N. 9 – 2010 – Tradizione-Romana
Università di Sassari
Servi e religio*
Nell’ideologia romana la categoria di servo non rientrava nell’ambito del fas[1], inteso «come sfera comune a uomini e dèi»[2]; infatti, a Roma non esistevano servi o liberti delle divinità. Per questo nei sacra relativi all’intera civitas si faceva impiego di servi publici[3], come se fosse il populus Romanus a sopperire l’assenza nel mondo divino di esseri umani in condizione servile. Del resto, i servi publici addetti ai culti non compaiono nella classificazione delle res divini iuris di Gaio[4], cioè non si annoveravano tra le res destinate al culto, in quanto essi erano in proprietà della cittadinanza[5]. La condizione servile, dunque, estranea al mondo divino, era una categoria limitata soltanto alla sfera umana, assente perciò dalla civitas communis deorum atque hominum, descritta da Cicerone[6]. Inoltre, nella coscienza dei Romani era presente il ricordo di un’età aurea, a cui farò riferimento tra breve, dove tutti gli uomini erano liberi[7].
Del
resto, dalla connessione dei liberti con la dea Feronia[8] si può ravvisare un
certo favore divino per le affrancazioni, e dunque il conseguente dissenso per
la condizione servile umana. Questa peculiarità della divinità
è testimoniata in particolare da alcune iscrizioni[9]
e dalla definizione di libertorum dea che ne dà Servio[10].
Nel suo tempio i servi ricevevano il pileo (pileus
libertatis) quando venivano affrancati[11].
La specificità della dea
viene ben descritta da Dumézil: «Feronia n’est pas non plus
une technicienne de l’affranchissement, pour lequel Rome a des
procédures (uindicta, censu, testamento); mais, puisqu’elle permet en toute chose un
apprivoisement du sauvage, elle préside religieusement à une
mutation sociale qui ne doit être sans péril ni pour
l’ancien instrumentum uocale,
ni pour le groupe auquel il s’intègre»[12].
L’idea dell’“innaturalezza“ della servitù, mediata dalla riflessione stoica come sostiene la maggioranza della dottrina[13], emerge in alcune espressioni della giurisprudenza classica. Fiorentino afferma che la libertà era una facoltà naturale[14], ed Ulpiano inserisce la condizione servile nell’ambito del ius gentium, contrapponendolo al diritto naturale[15]. Il giurista severiano, inoltre, evidenzia che il termine “homines”, che ricomprende tre genera (liberi, servi e liberti[16]), è proprio del ius naturale, nell’ambito del quale i servi rientrano a pieno:
D. 50.17.32 (Ulp. 43 ad Sab.): Quod attinet ad ius civile, servi pro nullis habentur: non tamen et iure naturali, quia, quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt.
Il giurista va oltre rispetto alla classificazione proposta nel frammento precedente, dato che qui si afferma l’uguaglianza di tutti gli uomini.
Questa visione ispirata al ius naturale, tuttavia, non rileva ai fini del diritto privato, per cui, sempre secondo Ulpiano, servitus morti adsimilatur[17]. Non mancano tuttavia alcuni contesti in cui l’applicazione di questo principio è tutt’altro che rigorosa. Si registra, ad esempio, la possibilità per i servi publici di testare per la metà del loro peculio[18], e va ricordata anche una costituzione del 208 dove si afferma che viene colpito da infamia il condannato per ingiurie fatte ad un servo[19], anche se l’azione ovviamente era data al dominus[20].
Inoltre,
secondo il Rizzelli, poteva accadere che il servo venisse considerato come
«un buon partito per una donna libera», e questo comportava la formazione
di un rapporto equiparabile per diversi aspetti al matrimonio[21]. Ed ancora, è
interessante che il dominus potesse
essere considerato debitore del proprio servo, sia pure per
un’obbligazione naturale[22].
Lo
stesso Ulpiano, inoltre, richiama il caso di Filippo Barbario che da servo
fuggitivo assunse la pretura a Roma:
D.
1.14.3 (Ulp. 38 ad Sab.): Barbarius
Philippus cum servus fugitivus esset, Romae praeturam petiit et praetor
designatus est. sed nihil ei servitutem obstetisse ait Pomponius, quasi praetor
non fuerit: atquin verum est praetura eum functum. et tamen videamus: si servus
quamdiu latuit, dignitate praetoria functus sit, quid dicemus? quae edixit,
quae decrevit, nullius fore momenti? an fore propter utilitatem eorum, qui apud
eum egerunt vel lege vel quo alio iure? et verum puto nihil eorum reprobari:
hoc enim humanius est: cum etiam potuit populus Romanus servo decernere hanc
potestatem, sed et si scisset servum esse, liberum effecisset. quod ius multo
magis in imperatore observandum est.
Richiamandosi
quindi ad un criterio di opportunità, il giurista sostiene la non
ricusazione di atti compiuti dal servo in qualità di pretore.
La
possibilità di riconoscere libero un servo appare presente nella
tradizione fin dalle origini di Roma. Livio racconta che Romolo accettò
anche i servi nel popolo appena costituito:
Liv. 1.8.5-6: Deinde, ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum, qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos est, asylum aperit. 6. Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit ...[23].
Si
deve constatare come in Gaio il servus fosse considerato appartenente al
genere umano, una persona[24].
Nella sistematica del giurista, infatti, il servo è inserito nella summa
divisio de iure personarum:
Gai. 1.9: Et
quidem summa divisio de iure personarum haec est, quod omnes homines aut liberi
sunt aut servi[25].
Si
tratta di una classificazione giuridica, ma che deriva dalla percezione dei servi
considerati al contempo beni e uomini[26].
Del resto, lo stesso Gaio, quando spiega la categoria delle res corporales,
vi annovera anche i servi, usando però il termine homo[27],
che nella giurisprudenza aveva acquistato il significato di servus[28].
Secondo
una parte della dottrina, nelle XII Tavole in materia di os fractum[29] emergerebbe la
“personalità” dell’uomo ridotto a condizione servile,
e non la sua “patrimonialità”[30];
tuttavia la norma molto scarna non consente illazioni di alcun tipo.
Più interessanti, invece, appaiono alcune testimonianze letterarie. La prima, di Livio, riguarda la formula del ver sacrum predisposta dal pontefice massimo e giurista L. Cornelio Lentulo nel 217 a.C.[31], chiaro esempio di attenta riflessione giuridica[32]:
Liv. 22.10.1-6: His senatus consultis perfectis L. Cornelius
Lentulus pontifex maximus consulente collegium praetore omnium primum populum
consulendum de vere sacro censet: iniussu populi voveri non posse. 2. Rogatus
in haec verba populus: ‘velitis iubeatis ne haec sic fieri? si res
publica populi Romani Quiritium ad quinquennium proximum, sic<ut> velim
<vov>eamque, salva servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano
cum Carthaginiensi est quaeque duella cum Gallis sunt qui cis Alpis sunt, 3.
[da]tum donum duit populus Romanus Quiritium, quod vir attulerit ex suillo
ovillo caprino bovillo grege quaeque profana erunt, Iovi fieri, ex qua die
senatus populusque iusserit. 4. Qui faciet, quando volet quaque lege volet,
facito; quo modo faxit, probe factum esto. 5. Si id moritur, quod fieri
oportebit, profanum esto, neque scelus esto. Si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto. Si quis clepsit, ne
populo scelus esto neve cui cleptum erit. 6. Si atro die faxit insciens, probe
factum esto. Si nocte sive luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto.
Si antidea senatus populusque iusserit fieri ac faxitur, eo populus solutus
liber esto’.
Quello della “primavera sacra” era un importante e gravoso voto pubblico, con cui si prometteva di immolare quaecumque vere proximo nata essent[33], e per il quale i pontefici esigevano il iussum populi[34]. Nell’espressione rituale, dopo l’indicazione esatta di ciò che si offre in voto, si enumerano una serie di clausole liberatorie per il popolo Romano, per evitare che alcuni fatti o atti non inficiassero il voto, in una prospettiva cautelare tesa a salvaguardare la pax deorum. Infatti, si prevedeva l’azione generica sia del servo, sia del libero (si servus sive liber faxit), sebbene intese come categorie contrapposte, come la notte e il giorno menzionati nella stessa frase (si nocte sive luce). Così, il servus nella formula è considerato come soggetto che, pari al libero, può porre in essere atti rilevanti (in questo caso negativamente) nei rapporti tra i Romani e gli dèi.
Questa idea si rinviene anche in Catone, il cui pensiero è conservato in Festo, laddove l’oratore tratta della validità della presa degli auspici privati rispetto ad alcune azioni dei servi:
Fest., de verb. sign., v. Prohibere comitia, p. 268 L.: Cato in ea oratione, quam scribsit de sacrificio commisso: “domi cum auspicamus, honorem me deum immortalium velim habuisse. Servi, ancillae, si quis eorum sub centone crepuit, quod ego non sensi, nullum mihi vitium facit. Si cui ibidem servo aut ancillae dormienti evenit, quod comitia prohibere solet, ne is quidem mihi vitium facit”[35].
L’equivalenza tra azione del libero e quella del servus, ai fini del mantenimento della pax deorum, risulta anche da un passo di Cicerone. Secondo l’oratore, nei giorni dedicati ai riti sacri erano interdette alcune attività dei liberi e dei servi; in particolare, i servi dovevano astenersi dalle operae e dai labora[36].
Queste testimonianze, dunque, sono chiari esempi di come secondo i Romani anche l’azione del servus potesse incidere nel delicato rapporto che essi intrattenevano con gli dèi.
Per
quanto attiene alla personalità dei servi, bisogna, inoltre, richiamare
un decreto pontificale riportato da Livio, emanato dopo un’indagine
intrapresa nei confronti della vestale Minucia[37]:
qui si fa riferimento alla denuncia di un servo che aveva comportato
l’accusa della sacerdotessa dinnanzi ai pontefici. Il decreto impose alla
vestale di sacris abstinere e di continuare a familiam in potestate
habere[38]. L’esito del
processo non fu favorevole alla donna, che venne sotterrata viva.
L’intervento pontificale dimostra la possibilità, per chi era in
condizione servile, di intervenire in un’inchiesta in materia di sacra,
anzi si è affermato in letteratura che sussistesse in materia un dovere
di delazione[39].
È
cosa nota che presso i Romani la concezione del servus, dal punto di
vista sociale, mutò radicalmente con l’aumentare vertiginoso del
loro numero a partire dagli inizi del III sec. a.C. Nell’età
più antica il servo era considerato parte della domus, ma questa
concezione “domestica”[40] venne meno con la
massiccia introduzione nella civitas di servi di nazionalità
disparate[41].
Questo mutamento trova riscontro nel linguaggio, poiché in antico il
servo era denominato famulus (da cui secondo Festo deriva il termine familia[42]),
vocabolo che viene distinto dai grammatici antichi dalla denominazione di
servus[43]
(che deriva, secondo un’etimologia condivisa
da diverse fonti, dalla pratica di non uccidere il nemico fatto prigioniero[44]).
Interessante
l’orazione tenuta in senato da Caio Cassio Longino in seguito
all’uccisione di Pedanio Secundo, praefectus
urbi, nel 61 d.C. da parte di un servo, che viene riportata da Tacito[45]:
ann.
14.44.3: Suspecta maioribus nostris
fuerunt ingenia servorum, etiam cum in agris aut domibus i<s>dem
nascerentur caritatemque dominorum statim acciperent. Postquam vero nationes in
familiis habemus, quibus diversi ritus, externa sacra aut nulla sunt, conluviem
istam non nisi metu coercueris. At quidam insontes peribunt.
Cassio
evoca per il passato una dimensione familiare dei servi, mentre in
riferimento all’età contemporanea segnala le ampie varietà di
provenienza dei servi, e in particolare i diversi ritus, externa sacra, in qualche modo sottintendendo
un’originaria comunione di cerimonie tra servi e domini.
Proprio
in virtù di questa originaria dimensione “domestica”, si
può ritenere che, nella Roma dei primordi, i servi fossero
inseriti nella familia e nei suoi riti. Per questo, i servi devono
intendersi compresi nelle invocazioni, descritte nel de agri cultura di
Catone[46],
in cui è presente la locuzione domus
familiaque, per indicare l’insieme delle persone e dei beni che
facevano capo al pater[47].
Del resto erano in qualche modo labili le differenze che si rinvenivano in
epoca arcaica tra un servus ed un filius: le loro condizioni si
differenziavano soltanto al momento della morte del pater. D’altra
parte da Gellio, che riporta le affermazioni del giurista Masurio Sabinio,
sappiamo che il servus poteva essere adottato; questa notizia rafforza
l’idea di un penetrante inserimento del servo nell’antica familia
romana[48]:
Gell., noct. Att. 5.19.13: Alioquin, inquit [scil. Masurius Sabinus] si iuris ista antiquitas servetur, etiam servus a domino per praetorem
dari in adoptionem potest[49].
Si
tratta di una testimonianza, considerata dai moderni diretta[50], che crea alcune
perplessità, soprattutto in ordine a quale fosse l’esatta
procedura, ed è evidente come l’affermata antichità
dell’atto sia in qualche modo contraddetta dal richiamo ad un
procedimento per praetorem[51].
Lo
stesso Gellio aggiunge (noct. Att. 5.19.14) Idque ait plerosque iuris
veteris auctores posse fieri scripsisse[52]: l’antiquitas e i veteres per
Masurio Sabino dovrebbero essere i
giuristi repubblicani[53].
Da questo breve richiamo si percepisce come
l’istituto fu oggetto di viva discussione tra i giuristi, ed altrettanto
si può dire per la letteratura moderna, che ha disquisito sia sulla
natura dell’atto, sia sulla stessa procedura[54].
Vi è un’ulteriore testimonianza, con
il richiamo anche qui all’antiquitas[55], della presenza
dell’istituto in età repubblicana, come insegna Giustiniano:
I. 1.11.12: Apud Catonem bene scriptum
refert antiquitas, servi si a domino adoptati sint, ex hoc ipso posse liberari.
unde et nos eruditi in nostra constitutione etiam eum servum, quem dominus
actis intervenientibus filium suum nominaverit, liberum esse constituimus,
licet hoc ad ius filii accipiendum ei non sufficit[56].
Il richiamo al parere di Catone, che la dottrina recente individua come Catone Liciniano[57], morto nella metà del II sec. a.C., offre un’indicazione cronologica[58]. Tuttavia, anche se qui si specifica che il servo poteva essere adottato dal dominus[59], nulla di più sappiamo della antica procedura. In Giustiniano l’istituto, ormai, appare soltanto un modo di manomissione[60].
I servi partecipavano alla religio[61], e, come è stato dimostrato, possedevano la facoltà di trarre gli auspici, intesi in senso lato, cioè in virtù della loro appartenenza al genere umano[62].
Diverse
testimonianze mostrano la presenza dei servi nelle antiche cerimonie, in
particolare in quelle private. Ad esempio Catone, che in relazione al votum
pro bubus[63], da cui erano
interdette le donne[64], specifica che eam
rem divinam vel servus vel liber licebit faciat[65].
Qui il verbo facere viene utilizzato con il significato tecnico di
sacrificare[66],
e viene ascritto indifferentemente al figlio o al servo. Inoltre è
importante sottolineare che si tratta di un rito che non appare in qualche modo
delegato dal pater, e quindi dimostra la possibilità di un servo
di procedere, almeno in certe cerimonie, in modo del tutto autonomo, senza uno
specifico ordine del dominus; a fronte, invece, di un’altra
informazione dello stesso Catone, in materia di lustrazione dei campi, in cui
specificatamente si attribuisce l’incarico della cerimonia attraverso
l’uso nella formula del verbo mandare, che rimanda ad una
terminologia tecnico-giuridica[67].
La
partecipazione dei servi alle cerimonie domestiche è testimoniata dal
loro coinvolgimento nel culto dei Lari familiari[68],
anche se, appare ovvio, non si trattava di Lares paterni, ma di quelli
del proprio dominus[69].
Si deve inoltre ricordare la celebrazione da parte del servo di riti durante i Compitalia[70],
festa dedicata ai Lares compitales[71], due lari protettori dei crocicchi delle vie[72].
La notte che precedeva la celebrazione si appendevano davanti alla
propria porta delle palle e dei fantocci di lana che rappresentavano liberi e
servi, di sesso maschile e femminile, in modo che la dea Mania,
accontentandosi di tali offerte, conservasse le loro vite[73].
Si tratta di un chiaro esempio di applicazione della massima sacerdotale in sacris simulata pro veris accipiuntur[74].
La notizia ci mostra quindi, come
dice Dumézil, che «comme toujours dans le domaine des Lares, les
esclaves étaient considérés au même titre que les
hommes libres»[75].
Rientra
in questa dimensione anche il fatto che i servi onorino il genius dei
propri domini[76], che rappresentava una
sorta di «double» della persona che proteggeva[77].
Per
quanto riguarda i riti pubblici, le fonti mostrano una partecipazione servile
specialmente ai culti legati alla dea Diana. Il 13 agosto, cioè in
occasione del dies natalis del tempio di Diana sull’Aventino[78],
era designato come dies servorum[79].
Secondo la tradizione, questa celebrazione, comune ai Latini[80],
venne istituita da Servio Tullio, fondatore del tempio, di cui le fonti mettono
in evidenza le origini servili[81].
Si tratta di un culto presente anche ad Ariccia sui Colli Albani[82], che era il santuario
laziale più importante dedicato alla dea, tanto da servire come centro
per la confederazione latina[83]. Qui nel tempio di Diana
Nemorensis[84], nei pressi del lago di Nemi, si
svolgeva un particolare rito, a cui partecipano dei servi: il sacerdote della
dea, il rex Nemorensis, veniva sfidato a duello mortale dal suo
successore, che spesso era un servo fuggitivo[85].
Questo rito dimostra la possibilità dei servi di assumere cariche
sacerdotali.
Si
ha notizia, inoltre, della partecipazione dei servi ai riti che si svolgevano
il 24 giugno, anniversario della fondazione del tempio di Fors Fortuna[86],
situato fuori dal pomerio, sulla riva tiberina, e fondato anche questo da
Servio Tullio[87].
Particolare
attenzione deve essere dedicata alla festa dei Saturnali[88], quando i servi
pranzavano, serviti dai loro domini[89].
Durante questa festività, come ci dice Macrobio, tota servis licentia
permittitur[90].
Non si può parlare in questo caso propriamente di un’inversione di
ruoli[91]. Gli
stessi Romani, infatti, la intendevano come un’evocazione
dell’età dell’oro, sotto Saturno, dove non vi erano
distinzioni tra gli uomini. Questo in particolare è testimoniato ancora
da M. Iunianius Iustinus:
epit. historiar. 43.1.3-4: Italiae cultores primi Aborigines fuere,
quorum rex Saturnus tantae iustitiae fuisse dicitur, ut neque servierit
quisquam sub illo neque quicquam privatae rei habuerit, sed omnia communia et
indivisa omnibus fuerint, veluti unum cunctis patrimonium esset. 4. Ob cuius exempli memoriam cautum est, ut
Saturnalibus exaequato omnium iure passim in conviviis servi cum dominis
recumbant[92].
Un
pasto simile si svolgeva durante i Matronalia, alle calende di marzo,
festa chiamata da Giovenale femineis
… Kalendis[93], dove le stesse matrone procedevano ad allestire una cena per i
servi, rito che viene accostato ai Saturnali da Macrobio, il quale sostiene che
il pasto preparato dalle donne serviva in qualche modo ad esortare attraverso
questo onore i servi all’inizio dell’anno, mentre il pasto servito
durante i festeggiamenti per Saturno rappresentava un ringraziamento per il
lavoro svolto[94].
È
degno d’attenzione anche quanto emerge dalle fonti intorno al noto caso
di conversione del culto gentilizio di Ercole, curato dai Potiti e dai Pinari[95], in culto pubblico,
durante la censura di Appio Claudio Cieco, nel 312 a.C., a fronte di un
indennizzo di 50.000 assi. Dopo la trasformazione del culto, i servi pubblici
furono istruiti ai sacra: nelle fonti per indicare questa iniziazione si
utilizza il verbo edocere[96], termine
che designa l’azione di insegnare profondamente, o informare esattamente[97].
Va sottolineato che si tratta di un verbo presente nelle fonti in materia di sacra[98]: l’azione di edocere, ad
esempio, viene attribuita da Numa Pompilio, nell’ambito della sua riforma
religiosa[99],
al nuovo pontefice in materia di prodigia[100]. Da
questi dati appare, dunque, l’importanza svolta dai servi del
popolo Romano nell’ambito delle cerimonie pubbliche, dove si richiedeva
una perizia profonda nelle pratiche cultuali.
In
dottrina si è affermata l’esclusione dei servi da alcuni atti
religiosi, in particolare dai Matralia[101],
dove le donne univirae celebravano
l’11 giugno Mater Matuta[102],
dopo aver espulso con la forza dal tempio un’ancilla[103].
A mio avviso la preclusione della serva era collegata proprio al fatto che la
cerimonia era riservata alle matrone sposate, e sposate una sola volta. Questo
culto si collega con quello della dea Pudicitia[104], aperto alle
donne sposate, inizialmente patrizie[105],
riservato in antico alle sole univirae[106].
L’autore cristiano M. Minucio Felice, nel
richiamare alcune interdizioni presenti nella religione romana, sostiene che la
partecipazione di un servo ad alcuni riti poneva in essere un’azione che
richiedeva una espiazione. Tuttavia, si tratta di una notizia del tutto
indeterminata, e riferita solo ad alcune non ben definite cerimonie[107].
