N. 9 – 2010 – Tradizione-Romana
Università
di Pavia
Edictum de adtemptata pudicitia
Sommario: 1. Il
delitto di iniuria e gli editti speciali de iniuriis. – 2. La
pudicitia. – 3. I soggetti offesi e l’importanza dell’abito.
– 4. I comportamenti puniti dall’editto.
– 5. I boni
mores. – 6. L’edictum de adtemptata pudicitia e l’Ars amatoria di
Ovidio. – 7. L’animus
iniuriandi nell’adtemptata pudicitia.
I vari
aspetti del delitto di iniuria[1], come è noto, hanno
formato oggetto di numerose ricerche e discussioni da parte della storiografia
moderna. E’ dibattuta l’interpretazione del testo delle XII Tavole[2],
così come vi sono divergenze di opinioni intorno ai successivi sviluppi,
che videro l’abbandono della pena del taglione[3],
dapprima sostituita dalla composizione stragiudiziale - la pactio[4] - e poi da una pena
pecuniaria, determinata caso per caso dal giudice[5], ed
in connessione con ciò l’unificazione concettuale dei delitti
contro la persona fisica diversi dall’omicidio e il definirsi di un
concetto comprensivo di iniuria, con l’estensione della pena
variabile, propria inizialmente del caso del membrum ruptum, a tutte le
altre fattispecie.
Il
superamento definitivo delle pene decemvirali si ebbe con la concessione, da
parte del pretore, di un’actio iniuriarum formulare per ogni ipotesi
di iniuria, volta ad ottenere dai recuperatores o dal iudex
la fissazione di una condanna “in quantum bonum et aequum videbitur”[6], una
condanna commisurata alla lesione prodotta e alle eventuali conseguenze
patrimoniali.
Infine, ed è forse questo l’aspetto più
controverso, con il tempo l’ambito di applicazione della figura si
modificò in una duplice direzione: da un lato il pretore fece rientrare
nel concetto di iniuria le offese morali, arrecate all’onore e al
decoro della persona, che divennero progressivamente il principale contenuto di
questo delitto[7],
accogliendo quella che doveva essere, molto probabilmente, una elaborazione
giurisprudenziale[8];
dall’altro questa tendenza risultò accentuata dalla emanazione
della lex Cornelia de iniuriis[9]
dell’81 a.C., che sottopose a pena pubblica le ipotesi più gravi
di lesioni fisiche (pulsare, verberare, domum vi introire).
La valutazione e la considerazione dei danni, nell’ambito
del iudicium recuperatorium[10],
diventò per la giurisprudenza occasione di studio delle ipotesi nelle
quali si individuava ingiuria: si creò, così, un’unica
categoria nella quale furono ricomprese tanto le lesioni corporali, quanto le
offese morali. In tutti questi casi il pretore offrì tutela agli offesi,
riconoscendo l’operatività dell’actio iniuriarum,
cioè quella originariamente prevista per le offese fisiche.
L’estensione avvenne attraverso l’emanazione di
specifici editti, differenti in ragione di questo dall’editto generale[11], che
contemplavano singolarmente diverse offese morali ed erano accomunati dal
medesimo rimedio processuale.
Secondo la ricostruzione di Otto Lenel, si trattava
dell’editto de convicio, che puniva gli insulti o il
vociferare proferito da varie persone unite in gruppo o assemblea davanti al
domicilio della persona insultata o in un luogo da lei frequentato; l’editto de adtemptata pudicitia,
che sanzionava gli attentati alla pudicizia delle donne perbene e dei giovani
che indossavano la toga praetexta; l’editto ne quid infamandi
causa fiat, che reprimeva qualunque attività, parole o atti, posta
in essere con lo scopo di infamare un’altra persona; l’editto de
iniuriis quae servis fiunt, che reprimeva l’offesa
subita da un dominus attraverso l’iniuria inferta al servus;
l’editto de noxali iniuriarum actione, operante nell’ipotesi
in cui fosse stato un servus o un filius familias a commettere iniuria;
l’editto si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria facta esse
dicetur,
per i casi di offesa subita dal pater familias attraverso
l’iniuria patita dal filius; l’editto de contrario
iniuriarum iudicio[12], che
offriva un’azione contraria per difendersi da un’actio
iniuriarum temeraria.
Come si è detto, il tema dell’iniuria
è stato ampiamente trattato in dottrina, ma ai singoli editti sopra
elencati si è dedicata attenzione quasi esclusivamente nel quadro di
trattazioni concernenti il tema generale[13].
Restano così aperti numerosi problemi, e primo fra tutti quello della
loro datazione e, quindi, del loro rapporto con l’editto generale.
Per
quest’ultimo la dottrina è orientata ad indicare la fine del III sec. a.C.[14], mentre per la datazione degli altri editti la
dottrina concorda sul fatto che l’editto de convicio sarebbe stato
emanato dal pretore attorno alla fine del II sec. a.C., poiché in alcuni
frammenti della Rhetorica ad Herennium, la cui composizione - secondo
una dottrina quasi unanime - risale all’88 a.C.[15], il convicium
è espressamente indicato quale fattispecie di iniuria[16],
accanto alle pulsationes, e che tutti gli altri sarebbero a questo
successivi[17].
In particolare
per l’editto de adtemptata pudicitia, secondo Dora de la Puerta
Montoya[18], vi
è un unico dato certo in proposito: tale editto doveva essere posteriore
alla lex Scatinia, databile approssimativamente attorno al 220 a.C.,
giacché il comportamento punito dal pretore era meno grave di quello
contemplato dalla lex.
Eva
Cantarella[19],
invece, lo colloca prima del 193 a.C. sulla base di Plaut., Curc. 35-38,
in cui si parla di nuptae, viduae e virgines, in un modo
che pare rimandare alla tripartizione dei soggetti protetti dall’editto de
adtemptata pudicitia[20].
Nell’ambito
del delitto di iniuria, così come esso fu ampliato dagli
interventi del pretore cui abbiamo accennato, l’editto de adtemptata
pudicitia tutela l’integrità morale della persona dal punto di
vista della sua onorabilità sessuale; protegge, cioè, un valore
fondamentale per la società romana, la pudicitia.
La pudicitia,
sin dalla fase più antica della storia di Roma, rappresenta uno dei
valori su cui si fonda il modello perfetto ed ideale di donna, ed emerge per la
prima volta in àmbito religioso[21]. Le
fonti ricordano il culto dedicato alla dea Pudicitia, ed un
celebre racconto liviano descrive l'istituzione, nel 296 a.C., del culto della Pudicitia
plebea, distinto da quello della Pudicitia patrizia[22]. Dal
racconto risulta che il culto era pienamente integrato nei riti ufficiali della
vita civica romana[23]: la
narrazione, infatti, parte da un contesto di celebrazioni di rituali pubblici,
in un momento in cui, essendo Roma in guerra con le città vicine,
è richiesto dal popolo il soccorso degli dei.
Il fatto che la dea Pudicitia appartenesse alle
divinità da invocare in momenti di particolare pericolo per la civitas,
lascia intendere che tale virtù era così importante da
coinvolgere aspetti della vita dei Romani non direttamente ed esclusivamente
connessi con la sessualità. Ed in effetti la pudicitia non rimase
mai relegata alla sfera etica individuale, ma la sua presenza o assenza
presupponeva sempre un collegamento molto stretto tra morale sessuale
soggettiva e vita pubblica.
E’ interessante riflettere sulle caratteristiche che le
devote alla dea Pudicitia dovevano avere: si parla di matronae di
spectata pudicitia. L’aggettivo spectata rinvia immediatamente
al singolare aspetto di questa virtù che doveva essere visibile, ossia
percepibile pubblicamente: “specchiata” pudicitia, non solo
nel senso di notevole pudicitia, ma, andando al significato originario
del verbo specto[24], da
cui deriva l’aggettivo, vista, comprovata, attestata.
Un’altra fonte importante è Valerio Massimo, il
quale antepone alla serie degli aneddoti illustrativi della virtù, a cui
dedica il VI libro della sua opera[25],
un’invocazione alla dea, sentita come una presenza forte e reale, attraverso
il linguaggio formale della preghiera[26]. I
vocaboli chiave del passo sono praesidium e custos[27]: la
dea, dirigendo e condizionando le attività morali degli individui, pone
sotto il suo presidio l’età puerile e custodisce la pudicitia
delle matrone, e non solo, dato che qui la pudicitia appare un elemento
non più limitato al mondo femminile: non si parla di sole matronae,
come nel racconto liviano, ma anche di giovani e di bambini, e si inizia a
parlare delle categorie protette dalla dea usando termini indicanti gli
elementi dell’abbigliamento che le contraddistingue.
Alla luce di questo il discorso si definisce ancor meglio un
ulteriore aspetto di Pudicitia: essa non funge solo da impulso
all’inseguimento dell’eccellenza morale, ma inizia ad esprimere la
necessità della protezione della pudicitia di determinate
categorie di persone[28].
Altre fonti invece, ed in particolare Properzio e Giovenale,
utilizzano il riferimento al culto per porre in evidenza il decadimento morale
delle donne e la corruzione dei costumi sessuali del loro tempo,
riagganciandosi in qualche modo all’originario collegamento tra il culto
religioso e il comportamento personale.
Properzio rammenta questo culto nell’elegia 2.6.25,
chiedendosi: templa Pudicitiae quid opus statuisse puellis, si cuivis nuptae
quidlibet esse licet?
Nella domanda implicitamente si depreca lo stato morale delle
donne del tempo: il che serve al poeta quale sfondo della descrizione di Cynthia,
la donna amata, ritratta come una cortigiana dalla vita depravata, immersa
nella promiscuità dell’epoca.
Giovenale, infine, apre la famosa VI Satira dicendo che la dea Pudicitia
ha abbandonato da tempo il mondo reale, lasciandolo nella totale
immoralità sessuale[29]. La
denuncia di Giovenale è forte: non solo il tempio di Pudicitia
è stato abbandonato, ma viene addirittura profanato. Si ripropone qui il
consueto legame tra culto religioso e comportamento morale, spinto al limite
nella descrizione di donne che pongono in essere sacrilegi nel tempio e contro
la statua della dea, rappresentando, con il loro comportamento, il massimo
della perversione.
Per quanto non numerose, le notizie sul culto della dea Pudicitia consentono di percepirne il
rilievo nel corso dei secoli: lo statuto etico delle donne ne è stato
profondamente influenzato. Una virtù come la pudicitia, da manifestare inderogabilmente
anche in pubblico[30],
meritava di essere, proprio per questo, tutelata, con specifici rimedi, sul
piano giurisdizionale.
Il testo dell’editto de adtemptata pudicitia non ci
è pervenuto, ma - rifacendoci all’opera di Otto Lenel[31] -
possiamo ricostruirne il contenuto grazie a Gai. 3.220 e I. 4.4.1, a Paul. D.
47.10.10 (55 ad ed.) e soprattutto al Commento all’Editto di
Ulpiano, D. 47.10.15.15-24 (57 ad ed.), con altri significativi e
importanti riferimenti in D. 47.10.1.2 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.9 pr.
(Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.11.1.2
(Ulp. 4 opin.)[32] e
infine in Coll. 2.5.4.
Secondo la ricostruzione di Lenel, il testo sarebbe stato il
seguente:
Si quis matrifamilias[33] aut praetextato[34] praetextataeve comitem[35] abduxisse[36] sive quis eum eamve adversus bonos mores[37] appellasse adsectatusve[38] esse dicetur.
E’ opinione di Lenel che le parole adtemptata pudicitia
non figurassero in questo specifico editto, ma solamente nella sua rubrica[39],
la cui citazione, nella trascrizione letterale dell’editto, così
come l’ha trasmessa il passo di Ulpiano (tramandato in D. 47.10.15.15-24,
57 ad ed.) e fondamentale per il nostro lavoro, sarebbe stata omessa dai
compilatori.
Passando ora ad esaminare il contenuto dell’editto, in
primo luogo va posto in evidenza che la fattispecie del delitto di adtemptata
pudicitia contemplava l’oltraggio alla pudicizia di determinate
categorie di soggetti, attraverso il compimento di tre diverse azioni, che
configuravano tre distinte fattispecie: la prima, secondo l’ordine
proposto dal Lenel, qualificata dall’espressione comitem abducere,
la seconda dal termine appellare, la terza, infine, dal verbo adsectari.
Nella ricostruzione del Lenel, quindi, il pretore avrebbe
sanzionato in primo luogo l’ipotesi più grave, quella del comitem abducere, che configurava di per
sé il delitto, e poi quelle in cui vi era delitto se il comportamento
dell’agente risultava contrario ai boni
mores. Il commento di Ulpiano segue tuttavia un ordine diverso, dato che il
giurista tratta in primo luogo dell’appellare,
poi del comitem abducere e infine
dell'adsectari[40]. Si
preferisce qui seguire l’ordine di Ulpiano poiché il giurista,
trattando dell’appellare,
affronta il tema dell’abito dei soggetti offesi, tema che, come si
vedrà, risulta rilevante per ciascuna delle ipotesi di adtemptata pudicitia:
D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis
virgines appellasset, si tamen ancillari veste vestitas, minus peccare videtur,
multo minus si meretricia veste feminae, non matrumfamiliarum vestitae
fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et quis eam appellavit,
vel ei comitem abduxit, iniuriarum tenetur.
