N. 9 – 2010 – Tradizione-Romana
Università
di Roma “Tor Vergata”
Considerazioni sulla
clausola edittale
“Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”
Sommario: I. Excursus storico.
– I.1. Una possibile testimonianza della
più recente clausola edittale in tema di vis e metus:
Cicerone, In Verrem 2.3.65.152 e Ad Quintum fratrem 1.1.21.
– I.2. Ancora sul ruolo della
testimonianza di Cicerone nella ricostruzione della clausola edittale.
– I.3. Le Controversiae di Seneca il
retore: una possibile testimonianza dell’editto preadrianeo. –
II. Considerazioni sulla clausola
edittale riportata in D.4.2.1, con particolare riguardo agli strumenti pretori
che introduceva. – II.1. Valutazione
della tesi dell'esistenza di un'ulteriore clausola edittale: “Quod
metus causa factum erit...”. – II.2. Il
termine gestum presente nella clausola edittale “Quod metus causa
gestum erit, ratum non habebo”; il suo significato nel commento di
Ulpiano (D.50.16.19 e D.4.2.9.2) e di Paolo (D.4.2.21.1-2) all'editto.
– II.2.A. D.50.16.19. Il contributo
di Labeone e di Ulpiano alla determinazione del significato del verbo gerere.
– II.2.B. D.4.2.9.2. Pomponio, non
contraddetto da Ulpiano, sembra attribuire alla fattispecie edittale descritta
con il verbo gerere il caso di una estorta manumissio, o quello
di una estorta demolizione di un edificio. Anche in D.4.2.9pr. Ulpiano riporta
l'opinione di Pomponio; quest'ultimo a sua volta cita Labeone, che riferirebbe
al gerere l'ipotesi dell'abbandono del fondo. Inoltre per Pomponio
rientrerebbe nella previsione edittale il subire, per timore, una edificazione
nel proprio fondo e il consegnare, metus causa, il possesso di un
terreno. – II.2.C. D.4.2.21.1-2.
Paolo, nel contesto del commento alla clausola edittale “Quod metus
causa gestum erit, ratum non habebo”, riporta il caso di un estorto
trasferimento del possesso di un fondo, per il quale alla vittima di violenza
viene concessa tutela con l'a.q.m.c. – II.3. Conclusioni.
D.4.2.1:
Ulpianus libro undecimo ad edictum. Ait praetor: «Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo». olim
ita edicebatur «quod vi metusve
causa»: vis enim fiebat mentio propter necessitatem impositam contrariam
voluntati: metus instantis vel futuri periculi causa mentis trepidatio. sed
postea detracta est vis mentio ideo, quia quodcumque vi atroci fit, id metu
quoque fieri videtur.
Ulpiano ci ricorda che un tempo l'editto del
pretore prevedeva “…quod vi metusve causa…”.
Il riferimento alla vis serviva a
coprire l'ambito di quanto compiuto per una necessità imposta contraria
alla volontà, mentre il metus esprimeva lo stato di agitazione (mentis
trepidatio) causato dalla minaccia di un pericolo attuale o futuro. In
seguito, sempre secondo Ulpiano, il riferimento alla vis cadde,
perché si ritenne che quanto compiuto per violenza (vis atrox)
sembrava compiuto anche per timore[1].
Il testo di Ulpiano non specifica temporalmente
quando sia stata compiuta l'eliminazione del termine vis dal testo
edittale, però dall'utilizzo di olim, edicebatur, fiebat
e detracta est si lascia intendere che questa sia avvenuta in tempi che Ulpiano
considerava lontani. In alcuni testi del Digesto, contenenti il commento dei
giuristi classici alla clausola edittale, poi, si fa ancora menzione al termine
vis: ad esempio, Giuliano riportato da Ulpiano in D.4.2.9.7 e in
D.4.2.12.2; Ulpiano in D.4.2.3pr., D.4.2.3.1, D.50.17.116 ecc.
Inoltre, in altre fonti, successive alla redazione
dell'editto perpetuo da parte di Salvio Giuliano, si trovano richiamati insieme
i termini “vis” e “metus”, si pensi, ad
esempio, a Paolo in D.22.1.38.6 (Item si vi metusve causa rem tradam...);
Ulpiano in D.37.15.7.2 (Nec exceptiones doli patiuntur vel vis metusve causa...),
in D.40.12.16.1 (Si tamen vi metuque compulsus fuit...); C.2.19.3 (Imp. Gordianus
A. Gaio. Si vi vel metu fundum avus tuus distrahere coactus est... [a.
238]); C.2.19.4 (Imp. Gordianus A. Primo et Eutycheti. Si per vim vel metum
mortis aut cruciatus corporis venditio vobis extorta est...[a. 239]);
C.2.19.5 (Imp. Gordianus A. Rufo militi. Non interest, a quo vis adhibita
sit patri et patruo tuo, utrum ab emptore an vero sciente emptore ab alio, ut
vi metuve possessionem vendere cogerentur. ... [a. 239]); Cons. 9.3
(Impp. Valens et Valentinianus AA. Mamertino pp. [Inter cet. et ad locum:] Pacta
quidem per vim et metum apud omnes... [a. 365]); C.Th.4.20.4 (...Quod si
de vi et metu is qui cessit queri voluerit); C.Th.15.14.9 (Impp. Arcad[ius]
et Honor[ius] AA. Andromacho P[raefecto] U[rbi] ...doli ac vis et metus
inchoata actio in tempus legitimum perseveret... [a. 395]); C.2.19 (De his quae vi metusve causa
gesta sunt).
La presenza di entrambi i termini in testi
successivi alla realizzazione dell'editto da parte di Giuliano non credo che
possa essere interpretata come una “prova” della loro presenza
nella clausola edittale contenuta nell'editto del periodo adrianeo e
dell'eliminazione del riferimento alla vis da parte dei compilatori
(anche perché, allora, non la dovremmo trovare neppure nel Digesto o nel
Codex). Ciò, mi sembra, soprattutto perché: ci sono molti
altri testi in cui non è presente il richiamo congiunto alla vis
e al metus; la circostanza che il richiamo ad entrambi i termini non
fosse più presente nella clausola edittale non avrebbe dovuto
necessariamente comportarne un non richiamo congiunto; l'eliminazione della vis
dalla clausola edittale, infatti, stando alle parole di Ulpiano (D.4.2.1),
“quia quodcumque vi atroci fit, id metu quoque fieri videtur”,
non era stata compiuta con la motivazione che si considerava irrilevante la vis,
ma perché questa era implicita nella considerazione del metus. A
ciò, poi, si potrebbe aggiungere che, secondo alcuni studiosi, la parola
vis sarebbe stata eliminata dalla clausola edittale, ma non dalla
rubrica dell'editto[2].
Oltre al problema storico, posto dalla caduta del
richiamo alla vis, si pone anche la questione delle ragioni del
superamento. Dalla prospettiva di Ulpiano ciò sembra dovuto alla
inclusione della situazione ingenerata da vis nel metus: la vis
provoca sempre anche metus[3].
Si è ritenuto che nell’editto “quod metus causa” si tenesse in
considerazione, ai fini della tutela, non tanto il modo attraverso il quale la
violenza fosse stata attuata, quanto piuttosto l’effetto della violenza[4].
La prospettiva segnalata potrebbe fornire una chiave di lettura idonea a
spiegare le vere motivazioni che avrebbero spinto all'eliminazione del richiamo
alla vis, oltre quanto è deducibile dal breve excursus di
Ulpiano su questa clausola edittale.
La clausola edittale più recente dovrebbe
essere quella che Ulpiano stava commentando e che quindi sarebbe quella
presente nell'editto perpetuo adrianeo redatto da Salvio Giuliano[5],
mentre per l'altra ci sono due possibilità: riferirla alla clausola
edittale accolta da Ottavio e ricordata da Cicerone, con la quale si sarebbe
promessa la formula Octaviana[6],
oppure considerarla come intermedia tra quest'ultima e quella adrianea.
Cicerone nelle Verrine ricorda l'editto di Metello
che concedeva una tutela al soggetto al quale era stato indotto metus:
Cic. In Verrem 2.3.65.152: Tenetur igitur iam,
iudices, et manifesto tenetur avaritia, cupiditas hominis, scelus, improbitas, audacia.
Quid? si haec quae dico ipsius amici defensoresque iudicarunt, quid amplius
vultis? Adventu L. Metelli praetoris, cum omnis eius comites iste sibi suo illo
panchresto medicamento amicos reddidisset, aditum est ad Metellum; eductus est
Apronius. Eduxit vir primarius, C. Gallus senator; postulavit ab L. Metello ut
ex edicto suo iudicium daret in Apronium, QUOD PER VIM AUT METUM ABSTULISSET,
quam formulam Octavianam et Romae Metellus habuerat et habebat in provincia.
Non impetrat, cum hoc diceret Metellus, praeiudicium se de capite C. Verris per
hoc iudicium nolle fieri. Tota Metelli cohors hominum non ingratorum aderat
Apronio; C. Gallus, homo vestri ordinis, a suo familiarissimo L. Metello
iudicium ex edicto non potest impetrare.
Il senatore Gallo[7]
aveva fatto ricorso al propretore Metello[8]
per la concessione della formula
Octaviana nei confronti di Apronio[9],
che si muoveva al seguito di Verre, quod
per vim aut metum abstulisset; la richiesta del senatore Gallo,
però, non trovò accoglimento, perché Metello non concesse
il iudicium affinché questo
non pregiudicasse[10]
la situazione di Verre, nei confronti del quale era stata instaurata a Roma una
quaestio repetundarum.
L'espressione “quod per vim aut metum abstulisset” utilizzata da Cicerone ha
le sembianze di un'espressione tecnica, che potrebbe essere ricondotta
all'editto o alla formula; questa ipotesi, poi, pare supportata dal
fatto che l'espressione, in modo sostanzialmente identico, ricorre in un altro
passo di Cicerone, tratto dalle lettere ad
Quintum fratrem.
Cic. Ad Quintum fratrem 1.1.21:
... His rebus nuper C. Octavius iucundissimus fuit, apud quem pr<ox>imus
lictor quievit, tacuit accensus, quotiens quisque voluit dixit et quam voluit
diu; quibus ille rebus fortasse nimis lenis videretur, nisi haec lenitas illam
severitatem tueretur. Cogebantur Sullani homines quae per vim et metum
abstulerant reddere...
Anche in questo testo ciceroniano è
leggibile un riferimento alla formula
Octaviana, come si ricava dalla menzione di C. Octavius[11],
che avrebbe molto probabilmente introdotto la formula. L'espressione “... quae per vim et metum
abstulerant reddere...” letta insieme a “quod per vim aut
metum abstulisset” del testo precedente, potrebbe offrire un valido sostegno
all'ipotesi che Cicerone avesse richiamato la clausola edittale o la formula
dell'azione.
Dalle parole di Cicerone (In Verrem 2.3.65.152)
che precedono l'espressione “quod per vim aut metum abstulisset”
si dovrebbe dedurre che essa sia piuttosto riferibile alla formula, in quanto
l'oratore dice “...ut ex edicto suo iudicium daret in Apronium, quod
per vim...”; tuttavia, considerandone la natura in factum, la supposizione è discutibile[12].
Si potrebbe, quindi, ipotizzare che
l’espressione utilizzata da Cicerone sia più appropriata per la
clausola edittale che avrebbe introdotto la formula
la quale, a parte il verbo e la formulazione attiva, è simile a quella
contenuta in D.4.2.1.
Dall'espressione riportata da Cicerone si nota
subito l’uso del verbo auferre rispetto al gerere che troviamo nella clausola edittale riportata in
D.4.2.1 o al facere che secondo alcuni[13]
sarebbe stato utilizzato per la clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c.
La diversità dei verbi utilizzati è particolarmente rilevante:
è stato, infatti, sostenuto che il primo si riferirebbe all’autore
della violenza e quindi al convenuto nel giudizio instaurato con la formula
Octaviana, il secondo si riferirebbe alla vittima[14].
Pertanto, con il passaggio dall'uno all'altro ci sarebbe stato un mutamento di
prospettiva, perché il verbo auferre avrebbe rispecchiato
l'attenzione del pretore all'autore della vis, mentre il ricorrere del
verbo gerere nella clausola edittale più recente avrebbe piuttosto
sottolineato l'interesse del pretore per gli atti compiuti dalla vittima della
violenza e, quindi, una maggiore attenzione alla tutela di quest'ultima.
L’espressione, riportataci da Cicerone,
aderendo alla prima ipotesi, vorrebbe dire “ciò che per mezzo di
violenza o timore è stato portato via”; di conseguenza il pretore,
con questa espressione della clausola edittale, si sarebbe riferito
all’operato dell’autore della violenza; pertanto, se ne sarebbe
potuto ricavare un intento della formula volto
più alla punizione dell’autore della violenza, che
all’eliminazione del danno subito dalla vittima, con la
conseguenza che la formula originale sarebbe stata strettamente personale,
diretta, appunto, contro l'autore della violenza[15].
Tuttavia, si
deve precisare che il significato di vi auferre appena richiamato non
sia l'unico. L'espressione vi auferre, infatti, potrebbe anche
riferirsi al vantaggio patrimoniale conseguente alla violenza, cioè, a
ciò che è stato ottenuto,
ricevuto in seguito all'uso della violenza o alla induzione del
timore[16].
L'espressione per vim et metum auferre non indica necessariamente il
portar via, lo strappare con la forza e con la violenza qualcosa (più
adatto ad ipotesi di violenza fisica), ma significa anche ottenere
qualcosa da qualcuno, costringere qualcuno a consegnare qualcosa, approfittando
della propria posizione di forza (più adatto ad ipotesi di vis
compulsiva)[17],
questo significato dell'espressione vi et metu auferre credo che
sia anche quello da attribuire alla ablata pecunia della lex
repetundarum.
Quest'ultimo
significato di auferre, poi, sembra essere suffragato anche dal reddere che segue nell'espressione utilizzata da Cicerone, dal
quale mi sembra si possano trarre indizi adatti a mettere in luce l'obiettivo
primario di questo rimedio, la restituzione,
perché se questo fosse stato la punizione dell'illecito commesso ci
saremmo dovuti aspettare che l'oratore mettesse piuttosto in rilievo la pena e
non la restituzione.
Non penso che la clausola edittale con cui il
pretore Ottavio aveva introdotto la formula Octaviana si possa
identificare con quella riportata da Ulpiano in D.4.2.1, seppure nella versione
meno recente, nella quale erano inclusi i riferimenti sia alla vis che
al metus[18].