L’assenza di una generica esclusione dai
culti dei servi nella tradizione giuridico religiosa romana si deduce anche da
una glossa di Paolo Diacono, la cui testimonianza è stata ricollegata in
dottrina «alla scienza antiquaria di Verrio Flacco»[108]. Durante la celebrazione di alcuni sacra[109] il littore faceva
allontanare alcuni generi di persone con la formula: hostis, vinctus, mulier, virgo
exesto[110]. Nessun richiamo dunque al servus
nell’elenco di coloro che dovevano astenersi dalla cerimonia[111].
Ancora ricordiamo la ricorrenza annuale di un
giorno di festa per le ancelle, durante le none di luglio, in cui sia le libere, sia le serve,
compivano il medesimo sacrificio a Giunone Caprotina[112], in memoriam benignae virtutis, quae in ancillarum animis pro
conservazione publicae dignitatis[113]. La
cerimonia ricorda il salvataggio della civitas da parte di alcune
ancelle[114], ed
è significativo il collegamento, nella tradizione religiosa, tra le
serve e una qualità pubblica.
Il senso
di religiosità e il pieno inserimento dei servi nella religio
viene dimostrato anche dalle iscrizioni che testimoniano le offerte votive di
questi. In un opera risalente al 1886, dedicata ai culti privati, Attilio De
Marchi procede ad una statistica del VI volume del Corpus Inscriptionum
Latinarum, delle cui 800 iscrizioni votive quelle dei servi rappresentano
l’8%[115]. I
motivi possono essere diversi, quali il conseguimento della libertà[116], o la
gratitudine per aver ottenuto la salvezza del proprio dominus[117]. Tutte,
comunque, contrassegnate dal medesimo senso di partecipazione alla religione.
Abbiamo visto quindi
che in età classica è presente nella riflessione
giurisprudenziale il dualismo tra la considerazione del servus quale res
e la sua appartenenza al genere umano, un dualismo ben presente nella
coscienza romana. È emerso però che fin
dall’antichità il servus partecipava al sistema religioso
della civitas, collaborando sia ai riti privati, sia a quelli pubblici,
anzi, ritroviamo proprio per questi ultimi dei sacra a lui dedicati.
Vedremo qui di seguito come la “personalità” del servo
emerga prepotentemente in materia relativa ai sepolcri. Del resto, se il
versetto delle XII Tavole, sopra richiamato, relativo all’os fractum
riporta la differenza tra il libero e il servo, è significativo, invece,
il fatto che in materia di sepolture si usi il termine generico di homo[118], per sottolineare l’assenza di differenze tra
il cadavere del servus e quello del libero. Il termine, infatti,
ha una valenza giuridica, è risalente[119] e si trova ad esempio anche in Festo, che riporta la
normativa numana relativa all’individuo colpito da un fulmine[120]. Anche la norma relativa all’omicidio utilizza
il termine homo[121], ma con l’accostamento dell’aggettivo liberum,
il che dimostra il suo utilizzo generico[122].
Il luogo dove si inumava il servo, al pari di quello in cui
si inumava un libero, diveniva religioso, come attesta D. 11.7.2 pr. (Ulp. 25 ad
ed.):
Locum in quo servus sepultus est religiosum esse Aristo ait.
La norma risale ai tempi dell’antica comunità
romana[123].
Le res religiosae erano, come insegna Gaio, res divini iuris relictae
ai Manes[124].
Varrone ricorda che ci si rivolgeva ai diis
Manibus servilibus durante la celebrazione dei Parentalia in onore della nutrice di Romolo e di Remo[125],
la festa più importante in onore degli dèi Mani[126].
Il richiamo a specifiche divinità ctonie dei servi comporta
l’esplicito riconoscimento della partecipazione di questi al sistema
giuridico religioso romano. Del resto, il termine Manes[127] oltre a indicare
le divinità degli inferi designa anche gli stessi defunti[128].
Cicerone dice infatti nel de legibus che ... maiores eos, qui ex haec vita migrassent, in deorum numero esse
voluerunt[129]. L’idea che i defunti dovessero
essere annoverati tra le divinità risale pertanto a tempi molto antichi.
Per rendere religioso il luogo della sepoltura di un libero o di un servo era sufficiente la volontà del proprietario del luogo se costui aveva l’onere dei riti funerari[130]. L’inumazione, ai fini della religiosità del luogo, doveva essere fatta con l’intenzione di offrire una sede eterna ai resti umani[131].
In materia di iusta, le prescritte cerimonie funebri, Paolo Diacono, tratteggiando le exverriae, riti di purificazione in seguito ad un lutto, richiama la domus[132]. Il soggetto onerato, sia per i riti, sia per la sepoltura, era il dominus, tanto che Ulpiano, in D. 11.7.31.1 (Ulp. 25 ad ed.), afferma che Qui servum alienum vel ancillam sepelivit, habet adversus dominum funerariam actionem. L’actio funeraria, infatti, si esperiva contro colui che aveva il dovere di provvedere al funerale[133].
Il dovere del dominus a provvedere alla sepoltura del servo defunto era risalente e collegato al diritto sacro, ma in età imperiale probabilmente questo non era sentito più come un dovere così stringente[134], come è attestato dalla partecipazione dei servi ai collegi tenuiorum[135], affermata da Marciano[136]. A tale proposito rimando alla lex familiae Silvani, statuto di un collegio del I sec. d.C. Si tratta del regolamento dell’associazione, dove, secondo il Diliberto, «si ha conferma inequivoca della partecipazione almeno di un servus alla familia, possibilità, quest’ultima, prevista sin dall’età più antica»[137]. Il documento mostra dunque la risalente possibilità dei servi di accedere a questi collegi, ai fini sia della partecipazione ai culti, sia per garantirsi la sepoltura da parte del collegio, in quanto tra le funzioni principali dell’associazione vi era appunto quella di provvedere al funerale degli associati[138].
Interessante è anche il caso della sepoltura dei nemici, poiché la dottrina ha spesso posto loro e gli stranieri accanto ai servi[139]. Secondo Paolo[140] non è religioso il luogo in cui riposavano le spoglie dell’hostis. Questa preclusione si collega alla concezione dei Romani per cui le res divinis iuris si estinguevano quando capta sunt ab hostibus, e ad esse si applicava una sorta di postliminio[141].
Una parte della
dottrina[142]
ritiene questa regola antica, derivata dai mores, quando si credeva che gli avi
defunti fossero i Manes.
Tuttavia, nelle fonti appare la necessità di un’inumazione, sebbene simbolica, anche delle spoglie di uno sconosciuto (e quindi potenzialmente anche di un hostis)[143], senza che ciò comportasse la religiosità del luogo.
Vorrei concludere con una riflessione ispirata da Macrobio. Nei Saturnalia alla affermazione di Evangelius, secondo il quale il divino non si curava dei servi[144], segue la precisa risposta di Pretestato[145], il quale domanda al suo interlocutore: ... iocone an serio putas esse hominum genus quod di immortales nec cura sua nec providentia dignentur? An forte servos in hominum numero esse non pateris? E cita il caso del 279 a.C., dove Giove in persona si indignò per le crudeltà che un certo Autronio Massimo inflisse ad un suo servo nel circo, prima dell’inizio dello spettacolo[146].
Pretestato mette fortemente in evidenza l’uguaglianza tra liberi e servi[147], tanto che rivolgendosi ad Evangelius fa una considerazione che in qualche modo rappresenta la stessa consapevolezza romana di dipendere dalla fortuna: Tam tu illum videre liberum potes quam ille te servum.
* Relazione presentata al Convegno
Interdisciplinare di Studi “Mercati e mercanti di schiavi tra archeologia
e diritto”, Sassari, 22-23 ottobre 2009, in corso di pubblicazione negli
Atti.
[1] Per ciò che attiene
all’etimologia e al contenuto giuridico-religioso del termine fas vedi
F. Sini, “Fas et iura sinunt” (Virg., ‘Georg.’ 1, 269).
Contributo allo studio della nozione romana di ‘fas’, I,
Sassari 1984, 8 ss.; Id., Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del “diritto internazionale antico”, Sassari
1991, 83 ss. (bibl. ivi).
[2] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale
antico”, cit., 139.
[3] Tra gli esperti della
religione romana che sottolineano la non appartenenza dei servi ai templi o
alle divinità, vedi, ad esempio: J. Marquardt,
Le culte chez les romains, I,
tr. fr. di M. Brissaud, Paris 1889,
269 s. (alle ntt. 2 ss. vi è un elenco di testimonianze
epigrafiche dei servi publici all’interno dei singoli collegi
sacerdotali); G. Wissowa, Die
varronischen di certi und incerti, in Hermes 56, 1921, 120.
Per i servi publici rimando a W.
Eder, Servitus publica. Untersuchungen zur
Entstehung, Entwicklung und Funktion der öffentlichen Sklaverei in Rom,
Wiesbaden 1980 (letteratura generale a
IX-XIII), vedi in part. 37 ss., per il loro impiego
nel culto. Sul loro servizio presso i collegi sacerdotali vedi anche F. Bömer, Untersuchungen über
die Religion der Sklaven in Griechenland und Rom. Teil 1. Die
wichtigsten Kulte und Religionen in Rom und im lateinischen Westen, 2a
ed. a cura di P. Herz in collab. con l’A., Wiesbaden 1981, 17 ss.
[4]
Gai. 2.3-8: Divini iuris sunt veluti res sacrae et religiosae. 4. Sacrae
sunt, quae diis superis consecratae sunt; religiosae, quae diis Manibus
relictae sunt. 5. Sed sacrum quidem hoc solum existimatur, quod ex
auctoritate populi Romani consecratum est, veluti lege de ea re lata aut
senatus consulto facto. 6. Religiosum vero nostra voluntate facimus mortuum inferentes in
locum nostrum, si modo eius mortui funus ad nos pertineat. 7. Sed in provinciali solo placet plerisque
solum religiosum non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel
Caesaris, nos autem possessionem tantum et usumfructum habere videmur; utique
tamen, etiamsi non sit religiosum, pro religioso habetur: item quod in
provinciis non ex auctoritate populi Romani consecratum est, proprie sacrum non
est, tamen pro sacro habetur. 8. Sanctae quoque res, velut muri et portae, quodam modo divini iuris sunt.
[5] Per la proprietà
degli dèi sulle res divini iuris vedi ad es.: J. Marquardt, Le culte chez les romains, I, cit., 174, 321; T. Trincheri, Le consacrazioni di uomini in Roma. Studio
storico-giuridico, Roma 1889,
12; L.A. Corniquet, Les
attributions juridiques des pontifes, thèse pour le doctorat, Paris
1894, 42 ss.; A. Coqueret, De l’Influence
des Pontifes sur le Droit privé à Rome, thèse pour le
doctorat, Caen 1895, 54 ss.; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris
1871 [rist. an., New York 1975],
83; Id., Manuel des institutions romaines, Paris
1931, 521 s.; P. Bonfante, Corso di diritto romano,
II.1. La
proprietà, Roma 1926 [rist. corretta della 1a ed. a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano 1966], in part. 20, 22, 26; S. Solazzi, ‘Quodam modo’ nelle Istituzioni di
Gaio, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, in
part. 113; R. Schilling, L’originalité
du vocabulaire religieux latin, in Revue belge de philologie et
d’histoire 49, 1971, 50
(ora in Id., Rites,
cultes, dieux de Rome, Paris 1979,
49); Id., Sacrum et
profanum: essai
d’interprétation, in Latomus
30, 1971, 954 (ora in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, cit., 55); M.
Morani, Lat. «sacer» e il rapporto uomo-dio nel lessico religioso latino, in Aevum 55,
1981, 30 s., 39, 43; F. Van Haeperen, Le collège
pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.). Contribution
à l’étude de la religion publique romaine,
Bruxelles–Rome 2002, 245,
263. Vedi anche C. Santi, Alle radici del sacro.
Lessico e formule di Roma antica, Roma 2004, 213 s., la quale sostiene che
rientravano nell’ambito del sacrum tutte le res offerte
dalla civitas alle divinità attraverso la «doppia azione
rituale» della dedicatio e della consecratio, che
comportava «una sorta di “passaggio di proprietà”
dalla civitas alle figure divine oggetto di culto» 213 s., richiamando così quanto
sostenuto da G. Grosso, Corso
di diritto romano. Le cose, [ed. orig. Torino 1941], in Rivista di diritto
romano 1, 2001, 19, http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano0102grosso.pdf
, il quale definisce la consacrazione una cerimonia religiosa «colla
quale avveniva la cessione della cosa al nume». Vedi contra, ad
es.: B. Biondi, La
vendita di cose fuori di commercio, in Studi in onore di S. Riccobono
nel XL anno del suo insegnamento, vol. IV, Palermo 1936, 21, 28; F. Fabbrini, v. “Res divini iuris”, in
Novissimo Digesto Italiano, XV, Torino 1968, 517 s. Non entra nel merito, da
ultimo, L. Franchini, Aspetti
giuridici del pontificato romano. L’età di Publio Licinio Crasso
(212-183 a.C.), Napoli 2008,
131 nt. 118. Cfr. anche Th. Mommsen,
Le droit public romain, III, tr. fr.
di P.F. Girard, Paris 1893 [rist., Paris 1984], 67 ss., per il quale le res relative
ai templi si distinguevano in beni degli dèi propriamente detti, e in
beni pubblici con destinazione religiosa.
L’idea che le res divini iuris fossero in piena
proprietà delle divinità entra in contrasto con la
possibilità, in seguito ad azioni umane, di tornare ad essere res
humani iuris: è il caso innanzitutto della conquista da parte di
nemici, tanto che esiste un quasi postliminium come si evince da D.
11.7.36 (Pomp. 26 ad Q. Muc.) (vedi infra
nt. 141). Tuttavia, da un caso
narrato in Liv. 5.50.13 (Omnium
primum, ut erat diligentissimus religionum cultor, quae ad deos inmortalis
pertinebant, rettulit et senatus consultum facit: “fana omnia, quoad ea
hostis possedisset, restituerentur expiarenturque expiatioque eorum in libris
per duumviros quaereretur; cum Caeritibus hospitium publice fieret,
quod sacra populi Romani ac sacerdotes recepissent beneficioque eius populi non
intermissus honos deum inmortalium esset …”), secondo cui si procedette a un
senatoconsulto che, sulla base di un responso dei duumviri sacris faciundis,
disponeva i riti relativi in seguito alla riacquisizione da parte dei Romani di
res consacrate alle divinità che erano cadute in mano al nemico.
Grazie ai Ceriti i culti non furono interrotti, e questo dimostrerebbe che,
nonostante le res divini iuris fossero state oggetto di conquista
bellica (indicata da Livio con possedisset),
per non perdere la loro condizione era sufficiente non far cessare la
celebrazione delle cerimonie. La
conversione delle res divini iuris
in res humani iuris avveniva
anche tramite un atto contrario alla consacrazione, indicato spesso non
tecnicamente come exauguratio,
atto invece spesso contrario alla inauguratio
(per la differenza tra inauguratus e
sacer rimando a P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960, 158 ss., 258 ss.). Questo atto è individuato specialmente dallo Schilling, loc. cit., nella resecratio (vedi: Fest., de verb. sign., v.
Resecrare, p. 352 L.: Resecrare, resol<vere religione> --- reus
populum co<mitiis oraverat per deos,> ut eo periculo li<beraretur,
iubebat magi>stratus eam resecr<are.> --- se liberarent inst---
innocens que esset, cau--- est, ne eidem iterum --- animadvertisti --- cum que
comitia esse --- ---t --- aut --- iure --- ut --- dica --- --- <Plautus:
“Resecro que, mater, quod du>dum ob<secraveram”> ---ror
---; Epist. Front., ep. ad M. Anton. imp. 1.2.9: Obsecrari enim
et resecrari populus aut iudices solebant, sed me forsitan memoria fugerit: tu
diligentius animadvertito; Paul., Fest. ep., v. Resecrare, p. 353 L.: Resecrare
solvere religione, utique cum reus populum comitiis oraverat per deos, ut eo
periculo liberaretur, iubebat magistratus eum resecrare. Plautus (Aul. 684).
“Resecroque, mater, quod dudum obsecraveram”); mentre, ad es., A.
Bouché-Leclercq Manuel des institutions romaines, ivi cit., 521, Id., Les pontifes
dans l’ancienne Rome, ivi
cit., 83, 90 ss., parla di profanatio, anche se, «par un abus étrange», il termine
divenne sinonimo di pollucere (vedi: Macr., sat. 3.3.4: Eo
accedit quod Trebatius profanum id proprie dici ait quod ex religioso vel sacro
in hominum usum proprietatemque conversum est …; Serv. Dan., in Verg. Aen. 12.779: ‘bello
fecere profanos’ ‘profanum’
proprie dicitur quod ex religiosa re in hominum usum convertitur
… at postea
dicendo ‘bello fecere
profanos’ docuit ‘profanum’ esse quod a religione in
usum hominum transiit. sacro profanum contrarium, ut festo profestum, fasto
nefastum. ergo non omne quod sacrum non sit, profanum, sed quod sacrum fuerit
et esse desierit). Da Liv. 1.55 (Gabiis receptis Tarquinius pacem cum Aequorum gente fecit, foedus cum
Tuscis renovavit. Inde ad negotia urbana animum convertit; quorum erat primum,
ut Iovis templum in monte Tarpeio monumentum regni sui nominisque relinqueret:
Tarquinios reges ambos, patrem vovisse, filium perfecisse. 2.
Et ut libera a ceteris religionibus area esset tota Iovis templique eius, quod
inaedificaretur, exaugurare fana sacellaque statuit, quae aliquot ibi, a Tatio
rege primum in ipso discrimine adversus Romulum pugnae vota, consecrata
inaugurataque postea fuerant. 3. Inter principia condendi huius operis
movisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent aves, in Termini fano non addixere; 4.
idque omen auguriumque ita acceptum est, non motam Termini sedem unumque eum
deorum non evocatum sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere) abbiamo notizia dell’opposizione
a questa procedura, indicata con il termine di exaugurare, da parte del dio Terminus, a dimostrazione che
secondo l’ideologia dei Romani non bastava l’esatto compimento del rito,
ma era necessaria anche la volontà divina. Inoltre, è
interessante notare che nell’interpretazione del presagio divino si
considerava che il dio in persona dimorasse nel sacello, come se questo,
dunque, fosse di sua proprietà (l’episodio viene narrato anche da Dion. Hal. 3.69.3-5 e da Serv., in Verg.
Aen. 9.446). Un ulteriore esempio di questa concezione si rinviene nelle
fonti epigrafiche; nella iscrizione sepolcrale inserita in CIL V.2915 = ILS
8004, come già notato dal Biondi,
ivi, 21, si utilizza la forma
del legato per vindicationem: hunc
locum monimentumque diis manibus do legoque. Qui bisogna richiamare la suggestiva interpretazione di R. Schilling, Sacrum et
profanum, ivi cit., 954 (= in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, ivi cit., 55) a proposito di un’affermazione
attribuita a Trebazio Testa (Macr., sat. 3.3.2: Sacrum est, ut
Trebatius libro primo de religionibus refert, quicquid est quod deorum habetur),
per cui l’idea del sacro sarebbe
connessa alla proprietà degli dèi («Est sacré tout
ce qui relève du domaine des dieux»). In realtà il testo di
Trebazio dice che è sacro ciò che si ritiene di pertinenza degli
dèi.
[6] Cic., de leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et
in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter
eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque
consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis,
inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei
civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent,
multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et
praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum atque
hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur
idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura
tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et
gente teneantur.
[8]
Sulla dea e sul lucus Feroniae vedi,
ad esempio: H. Steuding, v. Feronia, in Ausführliches Lexikon des griechischen und römischen
Mythologie, I, ed. W.H. Roscher, Leipzig 1884-1890, coll. 1477-1481;
G. Wissowa, v. Feronia, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft,
VI, Stuttgart 1909, coll. 2217-2219; Id., Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912 [rist. an., München 1971], 285 ss.; D. Vaglieri, v. Feronia, in Dizionario epigrafico di
antichità romane, III, ed. E. De Ruggiero, Roma 1906 [rist. an., Roma 1962], 56 s.; F. Tamborini, La vita economica nella Roma degli ultimi re,
in Athenaeum n.s. 8, 1930, 482 s.; P. Aebischer, Le culte
de Feronia et le gentilice Feronius, in Revue
belge de philologie et d’histoire 13.1-2, 1934, 5 ss.; R. Bloch-G. Foti, Nouvelles dédicaces
archaïques à la déesse Feronia, in Revue de philologie, de littérature
et d’histoire anciennes 3a ser., 27, 1953, 65 ss.; J. Heurgon, Trois
études sur le «Ver Sacrum» (I. Un «ver
sacrum» étrusque? Les origines du lucus Feroniae), Bruxelles 1957, 11 ss.;
G. Radke, Die Götter
altitaliens, Münster Westfalen 1965, 124 ss.; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic.
An Introduction to the Study of the Religion of the Romans, Port
Washington, N.Y.-London 1969,
252-254; G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, 416 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, München 1960, 189 s.; S. Tondo, Aspetti simbolici
e magici nella struttura giuridica della manumissio vindicta, Milano
1967, 153 ss.; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici. Archetipi e forme della
sacralità romano-italica, 3a ed., Genova 1998, 170 ss.; Id., La religione dei
Romani. La religione e il sacro in Roma antica, Milano 1992, 229 e nt. a 269; M. Torelli, Colonizzazioni
etrusche e latine in epoca arcaica: un esempio, in Gli Etruschi e Roma. Atti dell’incontro di studio in onore di M.