Nella prima parte del passo ulpianeo, prezioso per la
ricostruzione dell’editto, si considera l’appellare rivolto
alle virgines[41]
vestite da schiave, sostenendo che chi avesse indirizzato loro parole di
richiamo, avrebbe “peccato” di meno. Sembrerebbe che, con
l’uso del comparativo minus, Ulpiano non inauguri un nuovo
discorso, ma ne continui uno già iniziato in precedenza, il cui punto di
partenza sarebbe stato, probabilmente, il caso di appellatio rivolta a virgines
vestite in modo adeguato alla loro condizione.
Nella seconda parte si prende in esame il medesimo comportamento,
ma nei confronti di una donna vestita da prostituta: in tal caso
l’offensore avrebbe posto in essere un illecito ancor meno grave.
Nella terza parte, infine, il giurista sostiene che l’actio
iniuriarum viene concessa anche contro chi ha fatto oggetto di appellatio
una donna non vestita da matrona, oppure la ha allontanata dal suo
accompagnatore.
Le problematiche che questo passo solleva hanno portato vari
romanisti a confrontarsi tra loro: è fondamentale comprendere
perché Ulpiano consideri la legittimazione passiva all’actio
iniuriarum come conseguenza (tale è il significato di igitur)
delle ipotesi in cui l’offensore delinque meno. Da una parte, egli pare
offrirci una graduazione discendente del peccare, dall’altra
propone lo stesso rimedio processuale per tutte le ipotesi.
In generale, la maggior parte degli studiosi propende per la non
genuinità del frammento, cercando di ricomporlo in vario modo. Non
mancano, tuttavia, anche quanti ne affermano la genuinità sulla base di
una peculiare visione dell’editto speciale de adtemptata pudicitia
e delle sue connessioni con il generale edictum.
Il Raber[42] ha
compiuto un’accurata analisi del nostro passo, e delle tesi in proposito[43],
considerandolo genuino nella sostanza, e semplicemente raccorciato.
Lo
studioso traduce appellare con il termine unzuchtig ansprechen,
che significa rivolgere la parola, abbordare in modo non costumato, cercando di
capire, inoltre, su che cosa si fondi, in generale, la legittimazione passiva,
per l’appellare, del presunto offensore.
La risposta a questa domanda, sostiene l'A., potrebbe desumersi
dalla contestuale lettura di D. 47.10.15.20[44],
secondo il quale appellare equivale ad attentare alla castità di
un’altra persona con discorsi lusinghieri, e di D. 47.10.15.23[45]
(ma in parallelo con D. 47.10.15.6 che affronta il tema del convicium[46]), nel
quale si legge che sarebbe stata necessaria una violazione dei buoni costumi.
Lo studioso, partendo da questi due dati, delinea due presupposti
per la punibilità dell’appellare: l’obiettivo
ferimento della pudicitia e l’obiettiva infrazione al buon
costume. Sulla base di questo presupposto egli si chiede, di conseguenza, se apostrofare
in questo modo una donna onorabile, ma in abito da prostituta o da schiava,
rientri o non nell’appellare, ritenendo fondamentale capire se
l’abito che trae in inganno escluda l’illecito o lo diminuisca.
Dal momento che i giuristi attribuivano grande importanza
all’abito, sembrerebbe che esso fosse un presupposto di fatto obiettivo
per la punibilità dell’appellare, quale segno visibile di
discriminazione tra appartenenti a differenti classi sociali.
Tuttavia, nota il Raber, procedendo dall’esame di un passo
di Tertulliano[47], da
un certo periodo in poi le differenze si sarebbero molto attenuate, sì
che, per tal motivo, poteva accadere che una matrona indossasse abiti da
meretrice. In conseguenza rivolgere le proprie attenzioni a chi fosse abbigliata
da prostituta non garantiva più l’impunità. In ogni caso,
tuttavia, la minor gravità di questo comportamento sarebbe stata presa
in considerazione nell’aestimatio del giudice: si spiegherebbero
così le espressioni minus e multo minus. Il Raber,
inoltre, ritiene punibile l’offesa nei confronti della schiava, sebbene
il suo onore fosse tutelato in misura minore rispetto a quello di una materfamilias
o di una virgo.
L’A., in conseguenza, solleva l’ipotesi che tra il
secondo e terzo paragrafo si siano perse alcune linee nelle quali Ulpiano
parlava della non conformità al loro rango e alla loro dignità
dell’abbigliamento di alcune donne[48].
Antonio Guarino[49]
suppone che Ulpiano proseguisse un discorso già iniziato con un ait
praetor a cui, probabilmente, seguiva il testo letterale dell’editto
con il quale si prometteva l’actio iniuriarum contro chi avesse
compiuto le azioni di appellare e
adsectari contro i buoni costumi, e di comitem abducere. Tali
azioni erano punite non in quanto lesive della moralità soggettiva dei
soggetti offesi, ma in quanto eccedenti i limiti del comune senso del pudore.
Quel
che rilevava, infatti, era la dignità sociale dei soggetti tutelati
dall’editto, dignità immancabilmente manifestata del loro modo di
vestirsi: secondo lo studioso colui che avesse “appellato” la
passante ancillari veste vestita, facilmente distinguibile dalla
matrona, avrebbe “peccato di meno” non perché fosse concessa
maggior licenza con le schiave, ma perché, in tal caso, l’iniuria
recata ad una familia,
nella persona di una schiava, aveva un peso minore rispetto all’iniuria
fatta a danno di un capofamiglia o di un altro componente libero.
Il
Guarino ritiene che in tal caso avrebbe operato un altro editto speciale de
iniuriis: il dominus
offeso avrebbe chiamato in causa il “pappagallo di strada” con
l’actio iniuriarum derivante dall’editto de iniuriis quae
servis fiunt[50]. Tale actio era concessa, nei casi
di iniuria servi non grave, solo previa causae cognitio
del pretore: il minus peccat, di cui si parla nel passo, sarebbe,
dunque, un elemento che il magistrato avrebbe preso in considerazione in quella
sede.
Alla
luce di tutto questo anche in difesa di una donna non matronali habitu
vestita – presumibilmente,
secondo il Guarino, la donna popolana, non vestita da matrona, né da
schiava o da meretrice – si sarebbe potuta esercitare, seppure per una
condanna più limitata, l’actio iniuriarum derivante
dall’editto de adtemptata pudicitia, risolvendo così la
tanto discussa questione sul termine igitur del frammento.
Secondo l’opinione dell’A.
l’interpolazione concernerebbe l’ipotesi della meretrice; dato che
è meretrice colei che eccita impudicamente i passanti e si veste in modo
da attirare clienti per il suo lavoro, chi le rivolge attenzioni e richiami non
la offende, ma sta semplicemente al suo gioco. E’ impensabile, a suo
avviso, che le matrone, per quanto audaci e provocanti volessero apparire,
andassero vestite come prostitute: perciò egli sostiene che Ulpiano non
potrebbe aver scritto: multo minus si meretricia veste feminae non
matrum familiarum vestitae fuissent.
In realtà, come apprendiamo
dalla ricostruzione del senatoconsulto de
matronarum lenocinio coercendo,
non solo poteva accadere che le matrone indossassero abiti di una meretrice, ma
le più impudiche potevano spingersi ben oltre[51].
Il contenuto normativo di questo
senatoconsulto, emanato al tempo di Tiberio, ci è stato restituito da
una tavola di bronzo rinvenuta a Larino[52], ma esso è ricordato anche
nelle testimonianze di Tacito[53], Svetonio[54] e Papiniano[55]: il decreto senatorio, emanato nel 19
d.C., si proponeva l’obiettivo di reprimere alcune frodi alla normativa
moralizzatrice di età augustea.
La lex Iulia
de adulteriis coercendis elencava una serie di
persone di cattiva reputazione nei cui confronti non si commetteva stupro, in quas stuprum non committitur, ed in primo luogo le donne che
praticavano il meretricio[56]. Tale esenzione fu utilizzata come
espediente da quelle donne che volessero intrattenere relazioni
extramatrimoniali senza subire le pene previste dalla legge: bastava, infatti,
che esse manifestassero pubblicamente l’intenzione di darsi al
meretricio. Mediante quest’espressa dichiarazione compiuta innanzi agli
edili curuli[57], esse si liberavano dai vincoli
imposti loro dal matrimonio e dall’appartenenza al loro ceto.
Il senatoconsulto di Larino si
collocava nel quadro di disposizioni normative volte a limitare questa fraus legis e a frenare la rilassatezza dei costumi
femminili. Si ricorda, a tal riguardo, il proposito di Tiberio di correggere,
restaurando l’austerità di un tempo, gli aspetti che in publicis moribus desidia aut mala consuetudine
labarent[58].
Ritornando a D. 47.10.15.15, vi sono
alcuni Autori, viceversa, che ne sostengono la genuinità: tra i
più recenti[59], il Wittmann, il Santa Cruz, il
D’Ors e la De la Puerta Montoya. Essi ricostruiscono il nostro testo guardando alla differente
operatività dell’editto de
adtemptata pudicitia rispetto a quello generale
de iniuriis, e sostengono che il disturbatore di una passante vestita
da schiava o da meretrice non sarebbe stato responsabile in forza del primo
editto: tuttavia se la passante si fosse rivelata una matrona, costui sarebbe
stato tenuto in base al generale edictum. In particolare, il Wittmann[60] distingue tra responsabilità in
forza dell’editto de adtemptata pudicitia e responsabilità in forza
dell’editto generale de iniuriis, sostenendo che il disturbatore di una
passante vestita da schiava o da meretrice non era tenuto in base al primo
editto, ma se poi la passante si fosse rivelata realmente una matrona, sarebbe
stato considerato responsabile sulla base del generale edictum.
Lo studioso interpreta minus e multo minus peccare videtur come negazioni di un peccatum ai sensi dell’editto de
adtemptata pudicitia, espresse da Ulpiano in comparativer Sprachweise, neganti, cioè, l’esistenza delle circostanze
comprese nel nostro editto.
Secondo il Wittmann il vestito era un
elemento importante, un presupposto oggettivo per l’applicazione
dell’editto de adtemptata pudicitia: in conseguenza egli ritiene che,
sebbene l’editto non stabilisse che la matrona dovesse vestire un certo
abito, per Ulpiano il concetto di habitus
matronalis fosse inerente alla materfamilias. In questo modo non solo l’igitur
troverebbe una sua ragione logica, ma apparirebbe necessario, perché
l’editto de adtemptata pudicitia non avrebbe avuto luogo in quel caso.
Anche José Santa Cruz e Alvaro
D’Ors[61] ritengono che, per commettere il
delitto di attentato alla pudicizia tramite appellatio, l’abito fosse elemento
obiettivo della onorabilità della persona che lo indossava. Nel caso in
cui, invece, la matrona non indossasse l’abito da donna onesta, veniva
garantita una forma minore di tutela in forza dell’azione concessa per il
delitto di iniuria generale, e non di iniuria speciale, quale era l’attentato
alla pudicitia (ritenuto più grave).
Secondo questi studiosi le
“proposte indecenti” rivolte a una meretrice non avrebbero
costituito appellatio, ma venivano accettate più o meno volentieri al pari
degli altri inconvenienti di questo triste lavoro. Non ponevano in essere,
pertanto, alcun attentato alla alterius pudicitia.
Questi studiosi si rifanno, in
particolare, ad un passo del Codex di Giustiniano in cui si parla,
appunto, delle meretrici e della foedissima
earum nequitia di
coloro che pudorem suum alienis libidinibus
prosternunt[62]. La meretrice fa guadagno del suo
corpo, palam quaestum facere, non solo nei lupanari o nelle
taverne, ma anche in ogni altro posto in cui pudori
suo non parcit.
Non si può quindi parlare di appellare in riferimento a una meretrice
poiché essa è, in principio, priva di pudicizia. Tuttavia colei
che indossi l’abito proprio di una meretrice non concede, per ciò
stesso, piena libertà, a chiunque la veda, di rivolgerle una appellatio. Infatti, se non è realmente
una prostituta, ella è tutelata dall’actio iniuriarum, sebbene, in casi come questi, il giudice, nell’aestimatio, dovesse attenuare la pena.
Secondo questi studiosi per il discorso
sulla schiava, rileva il riconoscimento di una certa sua dignità, che
consente l’esercizio dell’actio
iniuriarum nel caso di attentato alla
sua pudicitia, in riferimento a D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.)[63].
Il
Santa Cruz e il D’Ors credono che solamente ipotizzando un’actio
iniuriarum speciale, derivante dall’editto de adtemptata pudicitia
e distinta da un’actio iniuriarum generale derivante
dall’editto generale (de iniuriis aestumandis), si risolva la contraddizione
che emerge dal passo ulpianeo, nel quale si contemplano le ipotesi di una donna
non vestita da donna onesta. Costei, non potendo essere tutelata in forza
dell’azione di ingiuria per attentato alla pudicizia, che presuppone
necessariamente una dignità di matrona esteriorizzata attraverso un
abito adeguato al proprio rango, può tuttavia giovarsi dell’azione
generale, che comportava, per l’offensore, una condanna inferiore a
quella che sarebbe stata comminata per l’ipotesi più grave.
