altre caratteristiche del fondo in Italico solo, come
l'immunità dal tributo, la forza assorbente della proprietà rispetto a tutto
quel che si viene a trovare nel suo ambito, la sua qualità di signoria assoluta
e la sua perpetuità, con la natura politica originaria del dominio od in altro
modo, come un prodotto storico, non vi è alcun dubbio che essa tutela in sommo
grado l'interesse individuale del proprietario. L'idea è talmente entrata nell'uso
comune, che qualunque sia pure approssimativo conoscitore delle forme e dei
tipi di proprietà parlerà di quella romana come della proprietà quiritaria,
espressione massima della signoria individuale sulla cosa. Tuttavia non si può
sottovalutare l'influenza pratica che aveva sull'esercizio dei diritti il
costume sociale e la importanza che in esso si dava all'interesse collettivo,
cioè a quello dello Stato che impersonava tale interesse. Allorché ponevo in
risalto questo punto e rilevavo come i censori romani erano in grado di imporre
ai cittadini una condotta nell'uso della loro proprietà conforme a questo
interesse ignoravo quel che aveva scritto Marx con una delle sue più felici
intuizioni intorno alle forme di produzione della città antica nell'ambito del
modo di produzione schiavistico. La base materiale di appropriazione delle
condizioni originarie di vita è costituita dalla campagna e questa si presenta
come territorio della città, sede a sua volta degli agricoltori proprietari
fondiari(2).
La comunità è “la realtà concreta della città stessa”(3).
La comunità cittadina in Roma, come del resto in Grecia, non poteva essere
indifferente al modo come i singoli proprietari facevano uso della terra e
questo, anche se non rilevato da Marx, portava alla conseguenza che il potere
politico controllasse nelle forme costituzionali proprie della città-Stato
l'attività dei singoli proprietari agricoltori. “Se taluno abbia tollerato -
dice Aulo Gellio riferendosi a provvedimenti di Catone(4)
- che il suo campo si ricoprisse di erbacce (sordescere) o se
taluno lo curava senza diligenza e non lo arava o ripuliva ovvero abbandonava
gli alberi e la propria vigna, questo non fu immune da pena, ma era esposto al
biasimo dei censori i quali lo facevano erario”, vale a dire lo trasferivano in
quella categoria di cittadini cui non spettavano i diritti politici. Questa
norma non introduceva una vera e propria sanzione giuridica, ma sanciva una
sanzione politica ancor più rilevante, che aveva un grandissimo valore per la
condizione del cittadino nell'ordinamento pubblico. Su di essa si sarebbe
dovuto insistere particolarmente e non addurla solo, come ho fatto nel mio
studio, assieme ad altri argomenti ponendola sullo stesso piano di altre
disposizioni legali, che si ispiravano ad interessi sociali. L'obbligo di
coltivare con diligenza la terra annullava interamente il carattere assoluto
della signoria del proprietario, il quale in teoria poteva fare quello che
voleva della sua cosa, trascurarla e perfino distruggerla, renderla comunque
improduttiva. In questo contrasto profondo di norme si rivela uno dei tratti
più caratteristici del sistema giuridico romano, che non si può comprendere
avendo di mira soltanto le norme arcaiche del diritto privato, ma considerando
l'esercizio dei diritti alla luce del costume e dei doveri politici del
cittadino, che erano determinanti per il suo stato politico.