Pallottino. Roma, 11-13 dicembre 1979, Roma 1981, 77 ss.; alcuni cenni, comunque
rilevanti, anche in: A.H. Krappe,
Picus who is also Zeus, in Mnemosyne
3a ser., 9, 1941, 252; G. De Sanctis, Storia dei Romani.
Vol. IV. La fondazione dell’impero. Parte II.I, Firenze 1953
[rist., Firenze 1963], 283; J. Bayet,
La religion romaine. Histoire politique et psychologique, 2a ed., Paris
1969 [rist., Paris 1976], 28, 240; M.A. Levi, Ercole e Roma, Roma
1997, 44 s.; N. Donati-P. Stefanetti, Dies natalis.
I calendari romani e gli anniversari dei culti, Roma 2006, 143 ss. Cfr. V. Georgiev, Illyrisches im Lateinisches. 2. fērālis, Fērōnia,
in Glotta 25.1-2, 1936, 99 ss.
[9] Vedi in particolare: CIL
IX.4874 in cui l’espressione [F]eron[iae]
... manc[ipio] do viene considerata da G. Wissowa,
in J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 377 nt. 2, una locuzione figurata da
intendersi nel senso di consacrare; CIL I2.1832, VI.146, IX.4873 = ILS 3478: Sex(tus) Audienus C(ai) l(ibertus) Feroniae
d(edit) l(ibens) m(erito), di epoca arcaica proveniente dal santuario di
Trebula Mutuesca. Vedi anche un’iscrizione di Scorano, risalente al III
sec. a.C., studiata da R. Bloch-G. Foti, Nouvelles
dédicaces archaïques à la déesse Feronia,
cit., 66 ss.: Plaria T(iti) l(iberta) dedet libes Fero(niae) don[o]m mereto. Questa peculiarità
della dea dovette permanere anche in epoca imperiale, come è attestato
da due iscrizioni, quella trovata a Pisaurum di una serva (CIL VI.147,
VI.30702 = ILS 3477: Hedone M. Crassi
ancilla Feroniae v. s. l. m.) e quella di Hermeros, servus
dell’imperatore Claudio rinvenuta a Nepi (CIL XI.3199 = ILS 3481: Hermeros Ti. Claudii Caisaris Aug. Germanici
ser(vus) Thyamidianus ab marmorib. magister Feroniae aras quinque d. s. d. d.).
[10] Serv., in Verg. Aen. 8.564:
‘Feronia mater’ nympha Campaniae,
quam etiam supra diximus.
haec etiam libertorum
dea est, in cuius templo raso capite pilleum accipiebant.
cuius rei etiam Plautus in Amphitryone facit mentionem
quod utinam ille faxit Iuppiter,
ut raso capite portem pilleum. Vedi anche quanto afferma Servio
Danielino: in huius templo Tarracinae
sedile lapideum fuit, in quo hic versus incisus erat bene meriti servi sedeant,
surgant liberi. quam Varro Libertatem
deam dicit, Feroniam
quasi Fidoniam. Cfr. il testo qui richiamato di
Plaut. Amph. 460 ss.: Ibo ad portum atque haec ut<i> sunt
facta, ero dicam meo: / Nisi etiam is quoque me ignorabit, quod ille faxit
Iuppiter, / Vt ego | hodie raso capite calvos capiam pilleum. Vedi anche
Liv. 22.1.17-18, relativo al 217 a.C., dove si riporta un decreto dei decemviri sacris faciundis, i quali, a
seguito di gravi prodigi, consultati i libri sibillini, prescrissero
un’offerta da parte delle matrone a Giunone Regina sull’Aventino, e
da parte delle libertine un dono a Feronia: una testimonianza del rapporto
della divinità con gli affrancati.
[11] Sul pileus vedi in generale, ad es.: W. Helbig, Über den
Pileus der alten Italiker, in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie
der Wissenschaften (Philos.-Hist.), München 1880, 487 ss.; E. Samter, Der pileus der römischen Priester und
Freigelassenen, in Philologus 53,
1894, 535 ss.; S. Tondo, Aspetti simbolici e magici nella struttura giuridica della manumissio
vindicta, cit., 143 ss.,
secondo il quale l’impositio pillei era utilizzata nella zona di Terracina
per le manomissioni sacrali; questo atto si diffuse nella cultura romana e qui
sopravvisse nelle manomissioni laiche. Cfr. anche E. Dörner, Deus Pileatus, in études
Mithriaques, Tehran-Liège 1978,
115 ss.
Il pileus è legato ai
festeggiamenti dei Saturnali dove i servi si comportavano da liberi: Sen., ep. ad Luc. 18.3: Si te bene novi, arbitri partibus functus nec
per omnia nos similes esse pilleatae turbae voluisses nec per omnia dissimiles
...; Mart., epigram. 11.6.1-5: Unctis falciferi senis diebus, / regnator
quibus imperat fritillus, / versu ludere non laborioso / permittis, puto,
pilleata Roma.
[12] G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, cit.,
419 s. A. Bouché-Leclercq,
Manuel des institutions romaines,
cit., 366 nt. 1, in riferimento al passo
di Servio, ritiene che la presa del pileus
nel tempio della dea fosse «une cérémonie accessoire»
rispetto ai modi di manomissione.
[13] Vedi in materia da ultimo E. Cavallini, Legge di natura e condizione dello schiavo, in Labeo 40, 1994, 72 ss.,
il quale ritiene che il concetto stoico della innaturalezza della condizione
servile incominciò a penetrare nel pensiero dei giuristi a partire dal I
sec. d.C., per affermarsi nel secolo successivo. Per l’A., però,
la giurisprudenza severiana è inserita in un ambiente «ormai
sensibile non solo all’insegnamento stoico, ma anche alle suggestioni del
misticismo cristiano e mitraico» (81). Interessante anche quanto Seneca
dice (de clem. 1.18.2) in relazione a un diritto comune animantium:
Servis ad statuam licet confugere; cum in servum omnia liceant, est aliquid,
quod in hominem licere commune ius animantium vetet. L’idea della
appartenenza alla stessa comunità del padrone con il proprio servo,
presente in particolare nel pensiero di Seneca, è oggetto di riflessione
da ultimo di G. Rizzelli, Lo
schiavo romano: Imaginario sociale e diritto, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 101-102, 1998-1999
[ma 2005], 232 ss. Vedi invece A. Schiavone, Legge di natura o convenzione sociale? Aristotele, Cicerone, Ulpiano
sulla schiavitù-merce, in Schiavi
e dipendenti nell’ambito dell’«oikos» e della
«familia». Atti del XXII Colloquio GIREA. Pontignano (Siena) 19-20
novembre 1995, a cura di M. Moggi e G. Cordiano, Pisa 1997, 173 ss., per cui la giurisprudenza
severiana, che confinò la condizione servile nel ius civile e nel
ius gentium, allontanandola dal ius naturale, raccolse
l’eredità di due tradizioni: da un lato, «il compimento
dell’idea e della pratica prescrettivo repressiva»
dell’età tardo repubblicana; dall’altro lato, «le
pressioni etiche dell’umanesimo antoniniano» (181 s.).
[14]
D. 1.5.4.pr.-1 (Flor. 9 inst.): Libertas est naturalis facultas eius quod
cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur. Servitus est
constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur. In materia il richiamo al ius
gentium si rinviene anche in: Gai. 1.52: In potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris
gentium est: nam apud omnes peraeque gentes animaduertere possumus dominis in
servos vitae necisque potestatem esse, et quodcumque per servum adquiritur, id
domino adquiritur; 1.82: Illud quoque his consequens est, quod ex
ancilla et libero iure gentium servus nascitur, et contra ex libera et servo
liber nascitur; D. 1.5.5.1 (Marcian. 1 inst.): Servi autem in
dominium nostrum rediguntur aut iure civili aut gentium: iure civili, si quis
se maior viginti annis ad pretium participandum venire passus est. iure gentium
servi nostri sunt, qui ab hostibus capiuntur aut qui ex ancillis nostris nascuntur.
[15]
D. 1.1.4 (Ulp. 1 inst.): Manumissiones quoque iuris gentium sunt. est
autem manumissio de manu missio, id est datio libertatis: nam quamdiu quis in
servitute est, manui et potestati suppositus est, manumissus liberatur
potestate. Quae res a iure gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali
omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio, cum servitus esset
incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit, secutum est beneficium
manumissionis. et cum uno naturali nomine homines appellaremut, iure gentium
tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium servi et tertium genus
liberti, id est hi qui desierant esse servi. Vedi anche D. 12.6.64 (Tryph.
7 disput.): … ut enim libertas naturali iure continetur et dominatio ex
gentium iure introducta est… Cfr.
per il richiamo a un diritto naturale che creava tutti gli uomini liberi: Nov.
74.1 pr.: ... kaˆ éjper ™pˆ tîn
™leuqšrwn ¹ mn
fÚsij ™leuqšrouj pepo…hken ¤pantaj, oƒ
pÒlemoi d
t¾n doule…an ™xeàron, oÛtw k¢ntaàqa
¹ mn
fÚsij gnhs…aj pro»gage t¦j gon£j... [a. 538]; Nov. 89.1 pr.: ... `H mn oân
fÚsij ™x ¢rcÁj, ¹n…ka t¦ perˆ
tÁj teknogon…aj ™nomoqštei tîn graptîn
oÜpw keimšnwn nÒmwn, ¤pantaj Ðmo…wj mn
™leuqšrouj Ðmo…wj d eÙgene‹j
pro»gage ... pÒlemoi d kaˆ m£cai
kaˆ ¹donaˆ kaˆ ™piqum…ai tÕ pr©gma
kat»gagon e„j ¢lloiÒteron scÁma. doule…an
mn
g¦r ™xeàre pÒlemoj, noqe…an d swfrosÚnhj
œkptwsij, Ð nÒmoj te aâqij t¦ toiaàta
tîn ¡marthm£twn „èmenoj ™leuqer…an
te to‹j douleÚousin ™mhcan»sato kaˆ poll£
ge perˆ toÚtwn ™pragmateÚsato trÒpouj
e„jhgoÚmenoj mur…ouj
[a. 539].
La definizione di ius naturale, comune a tutti gli animali,
è contenuta in: D. 1.1.1.3 (Ulp. 1 inst.); I. 1.2 pr., sul quale
da ultimo vedi P.P. Onida: Studi
sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano,
Torino 2002, 95 ss., 158 (ampia
bibliografia a 96 ss. nt. 2); Il guinzaglio e la museruola:
animali, umani e non, alle origini di un obbligo, in Archivio giuridico
«F. Serafini» 224, 2004, 592 ss.
[16] Vedi anche D. 1.5.5 pr.
(Marcian. 1 inst.): Et servorum quidem una est condicio: liberorum
autem hominum quidam ingenui sunt, quidam libertini.
[17] La massima è
riportata nel frammento D. 35.1.59 (Ulp. 13 ad leg. Iul. et Pap.): Intercidit
legatum, si ea persona decesserit, cui legatum est sub condicione. 1. Quid ergo, si non decesserit, sed in
civitate esse desierit? puta alicui legatum ‘si consul fuerit’ et
is in insulam deportatus est: numquid non interim exstinguitur legatum, quia
restitui in civitate potest? Quod probabilius esse arbitror. 2. Non idem erit dicendum, si ea poena in eum
statuta fuerit, quae irrogat servitutem, quia servitus morti adsimulatur.
Vedi anche D. 50.17.209 (Ulp. 4 ad leg. Iul. et Pap.): Servitutem mortalitati fere
comparamus.
[19] C. 2.11.10: (Imp.
Antininus A. Severo) Iniuriarum ex persona quoque servi damnatus infamia
notatur.
[20] Vedi ancora, ad esempio: D.
47.10.1.3 (Ulp. 56 ad ed.): Item aut per semet ipsum alicui fit iniuria
aut per alias personas. per semet, cum directo ipsi cui patri familias vel
matri familias fit iniuria: per alias, cum per consequentias fit, cum fit
liberis meis vel servis meis vel uxori nuruive: spectat enim ad nos iniuria,
quae in his fit, qui vel potestati nostrae vel affectui subiecti sint; D.
47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis tam feminam quam masculum, sive
ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur.
sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet.
[21] Così G. Rizzelli, Lo schiavo romano,
cit., 228, il quale richiama D.
16.3.27 (Paul. 7 resp.): Lucius Titius cum haberet filiam in
potestate Seiam, Pamphilo servo alieno in matrimonium collocavit, cui etiam
dotem dedit, quam sub titulo depositi in cautionem contulit, et postea nulla
denuntiatione a domino facta pater decessit, mox et Pamphilus servus: quaero,
qua actione Seia pecuniam petere possit, cum ipsa patri heres extiterit. Paulus
respondit, quoniam dos constituit non potuit, ex causa depositi actione de
peculio pecuniam repetendam. In materia rimando a E. Pólay, Il matrimonio degli schiavi nella Roma repubblicana, in Studi in onore di G. Grosso, III, Torino
1970, 77 ss. (rimando alla nt. 1
per la bibliografia relativa alle epoche successive), il quale sostiene che per
il periodo antico dovevano essere rari i rapporti paragonabili al matrimonio
tra liberi e servi, poiché disapprovati moralmente dalla comunità
patriarcale. Nel periodo preclassico tali convivenze, con il declino dell’antica
morale, cominciarono ad aumentare, soprattutto tra liberi e serve testimoniate,
ad es., da CIL IX.2682 e 2686. Va osservato, tuttavia, che le fonti giuridiche
sono esplicite nel negare la validità di un’unione tra liberi e
servi: vedi, ad esempio, Paul. Sent. 2.19.6: Inter servos et liberos matrimonium contrahi
non potest, contubernium potest; Tit.
Ulp. 5.5: Cum servis nullum est conubium.
Diverse sono le
costituzioni imperiali che ribadiscono il divieto, testimoniando quindi una
diffusione del fenomeno nella prassi, vedi ad esempio: C. 7.16.3 del 225 e CTh.
4.12.3, di data incerta, ma attribuibile o al 320 o al 326 (cfr. Codex
Theodosianus, II. Leges novellae ad
Theodosianum pertinentes, ed. Th. Mommsen–P.M.
Meyer, Berlin 1905 [rist., Hildesheim 2000], ad h. l.).
[22] Vedi ad es. D. 12.6.64
(Tryph. 7 disput.): Si quod dominus servo debuit, manumisso
solvit, quamvis existimans ei aliqua teneri actione, tamen repetere non
poterit, quia naturale adgnovit debitum: ut enim libertas naturali iure
continetur et dominatio ex gentium iure introducta est, ita debiti vel non
debiti ratio in condictione naturaliter intellegenda est. Sul tema rimando
in particolare ad A. Mantello, ‘Beneficium’
servile – ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss.
– D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.). I, Milano 1979.
[23] Cfr.: Liv. 1.9.2-4: Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit, qui
societatem conubiumque novo populo peterent: 3. urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii
iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; 4. satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam
virtutem; proinde ne gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus
miscere; de vir. ill. 2.1: Romulus asylum convenis patefecit et magno
exercitu facto, cum videret coniugia deesse, per legatos a finitimis
civitatibus petiit. Vedi anche l’intervento del popolo per
l’acquisto e la conseguente liberazione di 13 eroici servi che difesero
il tempio di Vesta da un grave incendio: Liv. 26.27.4: Aedes Vestae vix defensa est tredecim maxime
servorum opera, qui in publicum redempti ac manu missi sunt.
Interessante quanto disponeva il decreto per scoprire i colpevoli riportato in
Liv. 26.27.6: Itaque consul ex
auctoritate senatus pro contione edixit qui quorum opera id conflatum
<esset> incendium profiteretur, praemium fore libero pecuniam, servo
libertatem.
[24] In questo senso, ad es.: G. Sciascia, v. Capacità
giuridica. Diritto romano, in Novissimo Digesto Italiano, II, Torino
1958, 870, secondo il quale
l’espressione «in senso traslato, molto vale ad indicare
l’individuo indipendentemente dalla sua capacità, come prova il
fatto che Gaio, nel primo libro delle sue istituzioni, [...] annovera tra le personae
anche gli schiavi, riguardati come oggetto di diritto»; R. Orestano, Il «problema
delle persone giuridiche» in diritto romano. I, Torino 1968, 8 s., per cui Gai. 1.9 rappresenta un
esempio dell’uso del termine persona «come equivalente di
“uomo” in quanto tale, indipendentemente, in quest’uso, da
ogni implicazione di portata giuridica»; B. Albanese, v. Persona (storia) a) Diritto romano, in
Enciclopedia del diritto, XXXIII, Milano 1983, 169, secondo il quale i giuristi
classici utilizzarono il vocabolo in senso tecnico con il significato di essere
umano; così Gaio, nel nostro testo, ed Ermogeniano in D. 1.5.2 (Hermog.
1 iur. epit.): Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit,
primo de personarum statu ac post de ceteris …; R. Quadrato, La persona in Gaio. Il problema delle
schiavo, in Iura 37, 1986, 2 ss. (bibl. ivi), per cui Gaio nel
riconoscere anche i servi come uomini, preferisce utilizzare il termine persona,
piuttosto che homo, in quanto quest’ultimo termine stava
acquistando nel linguaggio giurisprudenziale il significato, «quasi
tecnico, di servo». Persona non è sinonimico di homo,
ma ha una accezione generica che indica l’essere umano a prescindere dal
suo status; nello stesso senso G. Melillo, Personae e status in Roma
antica. Saggi, Napoli 2006, 6.
[25] Cfr. anche: D. 47.8.2.5
(Ulp. 56 ad ed.): Neque additur, quales homines: qualescumque
sive liberos sive servos; D. 49.15.19.10 (Paul. 16 ad Sab.): Postliminium
hominibus est, cuiuscumque sexus condicionisve sint: nec interest, liberi an
servi sint. nec enim soli postliminio recipiuntur, qui pugnare possunt, sed
omnes homines, quia eius naturae sunt, ut usui esse vel consilio vel aliis
modis possint. Vedi in materia R.
Quadrato, La persona in Gaio,
cit., 1 s. (bibl. ivi), il quale
sottolinea che Gaio procede ad un’innovazione nella sistematica aprendo
il suo lavoro con il ius personarum, mentre anteriormente questo posto
di preminenza era occupato dal tema della hereditas.
[26] Vedi, ad es., A. Gonzalès, Pline le Jeune.
Esclaves et affranchis à Rome, Paris 2003, 117, il quale parla di “dualité
conceptuelle”. Secondo S. Cotta, v.
Soggetto di diritto, in Enciclopedia del diritto, XLII, Milano
1990, 1215, nella summa divisio
personarum gaiana il servo viene conosciuto come persona: «In quanto
assoggettata (e qui non importa in quale misura), quella persona reale,
significante in sé, che è lo schiavo, viene qualificata
giuridicamente come soggetto passivo, ossia (almeno in parte) oggetto. È
un prodotto del diritto e non un suo punto di riferimento indisponibile per le
incancellabili qualità reali che pertengono alla sua sostanza».
Lo stesso Paolo enuncia un’evidenza lapalissiana: D. 18.1.5 (Paul.
5 ad Sab.): quia difficile dinosci potest liber homo a servo.
[27] Gai. 2.13-14: Corporales
hae sunt, quae tangi possunt, velut fundus, homo, vestis, aurum, argentum et
denique aliae res innumerabiles. 14. Nec ad rem pertinet, quod in
hereditate res corporales continentur, et fructus, qui ex fundo percipiuntur,
corporales sunt, et id, quod ex aliqua obligatione nobis debetur, plerumque
corporale est, veluti fundus, homo, pecunia: nam ipsum ius successionis et
ipsum ius utendi fruendi et ipsum ius obligationis incorporale est.
[28] Vedi ad esempio: D. 13.5.23
(Iul. 11 dig.): Promissor hominis homine mortuo, cum per eum staret quo minus
traderetur, etsi hominem daturum se constituerit, de constituta pecunia
tenebitur, ut pretium eius solvat; 17.1.47.1 (Pomp. 3 Plaut.): Si is, qui pro te hominem dare fideiussit,
alienum hominem stipulatori dederit, nec ipse liberatur nec te liberat et ideo
mandati actionem tecum non habet. sed si stipulator eum hominem usuceperit,
dicendum esse Iulianus ait liberationem contingere: eo ergo casu mandati actio
post usucapionem demum tecum erit; 40.7.42
(Lab. 3 pith.):
Si quis eundem hominem uxori suae legaverit et, cum ea nupsisset, liberum esse
iusserit et ea ex lege nupserit, liber fiet is homo; 44.1.14 (Alf. 2 dig.):
Filius familias peculiarem servum
vendidit, pretium stipulatus est: is homo redhibitus et postea mortuus est. et
pater eius pecuniam ab emptore petebat, quam filius stipulatus erat. placuit
aequum esse in factum exceptionem eum obicere: ‘quod pecunia ob hominem
illum expromissa est, qui redhibitus est’; 47.2.65(64) (Nerat. 1 memb.):
A Titio herede homo Seio legatus ante aditam hereditatem Titio furtum fecit ...;
50.16.207 (Afric. 3 quaest.):
‘Mercis’ appellatione homines non contineri Mela ait: et ob eam rem
mangones non mercatores, sed venaliciarios appellari ait, et recte. L’uso del vocabolo
come equivalente a servus è presente in altre formule solenni
tutte riportate da Gaio, vedi, ad esempio, nella mancipatio: 1.119: ‘Hunc
ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio isque mihi emptus esto hoc aere
aeneaque libra’; nella in iure cessio e nella rivendicazione:
2.24: ‘Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio’;
4.16: Si in rem agebatur, mobilia quidem et moventia, quae modo in ius
adferri adducive possent, in iure vindicabantur ad hunc modum: qui vindicabat,
festucam tenebat; deinde ipsam rem adprehendebat, velut hominem, et ita
dicebat: ‘Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio secundum suam
causam; sicut dixi, ecce tibi, vindictam inposui’, et simul homini
festucam inponebat. Cum uterque vindicasset, praetor dicebat: ‘Mittite
ambo hominem’, illi mittebant.