Dora
De la Puerta Montoya, infine, che ha
dedicato al nostro editto un’interessante monografia[64],
riprende sostanzialmente la tesi di Santa Cruz e di D’Ors e sostiene che
l’intenzione di Ulpiano in D. 47.10.15.15 era quella di supplire ad una
lacuna dell’editto de adtemptata pudicitia, ricorrendo in via
sussidiaria all’azione generale di ingiurie per una serie di casi nei
quali non era possibile l’applicazione del nostro editto, rivolto a
soggetti determinati, caratterizzati oggettivamente dal modo di vestire.
Questa
conclusione sarebbe confermata dal fatto che, come si precisa in D. 47.10.15.21[65], chi
usa un linguaggio turpe non offende la pudicitia, ma è tenuto con
l’actio iniuriarum: secondo la studiosa è evidente la
relazione tra l’azione speciale de adtemptata pudicitia e l’actio
iniuriarum generale; ella sostiene che Ulpiano opta per una interpretazione
restrittiva dell’editto, sulla base della quale se i soggetti protetti, matronae
e praetextati, non avessero indossato l’habitus matronali e
la toga praetexta, non avrebbe avuto luogo l’azione speciale, ma
quella generale.
Cercando di cogliere i dati più
rilevanti della discussione sul passo, emergono due punti chiave: il primo
riguarda l’incidenza dell’abito matronale nella configurazione del
delitto di attentata pudicizia; il secondo, invece, il rapporto tra editto
generale ed editti speciali.
In
forza di un’enorme quantità di fonti[66],
appare indubitabile che l’abito fosse considerato nella società e
nella cultura romana un segno distintivo di una certa identità sociale,
un simbolo evidente di appartenenza a un ceto piuttosto che ad un altro[67].
Per le
donne tutto ciò era ancora più vero: molto forte appariva la
corrispondenza tra identità formale, data dall’abito, e
identità sostanziale: esistevano, infatti, una serie di usi e costumi
che imponevano o vietavano, a seconda del tipo di donna, l’uso di certi
indumenti fortemente caratterizzanti.
Le
fonti descrivono i differenti abbigliamenti di matrone, schiave o prostitute[68], secondo
la tripartizione che emerge dal nostro editto: la tunica era il vestito base di
uomini e donne. Quella femminile, tuttavia, era più ampia e più
larga: in tempi più antichi essa non aveva maniche, ma successivamente
si affermò l’uso delle maniche fino al gomito e, in seguito, fino
alle mani. In alcune occasioni si indossavano due tuniche, sovrapposte.
La
stola era l’indumento tipico delle matrone: di maggiore ampiezza e
lunghezza rispetto alla tunica, essa arrivava fino a terra formando pieghe, e
si bloccava sul fianco con una cintura. Quando uscivano, sulla stola le matrone
ponevano il pallium, una mantellina quadrata che copriva il capo e le
spalle[69].
In linea di massima possiamo dire che quando le matrone si
mostravano in pubblico, cosa abbastanza rara, esse erano totalmente coperte:
anche il loro viso, infatti, era nascosto dalla stessa stola o dal velo che
scendeva dal capo.
L’abito della donna rispettabile tendeva, quindi, come
anche gli scrittori satirici mettono in evidenza, ad avere una funzione protettiva
e ad evitare di attirare l’attenzione altrui: era, evidentemente, un
segno di onore e di riserbo sessuale[70].
Orazio ironizza sull’ansia di colui che avesse ricercato le
donne per bene, il quale non solo sarebbe incorso nelle leggi di Augusto contro
l’adulterio, ma anche nel possibile inganno sulla “mercanzia”
che si nascondeva sotto il manto e le lunghe vesti di una donna coperta da capo
a piedi; al contrario, le cortigiane non lasciavano spazio al dubbio,
poiché mettevano in bella mostra le loro fattezze[71].
Le schiave indossavano vestiti quali sai, tuniche, soprabiti e
pezze: sebbene andassero in pubblico coperte al pari delle matrone, il loro
abbigliamento, di solito, era molto più dimesso.
Alcune testimonianze letterarie, inoltre, definiscono diverse
categorie di donne adoperando un termine che indicava un tipico indumento del
loro abbigliamento: le matrone erano chiamate stolatae[72]; per
le prostitute, viceversa, almeno in certi casi si impiegava il termine togatae[73].
Esse, infatti, indossavano - sopra una corta tunica, di un colore
caratteristico, il galbinus, di seta o tessuto trasparente - un
indumento tipicamente maschile, la toga, solitamente di colore scuro.
Portavano, inoltre, un manto di lino, detto amiculum[74],
imposto, in séguito, anche alle donne colpevoli di adulterio.
In poesia, in modo metonimico, un indumento diviene talvolta il
simbolo di una determinata categoria di donne: in alcuni passi la matrona
è definita instita[75],
dall’ornamento della stola, un volante o una frangia color porpora
applicati sul suo orlo inferiore[76].
Ciò che si può dire, allo stato attuale delle
fonti, è che l’idea che la prima manifestazione esterna della pudicitia
fosse l’abbigliamento era radicata nel contesto sociale in cui
l’editto operava, tuttavia non si può affermare che l’editto
facesse espressa menzione dell’abito matronale: probabilmente
nell’apprestare tutela alla pudicizia delle donne onorate, appartenenti
alle classi sociali elevate, il concetto di un abbigliamento consono al proprio
rango era ritenuto implicito.
Il fatto che l’editto assuma dal contesto sociale
l’identificazione tra abito e appartenenza ad una classe sociale è
confermato dal riferimento agli altri soggetti da esso tutelati: oltre alle
matrone, i praetextati e le praetextatae.
Il praetextatus era colui che indossava la toga
praetexta: praetexta appunto perché orlata di rosso[77]. Pare
che questo capo di vestiario fosse stato adottato dai Romani a imitazione di
usanze etrusche[78]. La toga
praetexta era usata dai magistrati curuli, dai senatori, dai sacerdoti e
dai giovani e dalle giovani appartenenti alle famiglie aristocratiche. I
giovani dei ceti inferiori indossavano la semplice toga non orlata di rosso.
Nel contesto del nostro editto i praetextati sono, appunto, i giovani
appartenenti ad un determinato rango sociale, i quali indossavano la toga
praetexta fino al momento dell’età adulta[79]. Le
giovani la abbandonavano nel momento in cui contraevano matrimonio: i giovani quando
indossavano la toga virile, ossia al compimento dei 17 anni durante la
Repubblica e dei 14 anni in età imperiale[80].
Nell’ipotesi, diciamo “pura”, di una materfamilias
in abito matronale, o di una virgo
adeguatamente vestita, l’offensore che avesse attentato alla sua pudicitia
sarebbe incorso nel nostro editto senza alcun dubbio, dato che, in tal caso, la
volontà di offendere, l’animus iniuriandi diretto al
ferimento della pudicitia di una matrona, con un comportamento contrario
ai boni mores nei casi in cui ciò era rilevante, era
evidentemente presente, poiché l’offensore già a colpo
d’occhio sapeva con chi avesse a che fare.
Se la nostra matrona non fosse stata vestita in modo adeguato al
suo status, ma si fosse mostrata in pubblico meno coperta rispetto alle
solite usanze, con un abbigliamento più vicino a quello di un schiava o
di una meretrice, chiaramente sarebbe stato più difficile dimostrare
l’esistenza della volontà di offendere una matrona, poiché
l’abito poteva far pensare ad una donna di altro genere o rango.
In tal caso l’offensore, in ragione di un abito non
conforme alla dignità e al decoro di una matrona, avrebbe potuto
ignorare di aver rivolto le proprie attenzioni a una donna per bene, e il fatto
di non sapere di offendere una matrona, ma una donna qualsiasi, limitava,
comunque, l’animus iniuriandi necessario per l’applicazione
del nostro editto destinato alla protezione delle matrone.
Laddove, in ragione di un modo di abbigliarsi meno consono al
rango di matrona, l’offensore non sapesse chi avesse innanzi,
l’intenzione offensiva era limitata anche se punita, poiché di
fatto si traduceva, in ogni caso, in un obiettivo ferimento della pudicitia
di una donna. Tutto questo è confermato da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad
ed.):
Si quis tam feminam, quam masculum, sive ingenuos,
sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si
servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet.
In questo caso, cioè si igitur non matronali habitu
femina fuerit, Ulpiano ritiene che avrebbe avuto luogo l’actio
iniuriarum, ossia l’azione generale, che avrebbe portato ad una pena
inferiore, dal momento che si parla di minus e multo minus peccare.
Questa soluzione apparirebbe coerente con la logica dello
sviluppo del delitto di iniuria e la dialettica tra editto generale ed
editti speciali: considerando, infatti, che il rimedio processuale del generale
edictum e degli editti speciali era in ogni caso l’actio
iniuriarum[88],
l’igitur su cui si è tanto discusso ha ragione di esistere.
L’igitur appare del tutto pertinente, qualora esclusivamente
l’appellatio (e le altre due condotte che verranno analizzate
più avanti) di un soggetto vestito in modo consono al suo rango,
integrasse l’adtemptata pudicitia in modo pieno. Al contrario, il
medesimo comportamento, rivolto ad una donna per bene non vestita da matrona,
ma da schiava o da prostituta, comportava una semplice ingiuria, in conseguenza
dell’errore indotto nell’offensore da un abbigliamento non consono
al rango.
L’errore, in questo caso, escludeva l’animus
di offendere la pudicitia di una matrona, ma non quello di attentare
all’onorabilità di una donna, integrando, in conseguenza, come
rileva Ulpiano, un’iniuria meno grave (minus peccare videtur
e multo minus).
Di questo errore, e dunque del fatto di aver posto in essere
un’ingiuria “semplice”, si sarebbe tenuto conto in sede di aestimatio,
alla quale davano luogo sia l’actio iniuriarum predisposta dal generale
edictum, sia quella derivante dall’editto analizzato.
Si deve, inoltre, tenere presente un’altra fonte, D.
47.10.3.2-4 (Ulp. 56 ad ed.)[89].
Essa, per quanto relativa all’iniuria
in generale, svela i meccanismi di funzionamento di quello che potremmo
definire l’error in personam
nel contesto in esame, confermando la necessaria presenza dell’animus iniuriandi nel soggetto attivo[90].
Nel testo si esclude la responsabilità da iniuria per chi non sappia di compierla e
ignori a chi la stia arrecando: infatti si propone l’esempio di chi per
errore percuote un uomo libero credendolo un proprio servo[91]. In
questo caso, dice Ulpiano, l’offensore non è tenuto in forza
dell’actio iniuriarum. Il dato
che a noi interessa è che l’error
in personam esclude la responsabilità da iniuria nella misura in cui elimina completamente l’animus iniuriandi. L’error in personam, nel nostro caso,
può certamente escludere l’animus
di offendere una matrona, ma non quello di attentare alla pudicitia di altri individui, come emerge da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.).
Per avere un quadro più generale potremmo immaginare altri
casi, procedendo dalla lettura dei passi ulpianei e della testimonianza
tertullianea. Quest’ultima, però, mentre descrive i modi di
vestire delle donne, enfatizza, così come in altri contesti dell’Apologeticum,
le depravazioni del mondo pagano[92],
amplificandole, in alcuni casi, oltre il verosimile.
Sarebbe potuto accadere, forse, che una meretrice, magari
facoltosa, si abbigliasse come una matrona: ci si può chiedere come si
sarebbe comportato, in tal caso, il pretore. E’ probabile che, in questa
circostanza, per assenza di una pudicitia meritevole di essere difesa,
la prostituta non avrebbe ottenuto tutela né attraverso l’editto de
adtemptata pudicitia, né attraverso il generale edictum.
Un’ipotesi ulteriore è quella dell’attentato
alla pudicitia di una schiava, di cui
parla Ulpiano (57 ad ed.):
D.
47.10.9.4: Si quis tam feminam quam
masculum, sive ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit,
iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum
locum habet[93].
Questo caso appare più complesso, dal momento che solo in
presenza di determinate condizioni, valutate dal pretore, era concessa tutela
per offese arrecate agli schiavi. L’editto de iniuriis quae servis fiunt si applicava senz’altro per
ipotesi di lesioni fisiche particolarmente gravi, mentre tutti gli altri casi
di iniuria
erano tutelati solo a seguito di causae
cognitio pretoria: il pretore doveva tener conto sia delle caratteristiche
dello schiavo offeso, sia dell’eventuale circostanza che l’offesa
si fosse riverberata direttamente sul
dominus, in base all’animus iniuriandi del soggetto attivo, oppure se essa lo
coinvolgesse solo in via mediata[94].
Riteniamo che nel caso di attentata pudicizia di una schiava il dominus sarebbe stato tutelato
attraverso l’editto de iniuriis
quae servis fiunt, previa causae cognitio del pretore, in considerazione della possibile diminuzione
del valore della schiava in questione, ed in considerazione anche della
collocazione del passo di Ulpiano nel contesto di osservazioni di carattere generale sul delitto di iniuria[95].
La
modalità di attentato alla pudicitia
consistente nell’appellare
è delineata dal frammento che abbiamo avuto già modo di
analizzare in riferimento ai soggetti offesi dal delitto:
D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari veste vestitas, minus
peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non matrum familiarum
vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et quis eam
appellavit, vel ei comitem abduxit, iniuriarum [non] tenetur.
Il
comportamento punito, l’appellare appunto, consiste nell’indirizzare a qualcuno parole che
lo incitino a compiere qualcosa di immorale, attentando in tal modo alla sua pudicitia.