Un altro principio
importante sul quale mi ero soffermato più diffusamente riguarda la liceità
delle opere compiute allo scopo di coltivare il fondo, anche se esse
modifichino il regime naturale delle acque dipendente dalla posizione dei
fondi. L'azione aquae pluviae arcendae predisposta a tutela del
proprietario qualora il vicino per mezzo di un manufatto – opus manu factum
– avesse modificato il deflusso naturale dell'acqua, non aveva luogo qualora le
opere fossero state eseguite per le esigenze della coltivazione. Questa era una
conquista rivoluzionaria della giurisprudenza, che intaccava profondamente il
regime assoluto della proprietà romana e che dimostra come l'interesse alla
buona coltivazione delle terre prevalesse su quelli individuali dei
proprietari. Avevo rilevato un contrasto fra Quinto Mucio e Trebazio, che è di
età posteriore e che sostiene una teoria più restrittiva, limitando le opere
solo alla coltivazione del grano. Avevo supposto che Trebazio attingesse a
fonti più antiche di Mucio e quindi ad una dottrina preoccupata di non ledere
più dello stretto bisogno i diritti del proprietario. Ma se si guarda allo
sviluppo dell'agricoltura romana dopo le guerre puniche, alla trasformazione
delle culture allora avvenuta, al minor interesse per i cereali in conseguenza
delle importazioni dalle prime province ed in ispecie dalla Sicilia ed al
maggior reddito che derivava da oliveti e vigneti, allora è difficile supporre
che una giurisprudenza dell'età repubblicana avanzata potesse introdurre
decisioni favorevoli alla cerealicultura. Vi è dunque un serio motivo per
dubitare dell'attendibilità della fonte, che attribuisce a Trebazio, un
contemporaneo di Cicerone, una massima che sembra meglio intonarsi a quegli
interventi degli imperatori miranti dopo il I secolo a favorire la cultura del
grano e scoraggiare quella della vite, come ci è attestato per i provvedimenti
di Domiziano(5).
Sta di fatto che Labeone, un giurista dell'età augustea, ammetteva la
legittimità delle opere in tutti i tipi di produzione agraria e precisava che
non vi era alcuna differenza a seconda dell'una o dell'altra cultura(6).
Sempre collegato all'agricoltura
appare un altro e non meno importante complesso di decisioni concernenti le
immissioni materiali nella sfera altrui prodotte dall'esercizio del proprio
diritto. In questo campo la posizione dei giuristi è molto restrittiva, perché
in linea generale essi vietano le immissioni, anche se sono prodotte
dall'esercizio di un'industria. Questo è il caso famoso del fumo prodotto da
una taberna casearia, cioè da una fabbrica di formaggio, la cui
immissione nella proprietà vicina è ritenuta illecita dai giuristi, mentre si
deve tollerare il fumo non gravis, cioè quello del focolare
domestico. L'idea ispiratrice in questo come in altri analoghi casi sembra
essere quella dell'uso normale e tollerabile. Tuttavia non penso che la
dottrina romana sulle immissioni debba essere considerata come un portato
dell'individualismo, perché in realtà gli interessi contrastanti erano dalle
due parti interessi individuali e non saprei vedere un contrasto fra interesse
individuale del proprietario all'integrità della sua sfera ed interesse sociale
alla produzione, perché questo secondo interesse, dato il tipo della produzione
industriale in quel tempo, era pur sempre individuale e non collettivo. Di
fronte alla prepotente irruzione dei grandi complessi industriali nell'età contemporanea,
che hanno invaso la campagna e praticamente annichilito i piccoli proprietari
della zona, non mi riesce di considerare il sistema romano più individualistico
di quello attuale, nel quale il potere economico soffoca la libertà dei minori
titolari di un diritto. Sebbene il regime adottato dal Codice civile, dopo un
lungo dibattito nella giurisprudenza sotto l'impero del Codice del 1865 intorno
alle immissioni industriali, mostri di avere qualche riguardo per i minori
interessi, tuttavia, la prevalenza dell'industria è innegabile. Non è una
nostalgia idilliaca di un regime sociale in cui il piccolo modesto proprietario
o colono non correva il rischio di essere scacciato dalla terra o dalla povera
casa dal grande complesso industriale, ma è una considerazione di equità, che
già prima della promulgazione del codice civile mi aveva spinto a sostenere
almeno la necessità di conciliare gli opposti interessi. Allora, nel discutere
l'indirizzo della giurisprudenza, osservavo: “S'invoca il principio della solidarietà
sociale! Ma questo principio, non vi è nel nostro diritto privato e se vi fosse
non autorizzerebbe la dottrina della Cassazione. Proprio in virtù della
solidarietà sociale, la grande industria non può sopprimere, con l'enorme
sproporzione delle forze, la piccola proprietà privata. Essa è ancora
l'espressione di interessi individuali, non è stata assunta dallo Stato come
uno strumento di benessere collettivo”(7). E più oltre: “È chiaro
che il principio romanistico determinerebbe un grave intralcio allo sviluppo
dell'industria, ma è altresì chiaro che il principio della liceità
dell'immissione porrebbe alla mercé dei grandi organismi industriali la
proprietà privata, in ispecie la piccola proprietà e l'agricoltura”(8).