Il linguaggio utilizzato da Cicerone nelle Verrine, infatti, è tale da
far ritenere molto più probabile che la fattispecie prevista nella
clausola edittale inserita nell'editto del pretore Ottavio fosse descritta
attraverso il verbo auferre che bene si adattava pure al contesto nel
quale la formula Octaviana era sorta, cioè quello strettamente
connesso al crimen repetundarum. Pur non condividendo l'identificazione
tra la clausola edittale più antica riportata da Ulpiano e quella
riconducibile al pretore Ottavio, tuttavia, non resta escluso che la clausola
edittale, accolta da Ottavio nel suo editto, contenesse le parole ratum non
habebo (Cic., In Verrem 2.2.26.63)[19].
Non si può determinare con precisione il
momento in cui si sia passati dalla formula Octaviana alla più
matura a.q.m.c., o meglio, il periodo in cui si sia completato lo
sviluppo della prima nella seconda, ma possiamo sicuramente constatare che
Labeone[20]
e Seneca[21]
conoscevano già il rimedio pretorio nella forma più avanzata,
cioè l'a.q.m.c., e, almeno al retore, erano note le parole
edittali “quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo”.
Cicerone gioca un ruolo fondamentale non solo come testimone
della formula Octaviana[22],
ma anche come testimone di un'ulteriore tappa della rielaborazione[23]
della clausola edittale riportata in D.4.2.1.
A questo proposito, mi sembrano significativi
alcuni passi contenuti nel de Officiis, che potrebbero offrire un
contributo prezioso a questo tentativo di ricostruzione.
Il primo passo è tratto dal de Officiis,I.10.32:
...Iam
illis promissis standum non esse quis non videt, quae coactus quis metu, quae
deceptus dolo promiserit? quae quidem pleraque iure praetorio liberantur,
nonnulla legibus.
Cicerone aveva appena affermato che in alcune
circostanze mantenere una promessa o un patto può diventare dannoso o
per colui al quale è stato promesso o per colui il quale ha promesso e
per questo (sempre in de Officiis I.10.32) afferma: “... Nec
promissa igitur servanda sunt ea, quae sint iis, quibus promiseris, inutilia,
nec si plus tibi ea noceant, quam illi prosint cui promiseris, contra officium
est maius anteponi minori...”. Un esempio di promessa che non doveva
essere mantenuta è proprio quello della promissio estorta con le
minacce o carpita con l'inganno. Per questa ipotesi, riferisce l'Arpinate, il
più delle volte interviene il diritto pretorio (iure praetorio
liberantur) e in alcuni casi la legge (nonnulla legibus).
Dalle parole utilizzate da Cicerone in questo
contesto, però, non è possibile capire se egli abbia presente la
clausola edittale de pactis, oppure, più in particolare, quella
relativa al metus[24].
Il secondo passo è tratto dal de Officiis
III.24.92 in cui si legge:
Pacta et promissa semperne servanda sint, «quae nec vi nec dolo
malo», ut praetores solent, «facta sint»...
È nota l'affinità di queste parole
dell'Arpinate con la clausola edittale riportata da Ulpiano in D.2.14.7.7:
“Ait praetor 'Pacta conventa, quae neque dolo malo, neque adversus
leges plebis scita senatus consulta decreta edicta principum, neque quo fraus
cui eorum fiat, facta erunt, servabo' ”[25].
Ai fini della nostra ricerca è interessante notare che dal confronto tra
de Officiis III.24.92 e D.2.14.7.7 emerge l'assenza del richiamo alla vis
nella testimonianza ulpianea della clausola edittale de pactis. Questo
dato è stato spiegato ipotizzando che la clausola edittale riportata da
Cicerone contenesse ancora il richiamo alla vis in quanto la recente
introduzione della clausola “Quod vi metusve causa gestum erit, ratum
non habebo”, che era sì nota al Cicerone del de Officiis,
avrebbe permesso di rescindere i negozi giuridici, ma non avrebbe ancora
comportato il mutamento terminologico della clausola de pactis[26].
Ancora, in de Officiis III.29.103:
… ut hoc ipsum videtur honestum conservandi iuris iurandi causa ad
cruciatum revertisse, sed fit non honestum, quia, quod per vim hostium esse
actum, ratum esse non debuit. …
e in de Officiis
III.30.110 si legge:
At non debuit ratum
esse, quod erat actum per vim. …
Il
contesto nel quale Cicerone scrive è quello del racconto della vicenda
di M. Attilio Regolo, come esempio di quella onestà che si manifesta
nella grandezza e nobiltà di un animo eccezionale[27].
Attilio Regolo, infatti, che era stato preso prigioniero in Africa dal capitano
spartano Santippo, era stato inviato al senato, sotto il vincolo del giuramento
che sarebbe ritornato a Cartagine se non fossero stati restituiti ai
cartaginesi alcuni prigionieri. Giunto davanti al senato, egli espose la
richiesta dei nemici e, non solo rifiutò di esprimere il proprio parere,
ma addirittura affermò che la restituzione dei prigionieri cartaginesi
non sarebbe stata utile, in quanto quelli erano dei giovani e buoni comandanti,
se iam confectum senectute.
Le
frasi di Cicerone, che sopra abbiamo riportato, in questo contesto, potrebbero
voler significare che Regolo avrebbe potuto non mantenere fede al giuramento
fatto, in quanto era stato posto in essere per vim, egli, infatti, si
trovava in una situazione di prigionia, che non sarebbe cambiata se non in
seguito al giuramento e alla promessa ivi contenuta, cioè il ritorno in
Africa dei prigionieri cartaginesi; tuttavia, egli preferì mantenere
fede al giuramento e subire, piuttosto, nuovamente i supplizi dei nemici,
sebbene come precisa Cicerone, ai tempi di Regolo non si potesse far altro che
mantenere fede al giuramento[28],
così che, secondo l'Arpinate, degno di ammirazione sarebbe stato
soprattutto il fatto che Regolo avesse espresso il parere di trattenere i
prigionieri cartaginesi.
Nel
ricordare questa gloriosa vicenda, come abbiamo visto, Cicerone utilizza due
volte un'espressione assai affine alla clausola edittale meno recente ricordata
da Ulpiano in D.4.2.1:
D.4.2.1 |
Cicerone |
Quod
vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo. |
de
Officiis III.29.103: ... quod per vim hostium esse actum, ratum esse
non debuit. de
Officiis III.30.110: At non debuit ratum esse, quod erat actum per
vim. |
Le
parole di Cicerone possono testimoniare una conoscenza da parte dello stesso
della clausola edittale ricordata da Ulpiano; la costruzione della frase, il
riferimento alla vis e l'espressione ratum non habere sembrano
parlare in questo senso, sebbene nei testi di Cicerone, diversamente da
Ulpiano, compaia il verbo agere[29].
Un
confronto, poi, tra i passi delle Verrine sopra riportati e questi tratti dal de
Officiis mostrano un cambiamento del modo di esprimersi di Cicerone che
potrebbe essere connesso ad una modificazione della clausola edittale
intercorsa nel periodo compreso tra la redazione delle due opere.
Un'ulteriore testimonianza della formulazione
dell'editto anteriore alla redazione di Salvio Giuliano potrebbe provenire
dalle parole di Seneca il Vecchio[30],
il quale, all'inizio del primo secolo d.C., fa riferimento, alla vis,
alla necessitas, al lucrum, al rescindere, al ratum
ed alla poena.
Questi riferimenti sono
contenuti nelle Controversiae[31]
scritte da Seneca il Vecchio[32].
Il fatto che i testi per noi più interessanti siano tratti proprio da
questo tipo di opera è particolarmente rilevante, perché nelle Controversiae
si proponevano temi spesso legati a questioni giuridiche[33].
Seneca, nelle sue Controversiae,
menzionava innanzitutto il principio giuridico dal quale dipendeva il tema, poi
indicava il tema stesso, spesso con l'esposizione della situazione e poi
passava agli epigrammi dei partecipanti alla controversia, a sostegno,
rispettivamente, di una parte o dell'altra del caso[34].
Ai nostri fini, poi,
è interessante sottolineare che è stata rilevata
l’esistenza di paralleli genuini con il diritto romano per alcune delle
questioni giuridiche e delle leggi trattate nelle Controversiae[35].
Alla luce di questo è da notare che nei libri 4 e 9 sono contenute delle discussioni
in tema di metus: Contr. 4.8 “Per vim metumque gesta
irrita sint”[36]
e Contr. 9.3 “Per vim metumque gesta ne sint rata. ....”[37].
Il “principio giuridico” trattato nei due temi è molto probabilmente riconducibile,
come si può ricavare da un confronto testuale, alla clausola edittale
preadrianea, riportata in D.4.2.1 e cioè: “Quod vi metusve
causa gestum erit, ratum non habebo”.
Contr.
4.8 e Contr. 9.3.9 riportano il vivo di una discussione e di una
riflessione sulla legittimazione passiva del terzo, riguardo ad un non meglio
precisato rimedio contro la violenza, la costrizione, al tempo dell'editto
preadrianeo[38].
Il contesto giuridico che fa da sfondo[39]
alle controversie è probabilmente quello che ha già visto il
passaggio dalla formula Octaviana all'a.q.m.c., come proverebbero
le parole utilizzate da Seneca (vis et necessitas est, ita tantum
rescindantur quae per vim et necessitatem gesta sunt) le quali sono in una
visibile armonia con le parole utilizzate da Ulpiano in D.4.2.1 per descrivere
la clausola edittale più antica.
La testimonianza di Seneca mi sembra che possa
rappresentare una tappa dell'evoluzione della clausola edittale in tema di metus,
più in particolare una tappa intermedia, come quella del Cicerone del de
Officiis, tra la testimonianza riportataci da Cicerone nelle Verrine e
quella riportataci da Ulpiano, perché da un lato vi è stato il
mutamento dal verbo auferre al verbo gerere; dall'altro vi
è ancora il richiamo congiunto alla vis e al metus.
Certamente non vi è una totale coincidenza tra la clausola edittale meno
recente riportata da Ulpiano in D.4.2.1 e le parole di Seneca, ma questo
può dipendere dalle esigenze di forma richieste dall'opera nella quale
queste testimonianze sono presenti[40].
Si ritiene generalmente che nella redazione
dell’Editto Perpetuo, realizzata da Salvio Giuliano, sotto la rubrica
“Quod metus causa gestum erit”
vi fossero due clausole, una avente ad oggetto la concessione della i.i.r. e riportata in D.4.2.1 e
un’altra, non pervenutaci, la quale avrebbe riguardato la concessione
dell’a.q.m.c.[41].
Secondo diversi studiosi la menzione della clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c.,
nelle opere dei giuristi a commento dell'editto, sarebbe stata poi eliminata
dai compilatori giustinianei a seguito della fusione tra i.i.r. e a.q.m.c.[42].
La corrispondente decurtazione sarebbe stata subita anche dal Commento di
Ulpiano all’editto[43].
Molto discussi sono, tuttavia, i rapporti e gli
ambiti di applicazione delle due clausole edittali. Per averne la percezione
basti pensare agli aspetti problematici che investono la clausola edittale che
ci è nota, e cioè: quale rimedio contro il metus avesse introdotto; se è pensabile ritenere che questa
clausola in realtà fosse riferita a tutti i rimedi contro il metus; a cosa si riferisce l'olim ita edicebatur: se alla formula Octaviana, oppure ad una
versione dell’editto precedente alla versione di Salvio Giuliano e
posteriore a tale formula; quale rapporto tra vis e metus fosse introdotto
attraverso questa clausola.
Gli aspetti relativi all'excursus storico
riportato da Ulpiano e ai rapporti tra vis e metus sono
già stati brevemente indicati[44],
quanto agli altri si potrebbe chiedere: se fosse fondata l’opinione di
chi ipotizza che la clausola edittale che ci è stata tramandata è
quella che avrebbe introdotto la i.i.r. [45],
per quale motivo i compilatori avrebbero conservato questa a danno di quella
che avrebbe introdotto l’a.q.m.c.[46],
soprattutto in considerazione della circostanza che secondo l’opinione
dominante i compilatori avrebbero operato numerose interpolazioni nel titolo
del Digesto esaminato, volte all’eliminazione dei riferimenti alla i.i.r. in favore dell’azione[47]?
Anche sulla base di simili dubbi una parte della dottrina romanistica ha
ritenuto che l’editto tramandatoci, in realtà, si riferisse anche
all’actio quod metus causa[48].
Un ulteriore dato che mi sembra necessario
considerare per l’esame di questa problematica è che non solo nel
Digesto non c’è traccia di una specifica clausola edittale che
avrebbe dovuto introdurre l’a.q.m.c.,
ma anche le fonti letterarie che si riferiscono alle problematiche connesse ai
rimedi concessi alla vittima di violenza non ne danno alcuna notizia.
In particolare, si può osservare come Seneca
il Vecchio, nelle Controversiae[49],
utilizzi l’espressione “per
vim et metumque gesta”, che senz’altro ci fa pensare alla
clausola edittale contenuta in D.4.2.1, la quale, come si è ricordato,
secondo la dottrina dominante avrebbe introdotto la i.i.r. ma non l'a.q.m.c.,
e, neanche per riferirsi all’azione quod metus causa, utilizzi
un’espressione riconducibile alla seconda clausola edittale, ipotizzata
dalla dottrina dominante, che sarebbe stata caratterizzata dalla presenza del
verbo facere e avrebbe introdotto l'azione[50].
Non solo, ma nell’affrontare la problematica
delle clausole edittali proposte in tema di metus,
si deve considerare che Gaio, Paolo e Ulpiano, commentano nel medesimo libro
sia la i.i.r. che l’a.q.m.c.[51].
Ciò è spiegabile o ipotizzando che nell’editto del pretore
le clausole che introducevano i rimedi menzionati erano poste una vicino
all’altra, probabilmente sotto la stessa rubrica del titolo “De in integrum restitutionibus”,
oppure, che con un’unica clausola si fossero introdotti entrambi i
rimedi.
Secondo la ricostruzione palingenetica del commento
di Ulpiano all'editto sul metus, nella parte dedicata al commento del
termine gestum, verosimilmente vi era il testo collocato dai compilatori
in D.50.16.19[52]:
Ulpianus libro undecimo ad edictum. Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam
'agantur', quaedam 'gerantur', quaedam 'contrahantur': et actum quidem generale
verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel
numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci sunall£gma vocant,
veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem
significare sine verbis factam.