Il verbo appellare[96], in
generale, significa rivolgersi a qualcuno, richiamare l’attenzione di una
persona: in questo specifico contesto, tuttavia, esso indica una forma di
corteggiamento, di richiamo insinuante e carezzevole. Infatti nel prosieguo del
passo, D. 47.10.15.20-22 (57 ad ed.), lo stesso Ulpiano precisa che non
si tratta di tentare di sedurre usando parole oscene o un linguaggio turpe, ma
utilizzando discorsi lusinghieri:
Appellare est blanda
oratione alterius pudicitiam adtemptare: hoc enim non est convicium facere, se
adversus bonos mores adtemptare. Qui turpibus verbis utitur, non temptat pudicitiam,
sed iniuriarum tenetur. (...) appellat enim, qui sermone pudicitiam adtemptat
(...).
Ciò che è punito non è, dunque,
l’abbordare in modo volgare, comportamento che configura, invece,
l’ipotesi di convicium facere[97] o, se
non ve ne sono gli elementi, di iniuria, ma l’uso di un linguaggio
volto a lusingare ed allettare, e quindi ad attrarre e invitare[98], con
lo scopo di corrompere[99]
l’altrui pudicizia.
La seconda ipotesi di adtemptata pudicitia consiste nel comitem
abducere, i cui elementi caratterizzanti sono ancora una volta indicati da
Ulpiano:
D. 47.10.15.16-18 (Ulp. 57 ad ed.): Comitem accipere debemus eum, qui comitetur
et sequatur, et, ut ait Labeo, sive liberum, sive servum, sive masculum, sive
feminam. Et ita comitem
Labeo definit, qui frequentandi cuiusque causa, ut sequeretur destinatus, in
publico privatove abductus fuerit; inter comites utique et paedagogi erunt.
Abduxisse videtur, ut Labeo ait, non qui abducere comitem coepit, sed qui
perfecit, ut comes cum eo non esset. Abduxisse autem non tantum is videtur, qui
per vim abduxit, verum is quoque, qui persuasit comiti, ut eam desereret.
Si
delinea qui un altro modo con cui si offende la pudicitia: il comitem
abducere. Queste parole, letteralmente, significano allontanare l’accompagnatore
dalla donna o dal praetextatus/a.
E’
importante, per capire la natura dell’offesa di questo comportamento,
ricordare come fosse costume degli esponenti dei ceti elevati che donne e
giovani non uscissero per strada se non accompagnati da un servo o da un
familiare: il comes per l’appunto, vero e proprio scudo protettivo
del loro onore[100].
Pertanto colui il quale facesse sì che l’accompagnatore lasciasse
la donna (o il giovane) da sola (o da solo), la esponeva (o lo esponeva),
inevitabilmente, alla vergogna e al ridicolo, e, soprattutto, ad una cattiva
reputazione, poiché in tal modo sussisteva il pericolo che la persona in
questione venisse confusa con una prostituta o con un individuo di condizione
servile. E, cosa ancora più probabile, come sostiene ad esempio il Raber[101], in
tal modo, di fatto, si sarebbe consentito ai malintenzionati di corteggiare con
maggiore libertà la matrona o il praetextatus/a.
La
punibilità di questa condotta, in quanto oltraggiosa della pudicizia,
è altresì confermata da Ulp. D. 47.10.9 pr. (57 ad ed.):
Sed
est quaestionis, quod dicimus re iniuriam atrocem fieri, utrum, si corpori
inferatur, atrox sit, an et si non corpori, ut puta vestimentis scissis, comite
abducto vel convicio dicto.
e da
Ulp D. 47.10.1.2 (56 ad ed.):
Omnemque
iniuriam aut corpus inferri aut dignitatem aut ad infamiam pertinere: in corpus
fit, cum quis pulsatur: ad dignitatem, cum comes matronae abducitur ad
infamiam, cum pudicitia adtemptatur.
E’
un brano, quest’ultimo, di difficile comprensione, ma non necessariamente
contraddittorio con quanto emerge da altre testimonianze immediatamente
riferibili al commento al nostro editto: quest’ultimo, come è
noto, prendeva in esame più ipotesi, ma il giurista, nel passo in
questione, che appartiene ad un’altra parte del suo commentario, si pone
in un’ottica diversa. Egli non analizza qui le diverse ipotesi di adtemptata
pudicitia, ma tratta dell’iniuria in generale, sottolineando che,
mentre l’allontanare il comes lede
la dignitas della matrona (e della sua
familia), altre e ulteriori azioni,
colpendo la sua pudicitia, potrebbero
intaccarne – noi diremmo – la buona reputazione (cui conseguirebbe
l’infamia).
L’unico
modo per superare l’incongruenza è quello di ritenere che in esso non
venga qualificato il comportamento in relazione all’editto, ma si abbia
in vista il bene tutelato: il corpus, la dignitas, il buon nome.
Il primo frammento, poi, è significativo anche sotto un
altro profilo, perché lascia intendere la particolare gravità del
comitem abducere, tanto da far
discutere se fosse iniuria atrox.
Essendo poi l’allontanamento unito in un unico editto speciale con le
altre ipotesi di attentato alla pudicitia,
consente di supporre che anche le altre due, pur non essendo probabilmente
considerate atroci, erano tuttavia ipotesi di iniuria grave.
A proposito dell’allontanamento dell’accompagnatore,
dobbiamo notare l’assenza nell’editto del limite dei boni mores,
evidentemente perché di per sé tale comportamento integrava una violazione
del buon costume. Il raffronto con testi letterari[102], ed
in particolare con alcuni passi dell’Ars amatoria di Ovidio[103],
consente però di ipotizzare che non solo le matrone andassero
accompagnate dal comes, ma anche donne di altro genere.
Questo
apre problematiche che si riagganciano alla questione legata all’abito:
è ipotizzabile, infatti, che anche una prostituta facoltosa potesse
uscire con un accompagnatore, atteggiandosi a donna per bene, e che una
schiava, particolarmente apprezzata dal suo dominus, fosse protetta con
un accompagnatore.
La
prostituta non avrebbe naturalmente avuto tutela giacché si parla
espressamente di matronae, praetextati e praetextatae,
mentre la schiava l’avrebbe ‘ricevuta’, nell’ambito
dell’editto de iniuriis quae servis fiunt, se, a seguito della
valutazione dell’accaduto e delle varie condizioni, in sede di causae
cognitio il pretore lo avesse
ritenuto opportuno[104].
Alla
luce di questa eventualità possiamo inoltre ipotizzare che una matrona,
vestita con un abito non consono al suo rango, procedesse comunque per la via
pubblica accompagnata dal suo comes: ai fini della valutazione
dell’elemento soggettivo è da considerare quanto avrebbe inciso la
presenza del comes nel creare nell’offensore la consapevolezza di
avere a che fare con una donna per bene, sebbene non vestita adeguatamente.
Probabilmente
vale, anche in questo caso, il medesimo discorso che è già stato
svolto a proposito dell’abito: infatti, non essendovi una chiara e
completa manifestazione del rango proprio di una matrona, il dolo non poteva
essere pieno, ma limitato, e quindi l’azione consentita sarebbe stata
quella per l’iniuria semplice, e, di conseguenza, inferiore la
pena eventualmente comminata. Non si sarebbe potuto in tal caso imputare
all’offensore il dolo specifico necessario per l’esistenza del
delitto di adtemptata pudicitia, cioè la volontà di
corrompere la pudicitia di donne e fanciulli per bene.
Ritornando al nostro editto, il passo di Ulpiano (D. 47.10.15.22,
57 ad ed.) prosegue delineando la terza modalità di attentato
alla pudicitia, l’adsectari,
ipotesi attestata anche da Gaio[105] e
dalle Istituzioni di Giustiniano[106].
D.
47.10.15.19 (Ulp. 57 ad ed.): Tenetur
hoc edicto non tantum qui comitem abduxit, verum etiam si quis eorum quem
appellavisset, adsectatusve est.
Il verbo adsectari in generale significa seguire qualcuno,
essergli sempre accanto ad ogni passo[107]: in
questo caso, quindi, l’inseguimento deve essere non solo silenzioso, ma
anche frequente e insistente. Un unico inseguimento non apparirebbe sufficiente
per integrare il comportamento punito dall’editto, poiché
l’onore della persona può essere compromesso solamente se costei
è seguita frequentemente e in modo indiscreto, come precisa la stesso
Ulpiano:
D.
47.10.15.22 (Ulp. 57 ad ed.): Aliud
est appellare, aliud adsectari; (...) adsectatur, qui tacitus frequenter
sequitur: adsiduo[108] enim frequentia quasi praebet nonnullam infamiam.
Il passo appare di grande importanza poiché spiega il
motivo per cui l’adsectari
configura un illecito: il seguire assiduamente genera di per sé una
qualche infamia poiché tale condotta, il seguire nella pubblica via una
donna, in silenzio e insistentemente, si soleva tenere con donne di malaffare.
E’ da notare che,
come nel caso dell’appellare, anche l’adsectari è punito solo se compiuto contra bonos mores,
come risulta da D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.):
Meminisse
autem oportebit, non omnem, qui adsectatus est, nec omnem, qui appellavit, hoc
edicto conveniri posse; neque enim si quis colludendi, si quis officii honeste
faciendi gratia id facit, statim in edictum incidit, sed qui contra bonos mores
hoc facit.
Emerge quindi dalla parte finale di D.47.10.15.23 che non basta,
per quanto riguarda l’appellare, rivolgere parole dolci e insinuanti,
ad una donna o a un fanciullo e, per quanto riguarda l’adsectari,
seguirli con insistenza, ma è necessario che ciò avvenga contro i
buoni costumi: … sed qui contra bonos mores hoc facit.
Sulla base del testo in esame non si comprende se l’espressione
si riferisca alla peculiare sensibilità e moralità dei soggetti
offesi. In tema di convicium facere,
tuttavia, Ulpiano afferma:
D. 47.10.15.6 (Ulp. 57 ad ed.): Idem ait: “adversus
bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum
adversus bonos mores huius civitatis[109].
La natura dei boni mores rilevanti per l’editto de convicio assume quindi contorni
più netti: quel che conta non è se l’autore del delitto
contravvenga alla propria concezione di buoni costumi. Non si tratta di un
concetto soggettivo, ma di una nozione che assume un valore oggettivo e
concreto, rappresentato dai buoni costumi della civitas, nel loro
significato obiettivo di norme sociali comunemente accettate.
Per le ipotesi dell’adsectare
e dell’appellare il giurista
non specifica in che modo vada inteso il riferimento ai boni mores, ma proprio il suo silenzio consente di ritenere, almeno
sulla base delle fonti a noi pervenute, che anche nelle due ipotesi elencate di
adtemptata pudicitia si debbano assumere tali parole nel loro
significato obiettivo di norme sociali comunemente accettate.
Si
pone tuttavia il problema di dare una sostanza ai boni mores ai quali fa
riferimento l’editto, in modo che sia possibile verificare quando,
contravvenendo ad essi, si realizza la condotta repressa dal pretore.
Mos
è un termine antico, ma non sembra esprimere la realtà giuridica,
bensì la conformità di un comportamento a una tradizione, e
perciò ha riferimento a fatti più ampiamente sociali, quali i
riti religiosi, e il costume morale del singolo. Notevole una definizione che
si ritrova in Festo (46 L., s.v. mos):
mos est
institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones
caerimoniasque antiquorum.
Il
riferimento al costume è invece evidente nella locuzione, e nel relativo
istituto, della cura morum affidata ai censori. E’ infatti
nell’istituto del regimen morum, annoverabile tra le competenze
dei censori[110], che
si precisa il concetto di mores, inteso come complesso di comportamenti
cui il civis è tenuto sul piano morale e sociale, cioè il
concetto di boni mores.
La
grande importanza del costume sociale, nel suo conformarsi a valori permanenti
di moralità e di giustizia, è bene avvertita dai Romani
dell’età repubblicana che vedevano in esso uno dei pilastri della
solidità della civitas. E’ significativo che, al chiudersi
del regime repubblicano, Augusto, il restauratore dei valori tradizionali,
ricordi nelle sue Res Gestae[111] la cura
legum et morum offertagli come strumento essenziale per il rinnovamento
della compagine sociale.
Un diretto riferimento
ai boni mores è fatto da quelle norme che considerano invalido un
negozio giuridico che persegua finalità antigiuridiche o immorali o non
conformi alla convenienza sociale. Qui il valore dell’espressione
è assai generico, talvolta sono contemplati atti delittuosi o
giuridicamente illeciti: sicché al concetto si adegua di più
l’espressione turpis con cui talvolta vengono qualificati il
negozio o la sua causa[112].
Nella
maggior parte dei passi del Digesto in cui si parla di boni mores, il
termine rappresenta un limite all’autonomia privata[113],
mentre il ricorso a questo termine nell’ambito dell’iniuria[114] ha
una portata differente: in determinati casi una condotta comunemente accettata,
come dice esplicitamente Ulpiano, realizza il delitto in quanto contraria ad
essi[115].
Secondo
Theo Mayer-Maly[116] il
concetto di boni mores aveva un contenuto etico, e, in particolare, fu
grazie alla disciplina del delitto di iniuria che esso entrò nel
linguaggio edittale.
Lo studioso,
dopo aver analizzato il contenuto etico dei boni mores nell’ambito
della reverentia dovuta ai parentes e ai patroni[117],
passando in rassegna le fonti giuridiche deduce che i boni mores erano
in stretto rapporto con la pacifica convivenza del popolo.