Mi sono lasciato andare a questo excursus per dimostrare che il sistema
romano non aveva i problemi che sono insorti nell'età moderna in conseguenza
dell'impetuoso sviluppo dell'industria e della grande industria in particolare.
Esso non vedeva un contrasto fra un interesse sociale alla produzione ed un
interesse individuale all'integrità del dominio, ma un contrasto fra due
interessi individuali e mirava a tutelare l'integrità della sfera di libertà
del singolo. Il differente regime giuridico rispetto a quello della nostra
epoca è una dimostrazione eloquente dell'influenza determinante dei fatti
economici sul sistema giuridico.
[3.] Anche nel campo
delle obbligazioni potrei ancor oggi mantenere le considerazioni che facevo nel
1941 intorno alla superiorità del sistema romano ed all'alto grado di civiltà
giuridica raggiunto dai classici, i quali avevano di mira il rapporto tra i
vantaggi e gli svantaggi provocati da una determinata relazione giuridica e si
sforzavano di individuare criteri obiettivi per la ripartizione degli uni e degli
altri. Mi si perdoni la citazione, ma vorrei sottolineare come in quel tempo mi
apparivano i problemi, che sarebbero poi insorti alla fine della guerra e che
saremmo stati chiamati ad affrontare sul terreno politico nella costruzione di
una moderna democrazia: “L'ingrandirsi dell'industria nell'età moderna, con la
creazione di macchine destinate a moltiplicare i guadagni dei capitalisti, le
quali al tempo stesso sono fonte di pericoli continui per altri uomini, che
sono o lo strumento di tali organizzazioni o vittime estranee, avrebbe dovuto
accentuare potentemente l'evoluzione del regime della responsabilità verso
criteri obiettivi, come già dal principio del secolo fu invocato da giuristi
eminenti. Sia riconosciuta almeno al diritto romano classico questa grande
superiorità sui nostri ordinamenti moderni, che rimangono ciecamente fedeli
alla categoria non romana, ma bizantina ed orientale, della colpevolezza in
senso soggettivo. E sia in pari tempo smentita l'accusa rivolta al diritto
romano di essere asservito agli interessi del regime capitalistico! Che anzi,
mentre in altri sistemi antichi la responsabilità oggettiva aveva luogo nei
contratti con povera gente, a Roma la qualità delle persone non veniva presa in
considerazione”(9).
Anche quest'ultimo rilievo si può accogliere per quanto riguarda il tema della
responsabilità nelle obbligazioni, ma per quanto riguarda lo stato sociale
delle persone in rapporto al regime giuridico si deve aggiungere che già nella
tarda evoluzione del diritto classico ad opera della giurisprudenza imperiale
si venne introducendo la distinzione fra honestiores ed humiliores,
che portava ad una diversa disciplina a seconda dello stato sociale, ed in
ispecie nel diritto penale le pene sancite per la povera gente erano più gravi
di quelle previste per le classi elevate. Ma questa era una degenerazione dai
princìpi classici risalenti all'età repubblicana, i quali si ispiravano
all'uguaglianza dei cittadini, anche se le concezioni delle classi dominanti e
dell'aristocrazia erano imbevute di disprezzo per il lavoro manuale ed in
ispecie per quello salariato, al di fuori dell'agricoltura considerata come la
sola attività economica degna di un buon Romano. Il famoso testo di Cicerone
sulle professioni e le varie attività economiche rispecchia la mentalità di
un'aristocrazia la cui base fondamentale economica era costituita
dall'agricoltura(10).