Ulpiano
ci riferisce che la definizione di Labeone da lui riportata è tratta dal
libro primo praetoris urbani[53].
Mentre
è piuttosto sicuro che Ulpiano nel testo in esame stesse commentando la
clausola edittale “Quod metus causa gestum erit”[54],
lo stesso non può dirsi per il commento del giurista augusteo[55].
Questo
testo, molto studiato in dottrina[56],
a noi interessa particolarmente per la connessione che esso ha con la clausola
edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”,
in quanto potrebbe fornire elementi utili a determinare la portata del verbo gerere
in questa clausola[57].
Anche se il contesto in cui Labeone aveva espresso la propria opinione
era diverso rispetto a quello in cui Ulpiano la colloca, tuttavia il giurista
severiano poteva aver trovato utile riportare la definizione labeoniana della
parola gestum, sebbene questa, secondo alcuni studiosi[58],
non corrispondeva con l'interpretazione ulpianea del verbo gerere nelle
clausole edittali.
Il
contenuto testuale di D.50.16.19 è stato fortemente messo in discussione[59]
e i dubbi sembrano essere avvalorati da aspetti contenutistici[60]
e da aspetti formali[61].
Per la
parte del testo che particolarmente interessa in questa sede, cioè la
frase “gestum rem significare sine verbis factam”, si deve
osservare come essa abbia dato adito a diverse ipotesi di intervento
compilatorio, perché così come è formulata sembra
restringere in modo notevole il significato di gerere, in contrasto con
le fonti che invece testimoniano un significato più ampio di questo
verbo[62],
non solo per Ulpiano, ma anche per Labeone[63].
Considerando
il significato piuttosto ampio che il verbo gerere assume in diverse
clausole edittali, così come risulta dal commento dei giuristi a questo
verbo[64],
mi sembra che sia necessario tentare di spiegare la definizione di gestum
contenuta nel testo in esame. Da un lato si potrebbe supporre che Labeone non
volesse definire la parola gestum ricorrente nelle clausole edittali, ma
piuttosto «valori rigorosamente esatti da un teorico punto di vista
lessicale» e per questo «-rifacendosi ad uno dei valori traslati
correnti, e tradizionali, del verbo gerere- identifica evidentemente nel
gestum la connotazione specifica delle 'attività di fatto'»[65];
dall'altro, sempre per spiegare le “contraddizioni” che ci
sarebbero con il diverso significato che il verbo gerere assume nelle
clausole edittali, si è ritenuto che la definizione di gestum
riportata in D.50.16.19 non sia da attribuire né a Labeone, né ad
Ulpiano, ma sia piuttosto stata inserita dai compilatori giustinianei, i quali
avrebbero modificato il ruolo che Labeone aveva affidato al verbo gerere:
cioè, quello di definiendum[66].
Secondo questa tesi, la definitio di actum e contractum
sarebbe stata utilizzata per definire il verbo gerere, che ha, rispetto
ai primi due termini, un significato più ampio[67].
Il
valore attribuito al verbo gerere nel testo in esame è stato
spesso inteso come un valore “particolare”, non tale da
rispecchiarne la definizione in senso tecnico[68].
Questa conclusione sarebbe avvalorata dall'ampio significato attribuito al
verbo gerere (tecnico) nelle clausole edittali sopra richiamate (e tra
queste la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non
habebo”) e accolto dai compilatori.
Tuttavia,
a me sembra che Labeone, con la definizione riportata nel testo in esame, non
fosse in contraddizione con se stesso rispetto ai diversi usi del verbo gerere
che sono riscontrabili nelle fonti e a lui attribuibili[69],
soprattutto se si considera che con questa definizione egli volesse indicare il
significato residuale del verbo gerere, rispetto a quello più
ampio che comprendeva sia actum che contractum. In questa
definizione, infatti, il giurista augusteo fa rientrare ogni
“attività” posta in essere senza verba, ma con questo
non si voleva intendere che solamente le attività poste in essere sine
verbis potessero essere incluse tra i gesta[70],
piuttosto che in queste vi rientrassero anche quelle attività per le
quali non fosse necessaria la pronuncia di parole (senza che ciò si
considerasse compreso nel sive re dell'actum)[71].
A questo proposito è utile considerare che il termine gestum
è definito, come emerge dall'espressione labeoniana in esame, attraverso
il verbo facere e ciò non è in contraddizione con le altre
fonti che tramandano il commento di Labeone al termine edittale gestum[72].
Inoltre,
si deve considerare che nella ricostruzione palingenetica proposta dal Lenel,
D.50.16.19 sarebbe preceduto da D.4.2.9.2 sempre tratto dal commento di Ulpiano
all'editto sul metus.
Ulpianus libro undecimo ad edictum. Idem
Pomponius scribit quosdam bene putare etiam servi manumissionem vel aedificii
depositionem, quam quis coactus fecit, ad restitutionem huius edicti
porrigendam esse.
Ulpiano
in questo testo riporta il pensiero di Pomponio, secondo il quale bene pensano
alcuni (quidam) che la restitutio prevista da questo editto,
cioè quello ricordato in D.4.2.1, debba essere estesa anche alla
manomissione di un servo oppure alla demolizione di un edificio che qualcuno,
perché costretto, abbia posto in essere[73].
Il
testo, così come ci è stato tramandato, fa rientrare sia la
manomissione del servo che la demolizione di un edificio nel gestum
della clausola edittale, perché si legge che in entrambe le ipotesi
è applicabile questo editto: “Quod metus causa gestum erit,
ratum non habebo”, ma questo dato è stato fortemente messo in
discussione, perché la demolizione di un edificio rientrerebbe piuttosto
nel facere e quindi darebbe luogo all'applicazione dell'a.q.m.c.[74].
Per spiegare il richiamo nello stesso testo della manomissione del servo e
della demolizione di un edificio è stato sostenuto che entrambe le
ipotesi avrebbero avuto come conseguenza la perdita definitiva della
proprietà[75],
così che rispetto a queste due fattispecie la restitutio non
sarebbe stata possibile. Nel testo, però, non ci si chiede, almeno in
modo espresso, se sia possibile, materialmente e giuridicamente, porre in
essere una restitutio nelle due ipotesi discusse. In esso si legge che
la manomissione o la demolizione “ad restitutionem huius edicti
porrigendam esse”, però non credo che il problema fosse quello
di stabilire se “concretamente” si potesse porre in essere una restitutio,
ma piuttosto quello di determinare se alle due ipotesi potesse applicarsi questo editto: “Quod metus causa
gestum erit, ratum non habebo”.
L'ipotesi
della manomissione di un servo, poteva creare più dubbi in merito alla
possibilità di concedere una restitutio, soprattutto se intesa in
senso tecnico come i.i.r.[76],
che in merito alla riconducibilità della fattispecie al gestum
edittale[77],
mentre, viceversa, per l'ipotesi della demolizione di un edificio sarebbe
più comprensibile la discussione sulla riconducibilità della fattispecie
al gestum edittale che quella sulla possibilità di ottenere una restitutio.
La
riconducibilità delle due ipotesi alla fattispecie edittale descritta
con il termine gestum e la possibilità di concedere una restitutio
sono strettamente connesse, perché solo se si verifica la prima
condizione è possibile concedere la restitutio, cioè in
primis si deve valutare se l'ipotesi presentata rientri in quelle
astrattamente previste nella clausola edittale. Però, nel testo,
l'accento non è posto sull'ipotetica impossibilità di una restitutio,
ma piuttosto sulle due diverse “attività” e sulla
possibilità di applicarvi la restitutio prevista dall'editto[78].
Dal
tenore del testo, poi, emerge un dibattito sull'applicazione dell'editto a
quelle due ipotesi, perché Pomponio esprime un'approvazione (... bene
putare ...) rispetto all'opinione dei quidam che da altri
presumibilmente era contrastata, come emerge anche dall'utilizzo del verbo porrigere[79].
La
soluzione dei quidam, approvata da Pomponio e non contraddetta da
Ulpiano, è che si debbano ricomprendere nella reintegrazione prevista
dall'editto entrambe le ipotesi. Resta da spiegare il richiamo nel testo alla restitutio,
con il quale dai più è stato visto un rinvio all'a.q.m.c.
Non mi sembra, però, si possa escludere che con le parole “...ad
restitutionem huius edicti porrigendam esse” Pomponio volesse
intendere la finalità restitutoria della clausola edittale, intesa in
senso ampio, tale da ricomprendere sia la i.i.r., intesa in senso
tecnico, come autonomo rimedio pretorio, che l'a.q.m.c.[80].
Considerando
il collegamento palingenetico tra D.4.2.9.2 e D.50.16.19 sembra che non vi
fosse alcun contrasto tra la definizione, sebbene residuale, del termine gestum
proposta da Labeone e l'ipotesi di un'attività come quella della aedificii
depositio. Quest'ultima, infatti, sarebbe potuta rientrare in una res
sine verbis facta[81].
Rispetto alla ricostruzione palingenetica
proposta dal Lenel[82], che
colloca D.4.2.9.2 prima di D.50.16.19, però, credo più probabile che
Ulpiano avesse prima riportato le definitiones di Labeone e poi avesse
discusso le fattispecie di D.4.2.9.2[83];
ciò per due motivi: da un lato, in questo modo, ci sarebbe l'aggancio
tra l'ultima parte di D.50.16.19 e la fattispecie della demolizione dell'edificio
discussa in D.4.2.9.2; dall'altro, da un punto di vista logico, credo
più probabile che prima si fosse riportata la definitio e poi
discussa un'ipotesi rientrante nel significato residuale di gestum che
si era precisato.
Anche
in D.4.2.9pr. Ulpiano riporta l'opinione di Pomponio, il quale, nella parte
iniziale cita Labeone. Dalla ipotesi discusse in questa fonte rientrerebbero
nella fattispecie edittale descritta con il verbo gerere sia l'ipotesi
dell'abbandono di un fondo[84],
sia il caso in cui qualcuno subisce, per timore, la costruzione di un edificio
sul proprio fondo, sia il caso di una estorta consegna del possesso di un
fondo:
D.4.2.9pr. Ulpianus libro
undecimo ad edictum. Metum autem praesentem accipere debemus, non suspicionem
inferendi eius: et ita Pomponius libro vicensimo octavo scribit. ait enim metum
illatum accipiendum, id est si illatus est timor ab aliquo. denique tractat, si
fundum meum dereliquero audito, quod quis cum armis veniret, an huic edicto
locus sit? et refert Labeonem existimare edicto locum non esse et unde vi
interdictum cessare, quoniam non videor vi deiectus, qui deici non expectavi
sed profugi. aliter atque si, posteaquam armati ingressi sunt, tunc discessi:
huic enim edicto locum facere. idem ait, et si forte adhibita manu in meo solo
per vim aedifices, et interdictum quod vi aut clam et hoc edictum locum habere,
scilicet quoniam metu patior id te facere. sed et si per vim tibi possessionem
tradidero, dicit Pomponius hoc edicto locum esse.
Questo
testo, però, a differenza di D.50.16.19 e di D.4.2.9.2, fa parte del
commento di Ulpiano ai verba “metus causa” e non,
come quelli prima esaminati, ai verba “metus causa gestum”[85].
Infatti, Ulpiano stava discutendo le ipotesi che sarebbero rientrate nella
previsione edittale di metus. A questo proposito egli cita l'esempio
trattato da Pomponio: l'abbandono del fondo, per
il fatto di aver sentito dire che qualcuno vi stava giungendo con le armi.
Pomponio riferiva che Labeone[86]
aveva ritenuto non applicabile questo editto, né l'interdetto quod vi
aut clam, in quanto colui il quale aveva abbandonato il fondo non aveva
aspettato di essere scacciato con la violenza, ma era fuggito prima, per la
semplice paura di essere scacciato (quoniam
non videor vi deiectus, qui deici non expectavi sed profugi[87]).
Diversamente l'editto avrebbe avuto applicazione se la vittima della violenza
si fosse allontanata dopo che gli armati avessero fatto ingresso nel fondo[88].
Nel gerere della clausola edittale, quindi, rientrerebbe l'ipotesi
dell'abbandono del fondo.
Inoltre,
Pomponio[89],
citato da Ulpiano, menziona altre fattispecie, anche non rientranti in
attività negoziali (ad esempio la costruzione su un fondo), a proposito
del commento alla clausola edittale “Quod metus causa gestum erit,
ratum non habebo”, richiamata con le parole “hoc edictum”[90].
Queste fattispecie avrebbero trovato tutela con l'a.q.m.c.[91]
e sembrano offrire un ulteriore argomento all'ipotesi dell'esistenza di
un'unica clausola edittale, quella riportata in D.4.2.1.
Anche Paolo[92]
sembra ricordare un'unica clausola edittale, la stessa ricordata da Ulpiano[93]:“Quod
metus causa gestum erit, ratum non habebo” e, come quest'ultimo, pure
il primo nel commento a questa clausola edittale menziona ipotesi di
applicazione dell'a.q.m.c.
Certamente anche per il commento di Paolo
all'editto si potrebbe ipotizzare che il richiamo dell'apposita clausola
edittale introduttiva dell'a.q.m.c. sia stato eliminato dai compilatori[94],
ma, come abbiamo visto per i testi tratti dal commento di Ulpiano[95]
e ora per il commento di Paolo, questa ipotesi sembra meno probabile.
D.4.2.21.1-2: Paulus libro
undecimo ad edictum. 1. Quod metus causa
gestum erit, nullo tempore praetor ratum habebit. 2. Qui possessionem non sui
fundi tradidit, non quanti fundus, sed quanti possessio est, eius quadruplum
vel simplum cum fructibus consequetur:aestimatur enim quod restitui oportet, id
est quod abest: abest autem nuda possessio cum suis fructibus. quod et
Pomponius.
In questo
testo Paolo parafrasa la clausola edittale “Quod metus causa gestum
erit, ratum non habebo” e precisa che il pretore nullo tempore[96]
ratum habebit[97]
ciò che sarà fatto, in seguito all'induzione del metus.
A questo
primo commento, nel Digesto segue il par. 2 e anche la ricostruzione
palingenetica proposta dal Lenel mantiene lo stesso ordine[98].
Nel
par. 2 Paolo tratta la questione di un soggetto che era stato costretto a
trasferire il possesso di un fondo non suo; in questo caso, afferma il
giurista, nell'aestimatio dell'a.q.m.c. la vittima di violenza
non potrà conseguire il quadruplum o il simplum dei frutti
e del valore del fondo, ma piuttosto il quadruplum o il simplum dei
frutti e del valore del possesso, perché, spiega il giurista, l'aestimatio
riguarda ciò che deve essere restituito, cioè ciò che
è venuto a mancare alla vittima di violenza. Paolo ricorda che anche
Pomponio era dello stesso parere.