L’A.
ritiene che la loro considerazione, quale limite alla libertà di
determinazione negoziale, sia più recente rispetto all’originario
contenuto etico, dato che le prime testimonianze relative a contratti
frequentemente utilizzati (mandatum e stipulatio) risalgono a
Gaio[118].
Il
Mayer-Maly osserva poi che fra i giuristi tardo-classici particolarmente
frequente risulta il richiamo ai boni mores da parte di Papiniano[119],
mentre una intensificazione dell’interesse verso i boni mores,
quale criterio, di contenuto etico, cui commisurare non contratti, ma pacta
e condiciones in termini generali e astratti, si riscontra nelle Pauli
Sententiae[120] e in
rescritti di Caracalla[121],
Gordiano[122] e
Diocleziano[123], dove
i boni mores vengono citati accanto a fonti giuridiche come le leggi, i
senatoconsulti e le costituzioni imperiali, e intesi quali regole sociali di
comportamento.
In
particolare, nell’ambito dell’iniuria, lo studioso sostiene
che i boni mores rappresentavano, senza dubbio, un concetto ben
definito, non vago: diversamente non avrebbero potuto essere assunti nel testo
edittale[124]; in
particolare secondo l’A. essi appaiono menzionati nei tre editti de
convicio, de adtemptata pudicitia, de iniuriis quae servis fiunt
con la funzione di delimitare l’ambito di applicazione dell’actio
iniuriarum.
Secondo
Elmer Polay[125], i boni
mores sarebbero estremamente rilevanti per il delitto di iniuria
perché essi rappresenterebbero, nell’ideologia dei ceti dominanti,
un valore essenziale che rafforza la loro coesione interna, e, in conseguenza,
la loro capacità di egemonizzare, anche dal punto di vista culturale e
dei valori condivisi, le classi subalterne.
L’egemonia dei ceti dominanti sarebbe stata collegata anche
alla circostanza che le classi subordinate partecipassero, condividendoli, dei
valori che si identificavano con i boni mores, e quindi con
l’ideologia della classe dominante stessa.
Secondo questo studioso, in particolare, il ricorso
all’elemento dei boni mores farebbe del delitto di iniuria,
con le varie fattispecie ad esso collegate, un mezzo di mantenimento
dell’ordine pubblico, attraverso la funzione economico-sociale della sua
repressione[126].
Un aspetto dei mores che pare essere importante per il
nostro studio, anche se il collegamento non è immediato, è rappresentato
dal processo di formazione e sviluppo di questo modello sociale e culturale[127], dal
modo in cui i boni mores della civitas, a cui Ulpiano fa
riferimento, si formavano e si affermavano.
Riprendendo la famosa definizione di Festo a cui si è
già accennato[128], e
affiancandola a quella, senza dubbio molto tarda, di Isidoro[129], si
vede che gli elementi dei mores erano essenzialmente due:
l’antichità e la consuetudine. Anche la spiegazione di mos
di Varrone[130] segue
tale direzione, tuttavia egli aggiunge un altro elemento: affinché il mos
si potesse definire tale era necessario non solo che si fosse consolidato nel
tempo, ma anche che fosse condiviso da una comunità di persone, le quali
su questo mos consentivano. Al consensus si fa frequente ricorso
per affermare il fondamento o la legittimità di un giudizio, di un
atteggiamento, di un comportamento, e a questo elemento fondamentale del mos
si collega una fonte riferita allo stesso Ulpiano quando in Tit. ex corp.
Ulp. 1.4 si afferma: Mores sunt tacitus consensus populi longa
consuetudine inveteratus.
I mores sono costituiti dal tacito consenso del popolo,
che si è affermato nel tempo per lunga consuetudine.
Varrone continua dicendo che il mos è un iudicium
animi[131], una
disposizione interiore che si afferma come mos vero e proprio solo al
momento in cui essa viene recepita come consuetudo e come tale si
afferma. Il mos da solo è una disposizione che dipende da un iudicium
animi: possiamo cogliere allora la necessità di Ulpiano, in D.
47.10.15.6[132], di
precisare che i boni mores non sono i buoni costumi riferibili
all’agente: perché il mos possa realizzarsi come prassi
collettiva, occorre infatti l’accettazione sociale che lo renda consuetudo.
La distinzione, quindi, fra il mos inteso come
disposizione interiore e la sua accettazione in forma di consuetudo,
attraverso il consensus collettivo, è un passaggio importante: il
mos presenta due dimensioni culturali molto diverse fra loro, quella
personale e quella collettiva.
Da questa precisazione si configura il mos collettivo come
una decisione presa da un gruppo, il quale raggiunge un consensus su un
certo comportamento; dopo di ché il medesimo gruppo ha la
capacità nel tempo di affermare questo comportamento, ma anche di
mutarlo, e ciò spiega perché i mores non sono concepiti
come qualcosa di assoluto.
Pur
rappresentando un dato oggettivo della realtà, essi sono per natura
fluidi e molteplici, fluidi perché non rappresentano un modello
definito, bensì un nucleo generativo di comportamenti, molteplici
perché la loro definizione avviene in realtà attraverso un gioco
di contrapposizioni fra gruppi interni ad una stessa comunità.
In questa ottica è allora plausibile un collegamento che
quasi nessuno degli studiosi che ha affrontato l’argomento ha tenuto in
considerazione: nella Palingenesia di Otto Lenel[133] si
considera riferito ai boni mores in tema di convicium il frammento di Ulpiano contenuto in D. 50.16.42, in cui
leggiamo:
Probrum et obprobrium idem est. Probra quaedam natura turpia sunt, quaedam civiliter
et quasi more civitatis. Ut puta furtum, adulterium natura turpe est.
Il legame tra i boni mores e il concetto di probrum[134],
termine tecnico che designa l’illecito morale punito dai censori, ci fa
pensare che comportamenti normalmente tollerati dal diritto, ma disapprovati
dall’opinione pubblica e passibili di nota censoria, potessero, in
presenza dei requisiti previsti, essere puniti anche dal pretore.
D’altra parte non dobbiamo trascurare un ulteriore legame
attestato dalle fonti, che può risultare interessante per il nostro
discorso: quello tra i boni mores e il ius publicum[135], e
che nell’ambito dell’iniuria pare rafforzarsi[136]. In
tal senso, dalla lettura di D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.)[137] e D.
47.10.33 (Paul. 10 ad Sab.)[138],
appare un elemento, a contrario, per cui si considerano compiuti adversus
bonos mores gli atti contrari al ius publicum.
Appare chiaro che anche di questi ulteriori aspetti dei boni
mores si debba tener conto, allora, nel nostro tentativo di superare la
difficoltà insita nella valutazione di un atto non illegale prima
facie.
Raccogliendo quanto sino ad ora è emerso dalle fonti e
dall’interpretazione che di esse hanno dato i diversi Autori che si sono
occupati del tema, possiamo dire che per boni mores dobbiamo intendere
non un sistema speculativo e astratto, ma l’insieme di quei valori,
derivanti dall’esperienza e dalla tradizione etico-sociale della civitas,
il cui rispetto garantiva la dignità, la buona reputazione e il decoro
dei singoli cittadini.
Il requisito della contrarietà ai boni mores
previsto nell’edictum de adtemptata
pudicitia attesta quindi da un lato la rilevanza politica dei costumi
privati, confermando, dall’altro, l’importanza fondamentale
dell’animus: proprio come nel caso del delitto di iniuria
punito dall’edictum generale, infatti, non è colpito dalle
sanzioni previste dall’edictum de adtemptata pudicitia chi
metta in atto tali comportamenti con l’intento di scherzare o di
adempiere un proprio dovere, ma solo chi agisce con il preciso intento di
offendere il soggetto passivo, lederne il buon nome e
l’onorabilità.
Era quindi necessario che l’offesa alla pudicitia,
perpetrata attraverso l’appellare o l’adsectari,
fosse, oltre che voluta, oggettivamente contraria al comune senso del pudore[139].
Tutto ciò è confermato dal fatto che per
l’ipotesi di allontanamento del comes non vi è il limite
dei boni mores, giacché l’allontanamento dello
“chaperon” dalla matrona, dalla fanciulla o dal ragazzo, integrava,
di per sé, un atto illecito, contrario ai buoni costumi[140], per
la regola sociale alla quale si è già accennato in sede di
analisi dei comportamenti puniti.
In ogni caso, come già si è osservato,
poiché si tratta dei boni mores della civitas[141], ci
troviamo davanti all’impossibilità di rifarci ad un parametro assoluto,
e quindi alla necessità di tenere conto della mutevolezza, nel tempo,
della sensibilità sociale.
Va sottolineato, però, che pure nel variare delle
convinzioni sociali e dei comportamenti comunemente tenuti, alcuni valori
continuarono ad essere avvertiti, almeno dal punto di vista formale, come
irrinunciabili. Come ricorda Francesco Grelle in un contributo sulla correctio
morum nella legislazione flavia[142],
«la rilevanza politica dei costumi privati, lo stretto nesso
intercorrente fra atteggiamenti individuali e prosperità comune erano
stati d’altra parte motivi ricorrenti già nella fase repubblicana,
sin dall’età delle guerre puniche. Più tardi il moralismo
augusteo aveva sottolineato gli elementi di stabilità e
continuità che ad un assetto politico fondato sul predominio dei ceti
abbienti romano-italici avrebbero dovuto offrire la famiglia, il matrimonio, la
procreazione».
In modo altrettanto perspicuo Giunio Rizzelli[143]
descrive il noto collegamento tra il mantenimento dell’assetto
costituzionale della comunità romana e il controllo dei comportamenti
sessuali (per esempio attraverso il ricorso ai tradizionali modelli di Lucrezia
e Virginia) ed esplicita, inoltre, come spesso l’interesse dei giuristi
romani a tale legame più che essere motivato soltanto da preoccupazioni
di natura morale o dall’evoluzione dei costumi nel senso di una eccessiva
rilassatezza, era giustificato da problemi di natura squisitamente patrimoniale
(ad esempio la legge augustea contro gli adulteri prevedendo ingenti sanzioni patrimoniali
a carico dei colpevoli implicava lo spostamento, attraverso un processo, di
notevoli masse patrimoniali). Dobbiamo ritenere pertanto che, seppure da una
parte risulta certo che le tre attività represse dall’editto - e a
maggior ragione i due comportamenti la cui repressione era subordinata alla
violazione dei boni mores - avevano in sé, e nelle loro
modalità di attuazione qualcosa di equivoco, di incerto, di
approssimativo, per cui non potevano essere identificate a colpo d’occhio
e come sicuramente ingiuriose per il soggetto passivo, la pudicitia
protetta dall’editto aveva sempre e comunque un senso oggettivo e va
intesa come onorabilità.
A conclusione dell’esame
dell’edictum de adtemptata pudicitia sarebbe certamente interessante
confrontare i comportamenti puniti dal pretore con quelli che dovevano essere i
modi usuali del corteggiamento: è punito l’appellare, che,
come abbiamo detto, non consisteva nel rivolgere complimenti pesanti e volgari,
poiché in questo caso si sarebbe usciti dall’ambito
dell’editto speciale, per ricadere nell’iniuria
generale; è punito l’atteggiamento di chi con insistenza
silenziosa segue l’oggetto dei propri desideri, ma in ambedue i casi il
delitto si perfeziona solo se il comportamento del “corteggiatore”
è posto in essere in modo contrario ai boni
mores, e, non va dimenticato,
con la volontà e la consapevolezza di offendere la pudicitia di
un soggetto tutelato. L’allontanamento dell’accompagnatore, poi,
qualora sia compiuto con la volontà di offendere, è sempre
considerato contra bonos mores. Evidentemente invaghirsi di qualcuno
e tentare di comunicare i propri sentimenti e di suscitarne di equivalenti
richiedeva degli autentici equilibrismi.
Si tenterà, pertanto, di
contestualizzare i precetti normativi dell’editto facendo ricorso alla
poesia amorosa latina, ed in particolare all’Ars amatoria di Ovidio che, per la sua specifica attinenza ai temi delle
relazioni sessuali, consente di cogliere, per certi aspetti, la reale portata
dell’editto.
Come è noto, da Catullo[144] in
poi la poesia latina celebrò l’amore in tutti i suoi aspetti. Dopo
l’elegia erotica[145] del I
sec. a.C., Ovidio propose un’autentica precettistica della seduzione: la
poesia elegiaca era una poesia di corteggiamento, che, per certi aspetti,
celebra proprio alcuni comportamenti puniti dal nostro editto.
Ovidio vive in un’epoca in cui l’esaurirsi della
lotta politica aveva creato un solco fra letteratura e realtà: alla
cultura ufficiale, della cui organizzazione era ormai l’imperatore ad
occuparsi, faceva riscontro l’esercizio letterario coltivato sovente
all’ombra delle scuole di retorica[146]. Le opere ovidiane di
argomento erotico, nelle quali si rispecchia la vita mondana della capitale,
non apparivano conformi ai principi fondamentali del programma augusteo,
spiritualmente lontane, com’erano, al di là di qualche riferimento
d’occasione, dai progetti di restaurazione perseguiti dall’imperatore[147].