[4.] La conclusione
del discorso era certamente giusta. Il diritto romano non si poteva considerare
come il diritto del capitalismo. Dal lato storico parlare di capitalismo per
Roma antica è senza dubbio un non senso. Questa modernizzazione della storia ha
portato storici illustri della statura di Michael Rostovzev ad errori di
interpretazione e ad un giudizio interamente deformato del sistema economico
romano. Il capitalismo è un sistema economico-sociale che appartiene ad altre
epoche ed ha caratteristiche, che non hanno nulla di comune con quello del
mondo antico e di Roma in particolare. Assieme a questo errore la visione del
Rostovzev era viziata da pregiudizi ideologici e cioè dalla superiorità del
liberismo rispetto ad altri sistemi, che egli considerava come “socialisti”,
mentre le cause profonde della crisi dell'economia romana erano di ben diversa
natura ed avevano provocato quelle degenerazioni statalistiche proprie del
tardo Impero e che molto impropriamente il Rostovzev confondeva con il
socialismo. Il fatto che ricchezze sempre maggiori fossero a disposizione delle
classi elevate romane fin dall'età repubblicana e dell'espansione della potenza
romana nel Mediterraneo orientale non significa per nulla che il regime fosse
capitalistico.
Il discorso dunque
sulle connessioni fra diritto romano e capitalismo va ripreso al punto in cui
lo avevo lasciato nel 1941, scrivendo a conclusione del saggio su Individualismo
e diritto romano privato, che gli storici dell'età di mezzo sanno da tempo
da quali sistemi siano sorti gli istituti giuridici del capitalismo. Non
pretendo di affrontare un tema di tanto rilievo nelle brevi note destinate ad
introdurre una raccolta di scritti, quasi come un profilo autobiografico
dell'autore. Ma talune considerazioni mi sembrano opportune ed in primo luogo
una messa a punto sul preteso capitalismo nell'età antica. Di esso non parlano
solo storici della statura di un Rostovzev, ma anche pensatori come Max Weber,
che hanno impresso un'orma profonda nello studio delle società umane. Il Weber
infatti parlava di un “capitalismo antico” e lo vedeva nelle “forniture
statali, le opere e gli armamenti pubblici, il credito pubblico [...]
l'espansione statale e il bottino di schiavi, di terre, di obblighi tributari e
di privilegi per acquisto e prestito su terreni, il commercio e le forniture
alle città sottomesse”(11).
A parte la esattezza dei riferimenti a singole attività degli affaristi romani,
sta di fatto che il Weber parlava di capitalismo solo nel senso di investimento
di danaro rivolto al guadagno, mentre distingueva nettamente il capitalismo
moderno da tutte le altre forme. Allorché scrissi la conclusione che ho ricordato
nel saggio sull'individualismo avevo appunto in mente le opinioni del Weber,
anche se in modo improprio parlai degli storici dell'età di mezzo. Oggi va
sottolineato che anche il Weber contestava la tesi che la recezione del diritto
romano sarebbe stata la causa della decadenza del ceto contadino e della
nascita del capitalismo, tesi sostenuta per la Germania dal von Below (12).
Il Weber giustamente osservava che l'Inghilterra, la patria del capitalismo,
non ha mai recepito il diritto romano, perché in essa esisteva un ceto di
avvocati, che non tollerava manomissioni degli istituti giuridici nazionali.
Esso impediva che nelle università inglesi venisse insegnato il diritto romano,
in modo da evitare che all'ufficio del giudice avessero accesso persone che non
provenivano dalle sue file (13).