[29] XII tab. 8.3: manu fustive si
os fregit libero, CCC, (si) servo, CL poenam subit sestertiorum (FIRA
I, 53). La distinzione tra liberi e
servi si rinviene nella stessa tavola in materia di furto manifesto: XII tab. 8.14: Ex ceteris – manifestis furibus liberos verberari addicique
iusserunt (Xviri) ei, cui furtum factum esset, si modo id luci fecissent neque
se telo defendissent; servos – verberibus affici et e saxo praecipitari;
sed pueros impuberes praetoris arbitratu verberari voluerunt noxiamque ab his
factam sarciri (FIRA I, 59).
Dubita dell’autenticità della previsione decemvirale dell’iniuria contro il servo F. De Martino, Intorno
all’origine della schiavitù a Roma, in Labeo 20,
1974, 178 (ora in Id., Diritto economia e
società nel mondo romano. III. Economia e società, [Antiqua 74], Napoli 1997, 42).
[30] Vedi in particolare F. Serrao, Diritto privato economia
e società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle
origini dell’economia schiavistica, Napoli 2006, 206 s.
[31] Per l’analisi del
frammento vedi soprattutto: F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo
a.C., Torino 1995, 109 ss.; Id., Sua cuique civitati religio.
Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 209 ss.; J. Scheid, Les incertitudes de la voti sponsio. Observations
en marge du ver sacrum de 217 av. J.C., in Mélanges
de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la
mémoire de A. Magdelain, a cura di M. Humbert-Y. Thomas, Paris 1998, 421; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano,
cit., 356 ss. Cfr.
anche J. Heurgon, Trois études sur le «Ver
Sacrum» (III. Le «ver sacrum» romain de 217), Bruxelles
1957, 36 ss.; J.M. Caro Roldán, Una
aproximación a la naturaleza del uer sacrum, in Gerión 18,
2000, 159 ss., spec. 168-170.
[32] Vedi in tal senso, ad
esempio: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, tr.
it. di G. Nocera, Firenze 1968, 58;
G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 474. Cfr. anche G.B. Pighi, La religione romana,
Torino 1967, 70, che definisce il
voto come «un mero contratto». Per l’impianto giuridico di
questo voto rimando inoltre a F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 111.
[33] Fest., de verb. sign.,
v. Mamertini, p. 150 L.:
Mamertini appel<lati sunt ha>c de causa, cum + de toto Samnio gravis
incidisset pestilentia, Sthennius Mettius eius gentis princeps, convocata
civium suorum contione, exposuit se vidisse in quiete praecipientem Apollinem,
ut si vellent eo malo liberari, ver sacrum voverent, id est, quaecumque vere
proximo nata essent, immolaturos sibi; quo facto levatis post annum vicensimum
deinde eiusdem generis incessit pestilentia. Cfr. Paul., Fest. ep., v. Ver sacrum, p. 519 s. L.: Ver sacrum vovendi mos
fuit Italis. Magnis enim periculis adducti vovebant, quaecumque proximo vere
nata essent apud se, animalia immolaturos. Sed cum crudele videretur pueros et
puellas innocentes interficere, perductos in adultam aetatem velabant atque ita
extra fines suos exigebant.
[34] Vedi specialmente F. Sini, Religione e poteri del
Popolo in Roma repubblicana, in Diritto@Storia
6, 2007 (http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm
).
[35] A. De Marchi, Il Culto Privato di Roma antica. Vol. I.
La religione nella vita domestica. Iscrizioni e offerte votive, Milano
1896 [rist., Forlì 2003],
166 e G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 607, collegano questo passo
al silentium richiesto nella presa degli auspici (Fest., de verb.
sign., v. <Silentio
surgere>, p. 474 L.: <Silentio surgere> ---t dici, ubi
qui post mediam <noctem> --- ---tandi causa ex lectulo suo si <lens
surr>exit et liberatus a lecto, in solido --- <se>detque, ne quid eo
tempore deiciat, <cavens, donec s>e in lectum reposuit: hoc enim est
<proprie sil>entium, omnis vitii in auspiciis vacuitas. Veranius ait, non
utique ex lecto, sed ex cubili, ne<c> rursus se in lectum reponere
necesse esse). Vedi anche Fest., de verb. sign., v. Sinistrum, p. 476 L.: Sinistrum
in auspicando significare ait Ateius Capito laetum et prosperum auspicium;
a[u]t silentium, [d]ubi dumtaxat vacat vitio. In materia rimando a F. Vallocchia, ‘Silentium’ nei documenti sacerdotali. Le interpretazioni
di Veranio e di Ateio Capitone, in Diritto@Storia
6, 2007 (http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Vallocchia-Silentium-documenti-sacerdotali-Veranio-Capitone.htm
); Id., Collegi sacerdotali ed
assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, 207 ss.
[36]
Cic., de leg. 2.29: Cum est feriarum
festorumque dierum ratio in liberis requietem litium habet et iurgiorum, in
servis operum et laborum.
[37] Liv. 8.15.7-8:
Eo anno Minucia Vestalis suspecta primo propter mundiorem iusto cultum,
insimulata deinde apud pontifices ab indice servo, 8. cum decreto eorum
iussa esset sacris abstinere familiamque in potestate habere, facto iudicio
viva sub terram ad portam Collinam extra viam stratam defossa Scelerato campo;
credo ab incesto id ei loco nomen factum. Cfr. Oros. 5.15.22: L. Veturius eques Romanus Aemiliam virginem
Vestalem furtivo stupro polluit. Duas praeterea virgines Vestales eadem Aemilia
ad participationem incesti sollicitatas contubernalibus sui corruptoris
exposuit ac tradidit. Indicio per servum facto supplicium de omnibus sumptus
est; cfr. anche: Dion. Hal. 9.40.3, per il caso della vestale Urbinia,
colpevole di aver perso la propria verginità; Plut., quaest. Rom. 83, che ricorda la condanna di ben
tre vestali: Emilia, Licinia e Marcia.
[38] Qui il termine familia,
viene utilizzato con il significato di “complesso di servi”: vedi Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, II
D-G, Berolini 1933, coll. 796 ss.,
spec. 799 s., rinvio, in tal senso, a F.
Serrao, Appunti sulle actiones familiae nominae, in La
responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva
storico-comparatistica. I Congresso Internazionale ARISTEC. Madrid, 7-10
ottobre 1993, a cura di L. Vacca, Torino 1995, 58 ss. (= Scritti in
onore di E. Fazzalari, I, Milano 1993,
173 ss.), dove si analizzano gli interventi del pretore che attribuisce
questo contenuto al vocabolo nelle azioni familiae nomine.
[39] Vedi L. Franchini, Aspetti giuridici del
pontificato romano, cit., 250
nt. 496. Tra le fonti vedi per es. Oros. 4.5.9, dove dall’uccisione dei servi
conniventi all’incestum di una
vestale si può supporre il dovere da parte di questi ultimi alla
denuncia: Caparronia virgo Vestalis
incesti rea suspendio periit: corruptor eius consciique servi supplicio adfecti
sunt.
[40] Testimonia il ridotto numero
di servi nell’ambito delle famiglie per i tempi antichi Plin., nat.
hist. 33.26.5: Denique vel plurima opum scelera anulis fiunt. Quae fuit
illa vita priscorum, qualis innocentia, in qua nihil signabatur! Nunc cibi
quoque ac potus anulo vindicantur a rapina. Hoc profecere mancipiorum legiones,
in domo turba externa ac iam servorum quoque causa nomenclator adhibendus.
Aliter apud antiquos singuli Marcipores Luciporesve dominorum gentiles omnem
victum in promiscuo habebant, nec ulla domi a domesticis custodia opus erat,
per un commento al passo vedi E.
Pólay, Il matrimonio degli
schiavi nella Roma repubblicana, cit.,
80.
[41] Vedi, in tal senso, R. Günther,
Wirtschaftliche und soziale Differenzierung im ältesten Rom,
in Wissenschaftliche Zeitschrift der Karl-Marx-Universität
Leipzig 7, 1957-1958, Gesellschafts-
und sprachwissenschaftliche Reihe 5, 593 ss., secondo il quale ad
un’antica servitù di carattere “domestico” si sarebbe
introdotta a Roma una Fremdsklaverei nel
VI sec. a.C., in seguito alle conquiste belliche dei Romani. Tuttavia, come ha
sottolineato il SERRAO, Diritto privato economia e società nella
storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini
dell’economia schiavistica, cit., 205, si rinviene nelle fonti
l’attestazione della presenza di servi stranieri fin
dall’età etrusca. Il carattere domestico della condizione servile
sarebbe stato «connaturato alla limitata estensione del fenomeno»
(206 ss.). Questa caratteristica della servitù romana sarebbe nuovamente
emersa nel secolo successivo al periodo etrusco in seguito alla contrazione del
numero dei servi. Vedi anche altri autori che hanno sottolineato per il periodo
antico l’assenza di profonde differenze tra liberi e servi, ad es.: R. Paribeni, La famiglia romana, Roma 1929, 67; C. Russo
Ruggeri, La datio in adoptionem. I. Origine, regime giuridico e
riflessi politico-sociali in età repubblicana ed imperiale, Milano
1990, 62, 65 s.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto
romano, Milano 1990, 78; L. Amirante, Sulla schiavitù
nella Roma antica, in Labeo 27, 1981, 26 ss.; F. Serrao, ivi, 165, 207. Una dura critica
all’originale carattere familiare e domestico della servitù
è quella di F. De Martino,
Intorno all’origine della schiavitù a Roma, cit., 163 ss. (= Id., Diritto economia e società nel mondo romano, cit., 27 ss.), per il quale il fenomeno della
servitù si diffuse soltanto nel corso del IV sec. a.C.
[42] Paul., Fest. ep., v. Famuli, p. 77 L.: Famuli origo ab Oscis dependit,
apud quos servus famel nominabatur, unde et familia vocata. Cfr. anche: Sen., ep. ad Lucil.
47.14: … Dominum patrem familiae
appellaverunt, servos, quod etiam in mimis adhuc durat, familiares …; Isid., orig. 9.4.43: Famuli sunt ex
propria servorum familia orti. Vedi per l’età classica: D.
47.8.2.14 (Ulp. 56 ad ed.): Haec actio etiam familiae nomine competit,
non imposita necessitate ostendendi, qui sunt ex familia homines qui rapuerunt
vel etiam damnum dederunt. familiae autem appellatio servos continet, hoc est
eos, qui in ministerio sunt, etiamsi liberi esse proponantur vel alieni bona
fide nobis servientes; in riferimento all’interdetto de vi et de vi armata: D. 43.16.1.16
(Ulp. 69 ad ed.): Familiae autem appellatio servos continet
… Cfr. in senso opposto una costituzione giustinianea del 532
contenuta in C. 6.38.5 pr. e 3: (Imp.
Iustinianus A. Iohanni pp.) Suggestioni
Illyricianae advocationis respondentes decernimus familiae nomen talem habere
vigorem: parentes et liberos omnesque propinquos et substantiam, libertos etiam
et patronos nec non servos per hanc appellationem significari. 3. In aliis autem casibus nomen familiae pro
substantia oportet intellegi, quia et servi et aliae res in patrimonio
uniuscuiusque esse putantur.
[43] Per l’etimologia dei
due termini vedi: É. Benveniste, Il
vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Vol. I. Economia, parentela,
società [ed. orig. Paris 1969], tr. it. di M. Liborio, Torino
2001, 274 ss.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine. Histoire des mots,
3a ed., Paris 1979, v. famulus,
215; v. servus, 620
s.
[44]
Vedi: D. 1.5.4.2 (Flor. 9 inst.): Servi ex eo appellati sunt, quod
imperatores captivos vendere ac per hoc servare nec occidere solent; D.
50.16.239.1 (Pomp. lib. sing. ench.):
‘Servorum’ appellatio ex eo
fluxit, quod imperatores nostri captivos vendere ac per hoc servare nec
occidere solent; Isid., orig. 5.32: Servitus a servando vocata.
Apud antiquos enim qui in bello a morte servabantur, servi vocabantur;
9.4.43: Servi autem vocabulum inde traxerunt, quod id, qui iure belli
possint occidi a victoribus, cum servabantur, servi fiebant, a servando
scilicet servi appellati; diff. 525: Servi sunt in bello capti, quasi servati;
sicut mancipium ab hostibus, quasi manu captum. Famuli autem ex propriis
familiis orti.
[45] In materia vedi da ultimo G. Rizzelli, Lo schiavo romano,
cit., 242 ss. Per il personaggio
rimando a F. d’Ippolito, Ideologia e diritto in Gaio Cassio Longino,
Napoli 1969, il quale dedica all’oratio cassiana riportata da
Tacito il capitolo terzo (41-58).
[46] Cat., de agr. cult. 132:
Cum pollucere oportebit, sic facies: ‘Iupiter dapalis, quod tibi fieri
oportet in domo familia mea culignam vini dapi, eius rei ergo macte hac illace
dape pollucenda esto’; 134: Priusquam messim facies, porcam
praecidaneam hoc modo fieri oportet: Cereri porca praecidanea porco femina,
priusquam hasce fruges condant: far, triticum, hordeum, fabam, semen rapicium.
Thure, vino Iano, Iovi, Iunoni praefato, priusquam porcum feminam immolabis;
Iano struem ommoveto sic: “Iane pater, te hac strue ommovenda bonas
preces precor uti sies volens propitius mihi liberisque meis, domo familiaeque
meae”. Fertum Iovi ommoveto et mactato sic: “Iupiter, te hoc ferto
obmovendo bonas preces precor uti sis volens propitius mihi liberisque meis,
domo familiaeque meae mactus hoc ferto”. Postea Iano vinum dato sic:
“Iane pater, uti te strue ommovenda bonas preces bene precatus sum,
eiusdem rei ergo macte vino inferio esto”. Postea Iovi sic:
“Iuppiter, macteisto ferto esto, macte vino inferio esto” ...;
139: Iane pater, te hac strue ommovenda bonas preces precor uti sies volens
propitius mihi liberisque meis, domo familiaeque meae; 141.2-3: Ianum
Iovemque vino praefamino, sic dicito: ‘Mars pater, te precor quaesoque,
uti sies volens propitius mihi domo familiaeque nostrae: quoius rei ergo, agrum
terram fundumque meum suovitaurilia circumagi iussi; uti tu morbos visos
invisosque, viduertatem vastitudinemque, calamitates intemperiasque prohibessis
defendas averruncesque; utique tu fruges, frumenta, vineta virgultaque grandire
beneque evenire siris; 3. pastores pecuaque salva servassis duisque
bonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae.
[47] I due termini si trovano
accostati, ad es., anche in: Corn. Nep., de
vir. Ill. 6.3: Petit autem ab Eumene
absente, ne pateretur Philippi domus ac familiae inimicissimos stirpem quoque
interimere …; Cic., pro M.
Cael. 42: … parcat iuventus
pudicitiae suae, ne spoliet alienam, ne effundat patrimonium, ne faenore
trucidetur, ne incurrat in alterius domum atque familiam …; pseud.
Sallust., ep. II ad Caes. de re pub. 13.2:
Quae multis laboribus et periculis
ceperamus ea tibi nascenti cum anima simul tradidimus patriam maxumam in terris
domum familiamque in patria clarissimam praeterea bonas artis honestas divitias
postremo omnia honestamenta pacis et praemia belli; Curt. Ruf., hist. Alex. Magn. 10.7.15: In eadem domo familiaque imperii vires
remansuras esse gaudebant: hereditarium imperium stirpem regiam vindicaturam
…; Sen., de ben. 3.33.4: Licet tibi, in quantum velis, extendere
beneficia filii, cum paternum munus et simplex sit et facile et danti
voluptarium, quod necesse est ille multis dederit, etiam quibus dedisse se
nescit, in quo consortem habet, in quo spectavit legem, patriam, praemia
patrum, domus ac familiae perpetuitatem, omnia potius quam eum, quoi dabat;
de tranq. an. 11.2: … si aliud placet, ego vero factum
signatumque argentum, domum familiamque meam reddo, restituo; Petr., sat. 64.7: Quo admonitus officio Trimalchio Scylacem iussit adduci
‘praesidium domus familiaeque’; pseud. Quint., declam. XIX minor. 10.7: At quae supplicia sustinuit infelix illa
statim nocte! iam totam domum ac familiam quies prima sopiverat, et tacentibus
tenebris venerat tempus dulcissimum matri; Gell., noct. Att. 1.21.2: … ex
domo atque familia Vergilii …. Cfr. inoltre D. 37.11.11.2 (Pap. 13 quaest.): … in familiam et domum alienam …
Per i vari significati di domus:
Io.B. Hofmann, v. domus,
in Thesaurus Linguae Latinae, V.1,
Lipsiae 1930, coll. 1949 ss.; secondo l’A., nella formula catoniana domus sarebbe «syn. vel coniunct. familia» (col. 1981); A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique, cit., v. domus, -ī e domus, -ūs, 182 s., in cui si afferma che il termine
«désigne la maison en tant que le symbole de la famille»
(182). Da un
passo di Synon., Cic. Char. Gramm. p.
422, 17 B.: domus: sedes, penates, aedes, sacra, arae, penetralia, foci,
lares, di penates, di patrii, tectum, limen, parietes domestici, gens, genus,
locus, familia, origo, stirps, cunae, cunabula, soboles, proles, progienies,
propago, appare come per domus non si intendesse esclusivamente
l’edificio, ma ciò che esso conteneva, compresa la famiglia,
l’origine gentilizia e i vari culti, ecc.; vedi anche Isid., orig.
9.4.3: Domus unius familiae habitaculum est, sicut urbs unius populi, sicut
orbis domicilium totius generis humani. Est
autem domus genus, familia, sive coniunctio viri et uxori. Incipit autem a
duobus, et est nomen Graecum. Cfr. D. 50.16.195.2 (Ulp. 46 ad ed.): Pater autem familias appellatur,
qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non
habeat, dove il concetto di domus è legato al dominium.
Per il novero dei servi nella familia rimando ad A. Burdese, v. Capacità a)
Diritto romano, in Enciclopedia del diritto, VI, Milano 1960, 3.
[48] Un atteggiamento di tipo
“paternalistico” del dominus
verso i propri servi si rinviene anche nell’uso di puer attestato da Paolo: D. 50.16.204 (Paul. 2 epit. Alf.): ‘Pueri’
appellatio tres significationes habet: unam, cum omnes servos pueros
appellaremus: alteram, cum puerum contrario nomine puellae diceremus: tertiam,
cum aetatem puerilem demonstraremus.
[49] Il passo si inserisce nello
specifico capitolo XIX delle noctes Atticae dedicato a Quid sit adoptatio, quid item sit adrogatio,
quantumque haec inter se differant; verbaque eius quae qualiaque sint, qui in
liberis adrogandis super ea re populum rogat. Il giurista inserisce questa
osservazione nella sua trattazione relativa all’adrogatio dei
liberti presente nei paragrafi precedenti (5.19.11-12): Libertinos vero ab
ingenuis adoptari quidem iure posse Masurius Sabinus scripsit. 12. Sed
id neque permitti dicit neque permittendum esse umquam putat, ut homines
libertini ordinis per adoptiones in iura ingenuorum invadant. Sottolinea
questo dato, e evidenzia che in Sabino adrogatio liberti e adoptio
servi fossero due istituti distinti A.
Calonge, Problemas de la adopción de un esclavo, in Revue
internationale des droits de l’antiquité 14, 1967, 248. In Plauto si rinvengono diversi
riferimenti all’adozione del servo, cfr.: Men. 57-62: Epidamniensis ille, quem dudum dixeram, / Geminum
illum puerum qui surrupuit alterum, / Ei liberorum, nisi divitiae, nil erat. /
Adoptat illum puerum surrupticium / Sibi filium eique uxorem dotatam dedit /
Eumque heredem fecit, quom ipse obiit diem; Poen. 72-77: Ille qui surripuit puerum, Calydonem avehit: /
Vendit eum domino hic diviti quoidam seni, / cupienti liberorum, osori
mulierum. / Emit hospitalem is filium inprudens senex / Puerum illum eumque
adoptat sibi pro filio / eumque heredem fecit, quom ipse obiit diem; 119
s.: Ille qui adoptavit hunc pro filio sibi / Is illi Poeno, huius patri,
hospes fuit; 901-904: Nimium lepidum memoras facinus: nam erus meus
Agorastocles / Ibidem gnatust, inde surruptus fere sexennis: postibi / Qui eum
surrupuit huc devexit meoque ero eum hic vendidit: / Is in divitias homo
adoptavit hunc, quom diem obiit suom; 1045: Siquidem Antidama[t]i
quaeris adoptaticium, Ego sum ipsus, quem tu quaeris; 1058 s.: Surruptus
sum illinc, hic me Antidama[s] hospes tuos / Emit et is me sibi adoptavit
filium. Questi testi sono stati addotti da alcuni autori a riprova
dell’esistenza dell’istituto a Roma. Vedi, in part., C. Russo Ruggeri, La datio in adoptionem,
cit., 59 ss. (con riferimenti
bibliografici a nt. 96); mentre U.E.