Tra il
par. 1 e il par. 2 non sembra esserci alcun legame, perché mentre nel
primo Paolo ricorda la clausola edittale secondo la quale il pretore in nessun
tempo avrebbe ratificato quanto era stato fatto metus causa, nel secondo
discute l'aestimatio nell'a.q.m.c. in un caso specifico[99];
sulla base di ciò si è ipotizzato che l'attuale collocazione dei
due paragrafi sia da attribuire ai compilatori giustinianei[100].
Però, è stato anche osservato che i testi contenuti nel frammento
21 trattano singole questioni, non collegate tra di loro[101]
e che solamente se si vuole sostenere che Paolo con il par. 1 si fosse accinto
a commentare le singole parole dell'editto, allora si potrebbe pensare ad
un'origine giustinianea dell'insieme dei testi presenti nel frammento 21[102].
Tuttavia, dal contenuto dei paragrafi del frammento non sembra che Paolo stesse
commentando le singole parole della clausola edittale.
D.4.2.21.2
potrebbe confermare che l'a.q.m.c. si applicava anche ad estorte
tatsächliche Handlungen[103]
e che queste potevano essere considerate ricomprese nella clausola edittale
ricordata nel par. 1[104].
Questa ipotesi, in modo particolare, credo che sia avvalorata anche dalla
presenza in questo frammento del par. 6, in cui Paolo, sempre nel contesto
della clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non
habebo” discute un'ipotesi di concorso tra a.q.m.c. e i.i.r.
propter metum, senza che ci siano tracce della presenza di una diversa
clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c.
L'analisi dei testi fin qui compiuta mi sembra
confermare l'esistenza di un'unica clausola edittale, quella riportata in
D.4.2.1.
A questo proposito, si può supporre che la
clausola edittale, dopo le parole “Quod
metus causa gestum erit, ratum non habebo” recitasse: “Nisi restituetur, in quadruplum, post annum causa
cognita in simplum, iudicium dabo”[105].
In questo modo sarebbe spiegato: perché i
giuristi che commentavano l’editto trattavano i due rimedi nel medesimo
libro; perché troviamo nel Digesto questa sola clausola edittale
riguardante il metus: attraverso quest’ultima,
infatti, ci si poteva riferire a tutti e tre i rimedi concessi a tutela della
vittima di metus; perché pure
le fonti letterarie utilizzino l’espressione contenuta in D.4.2.1 anche
in riferimento all’azione; perché anche nel Codice[106]
la rubrica sia “De his quae vi
metusve causa gesta sunt” e le costituzioni riguardino la i.i.r.
e l'a.q.m.c. e, infine, perché nel commento dei giuristi alle
parole edittali “ratum non habebo” si menzioni anche l'a.q.m.c.[107].
L’obiezione che si potrebbe muovere a questa
ricostruzione è che in alcuni testi del Digesto[108]
o delle Istituzioni[109],
nel descrivere le fattispecie relative all’a.q.m.c., sarebbe stato utilizzato dai giuristi il verbo facere e non il verbo gerere presente nella clausola edittale,
con la conseguente supposizione che nel primo potrebbero ricadere non solo le
attività negoziali, ma anche quelle più propriamente fattuali,
come la demolizione di un edificio[110],
e che tale verbo fosse utilizzato nella clausola edittale che avrebbe introdotto
l’a.q.m.c.
Mi sembra, però, che l’obiezione non
possa trovare accoglimento, in quanto per giustificare la ricorrenza del verbo facere
nei testi dei giuristi non è necessario presupporne l’esistenza
nell’editto[111].
È stato, infatti, visto come in D.50.16.19 Labeone avesse ricondotto nel
gestum le res sine verbis facta e come anche attività
fattuali (ad esempio la demolizione di un edificio) potessero rientrare nella
fattispecie descritta nella clausola edittale con il verbo gerere[112].
L’ampliamento dal gerere al facere, infatti, potrebbe essere frutto
proprio dell’attività interpretativa della giurisprudenza[113].
Non
sembra che alcuni frammenti di Ulpiano (D.4.2.9.7-8; D.4.2.12
e D.4.2.14pr.)[114]
possano essere di ostacolo all'ipotesi di un'unica clausola edittale, perché le
parole in essi contenute possono riferirsi alla seconda parte della clausola
edittale che si è ipotizzata.
[1] Questo è un testo molto studiato e
ciò che ha alimentato la discussione tra i romanisti è proprio la
ricostruzione storica che Ulpiano ci fa dell’editto. Tra gli studiosi che
se ne sono occupati emerge sicuramente F.
Schulz, Die Lehre vom erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, in ZSS 43 (1922), 232 e ss., il quale non
vede nell’excursus storico la mano di Ulpiano, sia per motivi
formali che contenutistici. Lo Schulz considerava più probabile che
nell'editto adrianeo vi fosse ancora il riferimento alla vis (nel
sostenere questo l'Autore si sentiva supportato dal fatto che Ulpiano, dopo aver
ricordato che l'attuale stesura dell'editto conteneva solo la parola metus,
avesse scritto: “Continet igitur haec clausula et vim et metum...”
[D.4.2.3.1] e subito dopo avesse commentato prima la parola vis
[D.4.2.3.1] e poi la parola metus [D.4.2.5]; che “vi
metusve causa” si trovava ancora nel commento di giuristi
postadrianei all'editto [D.22.1.38.6; D.37.15.7.2; D.40.12.16.1] e nella
rubrica del Codice C.2.19) e considerava come interpolata l'ultima frase, in
quanto i compilatori vi avrebbero voluto leggere un riferimento al factum (dunque
al verbo che sarebbe stato presente nella clausola edittale che avrebbe
introdotto l'a.q.m.c.) e non al gestum. Dubbi riguardo la
clausola edittale sono stati espressi anche da O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3a ed., Aalen, 1985, 110, nt. 8. Anche C.
Castello, Timor mortis vel
cruciatus corporis, in Archivio Giuridico 17 (1939), 163 nt. 1 e
ss., ha ritenuto che l'editto perpetuo adrianeo contesse ancora il termine vis,
ma riteneva che la cancellazione del riferimento alla violenza risalisse al
periodo di Diocleziano. Diversamente
si sono pronunciati sulla sostanziale genuinità del resoconto di Ulpiano
U. Von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa
gestum erit”, Greifswald, 1932,
100 e ss., il quale, più precisamente, ritiene: «Dieser rein
historische Bericht kann nicht einfach byzantinischer Phantasie entsprungen
sein; seinem Kern nach echt, rührt er in seiner heutigen Form
wahrscheinlich von einem nachklassischen Bearbeiter des Ulpiankommentars
her»; G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, in
Romanistische Beiträge zur
Rechtsgeschichte, Berlin, 1932, 107, nt. 4.
Come si vedrà, mi sembra che la
ricostruzione del Cervenca, e quella solo in parte simile del Kaser (cfr. infra
in questa nota), siano più corrispondenti all’evoluzione del
nostro editto.
Una puntuale critica alla
ricostruzione, appena ricordata, dello Schulz è stata fatta da G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3), in
SDHI 31 (1965), 312 e ss., il quale
ritiene che nella motivazione ulpianea i termini “vis” e “metus”
si debbano intendere come una endiadi, cioè come la rappresentazione di
uno stesso fenomeno del quale la vis
costituirebbe il momento attivo, mentre il metus
quello passivo. A questo proposito si deve precisare come lo Schulz stesso, in Classical
Roman Law, Oxford, 1951, 601, riteneva che la formula Octaviana
«contained the words per vim aut (or et) metum auferre
whereby the praetor wished to describe extortion, i.e. what the medieval
jurisprudence styled vis compulsiva as distinct from vis absoluta»
e che «In any case vis aut (or et) metus should be
taken as a sort of hendiadys: “fear caused by threat”». La conclusione riportata in questo passo di
Ulpiano, diversamente, è stata ritenuta interpolata da C.A. Maschi, Il diritto romano I. La
prospettiva storica della giurisprudenza classica, 2a ed., Milano, 1966,
657, il quale ha sostenuto che nel precedente editto, quello del pretore Octavius, fosse contenuta sia la vis da intendersi come violenza
assoluta, che il metus, da intendersi
come violenza relativa, e che solamente in seguito alla creazione dell’actio vi bonorum raptorum si sarebbe
arrivati ad una separazione dei due tipi di violenza inizialmente contenuti in
un’unica formula, quella Octaviana. Con questa spiegazione il
Maschi, indirettamente, riferisce la clausola edittale contenuta in D.4.2.1
all’a.q.m.c., poiché
ciò consegue necessariamente dal ricondurre la clausola edittale meno
recente alla formula Octaviana (come notano anche G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3),
cit., 318 e M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina
nel diritto romano, Padova, 1969, 142). Inoltre, si deve evidenziare che
con la motivazione dell’Autore per l’eliminazione del termine
“vis” (guardato dal lato
attivo, di chi agisce, come nella rapina) difficilmente si riuscirebbe a
spiegare il richiamo del termine in questione nei successivi frammenti e
soprattutto in D.4.2.3. Poco probabile sembra il tentativo del Maschi di
riferire le considerazioni qui contenute alla precedente clausola edittale,
mentre più corretta sembra l’argomentazione che spiega
l’eliminazione del termine “vis”
dall’editto con la circostanza che la vis
rappresenta il momento attivo e il metus
è la violenza morale in senso passivo, ma con lo sguardo sempre rivolto
al punto di vista della vittima della violenza. Anche U. Ebert, Vi metusve causa, in ZSS 86 (1969), 415 nt.
53, ha ritenuto che Ulpiano si stesse riferendo alla nuova clausola edittale.
Inoltre l'Autore (405 e ss.) ha ricostruito lo sviluppo della clausola edittale
sul metus in tre fasi: la prima, «Im alten Edikt», sarebbe
consistita nel richiamo congiunto di «physische Gewalt (hier in Sinne von
vis compulsiva) und Drohung»;
la seconda nell’ampliamento del concetto di vis, fino a farlo coincidere con la nozione di necessitas; infine la terza sarebbe consistita
nell’eliminazione del termine “vis”,
forse anche per separare in modo chiaro il tenore dell’a.q.m.c. da quello dell’actio vi bonorum raptorum. Si veda anche A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, Amsterdam, 1971, 16 e ss.,
secondo il quale «Die primäre Bedeutung des Begriffs vis (auch
im alten Metusrecht) ist zweifellos physische Gewalt. Angesichts des
gesellschaftlichen Hintergrunds der Einführung der formula Octaviana (die
Zeit der Bürgerkriege) liegt es auf der Hand, dass der Prätor bei der
Einführung der formula in erster Linie an diese Form des Zwangs
gedacht hat. Die Verbindung mit metus machte hierbei deutlich, dass sich
das neue Rechtsmittel gegen physische Gewalt als Ursache von Furcht richtete
(unter deren Einfluss das Opfer ein Veräusserungsgeschäft vorgenommen
hatte), also nicht gegen physische Gewalt schlechthin (vis absoluta);
gegen diese wurden in derselben Zeit andere Rechtsmittel eingeführt. Man
darf annehmen, dass alsbald eingesehen wurde, dass physische Gewalt nicht das
einzig denkbare Zwangsmittel ist, und ferner, dass dieses Zwangsmittel beim
Ausgang der Bürgerkriege an Bedeutung verlor und durch andere Formen der
Drohung überflügelt wurde, von denen sich viele in den Quellen
finden, namentlich die blosse Bedrohung mit physischer Gewalt. [...] So
konnte sich die Bedeutung von vis verlängern und das
Anwendungsgebiet der Rechtsmittel gegen metus sich auf Zwang im
allgemeinen (necessitas) erweitern. [...] Bei dieser Identität der
Begriffe kann einer von ihnen in einer kurzgefassten Ediktsredaktion entbehrt
werden». Ancora diversa è l'opinione di B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio
utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht,
Berlin, 1974, 196 e 197, secondo il quale vis sarebbe «erpresserischer
Zwang schlechthin, also (kompulsive) physische Gewalt und Drohung» e, a
differenza della vis, mancava nel metus la «zweckgerichtete
Beugung des Willens. Maβgeblich war vielmehr ein durch
gegenwärtige oder künftige Gefahr hervorgerufener metus».
Secondo questa ricostruzione «Die
Verfasser der Edikts haben also mit vi
metusve causa zwei Tatbestände geregelt», cioè la
costrizione attraverso l'uso della propria violenza, lo sfruttamento della
violenza altrui. Contro una simile
tesi M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders
wegen metus und dolus, in ZSS 94 (1977), 118, che scrive
«Näher zu liegen scheint mir eine andere Deutung, die, statt von
zwei Tatbeständen, von zwei Aspekten oder Element eines, freilich
komplexen Tatbestandes ausgeht. …. Die Begriffe vis und metus dienen im
Doppelbegriff mithin dazu, einander wechselweise zu beschränken. Und nur
weil metus in unserem Zusammenhang
ständig im Sinn der durch menschliche Gewalttätigkeit
ausgelösten Furcht verstanden worden ist, konnte man auf die Nennung der vis daneben schlieβlich
verzichten». Considerano, invece, convicente la spiegazione di Kupisch: J. du Plessis - R. Zimmermann, The
Relevance of Reverence; Undue Influence Civilian Style, in Maastricht
Journal of European and Comparative Law vol. 10 num. 4 (2003), 348. Ancora ipotetica è la posizione di A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», in AHDE 51 (1981),
236. Più recentemente, C.
Venturini, Note in materia di concussione e di actio metus, in IURA
45 (1994), 84 e ss., ha riconsiderato l'orientamento che tende a restituire
a D.4.2.1 «una complessiva affidabilità togliendo, nel contempo,
rilievo all'originaria menzione della vis ed alla successiva riduzione
lessicale» (86). Da ciò sarebbe derivata la tendenza a retrodatare
e a far coincidere le caratteristiche dell’a.q.m.c. con quelle
della formula Octaviana. All'Autore «Preme invece richiamare il
fatto che si presenta privo di obiettivo fondamento quello che è in
genere considerato il principale punto fermo, ossia l'assunto che
dall'accostamento tra formula Octaviana ed actio metus fa
discendere l'esclusione dei casi di violenza fisica o assoluta dall'ambito
operativo dell'uno o dell'altro rimedio» (87). Piuttosto, l'eliminazione
del termine vis è spiegata dal Venturini con l'«esigenza di
chiarificazione che nasceva dalle caratteristiche dell'actio metus e
dall'ambiguità che abbiamo riscontrato in vi» (92), che,
come l'Autore stesso osservava, era idoneo «a rispecchiare non solo
l'esplicazione di una violenza morale ma anche (e, direi, in primo luogo)
l'illegalità della condotta medesima, che proprio per questo può
essere richiamata anche da una forma verbale di senso generico» (91).