Non è questo il luogo per stabilire se la spiegazione sociologica del Weber
intorno al rifiuto inglese della recezione del diritto romano sia giusta, ma è
importante il rilievo che tutti gli istituti caratteristici del capitalismo
moderno non derivano dal diritto romano. Titoli di rendita, titoli di credito,
società commerciali, lettera di pegno, rappresentanza e possiamo aggiungere
assicurazioni ed istituti analoghi provengono dalla società medioevale sotto
l'influenza di altri diritti e dei nuovi bisogni sociali. Ma si tratta solo di
uno sviluppo rudimentale del capitalismo, perché è solo nell'epoca moderna, con
la nascita dell'industria e l'impiego delle macchine a vapore, nonché la
formazione della classe borghese, che si può parlare di un vero e proprio
sistema capitalistico. La critica fondamentale delle tendenze modernizzanti,
che spiegano i tratti dell'economia antica con le categorie di quella moderna,
si trova in una osservazione acutissima di Marx, allorché dice: “Il capitale è
la forma economica della società borghese che domina tutto”(14).
La differenza tra l'economia antica, nella quale la base fondamentale è
l'agricoltura e quindi la forma giuridica è quella della proprietà fondiaria, e
l'economia moderna capitalistica in cui fondamentale diviene l'industria e la
finanza, non potrebbe essere espressa meglio di così. Le tendenze modernizzanti
nella storia giuridica, oltre che in quella sociale, vanno avversate perché
impediscono una giusta conoscenza dei tratti dei vari sistemi e sono perciò
antistoriche.
[5.] Data la finalità
del mio lavoro, mancano in esso tutte le opportune considerazioni intorno alla
nozione della libertà del sistema romano. Vorrei limitarmi ad alcuni accenni. Allora
io citavo di sfuggita l'opinione del Mommsen, per dire che il suo giudizio era
in qualche modo influenzato dalle idee liberali del suo tempo. Ma in quel
discorso giovanile (1848) il Mommsen non si era affatto abbandonato ad una
esaltazione senza critica della libertà romana. Egli aveva invece difeso il
diritto privato romano contro gli attacchi che in quel tempo venivano sferrati
per sostenere che il sistema romano era quello di uno Stato di polizia,
fondandosi sulla massima quod principi placuit legis habet vigorem. Era
nel corso di questa polemica, che il Mommsen pronunciava le parole che allora
avevo ricordato. Ma il punto decisivo della questione è un altro. Spirito di
libertà non vuol dire necessariamente individualismo, perché un sistema giuridico
può essere ispirato dall'idea della libertà individuale e nello stesso tempo
tener conto degli interessi sociali. È da questo lato che oggi tratterei del
tema centrale nel giudizio sul sistema romano e cioè quello della sua
filosofia. La conoscenza di tale sistema in tutti i suoi aspetti e momenti ed
in particolare nell'intreccio incontestabile fra rigorose norme civili e
pratico esercizio del diritto porta alla conseguenza che i duri tratti arcaici
del potere assoluto del pater familias, in tutti i campi soggetti
alla sua signoria ed in ispecie nella famiglia e nella proprietà, furono non
solo limitati, ma perfino annullati dal costume sociale, di cui si faceva
garante una magistratura, quella dei censori, e che nello stesso campo della
tutela del diritto trovava una possente espressione nel potere del pretore
romano, ben più ampio di quello di un giudice moderno e tale da divenire esso
medesimo fonte di un sistema di norme ispirato a princìpi di equità, anziché,
alla rigorosa osservanza dei remoti princìpi civilistici.
[6.] Un esame
approfondito del modo come le norme romane vennero intese nell'età moderna
porterebbe alla conclusione che esse divennero maggiormente individualiste di
come non fossero nell'età antica proprio perché nel mondo moderno e nella
pratica dei tribunali sono caduti quei limiti e freni derivanti dal costume.