Paoli, L’«adoptio» nelle commedie di Plauto, in
Miscellanea di studi alessandrini in memoria di A. Rostagni, Torino
1963, 548 ss. (= Id., Altri studi di diritto greco e
romano, Milano 1976, 175 ss.),
ritiene che in materia le commedie plautine facessero riferimento al diritto
attico.
[50] Vedi: O. Lenel, Palingenesia
Iuris Civilis, II, Lipsiae 1889 [rist. a cura di L. Capogrossi Colognesi,
Roma 2000], coll. 215 s.; F.P. Bremer, Iurisprudentiae
Antehadrianae quae supersunt, II.1, Lipsiae
1898 [rist. an., Roma 1964], 484,
fr. 60; Ph.E. Huschke-E. Seckel-B.
Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquias, 6a ed., I, Lipsiae 1908 [rist. an., Leipzig
1988], 79, fr. 27.
[51] Vedono l’adozione del
servo altrui effettuata attraverso una vindicatio, ad es., E. Volterra, v. Adozione (Diritto
romano), in Novissimo Digesto Italiano, II, Torino 1957, 287; G. Impallomeni, Le manomissioni mortis causa. Studi sulle
fonti autoritative romane, Padova 1963, 22; F.
Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di
Roma, cit., 165.
[52] Vedi F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
II.2, Lipsiae 1901 [ed. an., Roma 1967],
509 s., fr. 19.
[53] La parola veteres fu interpretata diversamente
dalla dottrina, che spesso, pur con diverse sfumature, riferiva il termine ai
giuristi dell’età repubblica, vedi ad es.: S. Solazzi, Glosse a
Gaio, in Studi in onore di S.
Riccobono nel XL anno del suo insegnamento, I, Palermo 1936, 168 ss. (ora in Id., Scritti di diritto
romano. VI. (Ultimi scritti – Glosse a Gaio - «Notae»),
Napoli 1972, 248 ss.); M. Kaser, Zur juristischen Terminologie der Römer, in Studi in onore di B. Biondi, I, Milano
1965, 97. Si deve ricordare in particolare
la teoria propugnata da O. Behrends,
(vedi ad esempio: Les
«veteres» et la nouvelle jurisprudence à la fin de la
République, in Revue historique de droit français et
étranger 55, 1977, 7
ss.; Giurisprudenza e giuristi. Le due
giurisprudenze romane e le forme delle loro argomentazioni, in Index. Quaderni camerti di studi romanistici
12, 1983-84, 189 ss.), il quale
ha affermato la presenza di due tendenze scientifiche contrapposte della
giurisprudenza romana. La prima avrebbe predominato nel II sec. a.C., periodo
in cui la giurisprudenza divenne scienza letteraria, espressione della nobilitas repubblicana, ispirati dalla
filosofia stoica, la cui fine culminò nell’82 a.C., con la morte
di Q. Mucio Scevola. La seconda tendenza si affermò soppiantando la
precedente nel I sec. a.C., questa nuova giurisprudenza rigettò le
posizioni dei veteres, apportando
delle innovazioni d’impronta liberale. Vi è tuttavia chi ha
sostenuto che il termine non era usato in modo univoco. Vedi ad
esempio: P. Huvelin, Études sur le furtum dans le
très ancien droit romain. I. Les sources, Parte II, Lyon-Paris 1915
[ed. an., Roma 1968], 360 s., per
il quale la nozione di veteres
è vaga e si applica soprattutto ai giuristi repubblicani, ma alle volte
anche a quelli dell’impero «On n’est ancien que par rapport
à quelqu’un» (361); F. Guizzi,
Aspetti giuridici del sacerdozio romano.
Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968,
8 ss., il quale, nel sostenere la «notevole adattabilità
del termine» afferma che Giustiniano ne dilatò l’accezione
«a tal punto da comprendervi i sabiniani» (11); G. Franciosi, Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas,
Napoli 1965, 16: «In merito
al dibattuto problema circa il significato che assume questa locuzione nella
giurisprudenza, e in particolare in Gaio, ci sembra che ragioni di logica
elementare, oltre che le risultanze delle fonti, impediscano di limitare il
riferimento a questa o a quell’altra epoca». La questione dopo la
pubblicazione del fondamentale contributo di F.
Horak (Wer waren die “veteres”? Zur Terminologie der klassischen römischen Juristen, in Vestigia Iuris Romani.
Festschrift für G. Wesener zum 60. Geburtstag am 3. Juni 1992, a cura
di G. Klingenberg-J.M. Rainer-H. Stiegler, Graz 1992, 201 ss.) è da considerare risolta
(vedi in tal senso la recensione di M.
Talamanca, per l’intero volume
Vestigia Iuris Romani dedicato
a Wesener, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 96, 1993-1994, 910 ss., in cui alle 916 s., si tratta dell’articolo di
Horak, il quale sottolinea inoltre che «con questo saggio è
definitivamente demolito il fondamento terminologico della distinzione fra
“alte” e “neue” Jurisprudenz», propugnata dal
Behrends). Secondo lo studioso nel periodo tardo-classico il termine veteres venne esteso anche alla
giurisprudenza del I sec. d.C., e comunque l’uso della parola era pur
sempre relativo all’età di riferimento. Appoggia la visione di
relatività proposta dall’Horak lo stesso Talamanca.
[54] In letteratura ci si
è posti il problema se l’istituto avesse gli scopi propri
dell’adozione, oppure fosse utilizzato, ai soli fini della manomissione:
vedi, con ampi riferimenti alla bibliografia precedente, A. Calonge, Problemas de la
adopción de un esclavo, cit.,
256 ss.; D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e adozione nelle norme
giustinianee, in Scritti in onore di
A. Falzea, IV, Milano 1991, 237 s.; G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni
di Giustiniano, Milano 1996, 82
ss. e nt. 103; M. Melluso, La
schiavitù nell’età giustinianea. Disciplina giuridica e
rilevanza sociale, Paris 2000,
95 s. nt. 325. Diversi autori hanno affermato l’esistenza di
questo istituto come vera adozione, ad es.: P. Bonfante, Corso di diritto romano, I. Diritto di
famiglia, Roma 1925 [rist. corretta della 1a ed. a cura di G. Bonfante e G.
Crifò, Milano 1963], 24; A. Calonge, ivi, 262; B.
Albanese, Le persone nel diritto
privato romano, Palermo 1979,
38, che sostiene la scomparsa dell’istituto nel periodo classico
avanzato; A. Mantello, ‘Beneficium’
servile – ‘debitum’ naturale, cit.,
323 s.; C. Russo Ruggeri, La datio in
adoptionem, cit., 57 ss.; D. Dalla, ivi, in part. 233, 239;
F. Serrao, Diritto privato
economia e società nella storia di Roma, cit., 165, per il quale da un punto di vista storico
questo istituto si spiegherebbe con la limitata estensione e con il carattere
domestico del fenomeno servile: «è ben comprensibile che il servus
venisse considerato nell’ambito familiare e nel relativo gruppo di
forze lavorative, su un piano molto vicino a quello dei filii».
[55] Come ha sottolineato D. Dalla, L’adoptio servi tra
manomissione e adozione, cit.,
236, con il termine antiquitas si
indicano genericamente le opere dei giuristi «da cui Giustiniano, dopo
secoli, ha appreso l’istituto».
[56] Cfr. C. 7.6.1.10: (Imp. Iustinianus A. Iohanni pp.) Similique modo si dominus inter acta quendam servum filium suum
nominaverit, voci eius quantum ad liberam condicionem credendum est. si enim
ipse tali adfectione fuerat accensus, ut etiam filium servum suum nominare non
indignetur, et hoc non secreto neque inter solos amicos, sed etiam actis
intervenientibus et quasi in iudicii figura nominaverit, quomodo potest eum
servum iterum saltem morientem habere? sed producatur et ipse in civitatem
romanam, vera liberalitate et non falso sermone domini sui sustentatus [a.
531].
[57] Così: O. Lenel, Palingenesia Iuris Civilis, I, Lipsiae 1889 [rist. a cura di L.
Capogrossi Colognesi, Roma 2000], col. 126;
F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896 [rist. an., Roma
1964], 22, fr. 4b; A. Calonge, Problemas de la
adopción de un esclavo, cit.,
247 e nt. 3; D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e adozione, cit., 236; G.
Luchetti, La legislazione imperiale, cit., 80 nt. 99; M. Melluso, La schiavitù
nell’età giustinianea, cit., 93 nt. 317. Parla genericamente di
«uno dei due Catoni» G. Impallomeni,
Le manomissioni mortis causa, cit., 25; mentre invece fa riferimento al
Catone il Censore C. Russo Ruggeri, La
datio in adoptionem, cit., 63.
[58] R. Bonini, Corso di
diritto romano. Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano. I
titoli III-X, Rimini 1984, 53,
ritiene il rimando all’antiquitas relativo
ai giuristi dell’età classica, i quali tramandarono un principio
già elaborato durante la repubblica.
[59] Per F. Serrao, Diritto privato economia e società nella
storia di Roma, cit., 165,
Gellio prospetta un istituto che funzionava sia nel caso dell’adozione da
parte del proprio dominus, sia nel caso di adozione di un servo altrui.
Vedi anche C. Russo Ruggeri, La
datio in adoptionem, cit., 58,
62, 65, la quale sostiene per l’età più antica
l’esistenza di entrambe le ipotesi; invece secondo P. Bonfante, Corso di diritto romano,
I, cit., 24, E. Volterra, v. Adozione (Diritto romano),
cit., 287, G. Impallomeni, Le manomissioni mortis
causa, cit., 22, L. Amirante, Sulla schiavitù
nella Roma antica, cit., 30;
D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e adozione, cit., 239, nelle noctes Atticae si fa
riferimento ai servi dati in adozione ad un terzo, mentre nelle Istituzioni di
Giustiniano si rimanda all’adozione da parte del proprietario.
[60] Vedi, ad es.: A. Calonge, Problemas de la
adopción de un esclavo, cit.,
249 (ampia bibliografia per l’interpretazione del passo
giustinianeo a 249 ss.); D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e adozione nelle norme
giustinianee, cit., 173 ss.);
M. Melluso, La
schiavitù nell’età giustinianea, cit., 93 ss.
[61] Interessante la tarda
testimonianza di Paolo Diacono, il quale, alla glossa Ancillae, mette in relazione il verbo anculare con il culto
divino (Fest. ep., p. 18 L.): Ancillae
dictae ab Anco Martio rege, quod in bello magnum feminarum numerum ceperit.
Sive ideo sic appellantur, quod antiqui anculare dicebant pro ministrare, ex
quo di quoque ac deae feruntur coli, quibus nomina sunt Anculi et Anculae.
Per la religione dei servi rimando in particolare a F. Bömer, Untersuchungen über die Religion der
Sklaven, cit. Vedi inoltre,
per le testimonianze della loro partecipazione ai sacra, Stellung des
Sklaven im Sakralrecht [Corpus der römischen Rechtsquellen zur
antiken Sklaverei 6], a cura di L. Schumacher, Stuttgart 2006.
[62] Vedi P. Catalano, Contributi
allo studio del diritto augurale, cit., 201 e nt. 20, il quale richiama alcune
testimonianze di Plauto: Epid. 5.183, dove il servo Epidico dice: Liquido
exeo foras auspicio, avi sinistra; Asin. 259, 374, in cui il servo
Libano afferma: Inpetritum, inauguratumst: quovis a<d>mittunt aves,
ed anche Ne hodie malo cum auspicio nomen commutaveris.
[63]
Sul tema vedi: G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 245 s.; J. Scheid, Quand faire, c’est
croire. Les rites sacrificiels des Romains, Paris 2005, 153 s.; cenni in: G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 214, 410; J. Bayet, La religion romaine, cit., 131 s.; R. Turcan, Rome et ses
dieux, Paris 1998, 64 s. Questo
voto si collega all’importanza del bue nel lavoro dei campi, tanto che
esso viene denominato socius dell’uomo
(Varr., res rust. 2.5.3; Colum., res rust. 6 praef.; Plin., nat. hist. 8.180);
per questa tematica e per una possibile “personificazione” degli
animali da tiro e da soma rimando a P.P.
Onida: Studi sulla condizione degli animali, cit., 304 ss. (bibl. ivi).
[64] Per il collegamento di
questa interdizione delle donne al culto di Silvano, vedi P.F. Dorcey, The role of Women in the Cult of Silvanus, in Numen 36, 1989, 144 s.
[65] Cat., de agr. cult.
83: Votum pro bubus, ut valeant, sic facito: Marti Silvano in silva
interdius in capita singula boum votum facito; farris L. III et lardi P. IIII
S, et pulpae P. IIII S, vini S. III: id in unum vas liceto coicere et vinum
item in unum vas liceto coicere. Eam rem divinam vel servus vel liber licebit
faciat. Ubi res divinas facta erit, statim ibidem consumito. Mulier ad eam rem
divinam ne adsit neve videat quo modo fiat. Hoc votum in annos singulos, si
voles, licebit vovere.
[66] Vedi per questo utilizzo:
Cic., pro Mur. 90: Nolite a sacris patriis Iunonis Sospitae cui omnes
consules facere necesse est domesticum et suum consulem potissimum avellere;
Varr., de ling. Lat. 7.88: ut suo quisque ritu sacrificium faciat;
Verg., eglog. 3.77: cum faciam vitula pro frugibus, ipse venito;
Liv. 25.12.10: decemviri Graeco ritu hostiis sacra faciant; Fest., de
verb. sign., v. Curia, p.
42 L.: … in sua quisque curia sacra publica faceret …; v. Salias virgines, p. 439 L.:
… sacrificium facere in Regia …; Macr., sat.
3.2.16: Meminerimus tamen sic legendum per ablativum: “cum faciam vitula
pro frugibus”, id est cum faciam rem divinam non ove, non capra, sed
vitula, tamquam dicat ‘cum vitulam pro frugibus sacrificavero’,
quod est: ‘cum vitula rem divinam fecero’. Cfr.
in particolare R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes romains:
Pontifex Maximus et Rex Sacrorum,
in Hommages à H. Le Bonniec. Res
Sacrae, ed. D. Porte-J.-P. Néraudau, Bruxelles 1988, 406.
[67]
Cat., de agr. cult. 141.1: Agrum lustrare sic oportet: impera
suovitaurilia circumagi: ‘cum divis volentibus quodque bene eveniat,
mando tibi, Mani, uti illace suovitaurilia fundum agrum terramque meam, quota
ex parte sive circumagi siue circumferenda censeas, uti cures lustrare’.
[68] Vedi: Cic., de leg. 2.27: Neque
ea, quae a maioribus prodita est quom dominis, tum famulis posita in fundi
villaeque conspectu, religio Larum, repudianda est; Colum., res rust.
11.1: Eorum vero, qui recte valebunt, non minor habenda erit ratio, ut
cibus et potio sine fraude a cellariis praebeatur, consuescatque rusticos circa
larem domini focumque familiarem semper epulari atque ipse in conspectu eorum
similiter epuletur sitque frugalitatis exemplum; nec nisi sacris diebus
accubans cenet festosque sic agat, ut fortissimum quemque et frugalissimum
largitionibus prosequatur, nonnumquam etiam mensae suae adhibeat et velit aliis
quoque honoribus dignari. Vedi anche Cat., de agr. cult.
143.2, il quale indica tra i vilicae officia: Kal., Idibus, Nonis,
festus dies cum erit, coronam in focum indat, per eosdemque dies lari familiari
pro copia supplicet. Nel paragrafo precedente Catone prescrive che rem
divinam ni faciat neve mandet, qui pro ea faciat, iniussu domini aut dominae:
scito dominum pro tota familia rem divinam facere. Qui, a parte il
principio per cui è il padrone a compiere le cerimonie per tutta la
famiglia, ricomprendendo quindi i servi all’interno della stessa, non si
rinviene per la vilica un’assoluta preclusione al compimento di
cerimonie sacre, ma solo per quelle in cui era assente il iussum del dominus
e della domina. A. De Marchi, Il
Culto Privato di Roma antica, I, cit.,
95, in relazione alla testimonianza catoniana afferma che
«l’autorità sacerdotale del padre» non precludeva il
compimento dei riti ai componenti, liberi e servi, della familia, però sostiene che «non tutti fossero
egualmente capaci a tutti gli atti». Interessante come fosse uso da parte
del servo manomesso appendere come ex voto le proprie catene ai Lari, come si
legge in Hor., sat. 1.5.65-67: Multa Cicirrus ad haec: donasset iamne
catenam / ex voto Laribus, quaerebat; scriba quod esset, / nilo deterius
dominae ius esse. Per il rapporto tra i servi e il culto dei Lari vedi F. Bömer, Untersuchungen über
die Religion der Sklaven, cit.,
32 ss.
[69] Così A. De Marchi, Il Culto Privato di
Roma antica, I, cit., 43. Secondo
G. Dumézil, La religion
romaine archaïque, cit.,
348 «la classe des esclaves, les basses classes libres ont
trouvé dans ce culte un refuge religieux et, parfois, un
élément de puissance politique».
[70] Cat., de agr. cult.
5.3: ... Rem divinam nisi Compitalibus in compito aut in foco ne faciat ...
Vedi anche la notizia di Dion. Hal. 4.14.3-4, secondo cui Servio Tullio volle
che i servi celebrassero i Compitalia; per la creazione della festa da
parte del re cfr. Plin., nat. hist. 36.204.
Collega questa istituzione, considerata come riforma parallela alla divisione
amministrativa in tribù, A.
Bouché-Leclercq, Manuel des
institutions romaines, cit., 24
s., 492 nt. 2, cfr. anche: A. Carandini, La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di
una civiltà, Torino 1997,
382-385; M. Beard-J. North-S. Price, Religions of Rome. Vol. I. A History, Cambridge 1998, 184.
[71] La partecipazione dei servi
è giustificata dal fatto che in tali riti era coinvolta tutta la
società, vedi in tal senso: G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque, cit.,
606: «les rites publics s’émiettaient en un grand
nombre d’opérations, à travers les divisions de la
société, jusqu’à la plus petite unité, la
maison»; J. Scheid, Il
sacerdote, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Roma-Bari
2006, 69, per il quale l’uso
di affidare gli atti materiali del rito ad assistenti socialmente inferiori
comportava che tutte le categorie sociali partecipassero ai sacra: «ciascuna secondo il suo
rango e le sue funzioni, e si definivano così sotto l’occhio
stesso della divinità».
[72] Vedi quanto si legge in
Varr., de ling. Lat. 6.25: Compitalia dies attributus Laribus vialibus:
ideo ubi viae competunt tum in competis sacrificatur. Sui Lares compitales, sulla loro festa e sui collegia
compitalicia vedi: A.
Bouché-Leclercq, Manuel des
institutions romaines, cit.,
498 s.; J. Marquardt, Le
culte chez les Romains, I, cit.,
244 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer,
cit., 77, 90 s., 171 s.; G. Laing, The Origin of the Cult of the Lares, in Classical Philology 16, 1921, spec. 127-129; J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la
religione, [ed. orig. The Golden Bough: A Study in
Magic and Religion, London 1922], tr. it.,
Torino 1990, 583-585; J.V.A. Fine, A Note on the Compitalia, in Classical
Philology 27, 1932, 268 ss.; L. Delatte, Recherches sur quelques fêtes mobiles du calendrier romain. VI
– Note sur les Compitalia. La suppression et la restauration des Collegia
Compitalicia, in L’Antiquité Classique 6, 1937, 111-114;
L.A. Holland, The Shrine of the
Lares Compitales, in Transactions and
Proceedings of the American Philological Association 68, 1937, 428 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV.II.I, cit., 238 ss.; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the
Republic, cit., 279 s.; D.G. Orr, Roman Domestic Religion: The Evidence of the Household Shrines, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.16.2, Berlin-New York 1978,
1563 ss.; G. Niebling, Laribus
Augusti magistri primi. Der Beginn des Compitalkultes
der Lares und des Genius Augusti, in Historia. Zeitschrift für alte Geschichte 5, 1956, 303 ss.; G. Dumézil, Quaestiunculae
Indo-Italicae. 10. Offrandes et
dénombrement au carrefour, in Latomus
20, 1961, 262-265; Id.,
La religion romaine archaïque,
cit., 348 s., 606; J.
Bayet, La religion romaine, cit., 64 s., 182 s.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica: dal calendario
festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, 23-25; R. Del Ponte, La religione
dei Romani, cit., 60 s.