[2] «Der spätere
Gebrauch von “vi metusve causa” könnte sich hiernach damit
erklären, daβ die Juristen den ihnen geläufigen und in der älteren Literatur ständigen
Ausdruck beibehielten. Vielleicht auch stand die vollere Fassung immer noch in
der Ediktsrubrik, die dann wörtlich in die des Codex übergegangen
sein könnte. Die Digestenrubrik dagegen enthielt hiernach nicht die Rubrik
des Edikts, sondern stellt die Anfangsworte des Ediktstextes selbst
voran» (in questi termini: M.
Kaser, Zum Ediktsstil, in Festschrift Schulz, II, Weimar,
1951, 41). Su queste problematiche si vedano anche Th. Mayer-Maly, voce Vis, in PWRE, IX, A1,
München, 1961, 330; U. Ebert, Vi
metusve causa, cit., 415, il quale spiega la presenza del termine vis o
dell'espressione vis aut metus nella
giurisprudenza tardo e postclassica con la non completa accettazione della
sintesi dell'espressione vis aut metus resa con il concetto di metus;
B. Kupisch, In
integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 246
e 247, secondo il quale «Der Rückgriff auf das frühere, den
allgemeinen Titel nicht aufweisende Album war so unschädlich wie die
Reminiszenz an vi metusve causa». Ancora,
in modo diverso, C. Venturini, Note
in materia di concussione e di actio metus, cit., 91, il quale, dopo aver
ripercorso l'eliminazione del termine vis dalla clausola edittale
adrianea, afferma: «Mi sentirei allora di giustificare la riproduzione
dell'antica locuzione edittale nella rubrica del Codice ed il suo contrasto con
quella del titolo 4,2 del Digesto sulla base delle diverse finalità
proprie dell'una e dell'altra, dirette la prima ad introdurre il commento della
clausola e l'altra a richiamare, semplicemente, l'ambito applicativo
dell'editto, ossia la corrispondente fattispecie sostanziale. Doveva riuscire
perciò naturale rifarsi, in quest'ultimo caso, all'orientamento della
giurisprudenza severiana testimoniato in D.22,1,38,6 e 47,15,7,2, che rendeva
oggetto di persistente richiamo la formulazione edittale più antica con
l'implicito fine di sottolineare l'irrilevanza della semplificazione testuale
sul piano della sfera applicativa dell'actio, nonché a quello
della cancelleria postclassica, che aveva riproposto la vis alla stregua
di elemento utile per valutare la rilevanza giuridica del metus».
[3] In questo senso si veda V. Scialoja, Negozi giuridici. Corso di diritto romano
nella R. Università di Roma nell'Anno Accademico 1892-1893 raccolto dai
Dottori Mapei e Nannini, Roma, 1933, 320, secondo il quale vis e metus
sono due aspetti della medesima
cosa; C. Ferrini, Manuale di Pandette,
quarta edizione curata e integrata da G.
Grosso, Milano, 1953, 164; G.
Cervenca, Per la storia
dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3), cit., 318.
[4] L. Vacca, Ricerche in
tema di “actio vi bonorum raptorum”,
Milano, 1972, 105 e ss. (soprattutto 113). Si è anche detto che i rimedi
pretori,
pure in materia di timore provocato da violenza morale, fossero stati creati
per tutelare le «anormalità che si verificano nel “processo
di formazione della determinazione di volontà adottata dal
dichiarante”». In questi termini C.
Longo, Corso di diritto romano. Fatti giuridici, negozi giuridici,
atti illeciti, Milano, 1935, 240 e 241. Che questa fosse l'opinione, oltre
che dei giustinianei, anche dei giuristi classici è stato affermato da G. Longo, Contributi alla dottrina
del dolo, Padova, 1937, 53, il quale riteneva che anche i giuristi romani
si fossero posti dal punto di vista dei vizi del consenso e che «una
medesima concezione (sia pure inespressa secondo la tendenza non teorizzante
propria dei classici) ispirò gli interventi pretori di cui si è,
dianzi, precisato il contenuto, la portata, lo spirito». Diversamente,
C.F. Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, III,
ristampa dell'ed. pubblicata a Berlino nel 1840, Aalen, 1981, 100 e ss., 108 e
116; G. Zani, L'evoluzione
storico-dogmatica dell'odierno sistema dei vizi del volere e delle relative
azioni di annullamento, in RISG N.S. Anno II Fasc. I, 1927, 338 e
ss.; E. Betti, Diritto romano, I. Parte generale,
Padova, 1935, 311, il quale, a proposito del “ratum non habere”
di cui in D.4.2.1 osservava: «Senonché, anche qui, il concetto
classico non è che il negozio concluso in conseguenza di una minaccia
sia nullo per un “vizio della
volontà” ad esso intrinseco, ma è che, quantunque valido,
trovi ostacolo alla propria efficacia in una reazione che la parte interessata
può promuovere, fondandosi non già sul “vizio della
volontà”, ma sopra una ingiusta lesione
del proprio diritto e cioè sull'atto
illecito di cui è stata vittima»; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod
metus causa gestum erit”, cit., 12 e ss. e 70 e ss., secondo il
quale «Der byzantinische Professor nimmt zunächst eine Analyse der
inneren Willenslage des Gezwungenen vor und stellt die Frage dahin: Hat der
Verletzte die Rechtsfolge “Erbe zu werden” gewollt, obwohl auf ihn
ein starker Druck ausgeübt ist? Die Lösung dieses Problems suchte und fand der
Professor in der auf aristotelischen Gedankengängen fußenden Lehre
der späteren Stoa», mentre, continua lo Studioso tedesco, «Die
klassische Fragestellung lautet ganz anders: Es wird nicht erforscht, ob der
Bedrohte gewollt hat, was er erklärte. Der Praetor sprach einem zivilen
Formalgeschäft, das “metus causa” abgeschlossen war,
die rechtliche Geltung ab. […] Deshalb
erhob der Praetor das Geschäftsmotiv insofern zum wesentlichen Moment des
juristischen Tatbestandes, als er verlangte, daß der Beweggrund nicht
durch “Zwang” erzeugt sei»; B.
Biondi, Prospettive romanistiche, Milano, 1933, 70 e ss., il
quale, afferma esplicitamente «Il Pretore non attacca il negozio, ma
considera la vis come un fatto, in un certo senso come qualche cosa di
staccato dal negozio, ed accorda alla vittima un'azione penale per il quadruplo
del danno subìto, nonché una exceptio ed una restitutio
in integrum. Orbene come ridurre ad unità questi mezzi giuridici
tanto disparati, e come tentare alcuna coordinazione con i principi del ius
civile? [72]... In contrapposto alla validità del negozio affermata
dal ius civile, abbiamo una eterogenea pluralità di mezzi pretori
che hanno portata ed effetti tanto diversi da rendere impossibile comprenderli
sotto un concetto unitario: mediante l'actio si ottiene una pena
pecuniaria, con la exceptio la assoluzione in giudizio, con la restitutio
si può agire ex novo; possiamo anche mettere insieme exceptio e
restitutio; ma come presentare un concetto unico che comprenda anche
l'azione penale? E come è possibile dire che la violenza rende
annullabile il negozio, quando la vittima, avvalendosi del soccorso del
Pretore, può anche ottenere il quadruplo del danno subìto,
indipendentemente dalla efficacia del negozio? Al concetto di negozio
annullabile si poté arrivare solo quando è scomparsa l'azione
penale, la exceptio ha perduto tutto il suo carattere processuale, la restitutio
in integrum è diventata una mera azione di nullità; in una
parola quando è già compiuto quel processo di degenerazione del
diritto romano, che consentiva di configurare la violenza, accanto al dolo e
all'errore, come vizio della volontà che influisse direttamente sulla
stessa efficacia del negozio. [73] ... La dottrina tradizionale, seguita anche
dai trattatisti del diritto moderno, considera la violenza e il dolo come vizi
della volontà accanto a talune figure di errore, presentando sottili
distinzioni e disquisizioni intorno a tali vizi rispetto alla volontà.
Orbene tutto ciò non corrisponde al pensiero dei classici. ... Orbene,
questa varietà di mezzi pretori esclude che dolo e violenza si possano
inquadrare sotto un unico profilo: non sono soltanto delitti, giacché il
Pretore si pone anche dal punto di vista degli effetti del negozio, non sono
viceversa soltanto cause di nullità o vizi della volontà,
giacché, per le medesime ipotesi, si può agire con l'azione penale
[73]». Una posizione meno rigida, invece, è stata assunta da F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 178 e ss., che
ritiene non essere ancora familiare ai classici la concezione che vede in ogni
negozio giuridico una “Willenserklärung”; i classici, quindi,
secondo lo studioso tedesco non si sarebbero ancora posti, in generale, la
domanda se per un negozio giuridico estorto si potesse parlare di una
volontà giuridicamente rilevante. Però, lo Schulz osserva pure: «Gewisse
Rechtsgeschäfte aber gründet freilich schon die klassische Lehre auf
die voluntas, und hier stellt sich natürlich sofort der Zweifel
ein, ob ein erzwungener Wille noch imstande sei, die Gültigkeit des
Geschäftes zu tragen». (Relativamente
alla validità o meno degli atti posti in essere metus causa, si
veda pure l'evoluzione del pensiero dell'Autore stesso in F. Schulz, Classical Roman Law,
cit., 602 e ss., dove si afferma l'invalidità degli atti informali, come
ad esempio la traditio o la pro herede gestio e la
validità, salvo l'utilizzo degli strumenti pretori, degli atti formali
come la mancipatio, la stipulatio o la cretio); C. Sanfilippo, Il metus
nei negozi giuridici, Padova, 1934, 176, il quale afferma che «il metus
è un fatto illecito, e lo è in quanto impedisce o altera (cioè
vizia) la libera volontà dei soggetti giuridici: i due concetti allora
mi sembra non si escludano a vicenda ma uno sia integrato dall'altro: il metus
cioè non è solo fatto illecito né solo vizio della
volontà, ma è l'uno e l'altro».
[6]
Cicerone, In Verrem 2.3.65.152 “... Quod per vim aut metum
abstulisset ...”.
In questo senso: G.C.
Burchardi, Die Lehre von der Wiedereinsetzung in den vorigen Stand,
Göttingen, 1831, 303 e ss., il quale ritiene plausibile che l'editto di
Ottavio fosse formulato in modo generale come quello riportatoci in D.4.2.1,
più probabilmente nella versione meno recente ricordataci da Ulpiano; U. Schliemann, Die Lehre
vom Zwange, Rostock, 1861, 5 e
6, secondo il quale le parole, probabilmente introduttive, dell'editto del
pretore Ottavio sarebbero conservate in D.4.2.1, nel quale, poi, stando a
D.4.2.14.11 sarebbero seguite, nella parte dedicata alla formula, le parole neque
ea res arbitrio judicis restituetur; J. Duquesne,
Cicéron Pro Flacco, chap. 30-32 et l'In Integrum Restitutio,
in Annales de l'Université de Grenoble Tome XX n° 2 (1908),
25 e ss., il quale ritiene che il rimedio ricordato da Cicerone in Pro
Flacco 21.49 potrebbe consistere in un'applicazione dell'editto “Quod
metus causa gestum erit, ratum non habebo”. In
modo indiretto C.A. Maschi, Il diritto romano I. La
prospettiva storica della giurisprudenza classica, cit., 657 (come notano
anche G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod
metus causa’ (a proposito di
D.4,2,1 e 3), cit., 318 e M.
Balzarini, Ricerche in tema di
danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 142); B. Kupisch, In integrum restitutio und
vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen
römischen Recht, cit., 164, secondo il quale l'editto sul metus riportatoci
in D.4.2.1 sarebbe identico a quello di Ottavio, «wodurch im Hinblick auf
das paraphrastische auferre bestätigt würde, daβ mit gerere die (Erwerbs-) Handlung gemeint
ist», infatti sostiene pure l'Autore (165) «Per vim auferre
ist also durchaus vereinbar mit der Annahme, es handele sich bei Cicero um die
konkretisierende Wiedergabe des vorhadrianischen Metusedikt»; nello
stesso senso S. Martens, Durch
Dritte verursachte Willensmängel, Tübingen, 2007, 25 e 26, nt. 86.
[7] C.
Gallo fu senatore e amico del propretore della Sicilia nel 684=70 a.C. L.
Metello. Non è certa l'identificazione di C. Gallus con G.
Gallius, un magistrato romano sotto M. Antonius Creticus nel 682=72
a.C. in Grecia. In questo senso si veda F.
Münzer, voce C. Gallius, in PWRE, VII,1, 1910,
Stuttgart, 671.
[8] L.
Cecilio Metello fu pretore urbano intorno al 71 a.C. e nell'anno successivo
propretore in Sicilia come successore di Verre. La sua amministrazione è
lodata in più luoghi da Cicerone. Metello si sforza di risollevare la
situazione dopo il malgoverno di Verre, anche se poi passerà dalla parte
di Verre. Si veda F. Münzer, voce
Caecilius, in PWRE, III,1, 1897, Stuttgart, 1204-1205.
[9] Q.
Apronio fu una pedina e un amico di Verre in Sicilia, descritto da Cicerone
come modello di ogni “Schändlichkeit”. In questo senso E. Klebs, voce Q. Apronius, in PWRE,
II,1, 1895, München, 274.
[10] Credo
che sia necessaria qualche precisazione sul termine praeiudicium. Nel Thesaurus
linguae latinae, vol. X,
Lipsiae, 1987, il testo di Cicerone in esame viene riportato nell'ambito del
significato strictius del termine: «α) de iudicio, quod
quaestioni de re maiore praesumit». F.