Stridevano fortemente con la linea politica augustea, volta a ripristinare gli
antichi costumi, quelle parti dell’opera ovidiana che illustravano le
tecniche della seduzione amorosa. E’ addirittura probabile che proprio
l’Ars amatoria e la sua pubblicazione abbiano indotto Augusto a
non recedere dalla decisione di infliggere a Ovidio l’esilio perpetuo[148].
L’Ars amatoria è
un vero e proprio trattato in tre libri, nel quale vengono appunto esposte le
tecniche della conquista amorosa alla maniera delle opere didascaliche[149].
Nel proemio Ovidio definisce subito la materia dell’opera,
secondo le norme compositive proprie del poema didascalico: si rivolge al
popolo romano che ancora ignora l’arte di amare, e per legittimare
l’assunzione dell’amore come argomento di un “manuale”
che ne sveli la tecnica, essa è paragonata ad attività materiali
come la navigazione e la guida dei carri, mestieri dominati dalla ragione e
dalla volontà dell’uomo, e regolati da un insieme di norme
codificate che, pertanto, si possono apprendere[150].
Segue poi una chiara delimitazione dei suoi destinatari: l’Ars
non si rivolge alle matronae dell’Urbe, ma alle etere[151], cui
era concessa maggiore libertà e, in conseguenza, spregiudicatezza. A
questa affermazione, in seguito, farà riferimento il poeta per
respingere le accuse di immoralità, pur non riuscendo a riconquistare
l’indulgenza di Augusto. In realtà, come il principe ben
capì, l’Ars era un affresco minuzioso della vita galante di
Roma e dei costumi dei ceti abbienti, che, proprio in quegli anni, Augusto
aveva tentato di moralizzare, riconducendoli alla supposta antica
semplicità e all'austerità delle origini della repubblica.
L’Ars è descrizione dei luoghi di incontro e
degli ambienti del bel mondo dell’Urbe, in cui si possono utilizzare in
modo proficuo le tecniche della seduzione. Le occasioni più favorevoli
sono costituite dai momenti di aggregazione ufficiale della comunità,
come le feste e le cerimonie sacre. Ovidio non basa la sua opera su una vicenda
amorosa, ma su una serie di situazioni esemplari grazie alle quali può
sviluppare un’efficace azione precettistica. Inoltre, la scelta di un
punto di osservazione esterno da parte del poeta produce non più i complici
ammiccamenti di chi si collocava all’interno del genere per scomporlo e
definirlo in modo diverso, come i poeti elegiaci precedenti, ma la chiara
enunciazione di modi di comportamento della vita mondana e del mondo galante.
Il primo libro si intrattiene sui modi per conquistare la donna:
dove incontrarla, come sceglierla, quale tattica seguire per attirare la sua
attenzione e carpirne la benevolenza, quali stratagemmi usare, infine, per far
breccia nel suo cuore. Nel secondo si forniscono ammaestramenti sulla maniera migliore
di mantenere viva la fiamma d’amore, mentre nel terzo ci si rivolge alle
donne, indirizzando loro idonei precetti, proprio come il poeta aveva fatto, in
precedenza, rivolgendosi ai giovani dell’altro sesso.
Dal momento che si tratta di un’opera letteraria, non si
può certamente sperare che essa permetta davvero di cogliere la reale
portata dell’edictum de adtemptata pudicitia: e tuttavia,
consentendoci di comprendere quali concrete strategie si utilizzassero nel
corteggiamento amoroso, l’Ars amatoria fornisce qualche indizio
utile per mettere a fuoco i comportamenti contemplati dal pretore[152].
D’altra parte Ovidio sembra ben consapevole di addentrarsi
in un campo minato, tanto che propone una serie di avvertenze, in primo luogo
nella dichiarazione di intenti nell’esordio dell’opera, in cui si
afferma che le donne a cui era riservato l’ornamento della stola, le matronae, e le ragazze per bene, non dovevano (este
procul) accostarsi all’opera di Ovidio[153], e lo
stesso avvertimento il poeta ripete nell’apertura dei libri II[154] e III[155].
Queste affermazioni – che pur intendendo fugare ogni
sospetto di immoralità, non lo salvarono dall’esilio –
contrastano non poco con le minuziose descrizioni sparse nell’opera che
descrivono con precisione la vita galante dei ceti abbienti di Roma.
In ogni caso, al di là di quello che poteva essere il
più sincero e recondito intento di Ovidio, quello che a noi interessa
è il fatto di rinvenire, in un’opera programmaticamente
indirizzata al corteggiamento, l’idea che, come si è visto, fa da
sfondo del nostro editto: la pudicitia si manifesta esteriormente, in
primo luogo attraverso l’abbigliamento.
Ulteriore corrispondenza si rinviene tra i comportamenti
contemplati dall’editto e le tecniche insegnate da Ovidio per avvicinarsi
con successo a feminae e puellae. In queste tattiche la dolce
eloquenza s’impone in ogni corteggiamento vittorioso.
Per una scelta oculata dell’oggetto del corteggiamento il
poeta consiglia la frequentazione di luoghi di incontro pubblici e di
spettacoli, nei quali si potevano porre in essere le condotte punite dal nostro
editto: infatti in esso si contemplano le ipotesi di donne e giovani che
passeggiano al di fuori delle mura domestiche, in uno di quei luoghi che il
poeta giudica pericolosi per la pudicitia[156].
Una volta individuata la donna da conquistare il poeta insegna
che è importante impadronirsi dell’arte della parola convincente,
la stessa che permette all’oratore di dominare assemblee e tribunali, e
delle blanditiae, i complimenti che irretiscono la donna, in un modo
molto delicato e mai volgare:
Ars
Amatoria I.459-468: Disce bonas
artes, moneo, Romana iuventus, / non tantum trepidos ut tueare reos; / quam
populus iudexque gravis lectusque senatus, / tam dabit eloquio victa puella
manus. / Sed lateant vires, nec sis in fronte disertus; / effugiant voces verba
molesta tuae. / Quis, nisi mentis inops, tenerae declamat amicae? / Saepe
valens odii littera causa fuit./ Sit tibi credibilis sermo consuetaque verba,/
blanda tamen, praesens ut videare loqui[157].
Con un movimento di impronta didascalica, esaltato dalla parola
tematica iniziale e dal tono elevato, il maestro[158] fa un
elogio, in ambito generale, degli studi che portano i giovani al possesso della
parola e dell’eloquenza. Parla in generale di bonae artes, cioè
del complesso delle discipline che concorrono a formare l’oratore, ma tra
queste spicca, come massima e compiuta realizzazione, l’eloquenza. Il
potere della parola è quindi immenso ed è, indiscutibilmente, il
supremo strumento di seduzione, è per tale ragione devono essere ben
chiare le caratteristiche delle parole del corteggiamento: queste non devono
tradursi in verba molesta, cioè parole sgradevoli, ma devono
essere blanda, dolci e seducenti[159].
In questa ottica, infatti, ogni volta in cui il poeta ricorre,
soprattutto a proposito dei primi approcci con la donna, al mezzo della parola,
si riferisce sempre alle blande parole o al blando discorso:
Ars
Amatoria I.569-578: Hic tibi multa
licet sermone latentia tecto / dicere, quae dici sentiat illa sibi: /
blanditiasque leves tenui perscribere vino, / ut dominam in mensa se legat illa
tuam: / atque oculos oculis spectare fatentibus ignem: / saepe tacens vocem
verbaque vultus habet. / Fac primus rapias illius tacta labelli / pocula,
quaque bibet parte puella, bibas: / et quemcumque cibum digitis libaverit illa,
/ tu pete, dumque petis, sit tibi tacta manus[160].
Questo passo riunisce tutti gli elementi della tradizione
elegiaca: il linguaggio criptico delle parole, dei segni, dei gesti e degli
sguardi sono tutti strumenti necessari ad istituire una forma di contatto con
la donna[161].
Il necessario ricorso alla blanditia, in modo particolare
nella prima fase del corteggiamento, è confermato da I.605-624, in cui
è posto in evidenza come questa debba anche necessariamente essere
nutrita di lodi e complimenti per la donna a cui ci si rivolge:
Ars
Amatoria I.605-624: Insere te
turbae, leviterque admotus eunti / velle latus digitis, et pede tange pedem. /
Conloquii iam tempus adest; fuge rustice longe / hinc pudor; audentem Forsque
Venusque iuvat. / Non tua sub nostras veniat facundia leges: / fac tantum
cupias, sponte disertus eris. / Est tibi agendus amans, imitandaque vulnera
verbis; / haec tibi quaeratur qualibet arte fides. / Nec credi labor est: sibi
quaeque videtur amanda, / pessima sit, nulli non sua forma placet. / Saepe
tamen vere coepit simulator amare, / saepe, quod incipiens finxerat esse, fuit.
/ Quo magis, o, faciles imitantibus este, puellae: / fiet amor verus, qui modo
falsus erat. / Blanditiis animum furtim deprendere nunc sit, / ut pendens
liquida ripa subestur aqua. / Nec faciem, nec te pigeat laudare capillos. / Et
teretes digitos exiguumque pedem: / delectant etiam castas praeconia formae; /
virginibus curae grataque forma sua est[162].
Gli approcci, preparati durante il banchetto e poi
all’uscita, tra la folla dei convitati, si manifestano in forma
più diretta con i primi scambi di battute disinibite e accattivanti:
parole apparentemente spontanee e appassionate, piene di lusinghe e
complimenti. In questo ritmo di approcci, il pudor, cioè
l’aspetto soggettivo della pudicitia, la riservatezza e
l’imbarazzo, è personificato e definito rusticus,
campagnolo e rozzo, inadatto alle regole della mondanità cittadina[163].
Sempre in tale direzione ci ritroviamo leggendo I.663-664 e
I.709-720:
Ars
Amatoria I.662-663: Quis sapiens
blandis non misceat oscula verbis? / Illa licet non det, non data sume tamen[164];
Ars
Amatoria I.709-720: Vir prior
accedat, vir verba precantia dicat: / excipiet blandas comiter illa preces. /
Ut potiare, roga: tantum cupit illa rogari; / da causam voti principiumque tui.
/ Iuppiter ad veteres supplex heroidas ibat: / corrupit magnum nulla puella
Iovem. / Si tamen a precibus tumidos accedere fastus / senseris, incepto parce
referque pedem. / Quod refugit, multae cupiunt: odere quod instat; / lenius
instando taedia tolle tui. / Nec semper veneris spes est profitenda roganti: /
intret amicitiae nomine tectus amor[165].
E’ qui illustrato il gioco delle parti nel corteggiamento:
l’iniziativa è presa normalmente dall’uomo, che non
può pretendere avances dalle ragazze, ma in certi casi quando le
reazioni della donna sono di orgoglio e di disdegno, meglio tirarsi indietro e
farsi desiderare. In altri casi, per vincere forti resistenze psicologiche,
l’iniziativa deve assumere forme di diplomatica cautela, per arrivare
all’amore attraverso l’amicizia: da ciò noi apprendiamo che
il pudore femminile è la norma[166].
Altri versi, tratti dal II libro dell’Ars,
confermano la blanda natura della parola che caratterizza il sermo
amoroso, non solo nella fase iniziale del corteggiamento, ma anche in quella
successiva, allo scopo, però, di conservare l’amore della donna
conquistata[167].
Le parole utilizzate per l’appellare represso dal nostro editto[168] hanno la stessa blanda natura del sermo ovidiano: in entrambi i casi si
tratta, nella sostanza, di parole seducenti, di una serie di complimenti e
dolcezze. Tuttavia, mentre nella blanda
oratio punita dal nostro editto l’obiettivo è
quello di corrompere la pudicizia, cioè una consapevole volontà
di nuocere a un valore fondamentale[169], nelle blanditiae ovidiane quest’intenzione non è mai
esplicitamente rilevabile.
Al contrario il poeta, sin dall’inizio dell’opera, afferma
di non voler trattare della corte fatta a matrone o illibate fanciulle, ma a
donne di stampo e fama diversa: se poi il lettore farà un uso diverso
dei suoi consigli la responsabilità non sarà del poeta, per
quanto, indubbiamente, Ovidio non appaia esente da ogni malizia.
Questo
raffronto fa capire come il limite dei boni mores, oltrepassato il quale
opera l’editto, fosse tenuto ben presente da Ovidio: egli incoraggia
comportamenti che nella sostanza non si discostano da quelli puniti
dall’editto, ma essendo privi della volontà di offendere la pudicitia,
devono rimanere entro il confine segnato dai boni mores.
Altrettanto
possiamo dire per il comitem abducere[170]: anche
l’allontanamento dell’accompagnatore della donna figura come tappa fondamentale
della tattica amorosa predisposta da Ovidio nell’Ars, per superare
gli ostacoli che l’uomo avrebbe incontrato nel procedere alla sua
“conquista”.
Il corteggiatore deve cercare, in qualche modo, di convincere il custos
della donna a lasciargli campo libero, conquistando, eventualmente, la
complicità dell’ancella[171].
L’ancella è il personaggio chiave nei rapporti fra
il corteggiatore e la donna prescelta: la funzione dell’ancella è
quella dell’aiutante, nel favorire l’approccio, nella scelta del momento
adatto, nel suggerire alla padrona il nome del pretendente[172].