Senza dubbio i compilatori del Codice Napoleone, che avevano ereditato le idee
della Rivoluzione contro il sistema feudale, accolsero nella legislazione norme
e princìpi romani, i quali rispecchiavano le idee individualistiche da essi
professate. Ma non si trattava delle stesse idee, perché le norme romane erano
espressione di una società profondamente diversa da quella dell'età moderna ed
erano state elaborate in condizioni economico-sociali diversissime. Per di più
il sistema romano conosceva vari tipi di proprietà e taluni di questi tipi non
erano affatto signorie indipendenti ed assolute, come era invece l'antica
proprietà quiritaria. L'interpretazione delle norme romane da parte dei
compilatori del Codice, i quali attingevano al sistema del Pothier, era quella
possibile per la loro epoca, non aveva alcun valore di conoscenza storica ed
era necessariamente unilaterale. D'altra parte se in vari rami del diritto il
sistema romano poteva fornire le forme tecniche degli istituti giuridici o di
parte di essi, la sostanza non era la stessa. Il prevalere di esigenze moderne
fece perfino dimenticare quelle soluzioni che la giurisprudenza romana aveva
adottato o almeno intravisto, come nel regime delle acque e nei rapporti di
vicinato. Vi era tuttavia in questa recezione qualcosa di sostanziale. Il punto
d'arrivo del processo storico, che travolse la civiltà ed il mondo antico, era
stato il sistema feudale. Ma in questa nuova epoca della storia l'idea della
libertà non aveva avanzato, anzi il numero dei liberi si era ristretto e così
anche quello dei proprietari. Il trionfo del feudo aveva recato seco il
principio che tutte le terre mancanti di titolo si presumessero feudali, nulle
terre sans seigneur, ed insieme un complesso di vincoli, di
regalie dei principi e dei signori, di censi, precari, livelli, nonché la
spartizione del potere economico tra lo Stato, i signori, la Chiesa, la quale
ultima agognando ad immensi possedimenti terrieri con tutti i vincoli che ne
conseguirono concorse alla distruzione della superstite libertà economica, che
era stata un tratto od almeno un momento del mondo classico. Contro questo
sistema si rivolse la grande rivoluzione politica ed economica dell'origine dei
Comuni, la quale contro il sistema feudale rivendicò la presunzione di libertà
dei fondi. Nei princìpi romani si ricercò il fondamento per questa lotta
vittoriosa, allorché si affermò che dove era esistita la libertà romana la
terra dovesse sempre presumersi libera, contrastando in tal modo il privilegio
feudale e proclamando l'opposto principio: allodialia in dubio praesumuntur
bona. Dal lato storico si può accettare l'idea che i princìpi romani in
quest'epoca furono un'arma a difesa della libertà contro il diritto feudale ed
in essi si ricercarono i limiti alle regalie dei principi e dei signori, un
potente freno ai vincoli innumerevoli, che soffocavano la terra e la proprietà
come intricati tentacoli. In questa rivendicazione della libertà della terra
era implicita la lotta contro la servitù della gleba. Come la crisi del sistema
romano classico e dell'economia a schiavi ebbe il suo sbocco nell'istituzione
del colonato e delle corporazioni professionali vincolanti e quindi nel feudo e
nella servitù della gleba, così la lotta dei Comuni trovò nelle idee romane di
libertà le sue armi ideologiche e le forme giuridiche. Forse era alquanto
eccessivo quel che scrivevo ancora nel 1946, riaffermando la superiorità del
diritto romano su quello germanico: “La tesi che il primo sia rudemente
individualistico, mentre il secondo sia tutto ispirato da idee e forze sociali
è una tesi, che, al pari di tutte le tesi generiche, pecca di astrazione e di
scarsa sensibilità storica. Nel diritto romano come nel diritto germanico vi
sono fasi e momenti nei quali prevalgono gli interessi individuali su quelli
collettivi e viceversa”. La conclusione era però schematica: “Il diritto
germanico ha creato il feudo; quello romano ha ispirato la rivoluzione dei
Comuni”(15).