Avonzo, Coesistenza e connessione tra «iudicium publicum»
e «iudicium privatum». Ricerche sul tardo diritto classico,
in BIDR 59-60 (1956), 126 e ss., precisa che diversi sono i significati
che il termine praeiudicium assume nel processo romano e che, in un
primo significato, le espressioni praeiudicium-praeiudicare
ricorrono per indicare «ogni circostanza che apparentemente e
probabilmente influenzerà il giudice nella valutazione dei fatti sui
quali è chiamato a rendere la sentenza. Un gran numero di passi tratti
dalle opere di Cicerone ci rivela l'importanza che egli attribuiva al praeiudicium
di qualunque genere: d'ordine politico e processuale, tratto da giudizi resi su
controversie altrui come su proprie, da decisioni giudiziarie come anche da
semplici atti e dichiarazioni di volontà o dalla personalità
morale di una persona». L'Autrice, poi, ricorda che il termine praeiudicium
assume nel processo romano una diversa importanza quando il pretore, grazie
alla condizione quod praeiudicium non fiat, stabilisce la successione
dei processi connessi. La Avonzo precisa che a favore della petizione di
eredità nei confronti della rei vindicatio delle singole cose
ereditarie e nei confronti della rivendicazione immobiliare in relazione all'actio
confessoria servitutis, l'editto prevede la precedenza obbligatoria di un
processo sull'altro e che a queste ipotesi se ne deve aggiungere una terza,
stabilita a favore del iudicium publicum nei confronti del iudicium
privatum. Proprio a questo proposito l'Autrice prende in considerazione il
testo di Cicerone in esame (In Verrem 2.3.65.153) e afferma «La
decisione di Metello di non accordare l'azione contro Apronio è
evidentemente arbitraria, poiché non è possibile credere
all'esistenza di una regola pregiudiziale così illimitata da prevedere la
sospensione di qualunque processo privato fino alla sentenza su un processo
capitale tra due parti differenti; e questo nota anche Cicerone, aggiungendo
che Metello, scartando il pregiudizio che sarebbe derivato a Verre dalla
sentenza dei recuperatori, ha però egli stesso già dato su di lui
un più grave giudizio: infatti ha dimostrato di credere che, con la
condanna di Apronio, anche Verre sarebbe apparso condannato». Inoltre, la
Avonzo ritiene che la denegatio actionis di Metello non potesse trovare
la propria giustificazione in una pretesa esistenza di una regola
pregiudiziale, anche perché il crimen repetundarum non
portò mai ad una condanna capitale (che per alcuni, si veda ad esempio O. Lenel, Das Edictum
Perpetuum3, cit., 140, sarebbe stato un requisito della regola pregiudiziale stabilita
nell'editto, contestata dalla Avonzo), mentre sarebbe stato più
probabile che Cicerone parlasse di praeiudicium capitis, perché
nei retori si sarebbe spesso fatta confusione tra la pena capitale e le pene
conseguenti all'interdictio aquae et ignis e che Metello non si fosse
espresso con quei termini. Diversamente, A.
Burdese, Rec. a Avonzo F.,
Coesistenza e connessione tra «iudicium publicum» e «iudicium
privatum». Ricerche sul tardo diritto classico, in BIDR
59-60 (1956), 125-198, in IURA 7 (1956), 159, il quale non esclude la
possibilità dell'esistenza di una precisa regola pregiudiziale
nell'editto, attraverso la quale si potrebbe pure meglio giustificare il testo
di Cicerone in esame, «a proposito del quale l'A. infondatamente nega che
Metello potesse parlare di praeiudicium de capite rispetto ad un
giudizio che avrebbe comportato l'interdictio aquae et ignis».
Tuttavia, ritengo più probabile, che Cicerone con il termine praeiudicium
in tale contesto volesse intendere un pregiudizio
di fatto. In questo senso si veda M.
Marrone, L'efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile
romano, in AUPA 24 (1955), 265, secondo il quale «Il
pregiudizio di fatto non agiva solo in una lite, nella quale si riproponeva in
discussione una questione già giudizialmente decisa; di praeiudicium
(di fatto) le fonti parlano anche rispetto alla res similiter iudicata,
nonché rispetto a giudicati precedenti, che avrebbero potuto influire
sulla onorabilità della persona, la quale era parte in causa del processo
attuale». Sempre M. Marrone, Sulla funzione delle
«formulae praeiudiciales», in Scritti giuridici in
onore di Giovanni Salemi, Milano, 1961, 131, ritiene che In Verrem
2.3.65.152-153 sia un testo da non trascurare sul rapporto tra iudicium
publicum e iudicium privatum, perché in esso, sebbene in un
caso particolare, Metello «denegò a C. Gallo l'azione quod
metus contro Apronio, onde non pregiudicare l'esito di un processo
criminale». Credo che l'Autore continuasse a pensare a un pregiudizio di
fatto. Sul termine praeiudicium nel testo in
esame si veda anche K. Hackl, Praeiudicium
im klassischen Recht, Salzburg, 1976, 121, nt. 2, il quale, pure, nota
che nel testo si tratta di un caso particolare: «Es handelt sich dabei
aber nicht um die Beurteilung des dieselben Partein betreffenden Sachverhalts
in konkurrierender Verfahren (Privat-und Kriminalprozeβ), sondern um die
Ausschaltung der Präjudizialwirkung eines Urteils, wenn mehrere einer
gemeinsamen Tat beschuldigt werden (Haupttäter und Beteiligte). Auch wenn
in der Cicerostelle eine Metusklage gegen Apronius vom Prätor Metellus
denegiert wird, soll damit keine Präjudizialwirkung gegen Apronius
oder den Kläger dieses Zivilprozesses, sondern gegen den Haupttäter
Verres verhindert werden».
[11] Sebbene da questi testi si possa
ricavare che la formula Octaviana
risalga a un pretore di nome Octavius,
è discusso (si vd. P.F. Girard,
Manuale elementare di diritto romano, traduzione in italiano a
cura di C. Longo, Milano, 1909,
429, nt. 4; É. Cuq, Manuel
des institutions juridiques des romains, Paris, 1917, 582, nt. 2; e per
l'ulteriore bibliografia in materia si rinvia a A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 247 nt. 9) se ci si riferisca a Cn.
Octavius che fu pretore nel 79 e console nel 76 (V. Arangio-Ruiz, Le
formule con demonstratio e la loro
origine, in Rariora, Roma, 1946,
112; E. Costa, Cicerone
giureconsulto, I, Bologna, 1927, 151-152; J.
Carcopino, Les secrets de la correspondance de Cicéron,
II, Paris, 1947, 200, nt. 1; L.-A.
Constans, Cicéron, Correspondance, I, 4a ed., Paris, 1950,
208 e 288; J.M. Kelly, Roman
Litigation, Oxford, 1966, 15, nt. 3; A.
Lintott, Violence in republican Rome, 2a ed., Oxford, 1999, 129 e
ss.), oppure a L. Octavius che fu pretore nel 78 e
console nel 75 (A.F. Rudorff, Ueber die Octavianische Formel, cit.,
150 e ss.; M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina
nel diritto romano, cit., 147 e ss., anche sulla scorta del passo di
Asconio, che, però, io non ritengo essere relativo alla formula
Octaviana). Inoltre, secondo alcuni studiosi l'Octavius citato nella
lettera di Cicerone sarebbe da identificare con il padre di Augusto, pretore
nel 61 a.C. In questo senso: F. Schulz, Die
Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht,
cit., 217; J. Duquesne, Cicéron
Pro Flacco, chap. 30-32 et l'In Integrum Restitutio, cit.,
30, nt. 1; U. von Lübtow, Der
Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit”, cit., 126 e
ss.; F. Münzer, voce Octavius,
in PWRE, XVII, 2, Stuttgart, 1937, 1806 e 1807, n. 15; T.R.S. Broughton, The Magistrates of
the Roman Republic, II, New York, 1952, 83 e 86. Contra, in modo convincente,
M. Balzarini, Ricerche in tema
di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 144 e ss.; A.S. Hartkamp, Der Zwang im
römischen Privatrecht, cit., 247, nt. 9; S. Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel,
cit., 8, nt. 14.
Probabile appare la tesi che
l'Ottavio, creatore della formula Octaviana, fosse L. Octavius,
che è citato nei fasti capitolini come L. Octavius Cn. f. Cn. (si
veda F. Münzer, voce Octavius,
in PWRE, XVII, 2, cit., 1819, n. 25), ciò sia per la
testimonianza del Codex Mediceus, in base al quale il prenome del
pretore sarebbe Cn., sia per il fatto che L. Octavius fu proconsole
in Cilicia nel 74 a.C. e a ciò si deve aggiungere che «la lettera
di Cicerone al fratello Quinto verteva sull'amministrazione della provincia
d'Asia e, in particolare, nel passo di cui si tratta, sull'amministrazione
della giustizia in tale provincia, che, infine, particolarmente nelle provincie
asiatiche, a causa del lungo proconsolato ivi esercitato da Silla, i seguaci
del futuro dittatore avevano avuto modo di illecitamente arricchirsi» (in
questi termini M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina
nel diritto romano, cit., 145). Tuttavia, appare pure come plausibile la
riconducibilità dell'autore della formula al Cn. Octavius
che fu pretore nel 79 a.C. In questo senso S.
Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel,
cit., 8, nt. 14.
Nonostante dai testi esaminati e che
si esamineranno in queste pagine sembri certa quantomeno la riconduzione della
creazione della formula Octaviana e della clausola edittale ad essa
relativa ad un pretore di nome Octavius, si deve tuttavia osservare che
alcuni studiosi avevano, piuttosto, sostenuto che l'autore della clausola
edittale riportata poi da Ulpiano in D.4.2.1 e della relativa actio,
fosse Cassius. In quest'ultimo senso si erano espressi G. Noodt, Opera omnia ab ipso recognita,
aucta, emendata, in multis in locis, atque in duos tomos distributa, Lugduni,
1724, 381 e ss. (De forma emendandi doli mali cap. XVI); P.P.H. de Dompierre de Jonquières, Specimen de
restitutionibus in integrum, Lugduni-Batavorum, 1767, 125; A. Schultingii Notae ad Digesta seu
Pandectas, Tomus primus, Lugduni-Batavorum, 1804, 491; K.A. Schneider, Die allgemein
subsidiären Klagen des römischen Rechts, Rostock, 1834, 315 e
ss., secondo i quali autore della clausola edittale, solo in parte riportata in
D.4.2.1, sarebbe stato il pretore Cassius di cui parla Ulpiano in
D.44.4.4.33. In relazione a queste diverse ipotesi avanzate dagli studiosi
è interessante la posizione del F.
Glück, Ausführliche Erläuterung der Pandecten nach
Hellfeld Band 5,2, Erlangen, 1799, 468 e ss., secondo il quale l'actio
a tutela della vittima di violenza fu concessa per la prima volta dal pretore
Gneo Ottavio, che era stato citato da Cicerone nella lettera al fratello
Quinto, ma questa azione avrebbe avuto come legittimato passivo soltanto coloro
che avessero esercitato la vis o incusso timore. Il pretore Cassio (di
cui si parla in D.44.4.4.33), invece, l'avrebbe estesa anche contro il
possessore della res estorta. In questo senso, in realtà, si
erano già pronunciati Io. Gottl.
Heineccii Opuscula postuma, in quibus historia edictorum
edictique perpetui, ipsiusque edicti perpetui, ordini et integritati suae
restituti, partes II. Vita Ludovici Germanici Imp. Aliaque continentur. Omnia
ex schedis paternis edita a Io. Christ. Gottl. Heineccio, Halae, 1744, 398; R.J. Pothier, Pandectae
Justinianeae, in novum ordinem Digestae, cum legibus codicis, et novellis, quae
jus pandectarum confirmant, explicant aut abrogant, Parisiis, 1818, 180,
nt. 1, secondo il quale: «Ex Tullius discimus [Epist. I. 7. ad Quint.
Fratr.] Cn. Octavium Praetorem Sullae temporibus, actionem metus dedisse adversus illos qui quid vi et
Metu abstulissent: postea Cassius Praetor hanc actionem ad quosvis casus,
quibus quid vi metusve causa gestum esset, porrexit. Exceptio metus interpretatione
prudentium recepta est l. 4. § 33. ff. de Doli mali et met. except.».
[12] A.F. Rudorff, Ueber die
Octavianische Formel, in Zeitschrift für geschichtliche
Rechtswissenschaft 12 (1845), 156, riteneva che l'espressione,
così come riportata da Cicerone, non potesse essere riconducibile alla
formula per più motivi: il quod non
poteva appartenere alla formula, poiché un’azione pretoria in factum non ha una demonstratio; il verbo al congiuntivo abstulisset difficilmente sarebbe stato
utilizzato nella formula; l’espressione per vim et metum abstulisset è utilizzata molto spesso da
Cicerone. L'Autore, poi,
precisava (157) «Gehören aber die Worte per vim et metum abstulisse, oder wenn ein Dritter belangt wird: ablatum esse, in der That der
Octavianischen Formel an, so ergiebt sich folgender Zusammenhang mit den
Repetundeu». V.
Arangio-Ruiz, Le
formule con demonstratio e la loro
origine, cit., 112 e 113, riteneva che le parole «quod –
abstulisset» contenessero una citazione della formula. Continuava lo
studioso «… la citazione è certo modificata nel trasporto
alla costruzione indiretta, ma è chiaro che Cicerone aveva presente una
formula con la demonstratio «quod As As a No No per vim aut
metum abstulit rell.». La successiva elaborazione ha portato
da una parte alla redazione impersonale di actio in rem scripta,
dall’altra –ed è quello che qui interessa- alla sostituzione
della intentio in factum alla demonstratio originaria». In
questo caso, secondo il citato Autore, la modifica della struttura formulare
potrebbe essere stata determinata dalla riforma dei presupposti di diritto
materiale. A.S. Hartkamp, Der
Zwang im römischen Privatrecht, cit., 254 e ss., ha, in parziale
accordo con il Rudorff, sostenuto che qualora il quod avesse trovato
posto nel testo ufficiale, questo sarebbe stato da ricondurre all'editto, ma ha
anche avanzato una diversa proposta. Secondo l'Autore olandese, infatti,
Cicerone non avrebbe riportato fedelmente il testo, ma lo avrebbe parafrasato e
con questa operazione avrebbe modificato la formulazione in senso passivo
dell'editto (quod per vim aut metum ablatum esse dicetur) con quella in
senso attivo (quod per vim aut metum abstulisset). Inoltre, egli precisa:
«Auf diese Weise würde sich das Edikt sowohl an das quod ablatum
siet der lex Acilia als auch an die passivische Formulierung des
Metusedikts vorzüglich anschliessen. So lässt sich der Einfluss der pervenit-Klausel
von der lex Acilia über die formula Octaviana bis zur passivischen
Formulierung und der Drittwirkung der actio q.m.c. verfolgen».