Si propone questo suggerimento anche in un’altra opera di
Ovidio: gli Amores, una raccolta di poesie il cui nucleo centrale
è rappresentato dal racconto dell’amore fra il poeta e una donna
(Corinna) in cui, in nuce, si rinvengono spesso consigli che il poeta,
in seguito, definirà più esaurientemente nell’Ars:
Amores
II.2.1-10: Quem penes est dominam
servandi cura, Bagoa, / dum perago tecum pauca, sed apta, vaca. / Hesterna vidi
spatiantem luce puellam / illa, quae Danai porticus agmen habet. / Protinus, ut
placuit, misi scriptoque rogavi. / Rescripsit trepida 'non licet!' illa manu; /
et, cur non liceat, quaerenti reddita causa est, / quod nimium dominae cura
molesta tua est. / Si sapis, o custos, odium, mihi crede, mereri / desine; quem
metuit quisque, perisse cupi[173].
Come per gli altri comportamenti con cui si realizza il delitto
di adtemptata pudicitia, non vi è un’eccezione per l’adsectari[174], che rientra
anche esso nel novero delle strategie di seduzione illustrate da Ovidio, il
quale consiglia di seguire l’amata, si sposti essa a piedi o in lettiga,
di sedersi non lontano da lei a teatro, di guardarla con insistenza ed
ammiccando, di imitare i suoi gesti:
Ars Amatoria
I.485-504: Quod rogat illa, timet /
quod non rogat, optat, ut instes; / insequere, et voti postmodo compos eris. /
Interea, sive illa toro resupina feretur / lecticam dominae dissimulanter adi,
/ neve aliquis verbis odiosas offerat auris, / qua potes ambiguis callidus abde
notis. / Seu pedibus vacuis illi spatiosa teretur / porticus, hic socias tu
quoque iunge moras: / et modo praecedas facito, modo terga sequaris, / et modo
festines, et modo lentus eas: / nec tibi de mediis aliquot transire columnas /
sit pudor, aut lateri continuasse latus; / nec sine te curvo sedeat speciosa
theatro: / quod spectes, umeris adferet illa suis. / Illam respicias, illam
mirere licebit: / multa supercilio, multa loquare notis. / Et plaudas, aliquam
mimo saltante puellam: / et faveas illi, quisquis agatur amans. / Cum surgit,
surges; donec sedet illa, sedebis; / arbitrio dominae tempora perde tuae[175].
In questo passo il poeta illustra tre circostanze: il passaggio
della donna in lettiga, l’ora del passeggio, l’incontro a teatro.
Sono tutte opportunità di approccio diretto con la donna: avvicinarsi
alla lettiga e intrattenere conversazione con la donna stesa sui cuscini,
sfruttare l’abitudine del passeggio tra i colonnati del grande Portico di
Pompeo e approfittare dello spettacolo teatrale, che consentiva un muto dialogo
a distanza, poiché le donne occupavano a teatro le file più alte,
trovandosi perciò dietro alle file riservate agli uomini[176].
La condotta repressa dall’editto, l’adsectari,
sembra essere sostanzialmente incoraggiata da Ovidio, ma poiché anche in
tal caso, come per l’appellare, l’operatività
dell’editto è legata al superamento del limite dei boni mores,
il poeta non giungeva sino al punto di consigliare un comportamento contrario
ai boni mores: esso poteva al più risultare fastidioso se alla
corteggiata il corteggiatore non fosse stato gradito.
L’Ars Amatoria conferma a gran voce quello che
implicitamente l’editto presupponeva: nella società romana
esistevano categorie umane e sociali incompatibili e inassociabili, la donne
per bene da un lato, le libertine e le meretrici dall’altro; per questo
motivo il poeta che si rivolgeva all’una non poteva rivolgersi anche
all’altra, anzi, sentiva il bisogno di escludere espressamente
l’altra dal raggio d’azione della sua voce poetica[177].
Questo rende chiaro un dato per noi decisivo: i comportamenti
presi in considerazione dall’editto erano puniti nella misura in cui
determinavano una possibile associazione tra queste categorie, tra queste sfere
distinte[178].
L’Ars conferma che la pudicitia[179]
protetta dal nostro editto va intesa in senso oggettivo come onorabilità
di matrone e giovani appartenenti a famiglie aristocratiche, testimoniando come
la tutela relativa ad un valore individuale sia anche strettamente funzionale
al mantenimento dell’ordine sociale[180].
Alla luce di tutto
questo, quindi, non possiamo ritenere che l’offesa alla persona derivante
dall’adtemptata pudicitia fosse l’unico aspetto preso in
considerazione dalla tutela edittale: il bene giuridico protetto
dall’editto era il buon nome, la buona reputazione della donna o dei
fanciulli: ma la violazione di questo bene giuridico avrebbe offeso non solo la
persona colpita, ma anche la fama della sua familia[181].
Le condotte punite
dall’editto, di per sé, non concretavano una violazione della
castità o della pudicizia della persona colpita, e, come nel caso
dell’appellare, erano molto spesso accompagnati da complimenti e
parole di lode nei confronti della donna, tuttavia risultavano sconvenienti per
l’immagine di donne e fanciulli onorati e rispettati, quali esponenti di
famiglie di alto rango sociale[182],
nell’ottica di quella netta divisione sociale che emerge dall’opera
ovidiana[183].
Una riflessione in
più merita l’animus iniuriandi nel contesto di questo
editto: ogni forma di iniuria implicava da parte dell’attore del
delitto l’esistenza del dolo specifico, l’animus iniuriandi,
detto talvolta anche affectus[184],
consistente nella volontà di offendere[185] una
determinata persona (anche se non precisamente identificata[186]), e
l’adtemptata pudicita, quale forma di iniuria,
rispondeva a questa regola generale, senza fare eccezione.
Rimane ora da chiarire
se per l’applicazione di questo editto speciale bastasse
nell’offensore la semplice volontà di offesa, il semplice animus
iniuriandi, comune a tutte le forme di iniuria, oppure era
necessaria una precisa volontà di adtemptare alla pudicitia.
Come abbiamo potuto
rilevare dalle fonti, l’importanza dell’abito nella società
romana ci ha portato a credere che anche l’abito delle persone tutelate
dall’editto fosse un elemento rilevante. In particolare, si è
avuto modo di verificare che un abito consono al proprio rango era necessario
affinché l’autore del delitto potesse avere coscienza di offendere
una persona la cui pudicizia andava protetta.
D’altra parte, il
confronto con l’opera ovidiana, che lo stesso autore afferma non essere
diretta alle matronae, la cui pudicizia andava salvaguardata, mette in
luce come determinate attenzioni, molto vicine ai comportamenti puniti
dall’editto, erano di per sé potenzialmente lesive della pudicizia
della persona a cui venivano riservate.
Tutto
ciò ci porta a pensare che il dolo richiesto in questo editto avesse un
profilo meno generico del puro animus iniuriandi, della semplice
volontà di offesa, ma che fosse invece necessaria la volontà di
mettere in pericolo la pudicizia di una persona onorata. Ciò per altro
è confermato da due affermazioni, l’una di Ulpiano e l’altra
di Paolo, i quali anticipano, nell’ambito di frammenti che trattano
dell’iniuria in generale, la
concessione dell’actio iniuriarum nei casi di attentato alla pudicitia
di una persona, precisando che nel concetto di attentato alla pudicitia
rientrano tutti quei comportamenti, senza peraltro indicarne alcuno, volti a
far diventare una persona impudica:
In D.
47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.) si legge:
Si quis tam feminam quam masculum,
sive ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur.
Sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet.
In
D.47.10.10 Paolo (55 ad ed.) afferma:
Adtemptari pudicitia dicitur, cum id
agitur, ut ex pudico impudicus fiat.
[13]
Diversi autori hanno affrontato lo studio dello sviluppo storico-dogmatico
dell’iniuria, trattando con particolare attenzione gli editti
speciali de iniuriis: M. Marrone,
Considerazioni in tema di iniuria, in Synteleia Arangio-Ruiz,
Napoli 1964, 475-485; T. Spagnuolo
Vigorita, Actio iniuriarum noxalis, in «LABEO», XV
(1969) 33-76; P.B.H. Birks, The
early History of iniuria, in «Revue d'histoire du droit», XXXVII
(1969) 163-208; S. Di Paola, La
genesi storica del delitto di iniuria, in Annali Catania, Seminario
giuridico, I, Catania 1947, 268; P. Huvelin,
La notion de “l’iniuria” dans le très ancien droit
romain, Roma 1971, 93-107; Plescia,
The development of “iniuria”, cit., 271-289; A.D. Manfredini, La diffamazione
verbale nel diritto romano, Milano 1979; J.
Santa Cruz Teijeiro-A. D’Ors, A proposito de los edictos
especiales “de iniuriis”, in «Anuario de Historia del
Derecho Español», XLIX (1979) 653-659; Balzarini, “De iniuria extra
ordinem statui”, cit., 61, 209-217; Polay, Iniuria types in Roman Law, cit., 94-115; M.S. Del Castillo Santana, Estudio
sobre la casuistica de las lesiones en la jurisprudencia romana, Madrid
1994, 52-100; E. Ruiz Fernandez, Sancion
de las “iniuriae” en el derecho romano clasico, in Derecho
romano de obligacione. Homenaje
al Profesor J.L. Murga Gener,
Madrid 1994, 819-823; J. Santa Cruz
Teijeiro, La iniuria en derecho romano, in Studi Sanfilippo,
II, Milano 1982, 523-538; M. Guerrero
Lebron, La injuria indirecta en derecho romano, Madrid 2005,
101-116.
[15] Rhet. ad Her. 1.15.25. Il problema
della datazione della Rhet. ad Her. è stato riproposto da A.E. Douglas, Clausulae in the
Rhetorica ad Herennium as Evidence of Its Date, in «Classical
Quarterly», LIV (1960) 65 ss., il quale formula una soluzione diversa da
quella tradizionale, indicando gli anni 50 come la data più probabile di
composizione dell’opera.
[20] Plaut,
Curc. 35-38: Nemo ire quemquam publica prohibet via; dum ne per
fundum saeptum facias semitam, dum ted abstineas nupta, vidua, virgine,
iuventute et pueris liberis, ama quid lubet.
[30]
E’ necessario tenere distinto il concetto di pudicizia da quello di
pudore. In italiano i due termini hanno significati vicini, tanto che sovente,
nel linguaggio comune, vengono sentiti come intercambiabili. E tuttavia una
sfumatura di differenza esiste: nel Lessico
Universale Italiano (vol. XVIII, Roma 1977, 101) la pudicizia viene
definita come «La
virtù di chi preserva coscientemente i suoi pensieri e le sue azioni da
ogni impurità sessuale, ispirando la sua condotta a modestia e
verecondia», mentre
il pudore consiste nel «Senso
di riserbo o d’avversione per quanto riguarda il sesso, che provoca
istintive reazioni di disagio o di difesa». Questo è indicato come significato primo del termine,
che per estensione assume anche il senso di «Ritegno, vergogna, anche in relazione a cose che non riguardano
il sesso».
Infine viene considerato sinonimo di pudicizia, in particolare «Con riferimento alle norme di
pudicizia esteriore che devono essere osservate in pubblico: pubblico p.; offesa al p.». La
differenza fra i due termini è più accentuata nella lingua
latina, avendo la pudicitia riguardo
all’atteggiamento esteriore, il pudor
al sentimento interiore, e tale è la differenza che, come esiste una dea
Pudicitia, così esiste un dio Pudor: su tutto ciò vedi G. Radke, in
«Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft», XII
(1980) coll. 1942-1947, s.v. Pudicitia, e dello stesso A., ibid.,
coll. 1947-1948, s.v. Pudor.
[39] Lenel, EP, cit., 400, sostiene
questo sulla base di D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.) e D. 47.10.10
(Paul. 55 ad ed.). In senso contrario si veda A. Guarino, Le matrone e pappagalli, in Inezie di
giureconsulti, Napoli 1978, 171-172, secondo il quale il fatto che i commentatori
usassero, al fine di abbreviare, la dizione adtemptata puditicia come
unificante le varie fattispecie previste dall’editto, non significa che
questa fosse la rubrica edittale. Sul punto si veda, infine, Polay, Iniuria types in Roman Law, cit., 113-114, che, pur
essendo in accordo con Lenel
relativamente alla rubrica edittale, ritiene che il testo dell’editto
fosse generico, e che furono i giuristi ad individuare le fattispecie
illustrate da Ulpiano, fissando modi tipici di offesa alla buona reputazione
delle persone protette dallo stesso editto.
[40] Lenel, Palingenesia iuris civilis, II,
Liepzig 1889, 766-778. Va osservato che Gaio tratta solo dell’adsectari (Gai. 3.220: vedi infra nt. 82; nt. 105), e altrettanto avviene
nelle Istituzioni di Giustiniano (I. 4.4.1: vedi infra nt. 83; nt. 106).
[43] C. Van Bynkershoek, Observationum
iuris romani libri quattuor, lib. VI, cap. 25, Lugduni Batavorum 1710, 444;
J. Voet, Commentarius ad
Pandectas, sub. tit. de iniuriis et fam. libellis, § 13,
Coloniae Allobrogorum 1778, 827; R.J.