In realtà, se questo giudizio si può mantenere, bisogna aggiungere che anche il
diritto romano nel periodo della crisi pervenne al colonato, che era una forma
di asservimento del contadino alla terra. Per di più veniva trascurata la
realtà dei rapporti economico-sociali anche nel periodo del diritto classico,
realtà che limitava fortemente i princìpi di libertà ed uguaglianza giuridica
esistenti nel diritto. Tuttavia questi princìpi vi erano e non erano senza
importanza e perciò era naturale che ad essi facessero ricorso i legislatori ed
i giuristi allorché essi dovettero trasferire nelle norme positive le idee
della Rivoluzione e creare il sistema giuridico ispirato alla tutela degli
interessi della borghesia, che era divenuta la nuova classe dominante.
Un'indagine
storiografica obiettiva dovrebbe dunque muovere alla ricerca di quanto in
realtà sopravviva delle norme romane. Nel 1941, mosso da intenti che non erano
solo quelli della pura ricerca scientifica, il mio scritto sull'individualismo
nel diritto romano, se ha posto in luce alcuni tratti importanti, anzi
fondamentali del sistema giuridico romano, ha aperto anche problemi cui non è
stata data finora una risposta conclusiva. Vorrei augurarmi che nella giovane
generazione qualcuno esaminasse il tema ancora poco esplorato di come il
capitalismo abbia utilizzato le forme romane e che cosa in realtà rimane di un
sistema giuridico, che appare come una creazione solida ed armonica, con una
eccezionale capacità di congiungere la logica più rigorosa con l'equità e quindi
di tener conto dei valori sociali. Forse è giunto il tempo di scrivere un nuovo
Geist des römischen Rechts ispirato dalle nostre idee e dalle nostre
esperienze e che si fondi su di una solida base di ricerche economico-sociali,
quali solo il metodo marxista è in grado di compiere, nel tentativo di emulare
il grande libro di Rudolph von Jhering, che alla libertà romana aveva dedicato
pagine suggestive.
[7.] Un altro punto
va rilevato. Nel mio saggio non dedicai alcuna attenzione al problema
storico-politico delle cause che avevano indotto il nazionalsocialismo a
stabilire nel programma la lotta contro il diritto romano e se tra di esse vi
era la difesa ad oltranza del nazionalismo giuridico. Il Koschaker tende ad
escludere questo fattore, sostenendo che il nazionalismo germanistico era stato
opera di un gruppo di professori tedeschi del XIX secolo, mentre esso non aveva
base nelle tradizioni del periodo precedente(16).
Egli aggiunge anche che i motivi che spinsero alla condanna del diritto romano
non hanno niente a che fare con la snazionalizzazione del diritto tedesco.
L'altro motivo, quello della “giudaizzazione” del diritto romano, non fu più
ufficialmente invocato, “anzi non si gradiva nemmeno più che se ne discutesse,
sia perché ci si era convinti della sua inesattezza, sia per certi scrupoli
verso l'alleato italiano [...]. Nonostante ciò, quella teoria nei primi anni
dopo l'avvento del nazionalsocialismo al potere aveva avuto una certa
importanza”. Ma a me sembra che il problema debba essere approfondito. Il fatto
che i motivi espressi non rivelino un'intenzione nazionalista prova ben poco.
D'altra parte il preambolo della legge prussiana del 15 maggio 1933, nella
quale si dettava il regime dei fondi ereditari, dice testualmente: “la
costituzione rurale dei secoli precedenti assicurò in Germania anche
legislativamente quella stretta unione [cioè di famiglia e di terra] nata
dall'istinto naturale del popolo [...] finché un diritto estraneo alla razza fu
introdotto a viva forza e distrusse la base di questa costituzione rurale”. Il
Koschaker vede bene che per estraneo alla razza non si può intendere il diritto
ebraico, ma bensì il diritto romano, ma egli ritiene che si possa stabilire
l'equazione “estraneo alla razza = ebraico = romano”. Egli adduce molti seri
argomenti per dimostrare l'erroneità contenuta nel preambolo di questa legge
per quanto riguarda i contadini ed i fondi ereditari. Ma da questo non si può
trarre, allo stato, che una conclusione diversa da quella cui è pervenuto il
Koschaker e cioè che il nazionalsocialismo, anche senza dirlo, professava una
teoria nazionalista del diritto. Anche in questo problema di ordine storico e
politico si può ritenere che il nazionalsocialismo sviluppasse idee
preesistenti nella cultura tedesca, come è avvenuto in altri campi ed in linea
più generale per le stesse teorie autoritarie e razziste. è ben difficile che un riesame ed un
approfondimento di tutte le fonti disponibili induca a conclusioni diverse.