[73] Paul., Fest. ep., v. Pilae et effigies, p. 273 L.: Pilae et effigies viriles et muliebres ex lana Conpitalibus
suspendebantur in conpitis, quod hunc diem festum esse deorum inferorum, quos
vocant Lares, putarent, quibus tot pilae, quot capita servorum; tot effigies,
quot essent liberi, ponebantur, ut vivis parcerent et essent his pilis et
simulacris contenti; Macr., sat. 1.7.34-35: Hic Albinus Caecina
subiecit: ‘qualem nunc permutationem sacrificii, Praetextate, memorasti,
invenio postea Compitalibus celebratam, cum ludi per urbem in compitis
agitabantur, restituti scilicet a Tarquinio Superbo Laribus ac Maniae ex
responso Apollinis, quo praeceptum est ut pro capitibus capitibus
supplicaretur. 35. Idque aliquamdiu observatum, ut pro familiarium sospitate
pueri mactarentur Maniae deae, matri Larum. Quod sacrificii genus Iunius Brutus
consul pulso Tarquinio aliter constituit celebrandum. Nam capitibus alii et
papaveris supplicari iussit ut responso Apollinis satis fieret de nomine
capitum remoto scilicet scelere infaustae sacrificationis: factumque est ut
effigies Maniae suspensae pro singulorum foribus periculum, si quod immineret
familiis, expiarent, ludosque ipsos ex viis compitorum in quibus agitabantur
Compitalia appellitaverunt. Sed perge cetera’. Sulla dea Mania
e per questo rito: A. De Marchi, Il
Culto Privato di Roma antica, I, cit.,
40; J. Marquardt, Le culte chez les romains, I, cit., 232;
G. Wissowa, Religion und Kultus
der Römer, cit., 174, 240; E.
Tabeling, Mater larum. Zum Wesen der Larenreligion,
Frankfurt am Main 1932 [rist., New York 1975], 14 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 60
s.; cenni in J. Bayet, La
religion romaine, cit.,
76, 265.
[74] Per tale massima in
sacris simulata pro veris accipiuntur vedi, ad esempio: Serv., in Verg.
Aen. 2.116; 4.512. In materia rimando ai lavori di E. Bianchi: ‘In sacris simulata pro veris
accipiuntur’ (Serv. Ad Aen. 2, 116), in Atti del III Seminario
romanistico Gardesiano, 22-25 ottobre 1985, Milano 1988, 459 ss.; Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano
dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 69 ss. Sul principio della sostituzione
vedi inoltre: A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes dans l’ancienne
Rome, cit., 98 ss.; Th. Mommsen, Storia di Roma, tr.
it. di A.G. Quattrini, I, Roma 1938,
204; G. Capdeville, Substitution
de victimes dans les sacrifices d’animaux à Rome, in Mélanges
de l’ècole
Française de Rome (Antiquité) 83, 1971, 283 ss.; U. Robbe, La «hereditas iacet» e il
significato della «hereditas» in diritto romano. I, Milano
1975, 108 ss.
[76] Sul genius vedi ad esempio: Th. Birt, v. Genius, in Ausführliches
Lexikon des griechischen und römischen Mythologie, I, cit., coll. 1613
ss.; P. Regnaud, Le sens primitif des mots latins augur et
genius, in Revue de l’histoire
des religions 14, 1886, 69-72; A. De Marchi, Il Culto Privato di
Roma antica, I, cit., 57 ss.,
155 s.; L. Cesano, v. genius,
in Dizionario epigrafico di antichità romane, III, cit., 449 ss.; C. Bailey, The religion
of ancient Rome, London 1911,
39-41, 80 s.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 175 ss.; N. Turchi, La religione
di Roma antica, Bologna 1939,
18 ss.; H. Wagenvoort, Genius
a genendo (ad Paul. (Fest.) p. 84, 3 L.), in Mnemosyne 4a ser., 4,
1951, 163 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 103 s.; H. Kunckel, Der römische Genius, Heidelberg 1974;
G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 362 ss. Attestano voti dei servi al genius
del dominus, ad es., CIL VI.258 = ILS 3642: genium Clodi Romani,
Hermes ser. fec. ipsius; XI.356: genio
domino Zoila vilic. Vedi ancora, tra le fonti letterarie, Hor., carm. 3.17.14-16: Cras Genium mero / curabis et porco bimestri / cum famulis operum
solutis; Sen., ep. ad Luc. 1.12.2:
[scil. vilicus] Iurat per genium meum se omnia facere, in nulla re
cessare curam suam … Cfr. Petr., sat. 53.3: Eodem die:
Mithridates servus in crucem actus est, quia Gai nostri genio male dixerat.
Vedi inoltre anche Plaut., Pseud. 165, dove si legge ciò che
Ballio prescrive alla servitù: Nam mi hodie natalis dies est: decet
eum omnis vos concelebrare.
[78] Sul tempio posto sull’Aventino
e il suo culto vedi, tra le opere più recenti: V.E. Vernole, Servius Tullius, Roma 2002, spec. 139 ss. (bibl. ivi); N. Donati-P. Stefanetti, Dies
natalis, cit., 95 ss.
[79]
Fest., de ver. sign., v. Servorum
dies festus, p. 460 L.: Servorum dies festus vulgo existimatur
Idus Aug., quod eo die Ser. Tullius, natus servus, aedem Dianae dedicaverit in
Aventino, cuius tutelae sint cervi; a quo celeritate fugitivos vocent cervos.
[80] Statius, Silvae 3.1.58-59:
emeritos Diana canes et spicula terget / et tutas sinit ire feras, omnisque
pudicis / Itala terra focis Hecateidas excolit idus.
[81] Fest., de verb. sign., v. Servorum dies festus, p.
460 L. (vedi supra nt. 79); Liv. 1.45.1-3: Aucta civitate magnitudine
urbis, formatis omnibus domi et ad belli et ad pacis usus, ne semper armis opes
adquirerentur, consilio augere imperium conatus est, simul et aliquod addere
urbi decus. 2. Iam tum erat inclitum Dianae Ephesiae fanum; id
communiter a civitatibus Asiae factum fama ferebat. Eum consensum deosque consociatos
laudare mire Servius inter proceres Latinorum, cum quibus publice privatimque
hospitia amicitiasque de industria iunxerat. Saepe iterando eadem
perpulit tandem, ut Romae fanum Dianae populi Latini cum populo Romano
facerent. 3. Ea erat confessio caput rerum Romam esse, de quo totiens
armis certatum fuerat; De vir. ill. 7.9: [Servius Tullius]
Latinorum populis persuasit, uti exemplo eorum, qui Dianae Ephesiae aedem
fecissent, et ipsi aedem Dianae in Aventino aedificarent; Liv. oper.
perioch. 1: Is [Servius Tullius] … templum Dianae cum Latinis in
Aventino fecit. Cfr. anche Plut., quaest.
Rom. 100, che si incentra sulla festa celebrata dai servi di entrambi i
sessi e sulla pratica delle matrone di pulirsi la testa, alle idi
d’agosto. L’autore greco si domanda se i servi sono esentati dal
lavoro perché in questo giorno Servio Tullio nacque da una serva, e se
l’uso del lavaggio delle teste fosse in principio proprio delle serve,
esteso in seguito alle donne libere.
[82] Diversi autori hanno sostenuto
la derivazione, o la duplicazione, del culto di Diana sull’Aventino da
quello di Aricia, vedi ad es.: G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer,
cit., 247; G. Vaccai, Le feste di Roma antica, 2a ed., Torino 1927, 160; A.E.
Gordon, On the Origin of Diana,
in Transactions and Proceedings of the American Philological
Association 63, 1932, 177 ss.;
A. Alföldi, Diana Nemorensis, in American Journal of Archaeology 64.2,
1960, 137 ss.; Id., Il santuario federale latino di
Diana sull’Aventino e il tempio di Ceres, in Storia e Materiali di
Storia delle Religioni 32, 1961,
21 ss., spec. 22-25; R. Schilling, Une victime des
vicissitudes politiques: la Diane latine, in Hommages à J. Bayet,
a cura di M. Renard-R. Schilling, Bruxelles-Berchem 1964, 650 ss. (ora in Id., Rites, cultes, dieux de Rome,
cit.., 371 ss.); F. Fabbrini, v. “Res divini
iuris”, cit., 522; J. Bayet, La religion romaine,
cit., 6, 39 s.; G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque, cit.,
409; M.A. Levi, Ercole
e Roma, cit., 77; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici,
cit., 181, 183. Vedi contra: G. De Sanctis, Storia dei Romani,
IV.II.I, cit., 160 s.; F. Altheim, Griechische Götter
im alten Rom, Gießen 1930,
134; A. Momigliano, Sul
dies natalis del santuario federale di Diana sull’Aventino, in Rendiconti
dell’Accademia dei Lincei, Classe di Scienze morali, storiche e
filologiche 8a ser., 17, 1962,
387 ss. (ora in Id.,
Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, II,
Roma 1966, 641 ss.).
[83] Così, ad es., G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 409.
[84] Vedi su Diana Nemorensis,
ad esempio: G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 247 ss.; F. Altheim, Griechische Götter im alten Rom,
cit., 93 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., 140 ss.; A. Alföldi, Diana Nemorensis, cit., 137 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 169
s.; F.-H. Pairault, Diana
Nemorensis, déesse latine, déesse hellénisée,
in Mélanges d’archéologie et d’histoire 81,
1969, 425 ss.; C.B. Pascal, Rex Nemorensis, in Numen
23, 1976, 23 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 409 ss.; C.M.C. Green, Roman
Religion and the Cult of Diana at Aricia, Cambridge 2007.
[86] Sulla dea e il suo tempio
vedi, ad esempio: G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 256; G.
d'Amico, Il culto della Dea Fortuna nella più antica religione
romana, in Athenaeum 1,
1913, 194 ss.; H.V. Canter, “Fortuna” in Latin Poetry, in Studies in Philology 19, 1922,
64 ss.; G. Vaccai, Le feste di Roma antica, cit., 127-129; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV.II.I, cit., 288 s.; J. Gagé,
Matronalia. Essai sur
les dévotions et les organisations cultuelles des femmes dans
l’ancienne Rome, Bruxelles 1963, 25 s.;
W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic,
cit., 161-164; J. Champeaux, Fortuna. Recherches
sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain des origines
à la mort de César. I. Fortuna dans la religion archaïque,
Rome 1982, 199 ss.; F.M. Lazarus, On the Meaning of Fors Fortuna: A Hint from Terence, in The American Journal of Philology 106,
1985, 359 ss.; R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit.,
212 s.; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 113; V.E.
Vernole, Servius Tullius, cit., spec. 62 ss.;
N. Donati-P. Stefanetti, Dies natalis, cit., 73 ss.
[87]
Ov., fast. 6.773 ss.: Quam cito venerunt Fortunae Fortis honores! / Ite,
deam laeti Fortem celebrate, Quirites: / in Tiberis ripa munera regis habet. /
Post septem luces Iunius actus erit. / Pars pede, pars etiam celeri decurrite
cumba, / nec pudeat potos inde redire domum. / Ferte coronatae iuvenum
convivia, lintres, / multaque per medias vina bibantur aquas. / Plebs colit
hanc, quia qui posuit de plebe fuisse / fertur, et ex humili sceptra tulisse
loco. / Convenit et servis, serva quia Tullius ortus / constituit dubiae templa
propinqua deae. Per la fondazione del tempio da parte del re etrusco vedi ancora ad es.:
Liv. 10.46.14; Varr., de ling. Lat.
6.17; Plin., nat. hist. 8.197.
[88]
Vedi, ad es.: J. Marquardt, Le culte chez les romains, II, tr. fr.
di M. Brissaud, Paris 1890, 381
ss.; J.-A. Hild, v. Saturnalia,
in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, IV.2,
ed. Ch. Daremberg-Edm. Saglio, Paris s.d. [19??], 1080-1083; G. Wissowa, v. Saturnus,
in Ausführliches Lexikon des
griechischen und römischen Mythologie, IV, ed. W.H. Roscher, Leipzig
1909-1915, coll. 436-440; M.P. Nilsson, v.
Saturnalia, in Paulys
Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IIA.1,
Stuttgart 1921, coll. 201-211; G. Vaccai, Le feste di Roma antica, cit., 198-201; P. de Francisci, Primordia civitatis, Romae 1959, 351 s.; V. D’Agostino, Sugli antichi Saturnali, in Rivista
di Studi Classici 17, 1968, 180
ss.; W.W. Fowler, The Roman
Festivals of the Period of the Republic, cit., 268 ss.;
G. Brugnoli, Il carnevale e i
Saturnalia, in La Ricerca
Folklorica 10, 1984, 49 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma
antica, cit., 342 ss.; R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit.,
203 ss.; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 60 s., 124. Cfr. Ch. Guittard, Recherches sur la
nature de Saturne des origines à la réforme de 217 avant J.C.,
in R. Bloch, Recherches sur
les religions de l’Italie antique, Genève 1976, 43 ss. Originariamente la festa dei Saturnali,
istituita nel 497 a.C. (Liv. 2.21.1: Triennio
deinde nec certa pax nec bellum fuit. Consules Q. Cloelius et T. Larcius, inde A. Sempronius et M. Minucius.
His consulibus aedis Saturno dedicata,
Saturnalia institutus festus dies, cfr., però, Macr., sat. 1.8.1: Nunc de ipso dei templo pauca referenda sunt. Tullum Hostilium cum bis de Albanis, de Sabinis tertio triumphasset,
invenio fanum Saturno ex voto consecravisse et Saturnalia tunc primum Romae
instituta, quamvis Varro libro sexto, qui est De sacris aedibus, scribat aedem
Saturni ad forum faciendam locasse L. Tarquinium regem, Titum vero Larcium
dictatorem Saturnalibus eam dedicasse. Nec me fugit
Gellium scribere senatum decresse ut aedes Saturni fieret, eique rei L. Furium
tribunum militum praefuisse), si svolgeva soltanto durante il 17 dicembre. I festeggiamenti vennero
estesi fino al 23 dicembre a partire da Cesare e con successivi interventi
durante il principato, vedi in particolare Macr., sat. 1.10.2-24 ed
anche, ad es., Mart., epigram.
8.88.2; Svet., Cal. 17.2; Dion. Cass. 59.6; 60.25.
[89] Per il trattamento dei servi
durante Saturnali vedi: Accius, ann. frr. 3, 1 ss.: Maxima pars
Graium Saturno et maxime Athenae / conficiunt sacra, quae Cronia esse iterantur
ab illis, / eumque diem celebrant: per agros urbesque fere omnes / exercent
epulis laeti famulosque procurant / quisque suos, nosterque itidem est mos
traditus illinc / iste, ut cum dominis famuli epulentur ibidem (Macr., sat.
1.7.37); Macr., sat. 1.10.22: Philochorus Saturno et Opi primum in
Attica statuisse aram Cecropem dicit, eosque deos pro Iove terraque coluisse,
instituisseque ut patres familiarum et frugibus et fructibus iam coactis passim
cum servis vescerentur, cum quibus patientiam laboris in colendo rure
toleraverant. Delectari enim deum honore servorum, contemplatu laboris;
1.24.22-23: Inter haec servilis moderator obsequii, cui cura vel adolendi
Penates vel struendi penum et domesticorum actuum ministros regendi, admonet
dominum familiam pro sollennitate annui moris epulatam. 23. Hoc enim
festo religiosae domus prius famulos instructis tamquam ad usum domini dapibus
honorant, et ita demum patribus familias mensae apparatus novatur. Insinuat
igitur praesul famulitii cenae tempus et dominos iam vocare. In Seneca (ep. ad Lucil. 47.14-15) non si fa
soltanto riferimento al pasto consumato dai servi insieme ai loro padroni, ma
v’è di più: …
Instituerunt diem festum, non quo solo cum servis domini vescerentur, sed quo
utique; honores illis in domo gerere, ius dicere permiserunt et domum pusillam
rem publicam esse iudicaverunt. 15. Quid ergo? omnes servos admovebo mensae
meae? non magis quam omnes liberos. Cfr. Auson., eclog. 23. de fer. Rom. 6: Visne Opis ante sacrum vel
Saturnalia dicam festaque servorum, cum famulantur eri, et numquam certis
redeuntia festa diebus, compita per vicos cum sua quisque colit?
[90] Macr., sat. 1.7.26: Regni
eius tempora felicissima feruntur, cum propter rerum copiam, tum et quod nondum
quisquam servitio vel libertate discriminabatur, quae res intellegi potest,
quod Saturnalibus tota servis licentia permittitur. La libertà che
si concedeva ai servi durante i Saturnali è richiamata anche in Hor., sat.
2.7.1-5: ‘Iamdudum ausculto et cupiens tibi dicere servus / pauca
reformido’. ‘Davusne?’
‘ita, Davus; amicum / mancipium domino et frugi quod sit satis, hoc est,
/ ut vitale putes’. ‘Age, libertate Decembri, / quando ita maiores
voluerunt, utere. Narra’ dove si mostra come durante i Saturnali i servi
potevano presentare le proprie lamentele ai domini. Per il pensiero di
Orazio in materia rimando a M.A. Bernstein,
“O Totiens Servus”: Saturnalia and Servitude in Augustan
Rome, in Critical Inquiry 13, 1987, 450 ss.
[91] Secondo J. Marquardt, Le culte
chez les romains, II, cit.,
382, il pasto dei servi nei Saturnali è una reminescenza
dell’età dell’oro, in cui tutti gli uomini erano uguali;
vedi inoltre quanto affermato da J.G.
Frazer, Il ramo d’oro, cit., 682: «la libertà permessa
agli schiavi in questa festa passava per essere un’imitazione dello stato
della società nell’epoca di Saturno e che in generale i saturnali
passavano per essere né più né meno che una restaurazione
provvisoria del regno di quel felice monarca», e da G. Vaccai, Le feste di Roma antica, cit.,
119: «Durante i Saturnali ogni differenza di persone scompariva
[...] quale ricordo della uguaglianza antica». Parlano invece di una
inversione di ruoli tra domini e servi, ad es.: A. Brelich, Tre
variazioni romane sul tema delle origini, 2a ed., Roma 1976, 89, il quale si riferisce ad
«usanze di ‘rovesciamento’ o ‘sospensione
dell’ordine’»; M.
Beard-J. North-S. Price, Religions
of Rome,
cit., 50. Cfr. M. Meslin, La fête des
kalendes de janvier dans l’empire romain. Étude d’un rituel de Nouvel
An, Bruxelles
1970, 13, il quale in riferimento a
quanto accadeva durante i Matronalia parla di «inversion sociale
volontaire». Interessante, invece, il collegamento evidenziato da D. Sabbatucci, La religione di Roma
antica, cit., 344, e da R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit.,
204, tra la libertà goduta dai servi e la liberazione della
statua di Saturno dai compedes, che
rappresentavano i tipici vincoli servili: Stat., silv. 1.6.4-5: Saturnus
mihi compede exsoluta / et multo gravidus mero December; Macr., sat. 1.8.5: Cur autem Saturnus ipse in compedibus visatur Verrius Flaccus causam
se ignorare dicit, verum mihi Apollodori lectio sic suggerit. Saturnum Apollodorus alligari ait per annum
laneo vinculo et solvi ad diem sibi festum id est mense hoc Decembri, atque
inde proverbium ductum, deos laneos pedes habere; significari vero decimo mense
semen in utero animatum in vitam grandescere, quod donec erumpat in lucem,
mollibus naturae vinculis detinetur.
[92] Cfr. anche: Hesiod., oper. et dies 110-121; Verg., Aen. 8.319-327; Ovid., met.
1.89-112; Plut., quaest. Rom. 12.
[93] Iuvenal. 9.53: munera femineis tractat secreta Kalendis.
[94] Macr., sat. 1.12.7:
Hoc mense mercedes exsolvebant magistris, quas completus annus deberi fecit,
comitia auspicabantur, vectigalia locabant, et servis cenas adponebant
matronae, ut domini Saturnalibus: illae ut principio anni ad promptum obsequium
honore servos invitarent, hi quasi gratiam perfecti operis exsolverent. Rimando
per il rito dei Matronalia a: A. De Marchi, Il Culto Privato di
Roma antica, I, cit., 157 s.,
per il quale nella cerimonia «più vivo era il senso
dell’eguaglianza nella comunanza del lavoro e nel comune culto della
divinità»; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 185 s.; G. Vaccai, Le feste di
Roma antica, cit., 37 s.; J. Gagé, Matronalia, cit.; G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque, cit.,
302, 606 s.; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 57 s.
[95] Per i Potiti e i Pinari e
sul loro culto, vedi ad es.: L.G.
Gyraldus, Historiae Deorum
Gentilium, Basileae 1548, 660
s.; A. De Marchi, Il Culto
Privato di Roma antica, II, cit.,
16 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 274 s.; J. Bayet, Les origines
de l’Hercule romain, Paris 1926,
248 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte,
cit., 213 s.; R.E.A. Palmer, The Censors of 312 B.C. and
the State Religion, in Historia. Zeitschrift für alte
Geschichte 14, 1965,
293 ss.; A. Alföldi, Die Struktur des voretruskischen
Römerstaates, Heidelberg 1974,
148 ss.; D. Sabbatucci, Lo
stato come conquista culturale. Ricerca sulla Religione Romana, Roma 1975, 190 ss.; N. Rouland, A propos des servi publici populi Romani,
in Chiron 7, 1977, 270-272; G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 434 ss.; W. Eder, Servitus publica,
cit., 39 ss.; B. Biondo, I Potizi, i Pinari e la statizzazione del culto di Ercole, in Ricerche sulla organizzazione gentilizia
romana, a cura di G. Franciosi, II, Napoli 1988, 189 ss.; M.A. Levi, Ercole e Roma, cit., 40 s., 49 s., 54 s., 68. Cfr. anche A.G. Amatucci, Appio Claudio Cieco,
in Rivista di filologia e d’istruzione classica 22, 1894, 227 ss.
[96]
Fest., de verb. sign., v.