Pothier, Pandectae, III4, Parisiis 1821, 345. In particolare, il
primo studioso propone alternativamente l’inserimento del non tra la
parola iniuriarum e la parola tenetur, come sostenevano gli
umanisti Haloander e H. Brenkmann, o l’eliminazione del
non precedente alle parole matronali habitu. Sostiene, infine, che
Ulpiano avesse semplicemente posto il discorso in forma interrogativa e che il
punto di domanda fosse, poi, scomparso. Secondo Voet, invece, la ratio della legge suggerisce di
leggere iniuriarum vix tenetur, poiché una donna in abiti da
schiava o meretrice non avrebbe potuto vedere attentato il suo onore con
l’appellare. Infine Pothier, rifacendosi
alla ratio contextus, sostiene che la cosa più logica fosse
negare l’actio iniuriarum, e quindi aggiunge un non che appunto la
escludesse. Segue tale linea J.G. Fuchs,
Stellung und Aufgabe des Richters im modernen Strafrecht, in
«Schweizerische Zeitschrift für Strafrecht», LXXV (Mélanges
A. German) 1959, 33, secondo cui senza l’inclusione del non
l’argomentazione ulpianea sarebbe senza conclusione. A sostegno della
ricostruzione di iniuriarum non tenetur si veda anche G. Beseler, Beiträge zur Kritik
der römischen Rechtsquellen, in «Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LXVI (1948) 346-347, secondo
il quale va eliminata dal testo la parte iniziale, da si quis a fuissent,
sulla base della irrilevanza giuridica del verbo peccare, usato
esclusivamente in riferimento a comportamenti riprovevoli dal punto di vista
morale. Secondo lo studioso il discorso di Ulpiano sarebbe stato: Si non
matronali habitu femina fuerit, qui eam appellavit vel ei comitem abduxit
iniuriarum non tenetur. L’inserimento del non trova, infine,
d’accordo G.L. Falchi, Diritto
penale romano (I singoli reati), Padova 1932, 62-96.
[45] Meminisse
autem oportebit, non omnem, qui assectatus est, nec omnem, qui appellavit, hoc edicto
conveniri posse; neque enim si quis colludendi, si quis officii honeste
faciendi gratia id facit, statim in edictum incidit, sed qui contra bonos mores
hoc facit.
[51] S(enatus) c(onsultum) [...|...] in
Palatio, in porticu quae est ad Apollinis. Scr(ibundo) adf(uerunt) C(aius) Ateius
L(ucii) f(ilius) Ani(ensi tribu) Capito, Sex(tus) Pom[eius Sex(ti) f(ilius)?
...|...] Octavius C(aii) f(ilius) Ste(llatina tribu) Fronto, M(arcus) Asinius
Curti f(ilius) Arn(ensi tribu) Mamilianus, C(aius) Gaius C(aii) f(ilius)
Pob(lilia tribu) Macer q(uaestor), Aulus Did[ius...q(uaestor)? | Quod M(arcus)
Silan]us, L(ucius) Norbanus Balbo cons(ules) v(erba) f(ecerunt) commentarium
ipsos composuisse sic uti negotium iis [datum de rebus ad libidinem |
femina]rum pertinentibus aut ad eos qui contra dignitatem ordinis sui in
scaenam ludumu[e prodirent operasve suas loca|rent u(ti) s(ancitur) s(enatus)
c(onsultis) quae d(e) e(a) r(e) facta essent superioribus annis adhibita fraude
qua maiestatem senat[us minuerent q(uid) d(e) e(a) r(e) f(ieri) p(laceret), d(e)
e(a) r(e) i(ta) c(ensuere) | pla]cere ne quis senatoris filium filiam nepotem
neptem pronepotem proneptem neve que[m cuius parti aut avo |v]el paterno vel
materno aut fratri neve quam cuius viro aut patri aut avo paterno v[el materno
aut fratri ius] | fuisset unquam spectandi in equestribus locis in scaenam
produceret auctoramentove ro[garet ut cum bestiis depugna] | ret aut ut pinnas
gladiatorum raperet aut ut rudem tolleret aliove quod eius rei simile
min[istraret; neve, si quis se] | praeberet, conduceret; neve quis eorum se
locaret, idque ea de causa diligentius caveri dum[ne d(olo) m(alo) perseverent
qui] | eludendae auctoritatis eius ordinis gratia quibus sedendi in equestribus
locis ius erat aut p[ublicam ignominiam] | ut acciperent aut ut famoso iudicio
condemnaretur dederant operam et postea quam ei des[civerant sua sponte ex |
equ]estribus, auctoraverant se aut in scaenam prodierant; neve quis eorum de
quibus [s(upra) s(criptum) e(st) si id contra dignitatem ordi|nis su]i faceret
libitinam haberet, praeterquam si quis iam prodesset (sic) in scaenam operave
[suas ad harenam locasset si|ve na]tus natave esset ex histrione aut gladiatore
aut lanista aut lenone. | [Utique s(enatus)] c(onsulto) quod M(anio) Lepido,
T(ito) Statilio Tauro co(n)s(ulibus) referentibus factum esset scriptum
compen[.....: ne cui ingenuae quae | minor qua] m an(norum) XX neve cui ingenuo
qui minor quam an(norum) XXV esse auctorare se operaesve suas ad harenam
scaenamve spurcos|ve quaestu]s locare permitteretur, nisi qui eorum a divo
Augusto aut ab Ti(berio) Caesare Aug(usto) in ludum scaenam spurcosve |
quaestus co]niectus esset; <qui eorum> is qui ita coniecisset auctorare
se operasve suas [locare, si eum divus Augustus aut Ti(berius) | Caesar
Aug(ustus) ad l[arem redducendum esse statuissent, id servari placere
praeterquam [.....]. M. Malavolta, A
proposito del nuovo S.C. da Larino, in Sesta Miscellanea Greca e Romana,
Studi pubblicati dall’Istituto Italiano per la Storia Antica, 27
(1978) 347-382; V. Giuffré,
Un Senato senatoconsulto ritrovato: il “S.C. de matronarum lenocinio
coercendo”, in Atti dell’accademia di scienze morali e
politiche della Società nazionale di Scienze, Lettere ed Arti di Napoli,
91 (1980) 7-40; B. Biondo,
“Tagliacarte”, in «LABEO», XXVI (1980) 277-278; B. Levick, Il senatus consultum di
Larinum, in «Journal of Roman Studies», LXXIII (1983) 97-115; V. Giuffré, Altre notazioni
esegetiche sul senatoconsulto c.d. di Larino, in «Studia et documenta
historiae et iuris», LXI (1995) 795-801. Contro l’ipotesi della
rubrica de lenocinio matronarum coercendo si veda: M.A. Levi, Un senatoconsulto del 19
d.C., in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, I, 1982, 69-74. Per una
diversa ricostruzione del senatoconsulto della tavola di Larino vedi: T.A.J. Mc Ginn, Il senatus consultum
di Larinum e la repressione dell’adulterio a Roma, in
«Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», XCIII (1992)
273-295. Vd. anche C. Ricci, Gladiatori
e attori nella Roma giulio-claudia, Milano 2006.
[81] In tal senso Iuv. 10.306-309: tanta
in muneribus fiducia. Nullus ephebum deformem saeva castravit in arce tyrannus,
nec praetextatum rapuit Nero loripedem nec strumosum atque utero pariter gibboque
tumentem; Sen. Phil., Contr. 4.10: hoc exempto nemo erat
scholasticis nec aptior nec similior, sed, dum nihil vult nisi culte, nisi
splendide dicere, saepe incidebat in ea, quae derisum effugere non possent.
Memini illum, cum libertinum reum defenderet, cui obiciebatur, quod patroni
concubinus fuisset, dixisse: 'impudicitia in ingenuo crimen est, in servo
necessitas, in liberto officium’. Res in iocos abiit: 'non facis mihi
officium' et 'multum ille huic in officiis versatur'. Ex eo impudici et obsceni
aliquamdiu officiosi vocitati sunt. E’, tuttavia, necessario
precisare che la concezione e la visione dei rapporti omosessuali cambia
a seconda del periodo storico a cui ci si riferisce, in particolare, nel
periodo repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti
omosessuali erano visti con ostilità ed osteggiati, mentre, solo dopo la
conquista della Grecia, anche i Romani iniziarono a praticare
l’omosessualità solamente con gli schiavi e i liberti. In ogni
caso, era deprecabile che un cittadino romano assumesse un ruolo passivo in un
rapporto omosessuale, poiché sarebbe stato in conflitto con
l’ideologia del dominio e della virilità caratterizzante la
società romana. Si vedano: M.
Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità,
vol. 2, Milano 1984; D. Dalla,
“Ubi venus mutatur”. Omosessualità e diritto nel mondo
romano, Milano 1987; C. Williams:
Roman Homosexuality, Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity,
Oxford 1999; T.K. Hubbard: Homosexuality
in Greece and Rome, a Sourcebook of Basic Documents, Los Angeles, London
2003; E. Cantarella, Secondo
natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 1995.
[100] S.F. Bonner, Educations in Ancien Rome,
London 1977, 46-74; E. Cantarella,
La vita delle donne, in Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Roma 1989, 557-608; Dixon, The Roman Mother, cit.,
142; K.R. Bradley, Child care at
Rome: the role of men, in Historical reflections/Reflexions historiques
12 (1985) 485-523. Testimonianze importanti sono: Quint., Instit. 1.1.12: A
sermone Graeco puerum incipere malo, quia Latinum, qui pluribus in usu est, vel
nobis nolentibus perbibet, simul quia disciplinis quoque Graecis prius
instituendus est, unde et nostrae fluxerunt; Cic., de amic. 74: Omnino
amicitiae corroboratis iam confirmatisque et ingeniis et aetatibus iudicandae
sunt, nec si qui ineunte aetate venandi aut pilae studiosi fuerunt, eos habere
necessarios quos tum eodem studio praeditos dilexerunt. Isto enim modo nutrices
et paedagogi iure vetustatis plurimum benevolentiae postulabunt; qui neglegendi
quidem non sunt sed alio quodam modo aestimandi. Aliter amicitiae stabiles permanere
non possunt. Dispares enim mores disparia studia sequuntur, quorum
dissimilitudo dissociat amicitias; nec ob aliam causam ullam boni improbis,
improbi bonis amici esse non possunt, nisi quod tanta est inter eos, quanta
maxima potest esse, morum studiorumque distantia; Svet., Aug. 44: Spectandi
confusissimum ac solutissimum morem correxit ordinavitque, motus iniuria
senatoris, quem Puteolis per celeberrimos ludos consessu frequenti nemo
receperat. Facto igitur decreto patrum ut, quotiens quid spectaculi usquam
publice ederetur, primus subselliorum ordo vacaret senatoribus, Romae legatos
liberarum sociarumque gentium vetuit in orchestra sedere, cum quosdam etiam
libertini generis mitti deprendisset. Militem secrevit a polpulo. Maritis e
plebe proprios ordines assignavit, praetextatis cuneum suum, et proximum
paedagogis, sanxitque ne quis pullatorum media cavea sederet. Feminis ne
gladiatores quidem, quos promiscue spectari sollemne olim erat, nisi ex
superiore loco spectare concessit. Solis virginibus Vestalibus locum in theatro
separatim et contra praetoris tribunal dedit. Athletarum vero spectaculo
muliebre secus omne adeo summovit, ut pontificalibus ludis pugilum par
postulatum distulerit in insequentis diei matutinum tempus edixeritque mulieres
ante horam quintam venire in theatrum non placere; Svet., Claud. 2: Claudius
natus est Iulo Antonio Fabio Africano conss. Kal. Aug. Luguduni eo ipso die quo
primum ara ibi Augusto dedicata est, appellatusque Tiberius Claudius Drusus.
Mox fratre maiore in Iuliam familiam adoptato Germanici cognomen assumpsit.
Infans autem relictus a patre ac per omne fere pueritiae atque adulescentiae
tempus variis et tenacibus morbis conflictatus est, adeo ut animo simul et
corpore hebetato ne progressa quidem aetate ulli publico privatoque muneri
habilis existimaretur. Diu atque etiam post tutelam receptam alieni arbitrii et
sub paedagogo fuit; quem barbarum et olim superiumentarium ex industria sibi
appositum, ut se quibuscumque de causis quam saevissime coerceret, ipse quodam
libello conqueritur. Ob hanc eandem valitudinem et gladiatorio munere, quod
simul cum fratre memoriae patris edebat, palliolatus novo more praesedit; et
togae virilis die circa mediam noctem sine sollemni officio lectica in
Capitolium latus est.
[185] D.
47.10.3 pr.-3 (Ulp. 56 ad ed.):
Illud relatum peraquae est, eos, qui iniuriam pati possunt, et facere posse.
Sane sunt quidam, qui facere non possunt, ut puta furiosus et impubes, qui doli
capax non est: namque hi pati iniuriam solent, non facere. Cum enim iniuria ex
affectu facientis consistat, consequens erit dicere hos, sive pulsent sive
convicium dicant, iniuriam fecisse non videri. Itaque pati quis iniuriam,
etiamsi non sentiat, potest, facere nemo, nisi qui scit se iniuriam facere,
etiamsi nesciat cui faciat. Quare si quis per iocum percutiat aut dum certat,
iniuriarum non tenetur. Per il dolo nel delitto di iniuria vedi supra,
nt. 99.
[186] D. 47.10.18.3 (Paul. 55 ad
ed.): Si iniuria mihi fiat ab eo, cui
sim ignotus, aut si qui putet, me Lucium Titium esse, cum sim Caius Seius,
praevalet quod principale est, iniuriam eum mihi facere velle, nam certus ego
sum, licet ille putat me alium esse quam sum, ed ideo iniuriarum habeo.