Forse ho dedicato troppo
spazio al saggio sull'individualismo. Ma esso implicava un giudizio di
carattere generale sullo spirito del diritto romano, che non può essere
disgiunto da una concezione generale o se meglio pare da un'ideologia, sebbene
nell'analisi dei fatti storici l'obiettività sia doverosa. Così mi è parso
giusto rilevare quali sono i punti deboli del mio scritto, sebbene nelle grandi
linee il giudizio di allora vada confermato.
F. D. M.
* Da F. De Martino, Diritto e società
nell'antica Roma (“Biblioteca di storia antica”, 6, a cura del Gruppo di
ricerca sulla diffusione del Diritto romano), Editori Riuniti, Roma 1979, pp.
XVII ss.
(1) Così pensavo e penso si dovesse intendere il § 19 del Programma
del partito nazionalsocialista del 24 febbraio 1920: “Noi vogliamo che il
diritto romano, asservito all'ordinamento materialistico del mondo, sia
sostituito da un diritto comune tedesco”. Il Koschaker
nel suo saggio "Diritto romano e nazionalsocialismo" nel volume Europa
und das römische Recht (1a ed. 1947; 2a ed. 1953; 3a
ed. 1958; 4a ed. 1966; trad. it. L'Europa e il Diritto romano,
ed. Sansoni, Firenze, 1962, 529 ss.) afferma che il senso della formulazione
non è chiaro. Ma egli stesso rileva che il paragrafo 19 si ricollega ai
precedenti 10-18, nei quali vi sono rivendicazioni cosiddette “socialiste”.
Perciò non comprendo l'affermazione che il § 19 rimarrà un enigma, a meno che
non vengano alla luce, attraverso l'archivio del partito, atti relativi alla
preparazione del programma, tali da illuminare la genesi di questo paragrafo.
(2) K. Marx,
Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehen, in Grundrisse
der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin, 1953, 378 (trad. it. a cura di
G. Backhaus: Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica,
Torino 1976, I, 454; trad. it. a cura di E. Grillo: Lineamenti fondamentali
della critica dell'economia politica, Firenze 1968-70, II, 99).
(4) Noctes Atticae, 4. 12: Si
quis agrum suum passus fuerat sordescere eumque indiligenter curabat ac neque
araverat neque purgaverat, sive quis arborem suam vineamque habuerat
derelictui, non id sine poena fuit, sed erat opus censorium censoresque
aerarium faciebant […]. Cuius rei utriusque auctoritates sunt, et M.
Cato id saepenumero adtestatus est. L'altro caso era quello del cavaliere che trascurava il cavallo.
(5) Suet. Domit.
7. 2.
(6)
D. 39.3.1.7. La citazione di
Trebazio è in un testo di Ulpiano D. 39.3.1.3 sospettato di interpolazione dal
Beseler.
(7) Uso normale e località industriale,
in Giurisprudenza comparata di diritto civile, a cura dell'Istituto italiano
di studi legislativi, 6, 1941, 55.
(8) Op. cit., 59.
(9) Individualismo, 48.
(10) Cic. de off. 1.42.150 sg.
(11) Weber,
Economia e società, trad. it., Milano, 1974, II, 647.
(14)
Grundrisse, cit., 27 (trad. it. Backhaus, I, 33; Grillo, I, 35).
(15) Lezioni di storia del diritto italiano. La
proprietà, Casa Editrice G. Cacciavillani, Napoli, 1946, 34.
(16) L'Europa e il diritto romano, cit., 275 sg.