Putitium, p. 240 L.: Putitium Plautus in Bacchi>dibus
rettulit in <stultum ---: “Is stul>tior es[t] barbaro
p<utitio”.> --- <Putitii cum> ab Hercule ritum
<sacrificandi accepissent, eum> millibus aeris gra<vis quinquaginta
edocuisse dicuntur> servos publicos populi Romani: <quo facto Putitii
intra diem> XXX, cum eius famil<iae XII fuissent, omnes interierunt>; v.
Potitium, p. 270 L.: Potitium et Pinarium
Hercules, cum ad aram, quae hodieque maxima appellatur, decimam bovum, quos a
Geryone abductos abigebat Argos in patriam, profanasset, genus sacrifici
edocuit. Quae familia et posteris eius non defuerunt decumantibus usque ad
Appium Claudium Censorem, qui quinquaginta milia aeris gravis his dedit, ut
servos publicos edocerent ritum sacrificandi: quo facto Potiti, cum essent ex familia
numero duodecim, omnes interierunt intra diem XXX. Pinarius quod non adfuit
sacrificio, postea cautum est, ne quis Pinariorum ex eo sacrificio vesceretur;
pseud. Aur. Vict., orig.
gent. Rom. 8.5: Verum postea Appius Claudius accepta pecunia
Potitios illexit, ut administrationem sacrorum Herculis servos publicos
edocerent nec non etiam mulieres admitterent; de vir. illustr. 34.2:
Potitios Herculis sacerdotes pretio corrupit, ut sacra Herculea servos
publicos edocerent: unde caecatus est, gens Potitiorum funditus periit.
Cfr.: Liv. 1.7.14: Potitii
ab Evandro edocti antistites sacri eius per multas aetates fuerunt, donec
tradito servis publicis sollemni familiae ministerio genus omne Potitiorum
interiit; 9.29.9: Eodem Appio auctore Potitii, gens, cuius ad aram
maximam Herculis familiare sacerdotium fuerat, servos publicos ministerii
delegandi causa sollemnia eius sacri docuerant; 9.34.18: Paenitet enim,
quod antiquissimum sollemne et solum ab ipso, cui fit, institutum deo ab
nobilissimis antistitibus eius sacri ad servorum ministerium religiosus censor
deduxisti; Val. Max. 1.1.17: Hercules quoque detractae religionis suae
et gravem et manifestam poenam exegisse traditur: nam cum Potitii sacrorum eius
ritum, quem pro dono genti eorum ab ipso adsignatum velut hereditarium
optinuerant, auctore Appio censore ad humile servorum publicorum ministerium
transtulissent ...; Macr.., sat. 3.6.13: Asper kat¦ diastol¾n inquit Potitiorum, qui ab Appio Claudio
praemio corrupti sacra servis publicis prodiderunt.
[97] Vedi per il termine:
Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, II, consilio
et cura J. Facciolati, III, Patavii 1771, v. edocĕo, 147, che
individua come significati «informare,
far sapere minutamente […] insegnare, mostrare»; O. Hey, v. ēdoceo, in Thesaurus Linguae
Latinae, V.2, Lipsiae 1931, coll. 106 ss., in cui si elencano le diverse
accezioni della parola: «i. q. perdocere, diligenter docere; inferiore
aetate fare i. q. simplex docere, facere ut aliquis quid sciat, teneat. Est
verbum tam declarandi (i. q. certiorem facere aliquem, comunicare aliquid; sic
passim) quam instruendi (i. q. habilem, aptum facere aliquem, instituere
aliquid […]); A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique, cit.,
180 s., in cui il vocabolo viene tradotto come «enseigner à
fond».
[98]
Enn., tragoed. frag. 40-42 (p. 125 ed. Vahlen) (= Cic., de divin.
1.42): Tum coniecturam postulat pacem petens / Ut se edoceret obsecrans
Apollinem / Quo sese vertant tantae sortes somnium; Cens., de die nat. 3.4: alii sunt praeterea dei conplures hominum vitam pro sua quisque
portione adminiculantes; quos volentem cognoscere indigitamentorum libri satis
edocebunt; pseud. Aur. Vict., orig. gent. Rom. 8.1: Cum ergo Recaranus sive Hercules patri
Inventori aram maximam consecrasset, duos ex Italia, quos eadem sacra certo
ritu administranda edoceret, ascivit, Potitium et Pinarium; 8.6: Quo facto aiunt intra dies triginta omnem familiam Potitiorum, quae
prior in sacris habebatur, exstinctam atque ita sacra penes Pinarios resedisse
eosque tam religione quam etiam pietate edoctos mysteria eiusmodi fideliter
custodisse; cfr. anche Auson., orat.
cons. Auson. 37 ss.: Nos seros famulos adcrescere perpetieris /
sub tali edoctos antistite relligionis; / da sensum solida stabilitum
credulitate. Cfr. con il significato di ‘abile
nell’interpretazione’: Lucan., bell.
civ. 1.585-587: Quorum qui maximus
aevo / Arruns incoluit desertae moenia Lucae, / fulminis edoctus motus venasque
calentes.
[99] Vedi in materia: F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma
etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti della Accademia
Nazionale dei Lincei 8a ser., 5, 1950,
553 ss.; S. Accame, I
re di Roma nella leggenda e nella storia, 2a ed., Napoli s.d. [1959?], 219 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious
Reforms, in Numen 10, 1963,
87 ss.; G.B. Pighi, La
religione romana, cit., 31 s.; F. Della Corte, Numa e le streghe,
in Maia 26, 1974, 3 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i
‘penetralia pontificum’, in Rendiconti dell’Istituto
Lombardo. Classe di lettere e scienze morali e storiche 115, 1981 (ma
1984), 161 ss.; J. Martínez-Pinna, La
reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3,
1985, 97 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La
costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi
d’Alicarnasso, I, Napoli 1988,
128 ss.; G. Capdeville, Les
institutions religieuses de la Rome primitive d’après Denys
d’Halicarnasse, in Pallas (= IIe table ronde Internationale
sur Denys d’Halicarnasse, historien des origines de Rome. Actes
du Colloque organisé à l’Université
Paul-Valéry (Montepellier-III) les 20 et 21 mars 1992,
a cura di P.M. Martin) 39, 1993,
153 ss.
[100] Liv. 1.20.7: nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria
placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus
aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Per l’attività
di insegnamento da parte dei pontefici vedi: Cic., de dom. 141: Non
potuit ullo modo – quamquam et insolentia dominatus extulerat animos et
erat incredibili armatus audacia – non in agendo ruere ac saepe peccare,
praesertim illo pontifice et magistrato qui cogeretur docere ante quam ipse
didicisset. Vedi anche il par. 33: Quid est enim aut tam adrogans quam
de religione, de rebus divinis, caerimoniis, sacris pontificum collegium docere
conari, aut tam stultum quam, si quis quid in vestris libris invenerit, id
narrare vobis, aut tam curiosum quam ea scire velle de quibus maiores nostri
vos solos et consuli et scire voluerunt?
[101] Per l’esclusione dei
servi da questo rito vedi J. Marquardt,
Le culte chez les romains, II,
cit., 367. Vedi per
l’estromissione dei servi dai giochi: Th.
Mommsen, Le droit public romain, tr. fr. di P.F. Girard, I, Paris
1892 [rist., Paris 1984], 419 e nt.
6, che, sulla base di Cic., de har. resp.
26: Istius modi Megalesia fecit pater
tuus, istius modi patruus? Is mihi etiam generis sui mentionem facit, cum
Athenionis aut Spartaci exemplo ludos facere maluerit quam C. aut A Claudiorum?
Illi cum ludos facerent, servos de cavea
exire iubebant. Itaque qui antea voce praeconis a liberis semovebantur, tuis
ludis non voce sed manu liberos a se segregabant, afferma l’espulsione dei servi dal teatro da parte dei praecones; L. Friedlaender, Les jeux, in J. Marquardt, Le culte
chez les romains, II, cit.,
258, per il quale, sempre sulla base di Cic., de har. resp. 26,
in origine i servi e gli stranieri non potevano partecipare ai giochi pubblici,
esclusione venuta meno di fatto in età imperiale. Tuttavia, Cicerone fa
riferimento solo alle specifiche azioni di Caio e di Appio Claudio; del resto
l’oratore, in relazione ai ludi della Magna Madre, aveva in precedenza
(par. 24) affermato: Ita ludos eos,
quorum religio tanta est ut ex ultimis terris arcessita in hac urbe consederit,
qui uni ludi ne verbo quidem appellantur Latino, ut vocabulo ipso et appetita
religio externa at Matris Magnae nomine suscepta declaretur, hos ludos servi
fecerunt, servi spectaverunt, tota denique hoc aedile servo rum Megalesia
fuerunt. Inoltre, alcune fonti, peraltro indicate dallo stesso Friedlaender (258 nt. 4), sottintendono
la partecipazione dei servi agli spettacoli: Hor., ep. 1.14.14: Nunc urbem et
ludos et balnea vilicus optas; Colum.,
res rust. 1.8.2: Socors et somniculosum genus id mancupiorum, otiis, campo, circo,
theatris … consuetum; D. 11.3.1.5 (Ulp. 23 ad ed.): [servus] in spectaculis nimius;
D. 21.1.65 pr. (Venul. 5 action.): Veluti si [servus] ludos assidue velit spectare; Iuv., sat.
6.350-354: nec melior, silicem pedibus quae conterit atrum / quam quae
longorum vehitur cervice Syrorum. / Ut spectet ludos, conducit Ogulnia vestem,
/ conducit comites, sellam, cervical, amicas, / nutricem et flavam cui det
mandata puellam.
[102] Paul., Fest. ep., v. Matralia, p. 113 L.: Matralia Matris Matutae festa. Sulla festa dei Matralia e su
Mater Matuta vedi, ad es.: G.
Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 110 ss.; M. Halberstadt, Mater
Matuta, Frankfurt am Main 1934; H.J.
Rose, Two Roman Rites, in The Classical Quarterly 28.3-4,
1934, 156 s.; R. Flacelière, Deux rites du
culte de «Mater Matuta» Plutarque, Camille, 5, 2, in Revue des études anciennes 52,
1950, 18 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani,
IV.II.I, cit., 230 ss.; G. Dumézil, Déesses
latines et mythes védiques,
Bruxelles 1956, 9 ss.; Id., La religion romaine
archaïque, cit., 66 ss.,
343 s., per il quale il tempio era interdetto ai servi: solo in occasione della
festa eccezionalmente veniva introdotta una serva, al solo scopo di espellerla
con violenza, a rappresentare l’espulsione delle tenebre; P. de Francisci, Primordia civitatis,
cit., 338 s., il quale afferma
l’interdizione dalla cerimonia delle serve e delle donne anziane; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 97 s.; J.
Gagé, Matronalia,
cit., 225 ss.; G. Radke, Die Götter altitaliens, cit., 206 ss.; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the
Republic, cit., 154-156;
F. Castagnoli, Il culto della Mater Matuta e della Fortuna
nel Foro Boario, in Studi Romani
27.2, 1979, 145 ss.; J. Champeaux, Fortuna,
cit., 307 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma
antica, cit., 206-213, secondo
il quale il tempio della dea era interdetto alle serve e probabilmente anche
agli uomini; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 58 s.; N.
Donati-P. Stefanetti, Dies natalis, cit., 71. Cfr. anche N. Turchi, La religione
di Roma antica, cit., 90, il
quale ritiene che durante il rito si scacciasse dal tempio una donna anziana.
[103] Vedi: Ovid., fast. 6.481-482,
551-558; Plut., Camill. 5.2; quaest. Rom. 16.
[104]
Per la dea Pudicitia: J. De
Decker, v. Pudicitia, in Dictionnaire des antiquités
grecques et romaines, IV, ed. Ch. Daremberg-Edm. Saglio,
Paris s.d., 754; G. Wissowa, Analecta
Romana topographica, in Id., Gesammelte
Abhandlungen zur römischen Religions- und Stadtgeschichte,
München 1904 [rist., New York 1975],
254 ss. (già in Hallisches Universitäts-Programm,
1897); Id., Religion und Kultus der Römer,
cit., 333 s.; G. Vaccai, Le feste di Roma antica, cit.,
131 s.; G. Radke, v. Pudicitia,
in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft,
XXIII.2, 1959, coll. 1942-1945; Id., Die Götter altitaliens, cit., 267; J.
Gagé, Matronalia,
cit., 116 ss.; R.E.A. Palmer, Roman Shrines of Female Chastity from the Caste Struggle to the Papacy
Innocent I, in Rivista storica
dell’antichità 4, 1974,
113 ss., spec. 121-125; J. Champeaux, Fortuna,
cit., 355-357. Cfr. anche: L. Zusi, Plotina e Giovenale, in
Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino,
a cura di V. Giuffrè, III, Napoli 1984, 1095 ss., in part. 1099-1103; L. Richardson, jr., A
New Topographical Dictionary of Ancient Rome, Baltimore-London 1992, 322 s.; H.-F. Mueller, Vita, Pudicitia, Libertas:
Juno, Gender, and Religious Politics in Valerius Maximus, in Transactions
of the American Philological Association 128, 1998, 221 ss., spec. 224-233; S. Freund, Pudicitia saltem in tuto sit.
Lucretia, Verginia und die Konstruktion eines Wertbegriffs bei Livius, in Hermes
136, 2008, 308 ss.
[105] Vedi Liv. 10.23.3-10, che
racconta come le matrone avessero escluso dalle cerimonie la patrizia Virginia,
perché sposata con un plebeo. Virginia reagì dedicando un tempio
alla Pudicizia Plebea. Vedi anche Fest., de verb. sign., v. Plebeiae pudicitiae, p.
270 L. e Paul., Fest. ep., v. Plebeiae pudicitiae, p. 271
L.
[106]
Tertull., de mon. 17.4: Idolis certe et [in]
monogamia et viduitas apparent: Fortunae Muliebri coronam non imponit nisi
univiris sicut Matri Matutae. Vedi anche Liv. 10.23.5, la stessa Virginia si era
vantata di essere entrata nel tempio della dea et patricia et pudica poiché aveva sposato un unico uomo; Eodem ferme ritu et haec ara, quo illa
antiquior, culta est, ut nulla nisi spectatae pudicitiae matrona et quae uni
viro nupta fuisset ius sacrificandi haberet (Liv. 10.23.9).
[107] Minuc., Octav. 24.11: ... quaedam
fana semel anno adire permittunt, quaedam in totum nefas visere; est quo viro
non licet et nonnulla absque feminis sacra sunt, etiam servo quibusdam
caerimoniis interesse piaculare flagitium est; alia sacra coronat univira, alia
multivira ... Appare comunque come
una suggestiva coincidenza il fatto che l’apologeta, subito dopo aver
sostenuto l’interdizione dei servi per alcun riti, accenni proprio al
culto della Mater Matuta.
[108] F. Sini, Bellum nefandum, cit., 148, bibl. ivi.
[109] Per i problemi legati
all’individuazione delle cerimonie religiose interessate rimando a F. Sini, Bellum nefandum,
cit., 149 nt. 8.
[110] Paul., Fest. ep., v. Exesto, p. 72 L.: Exesto, extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat:
hostis, vinctus, mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur.
[111] Il richiamo al victus
presente nella glossa deve intendersi soltanto in colui che è si trova
in catene: così S. Tondo, Aspetti simbolici e magici nella struttura
giuridica della manumissio vindicta, cit., 126 s. (bibl. ivi).
[112] Vedi in materia: A. De Marchi, Il Culto Privato di
Roma antica. Vol. II. La religione gentilizia e collegiale, Milano
1906 [rist., Forlì 2004], 96
s.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 184; G.
Vaccai, Le feste di Roma antica,
cit., 135 ss.; U. Pestalozza, Juno Caprotina, in Studi e
materiali di storia delle religioni 9, 1933, 38 ss., spec. 46-49, 54-63; V.
Basanoff, Nonae caprotinae, in
Latomus 8, 1949, 209 ss.; M. Lejeune, Notes de
linguistique italique. XXII. Caprotina, in Revue des études latines 45, 1967, 194 ss.; D. Porte, Le devin,
son bouc et Junon (Ovide, Fastes, II, 425-452), in Revue des études latines 51, 1973 [ma 1974], 183-189; P. Drossart, «Nonae Caprotinae»: La fausse capture
des Aurores, in Revue de
l’histoire des religions 185, 1974, 129-239; G. Dumézil, Fêtes
romaines d’été et d’automne suivi de Dix questions
romaines, Paris 1975, 270 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma
antica, cit., 231-235; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit.,
59 s. Cfr. anche J. Gagé, La ligne pomériale et les
catégories sociales de la Rome primitive. A propos de l’origine des “Poplifugia” et
des “Nones Caprotines”, in Revue historique de droit
français et étranger 48,
1970, 5 ss. (ora in Id., Enquêtes sur les
structures sociales et religieuses de la Rome primitive, Bruxelles 1977, 162 ss.); cenni in: N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., 93 s.;
K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 106;
J. Bayet, La religion romaine,
cit., 50, 92; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 301 s.
[113]
Macr., sat. 1.11.36: Nonis
Iuliis diem festum esse ancillarum tam vulgo notum est ut nec origo et causa
celebritatis ignota sit. Iunoni enim Caprotinae die illo liberae pariter ancillaeque sacrificant
sub arbore caprifico in memoriam benignae virtutis, quae in ancillarum animis
pro conservatione publicae dignitatis apparuit. Per la celebrazione, con
riferimento anche alle ancillae, vedi Auson., eclog.
23 de fer. Rom. 910-911: Festa Caprotinis memorabo celebria
nonis, / cum stola matronis dempta teget famulas.
[114] Macr., sat. 1.11.37-40: Nam post urbem captam cum
sedatus esset Gallicus motus, res publica vero esset ad tenue deducta, finitimi
opportunitatem invadendi Romani nominis aucupati, praefecerunt sibi Postumium
Livium Fidenatium dictatorem, qui mandatis ad senatum missis postulavit ut, si
vellent reliquias suae civitatis manere, matresfamilias sibi et virgines
dederentur: 38. cumque patres essent in ancipiti deliberatione suspensi,
ancilla nomine Tutela seu Philotis pollicita est se cum ceteris ancillis sub
nomine dominarum ad hostes ituram, habituque matrumfamilias et virginum sumpto
hostibus cum prosequentium lacrimis ad fidem doloris ingestae sunt.
39. Quae cum a Livio in castris distributae fuissent, viros plurimo vino
provocaverunt, diem festum apud se esse simulantes. Quibus soporatis, ex arbore
caprifico quae castris erat proxima signum Romanis dederunt. 40. Qui cum
repentina incursione superassent, memor beneficii senatus omnes ancillas manu
iussit emitti, dotemque iis ex publico fecit et ornatum quo tunc erant usae
gestare concessit, diemque ipsum nonas Caprotinas nuncupavit ab illa caprifico
ex qua signum victoriae ceperunt, sacrificiumque statuit annua sollemnitate
celebrandum, cui lac quod ex caprifico manat propter memoriam facti
praecedentis adhibetur. Sull’episodio vedi ancora Plut., Rom. 29.2-11; Camill. 33.3-8; cfr. anche Ovid., ars am. 2.257 s.
[115] A. De Marchi, Il Culto Privato di Roma antica, I,
cit., 227 nt. 8.
[116] CIL VI.59 = ILS 3491: Q. Mucius
Q. [l.] Trupho ser. vovit, leiber solv. l. m. Bonae deae sacr.; CIL VI.663
= XIV.3456 = ILS 3526: sancto Silvano votum ex viso ob libertatem Sex.
Attius Dionysius sig. cum base d. p.
[117] Vedi, ad es., CIL XI.1821: Invicto
deo sancto, salvo Pruniciano n(ostro), Myron ser(vus).
[118] XII tab. 10.1: Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito
(FIRA I, 66). Vedi anche XII tab. 10 5a: Homini mortuo ne ossa legito, quo post funus faciat (FIRA I, 67). Cfr. anche lex col. Genetivae c.
73: Ne quis intra fines oppidi colon(iae)ve, qua aratro circumductum erit
hominem mortuom inferto neve ibi humato neve urito neve hominis mortui
monimentum aedificato. Si quis adversus ea fecerit, is c(olonis) c(oloniae)
G(enetivae) Iul(iae) HS I(quinque milia) d(are) d(amnas) esto, eiusque pecuniae
cui volet petitio persecutio [exactioq(que)] esto. Itque quot inaedificatum
erit IIvir aedil(is)ve dimoliendum curanto. Si adversus ea mortuus inlatus
positusve erit, expianto uti oportebit (FIRA I, 183).
[119] Così B. Albanese, v. Persona,
cit., 169.
[120] Fest., de verb. sign.,
v. Occisum, p.
190 L.; Paul., Fest. ep., v. Aliuta, p. 5 L. = FIRA
I, 13, nn. 14-15: Si hominem
fulmen occisit, ne supra genua tollito. Homo si fulmine occisum est, ei iusta
nulla fieri oportet; 15. si quisquam aliuta faxit, ipsos Iovi sacer esto.
[121] Paul., Fest. ep., v. Parrici<di> quaestores, p. 247 L.: Si qui hominem liberum dolo sciens morti
duit, paricidas esto (FIRA I,
13, n. 16).
[122] Il termine generico si ritrova
sempre in riferimento ai morti nelle prescrizioni religiose in materia di
interramento: Colum., res rust. 2.21: Feriis publicis hominem mortuum
sepeliri non licet. Secondo B. Albanese, v. Persona,
cit., 169 s., in età classica
il termine venne utilizzato per indicare «la persona in condizione
servile» rimandando a Gai. 1.119, 2.24, 2.193, 4.16, 4.36, 4.40, 4.93,
4.160, dove sono riportate formule esemplificative di alcuni istituti in cui
l’oggetto è sempre il servo.