Su questo aspetto
si vd. anche B. Kupisch, In
integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 162
e ss. (il quale ritiene plausibile che
Cicerone avesse avuto davanti agli occhi l'espressione edittale
e l'abbia sostanzialmente parafrasata, 162 e 163, anche nt. 190); M. Kaser, Zur in integrum
restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 126 nt. 94; C. Venturini, “Metus”,
in Derecho romano de obligaciones, Homenajaje al Profesor José Murga
Gener, Madrid, 1994, 924; D.
Mantovani, Le formule del processo privato romano, 2a ed.,
Padova,
1999, 70, nt. 271, il quale ritiene che la formula Octaviana iniziasse
con il Quod.
A me sembra più probabile che Cicerone, come
già sostenuto dall'Hartkamp, avesse parafrasato la clausola edittale con
la quale si prometteva la formula Octaviana. Interessante, poi, a questo
proposito il confronto suggerito dall'Autore olandese con la lex Acilia.
S. Martens, Durch Dritte
verursachte Willensmängel, cit., 9, ritiene che Cicerone non avesse
riportato precisamente le parole dell'editto o della formula.
[14] Si veda in questo senso M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina
nel diritto romano, cit., 143 e ss., il quale in realtà considera
i verbi auferre e gerere/facere (a seconda o meno che si
condivida la tesi secondo la quale l'a.q.m.c. sarebbe stata introdotta
da una clausola edittale contenente il verbo facere) rispettivamente
nella formula Octaviana e nella formula dell'a.q.m.c., ma
anche dalla nt. 171 sembra ricavarsi che le medesime considerazioni valgano per
questi verbi nella clausola edittale. Diversamente per B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio
utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht,
cit., 127 e ss. e 146 e ss., per il quale il gerere indica l'acquisto,
l'attività negoziale acquisitiva non solamente dell'autore della
violenza parte del negozio, ma anche del terzo.
Relativamente al mutamento terminologico
che si riscontra nelle due clausole edittali, si veda anche É. Cuq, Manuel des
institutions juridiques des romains, cit., 582, secondo il quale, in
seguito alla separazione, nella clausola edittale, tra gli atti di violenza che
si concretizzavano in un bona rapere e quelli che, invece, determinavano
la conclusione di un atto giuridico, sarebbe avvenuta la sostituzione del verbo
gerere al verbo auferre.
[15] Si
veda: F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im
antiken römischen Recht, cit., 219; C. Ferrini, Viviano - Prisco
Fulcinio, in Opere di Contardo Ferrini, II, Studi sulle fonti del
diritto romano, a cura di E.
Albertario, Milano, 1929, 75; C.
Russo Ruggeri, Viviano giurista minore?, Milano, 1997, 75 e ss. Contra B.
Kupisch, Cicero, Pro Flacco 21,49 f. und die in
integrum restitutio gegen Urteile, in ZSS 91 (1974), 138, secondo
il quale «Da per vim auferre nicht notwendig modal verstanden
werden muβ, sondern auch kausal gemeint sein kann (vgl. Per vim vendere),
kann der Zwang auch von einem Dritten herrühren, hier von Flaccus
über die eingeschüchterten Rekuperatoren auf den Veräuβerer
Heraklides».
[16] In questo senso, B.
Kupisch, Considerazioni in tema di metus: L'actio quod
metus causa, in Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del
diritto europeo. Delle giornate di studio in ricordo di Giovanni Pugliese,
a cura di L. Vacca, Padova,
2009, 147 e ss. [= Überlegungen zum Metusrecht:
Die actio quod metus causa des klassischen römischen Rechts, in
Spuren des römischen Rechts. Festschrift
für Bruno Huwiler zum 65. Geburstag,
Bern, 2007, 432 e ss.].
Per un attento esame del significato di auferre nel
contesto del crimen repetundarum si vd. C. Venturini, Studi sul “crimen repetundarum”
nell'età repubblicana, Milano, 1979, 248 e ss. Questo Autore
sottolinea il diverso significato che il verbo auferre può
assumere nell'ambito del crimen repetundarum e il fatto che il verbo auferre
è molto utilizzato nelle Verrine «ma in misura diseguale».
Inoltre il Venturini sottolinea «come auferre abbia finito per
indicare, nella rappresentazione del crimen repetundarum, non tanto uno
specifico comportamento attivo quanto, piuttosto, l'oggetto del reato nella sua
forma più elementare ed immediata, ossia lo spossessamento ingiusto del
soggetto passivo e l'illecito arricchimento dell'agente comunque realizzati, in
dipendenza del vario estrinsecarsi del dolo». Anche alla luce delle osservazioni
di quest'ultimo studioso è importante sottolineare un dato utile per la
nostra ricerca, cioè che l'uso del verbo auferre ricorre sia nel
contesto del crimen repetundarum che nell'espressione tipica di Cicerone
per la formula Octaviana. Sicuramente, questo può essere un
ulteriore indizio per lo stretto legame tra i due giudizi. In questo senso
anche A.S. Hartkamp, Der Zwang
im römischen Privatrecht, cit., 249 e ss., il quale osservava pure che
auferre non avesse solo il significato di sottrarre, portare via, ma anche
quello di “annehmen, erhalten, erlangen”; M. Kaser, Zur in
integrum restitutio, besonders wegen metus
und dolus, cit., 124. Per
quest'ultimo significato di auferre si veda anche H. Heumann – E. Seckel, Handlexikon zu den Quellen des
römischen Rechts, 11a ed., Graz, 1974, 44, che indica come terzo
significato: «annehmen, in Empfang nehmen, erhalten, erlangen»,
sebbene si debba aver presente che ad auferre è stato anche
attribuito, nello stesso contesto, l'altro significato, di portare via,
sottrarre. A questo proposito, si veda Thesaurus linguae latinae, vol. II, Lipsiae, 1977, coll. 1327 e
1328, in cui, relativamente al significato di auferre si legge «saepe
dicitur de eis, quae amoventur vi rapiendo furto, ut in his potissimum»
e si cita Cicerone, In Verrem 2.3.65.152, sebbene più avanti
venga pure riportato l'altro significato di auferre, sopra ricordato e
accolto dal Kupisch per il testo di Cicerone in cui viene riportata la formula
Octaviana. Si veda, infatti, col. 1331, «secum auferre, inde (etiam
sine secum) de eis, qui aliquid accipiunt, sibi comparant, quod ab aliis
auferunt».
[17] Questa
interpretazione dell'espressione vi et metu auferre è
stata considerata più adatta alle fattispecie trattate da Cicerone nei
testi in esame e, più in generale, alle ipotesi che si verificavano
nelle province anche da U. Ebert, Die Geschichte des Edikts de hominibus armatis coactisve, Heidelberg, 1968,
109; F. Schulz, Classical
Roman Law, cit., 600, secondo i quali la formula Octaviana si
sarebbe potuta esercitare rispetto ad ipotesi di vis compulsiva.
Ammettono entrambi i significati di vi auferre anche per la formula
Octaviana: F. Schulz, Die
Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht,
cit., 218 e ss.; M. Balzarini, Ricerche
in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 149, si veda
anche nt. 188 (il quale riconosce che questo significato fosse più
consono all'esercizio della vis nelle province); A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 249 e ss.
[18] Come
ho spiegato nella nt. 6 questa è la tesi, tra gli altri, di B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis
bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit.,
164 e ss.
[19] In Verrem 2.2.26.63 “Fecerat hoc egregie primo adventu
Metellus, ut omnis istius iniurias, quas modo posset, rescinderet et inritas
faceret. Quod Heraclium restitui iusserat ac non restituebatur, quisquis erat
eductus senator Syracusanus ab Heraclio, duci iubeat; itaque permulti ducti
sunt. Epicrates quidem continuo est restitutus. Alia iudicia Lilybaei, alia
Agrigenti, alia Panhormi restituta sunt. Census, qui isto praetore sunt habiti,
non servanturum se Metellus ostenderat; decumas, quas iste contra legem
Hieronicam vendiderat, sese venditurum Hieronica lege edixerat. Omnia erant
Metelli eius modi ut non tam suam praeturam gerere quam istius praeturam
retexere videretur. Simul atque ego in Siciliam veni, mutatus est”.
La supposizione della presenza delle parole “ratum non habebo”
già nella clausola edittale conosciuta da Cicerone potrebbe trovare un
fondamento nelle parole delle Verrine appena riportate, nelle quali si parla di
restituere, rescindere e inritas facere. Ancora più
in particolare, come vedremo nelle pagine successive, le espressioni utilizzate
da Cicerone sono simili a quelle utilizzate da Seneca il Vecchio in riferimento
alla clausola edittale “Quod vi metusve causa gestum erit, ratum non
habebo”.
In dottrina, però, questo brano delle Verrine è
stato interpretato in diversi modi: J. Duquesne,
Cicéron Pro Flacco, chap. 30-32 et l'In Integrum Restitutio,
cit., 25 e 30, ritiene che Cicerone, In Verrem 2.2.26.63 si sarebbe
riferito ad applicazioni di i.i.r. ob metum. F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft
im antiken römischen Recht, cit., 222 e 223, ha ipotizzato che
già al tempo di Cicerone la clausola “Quod metus causa gestum
erit, ratum non habebo” appartenesse all'editto, sebbene non da molto
tempo, come proverebbe il fatto che Cicerone in de off. 3.24.92 e in de off. 1.10.32 menzionava ipotesi di timore
nell'ambito della clausola edittale de pactis, che poi sarebbero state
eliminate proprio in conseguenza dell'introduzione della clausola in questione
sotto il titolo De in integrum restitutionibus. Nello stesso
senso del Duquesne G. Cervenca, Per
lo studio della restitutio in integrum (Problematica e prospettive),
in Studi in onore di B. Biondi, I, Milano, 1965, 603 nt. 6; M. Sargenti, Ricerche sulla
«restitutio in integrum», in BIDR 69 (1966), 261
e ss., ritiene sì che il testo delle Verrine testimoni un'applicazione
di restitutio in integrum, ma non necessariamente ob metum. L'Autore,
infatti, precisa: «Noi non sappiamo, però, se nel momento in cui
Metello assumeva il governo della Sicilia, un editto sulla restitutio ob
metum fosse stato già emanato dal pretore e fosse stato adottato da
Metello in provincia. Dovremmo, anzi, pensare di no, perché lo stesso
Cicerone parla altrove della formula Octaviana, che Metello aveva
promesso nell'editto urbano contro gli atti di violenza e che aveva riprodotta
nell'editto provinciale per la Sicilia (In Verrem 2,3,65,152), ma nulla
dice di una restitutio in integrum ob metum». F. Fabbrini, Per la storia della
«restitutio in integrum», in Labeo 13 (1967), 209
e 211, ritiene che le restitutiones alle quali si allude nella seconda
orazione contro Verre e tra queste In Verrem 2.2.26.63 siano comunemente
interpretate restitutiones ob metum, «anche se riesce difficile
inquadrare queste testimonianze nell'uno o nell'altro dei casi previsti
dall'editto»; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 266 e ss., ritiene che In Verrem 2.2.26.63 sia un'altra prova
dell'esistenza della i.i.r. a causa del metus già nel I
sec. a.C.; B. Kupisch, In
integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 159
e ss., sembra ritenere che in Cicerone (In Verrem 2.2.26.63) vi sia un
riferimento ad una restituzione non necessariamente pretoria, ma piuttosto
giudiziale. Per quanto riguarda
la presenza delle parole ratum non habebo nell'editto di Ottavio,
l'Autore precisa: «Ob im Edikt des Octavius (und in dem des Metellus) ratum
non habebo enthalten war, könnte dahingestellt werden, wenn der Sinn
dieser Rechtsfolge nicht, wie es heute gemeinhin geschieht, auf
prätorische Restitution eingeengt würde; dann lieβe sich ein iudicium dabo des oktavianischen
Edikts als im Metusedikt unter gleichgebliebenen Voraussetzungen aufgegangen
denken». M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza
romana, II,
Milano, 1973, 346, secondo il
quale non è possibile stabilire se nelle ipotesi trattate da Cicerone, In
Verrem 2.2.25.62-26.63, si tratti di un'anticipazione o di un'applicazione
della i.i.r. ob metum edittale.
[20] Si
pensi a D.4.2.14.6; D.4.2.14.9 in cui viene riferita la posizioni di Labeone in
relazione all'a.q.m.c.
[22] Altri
riferimenti alla vis e al metus, nelle opere di Cicerone, oltre a
quelli che si vedranno pure nelle successive, si trovano in: In L.