[123] Sostiene l’antichità del principio, ad es., J.-C. Dumont, La mort de l’esclave,
in La mort, les morts et l’au-delà dans le monde romain. Actes
du colloque de Caen, 20-22 novembre 1985, sotto la direz. di F. Hinard,
Caen 1987, 184 (bibl. ivi).
[124] Gai. 2.3-6 (vedi supra
nt. 4). Vedi anche Fest., de verb.
sign., v. Religiosus, pp. 348-350
L., si elencano le varie accezioni del termine offerte da Elio Gallo: Religiosus est non mod[ico] deorum
sanctitatem magni aestimans, sed etiam officiosus adversus homines. Dies autem
religiosi, quibus, nisi quod necesse est, nefas habetur facere: quales sunt sex
et triginta atri qui appellantur, et Alliensis, atque [h]i, quibus mundus
patet. Esse Gallus Aelius, quod homini ita facere non
liceat, ut si id faciat, contra deorum voluntatem videatur facere. Quo in
genere sunt haec: in aedem Bonae deae virum introire; adversus mysticiae lege
ad populum ferre; die nefasto apud praetorem lege agere. Inter sacrum autem, et
sanctum, et religiosum differentias bellissime refert: sacrum aedificium,
consecratum deo; sanctum murum, qui sit circum oppidum; religiosum sepulcrum,
ubi mortuus sepultus aut humatus sit, satis constare ait; sed ita portione
quadam, et temporibus eadem videri posse. Siquidem quod sacrum est, idem lege
aut instituto maiorum sanctum esse puta[n]t, <ut> violari id sine poena
non possit. Idem religiosum quoque esse, qui non iam sit aliquid, quod ibi
homini facere non liceat; quod si faciat, adversus deorum voluntatem videatur
facere. Similiter
de muro, et sepulcro debere observari, ut eadem et sacra, et sancta, et
religiosa fiant, sed quomodo [quod] supra expositum est, cum de sacro diximus.
[125]
Varr., de ling. Lat. 6.24: dies
Parentalium Accas Larentias. Hoc sacrificium fit in Velabro, qua in Novam Viam
exitur, ut aiunt quidam, aut ad sepulcrum Accae, quod ibi prope faciunt diis
Manibus servilibus sacerdotes; qui uterque locus extra urbem antiquam fuit, non
longe a Porta Romanula, de qua in priore libro dixi.
[126]
Sulla festa vedi ad es.: J. Marquardt,
Le culte chez les romains, I,
cit., 372 s.; P. de Francisci, Primordia
civitatis, cit., 142 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 98; J.
Scheid, Quand faire, c’est croire, cit., 177 ss., cfr. anche Id., Die Parentalien für die
verstorbenen Caesaren als Modell für den römischen Totenkult, in Klio
75, 1993, 188 ss.
[127] Sui Mani vedi: Fest., de
verb. sign., v. Manias,
p. 114 L.; v. Manes di,
p. 146 L.; Plin., nat. hist. 7.188; Serv., in Verg. Aen. 1.139;
3.63; Serv. Dan., in Verg. Aen. 3.63; Paul., Fest. ep., v. Manues, p.
133 L.; p. 147 L. Per la letteratura vedi, ad es.: J.A. Hartung, Die
Religion der Römer nach den Quellen dargestellt, I, Erlangen
1836, 43 ss.; J. Marquardt, Le culte chez les Romains,
I, cit., 372 ss., e II, 392, dove afferma: «Assitôt
morts, les hommes devenaient, à ce qu’on pensait, des êtres
divins, di manes»; B.
Santoro, Il concetto dei ‘Dii Manes’
nell’antichità romana, in Rivista di filologia e
d’istruzione classica 17, 1889,
1 ss.; A. De Marchi, Il
Culto Privato di Roma antica, I, cit.,
40 ss.: J.-A. Hild, v. Manes,
Mania, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines,
III.2, ed. Ch. Daremberg-Edm. Saglio, Paris s.d. [19??], 1571 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 238 ss.; E. Marbach, v. Manes, in Paulys Realencyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, XIV.1, Stuttgart 1928, coll. 1051-1060;
G. De Sanctis, Storia dei
Romani. Vol. I. La conquista del primato in Italia, Firenze 1956, 2a
ed. [rist., Firenze 1964], 302 s.;
Id., Storia dei Romani,
IV.II.I, cit., 243 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 99
s.; G. Radke, Die Götter altitaliens, cit., 195 ss.; J.M.C. Toynbee, Death
and Burial in the Roman World, London 1971, 34 ss.; J. Bayet, La religion romaine, cit., 73 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 370 ss.; cenni anche in S. Weinstock, Divus Julius, Oxford 1971,
291 ss.
[128] Vedi anche: August., de
civit. dei 9.11: Dicit quidem et animas hominum daemones esse et ex hominibus fieri
lares, si boni meriti sunt; lemures, si mali, seu larvas; manes autem deos
dici, si incertum est bonorum eos seu malorum esse meritorum. In qua opinione
quantam voraginem aperiant sectandis perditis moribus, quis non videat, si vel
paululum attendat? Quando quidem quamlibet nequam homines fuerint, vel larvas
se fieri dum opinantur, vel dum manes deos, tanto peiores fiunt, quanto sunt
nocendi cupidiores, ut etiam quibusdam sacrificiis tamquam divinis honoribus
post mortem se invitari opinentur, ut noceant. Larvas quippe dicit esse noxios
daemones ex hominibus factos. Sed hinc alia quaestio est. Inde autem perhibet
appellari Graece beatos eÙda…monej, quod boni sint animi, hoc est boni
daemones, animos quoque hominum daemones esse confirmans; C.Th. 9.17.4: aedificiam manium …, domus ita dixerim defunctorum; Serv., in Verg. Aen. 3.168:
(in riferimento a Cornelio Labeone) ... de quo dicit Labeo in libris qui appellantur
de diis animalibus: in quibus ait, esse quaedam sacra quibus animae humanae
vertantur in deos, qui appellantur animales, quod de animis fiant. hi autem sunt dii penates
et viales. Secondo
A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique, cit., v. Mānēs, 383, il nome che designa «les
Dieux bons» è una «épithète par laquelle on
désignait par euphémisme les esprits des morts, et spécialement
des parents (di parentēs). La
notion des Mānēs
s’étant obscurcie, Di
mānēs est devenu
une sorte de cliché employé en parlant des morts, et même
d’un seul individu».
[129] Cic., de leg. 2.55. Vedi anche Plin., nat. hist. 7.188: Eadem
enim vanitas in futurum etiam se propagat et in mortis quoque tempora ipsa sibi
vitam mentitur, alias inmortalitatem animae, alias transfigurationem, alias
sensum inferis dando et manes colendo deumque faciendo qui iam etiam homo esse
desierit, ceu vero ullo modo spirandi ratio ceteris animalibus distet aut non
diuturniora in vita multa reperiantur, quibus nemo similem divinat
inmortalitatem. Nelle fonti relative all’età monarchica si
rinviene il richiamo a divi parentum: Fest., de verb. sign., v. Plorare,
p. 260 L.: In regis Romuli et Tatii legibus: “si nurus …,
<nurus> sacra divis parentum estod”. in Servi Tulli haec est:
“si parentem puer verberit, ast olle plorassit paren<s>, puer divis
parentum sacer esto”. id est <in>clamarit, dix<erit diem>
(FIRA I, 9, n. 11 e 17, n. 6). Questo richiamo si trova
anche in alcune epigrafi, vedi ad es.: CIL I2.1596 = ILS 7999: ... deis
inferum parentum ...; VI.9659 = ILS 7519: ... Diis parentibus suis ...
Vedi inoltre Ovid., fast. 5.443 s.: cum dixit novies ‘manes
exite paterni’ / respicit, et pure sacra peracta putat, secondo cui
giorni dei Lemuria il padre di famiglia scongiura i mani dei suoi padri.
[130] Gai. 2.6 (vedi supra nt. 4). Vedi anche D. 1.8.6.4 (Marcian. 3 inst.): Religiosum
autem locum unusquisque sua voluntate facit, dum mortuum infert in locum suum.
in commune autem sepulchrum etiam invitis ceteris licet inferre, sed et in
alienum locum concedente domino licet inferre: et licet postea ratum habuerit
quam illatus est mortuus, religiosus locus fit e I. 2.1.9: Religiosum locum
unusquisque sua voluntate facit, dum mortuum infert in locum suum. in communem
autem locum purum invito socio inferre non licet: in commune vero sepulcrum
etiam invitis ceteris licet inferre. item si alienus usus fructus est,
proprietarium placet nisi consentiente usufructuario locum religiosum non
facere. in alienum locum concedente domino licet inferre: et licet postea ratum
habuerit, quam illatus est mortuus, tamen religiosus locus fit, dove
però non si fa riferimento al funus.
[131] D. 11.7.40 (Paul. 3 quaest.):
Si quis enim eo animo corpus intulerit, quod cogitaret inde alio postea
transferre magisque temporis gratia deponere, quam quod ibi sepeliret mortuum
et quasi aeterna sede dare destinaverit, manebit locus profanus. Cfr.
M. Ducos, Le tombeau, locus
religiosus, in La mort au
quotidien dans le monde romain. Actes du colloque organisé par
l’Université de Paris IV (Paris-Sorbonne 7-9 octobre 1993), a
cura di F. Hinard, Paris 1995, 135
ss.
[132] Paul., Fest. ep., v. Everriator,
p. 68 L.: Everriator vocatur, qui iure accepta hereditate iusta facere
defuncto debet; qui si non fecerit, seu quid in ea re turbaverit, suo capite
luat. Id nomen ductum a verrendo. Nam exverriae sunt purgatio quaedam domus, ex
qua mortuus ad sepulturam ferendus est, quae fit per everriatorem certo genere
scoparum adhibito, ab extra verrendo dictarum. Anche in D. 11.7.35
(Marcell. 5 dig.) si rinviene, indirettamente, un antico dovere per i
familiari di effettuare riti funebri: Minime maiores lugendum putaverunt
eum, qui ad patriam delendam et parentes et liberos interficiendos venerit:
quem si filius patrem aut pater filium occidisset, sine scelere, etiam praemio
adficiendum omnes constituerunt.
[133] D. 11.7.12.2 (Ulp. 25 ad
ed.): Pretor ait: ‘Quod funeris causa sumptus factus erit, eius
reciperandi nomine in eum, ad quem ea res pertinet, iudicium dabo’.
Vedi anche D. 11.7.14.17 (Ulp. 25 ad ed.):
Datur autem haec actio adversus eos ad
quos funus pertinet, ut puta adversus heredem bonorumve possessorem ceterosque
successores. Questa azione però non spettava a colui che dava
sepoltura mosso da un moto di affezione verso il defunto: D. 11.7.14.7 (Ulp. 25
ad ed.).
[134] Vedi M.G. Zoz, Sepoltura degli schiavi ed eventuali spese per
il loro funerale, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 100,
1997, 543 ss., la quale sostiene la
non necessarietà delle spese funebri per il servo defunto ai tempi di
Orazio (il quale parla di sepolcri comuni presso l’Esquilino destinato a
soggetti di misera condizione: sat. 1.8.8-10 e 15; epod. 5.97-102)
e di Labeone, sebbene D. 19.1.13.22 (Ulp. 32 ad ed.) – che
l’A. considera oggetto di interpolazione giustinianea – sembri
testimoniare il contrario. L’idea di una necessarietà di tali
spese si sarebbe affermata nei secoli successivi. L’ipotesi di
interpolazione per D. 19.1.13.22, dove Ulpiano riporta un’opinione di
Labeone, a mio avviso risulta però non sufficientemente motivata,
né le fonti citate dall’A. consentono di ritenere che i sepolcri
comuni menzionati da Orazio (o da Festo, de
verb. sign., v.
<Puticuli>, p. 240 L., o
da Paolo Diacono, Fest. ep., v. Puticuli, p.
241 L., o nell’edictum
praetoris de campo Esquilino, FIRA
I, 306 s., n. 53) fossero destinati
ai servi. Indubbiamente cadaveri di servi vi potevano essere gettati, ma ciò
non significa che l’atto non costituisse un illecito se compiuto dal dominus.
[135] Nella sterminata
bibliografia dedicata ai collegia in generale appaiono ancora
fondamentali i lavori di U. Coli, Collegia e sodalitates. Contributo
allo studio dei collegî nel diritto romano, Bologna 1913, (ora
in Id., Scritti di diritto romano, I, Milano 1973, 1 ss.), e di F.M. de Robertis, in part.: Il diritto associativo romano.
Dai collegi della repubblica alle corporazioni del basso impero, Bari 1938;
Il fenomeno associativo nel mondo romano.
Dai collegi della repubblica alle corporazioni
del basso impero, Napoli 1955 [Studia Historica 126, rist.
an., Roma 1981]; cfr. anche Storia delle corporazioni e del regime
associativo nel mondo romano, I-II, Bari s.d.; rimando da ultimo a F. Diosono, Collegia. Le
associazioni professionali nel mondo romano, Roma 2007.
[136] D. 47.22.3.2 (Marcian. 2 de iudic. publ.): Servos quoque licet in collegio tenuiorum recipi volentibus dominis, ut
curatores horum corporum sciant, ne invito aut ignorante domino in collegium
tenuiorum reciperent, et in futurum poena teneantur in singulos homines
aureorum centum.
[137] O. Diliberto, Approfondimenti sull’album e la lex
familiæ Silvani da Trebula Mutuesca, in Minima epigraphica et
papyrologica. Taccuini 9.11, 2006,
247; F. Diosono, Collegia,
cit., 55: «La lex familiae
Silvani […] è lo statuto di un collegio rustico formato da
schiavi, liberti e liberi che lavoravano all’interno dello stesso fundus
agricolo». Vedi anche M.
Buonocore, il quale ha curato parte del lavoro insieme a Diliberto, e
che alle 226 s. e nt. 51, si
richiamano altri casi di collegia che registrano la presenza di servi, e
in particolare l’uso negli elenchi dei partecipanti di lasciare spazi
bianchi prima del cognomen per l’inserimento del prenome e del
nome in attesa della libertà.
[138] Per J. Marquardt, Le culte chez les Romains,
I, cit., 170, questi collegi in
origine avevano scopi religiosi più complessi, ma con il tempo la
funzione di provvedere ai funerali sarebbe divenuta prevalente. Diversamente il
Mommsen, De collegiis et
sodaliciis Romanorum, Kiliae 1843 [Antiqua 92, rist. an., Napoli
2006], 97, ritiene la funzione
originaria: «Omnino quidquid de singulis exemplis his certari potest,
casu evenire non potuit, ut leges collegiorum sacrorum omnes in urbe, in
Italia, in Pannonia inventae ea non instituta esse Deorum causa sed ad funera
curanda indicarent; ut in plerisque collegiis ex innumerabilibus quae Deorum
nomina prae se ferant eandem naturam latere facile suspicemur». Oggi la
dottrina prevalente è nel senso voluto dal Marquardt: F. Diosono, Collegia, cit., 53 s. Per un altro collegio avente
caratteristiche simili a quello della familia Silvani, vedi la lex
collegii funeraticii Lanuvini in CIL XIV.2112 = ILS 7212 = FIRA
III, 99 ss., n. 35, del II d.C., in
cui si definisce “iniqua” la decisione del dominus o della domina
a privare della sepoltura il proprio servo defunto: q[ui]squis ex hoc
collegio servus defunctus fuerit et corpus eius a domino dominav[e] iniquitatae
sepulturae datum non fuerit neque tabellas fecerit, ei funus imag[ina]rium fiet
(II, l. 3).
[139]
In particolare vedi: H. Lévy-Bruhl,
Théorie de l’esclavage, in Id., Quelques problèmes du très ancient droit romain. Essai de
solutions sociologiques, Paris
1934, 15 ss. (ora in Slavery in Classical Antiquity. Views and
Controversies, a cura di M.I.
Finley, Cambridge-New York 1960,
151 ss.), secondo cui «les notions d’esclave et
d’étranger se confondent. Et cette proposition, à
l’instar d’un théorème, peut s’énoncer
sous une forme directe et une forme réciproque [...]: 1° tout
esclave est un étranger; 2° tout étranger est un
esclave» (16 = 152);
É. Benveniste, Il
vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I, cit., il quale dedica un capitolo proprio a “Lo
schiavo, lo straniero”, 272
ss. Lo studioso,
infatti, parte dal concetto che «colui che è nato al di fuori
della comunità è a priori un nemico». Si tratta della tesi
dell’ostilità naturale, propugnata particolarmente da Theodor
Mommsen, di cui vedi, ad es., Abriss des
römischen Staatsrechts, 2a ed., Leipzig 1907 [rist., Darmstadt
1974], 49 s., ed oggi ormai
abbandonata.
[140] D. 47.12.4 (Paul. 27 ad
ed. pr.): Sepulchra hostium religiosa nobis non sunt: ideoque lapides
inde sublatos in quemlibet usum convertere possumus: non sepulchri violati
actio competit.
[141] D. 11.7.36 (Pomp. 26 ad
Q. Muc.): Cum loca capta sunt ab hostibus, omnia desinunt religiosa vel
sacra esse, sicut homines liberi in servitutem perveniunt: quod si ab hac
calamitate fuerint liberata, quasi quodam postliminio reversa pristino statui
restituuntur.
[142] Alcuni autori sottolineano
l’idea romana che emerge da questa disposizione, per cui la religione
della civitas avrebbe carattere
nazionale, vedi ad es.: P. Bonfante, Corso
di diritto romano, II.1., cit.,
28; F. de Visscher, Le droit des tombeaux romains, Milano
1963, 53. Da ultimo rimando a G. Purpura, La “sorte” del
debitore oltre la morte. Nihil inter mortem distat et sortem (Ambrogio,
De Tobia X, 36-37), in Archaeogate marzo 2008 (http://www.archaeogate.org/iura/article/851/1/la-sorte-del-debitore-oltre-la-morte-di-gianfranco-purp.html
) (ora in Iuris Antiqui Historia. An International Journal on ancient Law 1,
2009 = Debito ed Indebitamento nel mondo
romano Atti del III incontro tra storici e giuristi dell’antichità,
Ferrara, 6 dicembre 2007).
[143] pseud. Quint., Declamationes
XIX maiores 5.6: Hinc et ille venit affectus, quod ignotis cadaveribus
humum <in>gerimus, et insepultum quodlibet corpus nulla festinatio tam
rapida transcurrit, ut non quantulocumque veneretur aggestu; vedi inoltre:
Hor., carm. 1.20.23-25: At tu, nauta, vagae ne parce
malignus harenae / ossibus et capiti inhumato / particulam dare; Petr., sat.
114.10-11: ... ‘si nihil aliud, certe diutius’ inquit
‘iuncta nos mors feret, vel si voluerit <mare> misericors ad idem
litus expellere, aut praeteriens aliquis tralaticia humanitate lapidabit, aut
quod ultimum est iratis etiam fluctibus, imprudens harena componet’.
[144]
Macr., sat. 1.11.1: Tunc Evangelus: ‘Hoc quidem’, inquit,
‘iam ferre non possum quod Praetextatus noster in ingenii sui pompam et
ostentationem loquendi vel paulo ante honori alicuius dei adsignari voluit quod
servi cum dominis vescerentur, quasi vero curent divina de servis, aut sapiens
quisquam domi suae contumeliam tam foedae societatis admittat …’.
[145]
Macr., sat. 1.11.2: Hic cum omnes exhorruissent, Praetextatus
renidens: ‘Superstitiosum me, Evangele, nec dignum cui credatur existimes
volo, nisi utriusque tibi rei fidem ratio adserta monstraverit. Et ut primum de servis loquamur, ioco ne an
serio putas esse hominum genus quod di immortales nec cura sua nec providentia
dignentur? An forte servos in hominum
numero esse non pateris? Audi igitur quanta indignatio de servi supplicio
caelum penetraverit.
[146] Macr., sat. 1.11.3: Anno enim post
Romam conditam quadringentesimo septuagesimo quarto Autronius quidam Maximus
servum suum verberatum patibuloque constrictum ante spectaculi commissionem per
circum egit: ob quam causam indignatus Iuppiter Annio cuidam
per quietem imperavit, ut senatui nuntiaret non sibi placuisse plenum
crudelitatis admissum. Il racconto, più dettagliato, con
numerose varianti, collocato nel 489 a.C., si rinviene anche in Liv. 2.36. Vedi
anche: Cic., de div. 1.55; Val. Max. 1.7.4; Lact., div. inst. 2.8
(PL 6, coll. 291 s.).
[147] Macr., sat. 1.11.6-7: Vides quanta
de servo ad deorum summum cura pervenerit. Tibi autem unde in servos tantum et
tam inane fastidium; quasi non ex isdem tibi et constent et alantur elementis,
eundemque spiritum ab eodem principio carpant? 7. Vis tu cogitare eo,s quos ius tuum vocas,
isdem seminibus ortos eodem frui caelo, aeque vivere, aeque mori? Servi sunt:
immo homines. Servi sunt: immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque
licere fortunae. Tam tu illum videre liberum potes, quam ille te servum. Cfr. anche Petr., sat. 71.1: Diffusus hac contentione Trimalchio ‘amici’, inquit
‘et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos
malus fatus oppresserit …’.