Calpurnium Pisonem 35.86 (... Si quidem potest vi et metu extortum
honorarium nominari! ...); In Verrem 2.2.59.145 (... Quid? si hoc
voluntate sua nulla civitas fecit, si omnes imperio, metu, vi, malo adductae
tibi pecuniam statuarum nomine contulerunt, per deos immortalis ...); In
Verrem 2.2.61.150 (... Sin autem metu coacti dederunt, confiteare
necesse est te in provincia pecunias statuarum nomine per vim ac metum coegisse
...); In Verrem 2.3.29.70 (... Virgarum metu Agrynenses quod
imperatum esset facturos se esse dixerunt); In Verrem 2.3.62.143
(... quid? is possitne de istius improbitate dubitare, cum tanta lucra
facta, tam iniquas pactiones vi atquae imperio, virgarum ac mortis metu, non
modo Apronio atquae eius similibus verum etiam Veneriis servis dare coactas?);
In Verrem 2.4.63.140 (... tum eos hortatus sum ut causae communi
salutique ne deessent, ut illam laudationem, quam se vi ac metu coactos paucis
illis diebus decresse dicebant, tollerent); in Pro A. Caecina 14.41
(... Dici in hac causa potest, ubi arma fuerint, ubi coacta hominum
multitudo, ubi instructi et certis locis cum ferro homines conlocati, ubi
minae, pericula terroresque mortis, ibi vim non fuisse? «Nemo» inquit «occisus est neque saucis
(factus)» Quid asis? Cum de possessionis controversia et de privatorum
hominum contentione iuris loquamur, tu vim negabis factam, si caedes et occisio
facta erit? Ego exercitus maximos saepe pulsos et fugatos esse dico terrore ipso
impetuque hostium sine cuiusquam non modo morte, verum etiam vulnere) e in Pro A. Caecina 14.41 (Etenim,
reciperatores non ea sola vis est quae ad corpus nostrum vitamque pervenit, sed
etiam multo maior ea quae, periculo mortis iniecto, formidine animum perterritum
loco saepe et certo de statu demovet. Itaque saucii saepe homines, cum corpore
debilitantur, animo tamen non cedunt neque eum relinquunt locum quem statuerunt
defendere; at alii pelluntur integri; ut non dubium sit quin maior adhibita vis
ei sit cuius animus sit perterritus, quam illi cuius corpus vulneratum sit)
sebbene in un contesto de vi armata, Cicerone propone un'interessante
distinzione tra la violenza fisica e la violenza morale; De domo 20.53
(... aut quicquam iure gestum videri potest quod per vim gestum esse constat
...); Partitiones oratoriae 14.50 (... metu supplicii aut mortis ...);
Partitiones oratoriae 32.111 (... si illud malorum metu fecisse
dicetur ...); Tusculanarum disputationum IV.6.11 (... ex malis
metum et aegritudinem nasci censet, metum futuris, aegritudinem praesentibus;
quae enim venientia metuuntur, eadem adficiunt aegritudine instantia ...); Tusculanarum
disputationum IV.6.13 (... quae autem sine ratione et cum exanimatione
humili atque fracta, nominetur metus; est igitur metus a ratione aversa cautio);
Tusculanarum disputationum IV.7.14 (... metus opinio impendentis mali
quod intolerabile esse videtur); Tusculanarum disputationum IV.7.15
(Sed quae iudicia quasque opiniones perturbationum esse dixi, non in iis
perturbationes solum positas esse dicunt, verum illa etiam quae efficiuntur
perturbationibus, ut ..., metus recessum quendam animi et fugam ...); Tusculanarum
disputationum IV.7.16 (... Sub metum autem subiecta sunt pigritia, pudor,
terror, timor, pavor, exanimatio, conturbatio, formido. ...); Tusculanarum
disputationum IV.8.18-19 (... Quae autem subiecta sunt sub metum, ea sic
definiunt: pigritiam metum consequentis laboris, <pudorem metum dedecoris
sanguinem diffundentem>, terrorem metum concutientem (ex quo fit ut pudorem
rubor, terrorem pallor et tremor et dentium crepitus consequatur), timorem
metum mali adpropinquantis, pavorem metum mentem loco moventem (ex quo illud
Ennius: tum pavor sapientiam omnem mi examinato expectorat), exanimationem
metum subsequentem et quasi comitem pavoris, conturbationem metum excutientem
cogitata, formidinem metum permanentem); Tusculanarum disputationum
IV.9.22; IV.15.35; IV.30.64 (Sed aegritudini, de qua satis est disputatum,
finitimus est metus, de quo pauca dicenda sunt. Est enim metus, ut aegritudo
praesentis, sic ille futuri mali. Itaque non nulli aegritudinis partem quandam
metum esse dicebant, alii autem metum praemolestiam appellabant, quod esset
quasi dux consequentis molestiae. Quibus igiutur rationibus instantia feruntur,
iisdem contemnuntur sequentia. Nam videndum est in utrisque ne quid ne quid
humile summissum molle ecfeminatum fractum abiectumque faciamus. Sed quamquam
de ipsius metus incostantia inbecillitate levitate dicendum est, tamen multum
prodest ea quae metuuntur, de morte et de dolore, primo et proxumo die
disputatum est: quae si probata sunt, metu magna ex parte liberati sumus); Tusculanarum
disputationum IV.37.80 (... metus quoque est diffidentia exspectati et
impedentis mali (et si spes est exspectatio boni, mali exspectationem esse
necesse est metum); ut igitur metus, sic reliquae perturbationes sunt in malo:
ergo ut constantia scientiae, sic perturbatio erroris est. …).
[23] Anche
altre clausole edittali hanno subito una rielaborazione, si veda, ad esempio
quella de pactis conventis, oppure quella de dolo. Proprio in
relazione alla rielaborazione di queste ultime due clausole edittali e di
quella sul metus si è detto che «È assai probabile
che questo comune destino sia da attribuirsi a quell'opera di raffinamento di
concetti, alla quale l'ultima giurisprudenza repubblicana e quella
immediatamente seguente sottopose le creazioni innovatrici della iurisdictio
pretoria». In questo senso G.G. Archi, Ait
Praetor: 'Pacta conventa servabo'. Studio sulla genesi e sulla funzione
della clausola nell'Edictum Perpetuum, in De iustitia et iure, Festgabe
für von Lübtow zum 80.Geburtstag, Berlin, 1980, 390, il quale
ritiene che «La lettura delle fonti extragiuridiche più o meno
coeve è a questo proposito veramente illuminante per afferrare il
significato delle innovazioni pretorie».
[24] E. Costa, Cicerone giureconsulto, I,
cit., 152, nt. 3, sembra ricondurre il pensiero espresso da Cicerone in de Officiis
I.10.32 all'editto emanato dal pretore Ottavio.
[25]
L'esame dell'evoluzione della clausola edittale de pactis richiederebbe
e meriterebbe uno studio tale che in questa sede non può trovare luogo.
[26] In questo senso F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen
Recht, cit., 222 e ss. (si veda supra,
nt. 19), il quale, però, riteneva che la clausola edittale “Quod
vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo” avesse introdotto la i.i.r.,
quindi sarebbe stata non un'evoluzione rispetto alla clausola proposta dal pretore
Ottavio, ma un'aggiunta ad essa. In particolare lo Schulz riteneva
«Möglich ist es, wie schon gesagt, daβ bereits vor der Aufnahme
der i.i.r. verheiβenden Ediktsklausel die Prätoren ohne
ediktale Verheiβung eine i.i.r. propter metum gewährten, aber
weit über die Zeit Ciceros zurück wird diese Praxis schwerlich
liegen, sie hätte sonst früher zu einer Formulierung im Edikt
geführt; Belege für eine solche alte Praxis der Prätoren fehlen
denn auch gänzlich: Cic. pro Flacco 21,49 spricht von der Rescission
eines iudicium, bei dem die Richter zu einem Fehlurteil gezwungen worden
sind, ob man bei einem erzwungenen Rechtsgeschäft ebenso verfuhr, ist noch
immer die Frage».
Di diverso avviso sembra essere Z. Végh, Ex pacto ius. Studien zum Vertrag als
Rechtsquelle bei den Rhetoren, in ZSS 110 (1993), 226, il quale non
ammette l'ipotesi di una successiva eliminazione del riferimento alla vis
nella clausola edittale de pactis: «Gerade weil der Digestentext
so ausführlich alle möglichen Gründe für die Entkräftung
der pacta anführt, ist es eher unwahrscheinlich, daβ aus einer
ursprünglichen Fassung die Bezüge auf vis und metus
gestrichen worden sind. Dies insbesondere auch deshalb, da sogar der Hinweis
auf den dolus trotz des daneben selbständig bestehenden edictum
de dolo weitergeführt wird. Somit müssen wir annehmen, daβ
Cicero hier um der verkürzten literarischen Darstellung willen zwei Edikte
miteinander verwoben hat».
Non essendoci motivi per dubitare
dell'esattezza del testo ciceroniano (in questo senso anche G.G. Archi, Ait Praetor: 'Pacta
conventa servabo'. Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell'Edictum
Perpetuum, cit., 389), si potrebbe pensare che Cicerone avesse riportato
testualmente la clausola edittale de pactis, oppure, ma mi sembra meno
probabile, che l'avesse parafrasata tenendo presente la normale interpretazione
della stessa, che escludeva dalla tutela pretoria l'estorsione del patto
ottenuto con dolo, nel quale era da ricomprendere la violenza.
[27] Cic. de Officiis III.25.96. Si veda W. Heilmann, Ethische Reflexion und
römische Lebenswirklichkeit in Ciceros Schrift de Officiis. Ein
literatursoziologischer Versuch, Wiesbaden, 1982, 65 e ss.
[28] Ciò, spiega Cicerone in de Officiis
III.31.111, in quanto “... Nullum enim vinculum ad astringendam fidem
iure iurando maiores artius esse voluerunt: id indicant leges in duodecim
tabulis, indicant sacratae, indicant notiones animadversionesque censorum, qui
nulla de re diligentius quam de iure iurando iudicabant”. A
questo proposito Cicerone subito di seguito (de Officiis III.31.112)
riporta l'esempio del tribuno della plebe M. Pomponio che dopo aver agito nei
confronti di L. Manlio fu costretto a desistere dall'accusa, in seguito alla
minaccia posta in essere dal figlio di quest'ultimo (Iuravit hoc terrore
coactus Pomponius; rem ad popolum detulit, docuit cur sibi causa desistere
necesse esset, Manlium missum fecit. Tantum temporibus illis ius iurandum
valebat).
[29]
L'osservazione non è certamente di poco conto (più avanti, infra
2 e ss., mi
occuperò del significato del verbo gerere nella clausola edittale
riportata da Ulpiano). Relativamente all'uso di agere da parte di
Cicerone, si può supporre che egli non stesse riportando fedelmente la clausola
edittale, oppure che considerasse tale verbo più adatto alla fattispecie
del giuramento. In relazione anche a questi testi, si veda A.S.
Hartkamp, Der Zwang im römischen
Privatrecht, cit., 264, nt.
85, il quale osserva: «Obwohl in all diesen Stellen nicht von den
privatrechtlichen Rechtsmitteln gegen metus gesprochen wird, kann man
sich nicht des Eindrucks erwehren, dass ihre Entwicklung schon zur Zeit Ciceros
in vollem Gange war und Cicero, sicher in vorgerücktem Alter, die i.i.r.
und die exceptio gekannt haben muss».
[30] Le
date della nascita e della morte di Seneca non sono note con certezza. T.S. Simonds, The Themes Treated By
The Elder Seneca, Baltimore, 1899, ristampa anast., Breiningsville, 2009,
39-42, ritiene che Seneca sia nato tra il 60 e il 53 a.C. e sia morto tra il 34
e il 41 d.C.; M. Winterbottom, Introduction,
in Seneca, Controversiae,
I, London, 1974 (Loeb Classical Library), IX e XXII, ipotizza che il retore sia
vissuto dal 55 a.C. al 40 d.C.; J.
Fairweather, The Elder Seneca and Declamation, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II, 32.1, Berlin, 1984, 516-517,
ritiene che Seneca sarebbe nato qualche anno prima del 43 a.C. e morto prima
del 41 d.C.
[31] Le Controversiae
di Seneca il retore, composte da dieci libri, ci sono pervenute attraverso due
diverse tradizioni manoscritte. La prima comprende il testo completo delle Controversiae
dei libri 1, 2, 7, 9 e 10 con una prefazione di Seneca ai libri 7, 9 e 10. La
seconda comprende tutti e dieci i libri ed è l'unica fonte dei titoli
delle diverse Controversiae, «but gives only excerpts under each
declamation theme» (M.
Winterbottom, Introduction, cit., XIX). Come punto di
partenza per ulteriori approfondimenti su Seneca il Vecchio e le declamationes
si indica L.A. Sussmann, The
Elder Seneca and Declamation Since 1900: A Bibliograph, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt,
II, 32.1, Berlin, 1984, 557 e ss.
[32] Sulla
data di composizione delle Controversiae si veda T.S. Simonds, The Themes Treated By The Elder Seneca,
cit., 45, il quale, anche sulla base di Contr. 1, praef., 2, osserva: «In regard to the
date of composition of the writings we know that Seneca produced them in
extreme old age»; M. Winterbottom,
Introduction, cit., XX,
secondo il quale Seneca difficilmente avrebbe iniziato a scrivere le Controversiae
prima del 37 d.C.
[34] Si veda M. Winterbottom, Introduction, cit., XVI, che
osserva: «Seneca first gives the law (if any) on which the theme depends
(so, e.g., C.1.1), then the theme itself. Then come epigrams from the
declamations of a number of speakers, first on one side of the case, then on
the other». Cfr. anche J.
Fairweather, The Elder Seneca and Declamation, cit., 552, secondo
la quale «we may deduce from the elder Seneca's criticisms that a controversia
normally consisted of a proemium or principium (e.g. Contr.
I,1,24f.), a narratio (e.g. Contr. I,1,21), argumenta or argumentatio
(e.g. Contr. I,6,9; II,2,12) and an epilogus (e.g. Contr. IV pr. 8).
Sometimes the narratio was curtailed or omitted for various reasons, and
so was formal argumentatio occasionally».
[35] Per i diversi punti di vista su questo
aspetto si vedano: T.S. Simonds, The
Themes Treated By The Elder Seneca, cit., 82 e ss.; H. Bornecque, Les declamations et les déclamateurs
d'après Sénèque le père, Lille, 1902, 59 e ss.;
78 anche nt. 1; S.F. Bonner, Roman
Declamation in the Late Republic and the Early Empire, Liverpool, 1949, 34
e ss.; 84 e ss. e 114 (con ulteriori indicazioni bibliografiche); F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia dello sviluppo del diritto
romano, Milano, 1938, 463; R. Düll, Bruchstücke
verschollener römischer Gesetze und Rechtssätze, in Studi in
onore di Edoardo Volterra, I, Milano, 1971, 116 e ss. Su ciò,
sebbene con una prospettiva diversa, si veda anche Y. Thomas, Paura dei padri e violenza dei figli: immagini
retoriche e norme di diritto, in La paura dei padri nella società
antica e medievale, Bari, 1983, 115 e ss.; G. Calboli, Seneca il retore tra oratoria e retorica,
in Gli Annei. Una famiglia nella storia e nella cultura di Roma
imperiale, Atti del convegno internazionale di Milano-Pavia 2-6 maggio 2000,
a cura di I. Gualandri-G. Mazzoli, Como,
2003, 74 e 77. Di recente è stato affermato che l'interesse delle declamationes
non risiederebbe solo nelle norme sulle quali sarebbero impostate le controversiae
«(e nella connessa, riduttiva domanda se corrispondano o meno al diritto
vigente a Roma), bensì negli argomenti
cui si ricorre nella parte dimostrativa, che costituiscono il termine prossimo
di paragone dei ragionamenti dei giuristi (a prescindere, si può dire,
dalla corrispondenza al diritto vigente della premessa normativa)». In
questi termini: D. Mantovani, I
giuristi, il retore e le api. Ius controversum e natura nella Declamatio
maior XIII, in Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia, 2007,
327.
[36] Contr. 4.8
Patronus
operas remissas repetens
Per vim
metumque gesta irrita sint
Bello civili patronus victus et proscriptus ad libertum confugit.
Receptus est ab eo et rogatus ut operas
remitteret. Remisit consignatione facta. Restitutus indicit operas.
Contradicit.
Patronus a liberto restitutionem peto. Si
pacisci tunc a me voluisses operas, spopondissem. Bona bello perdidi, ad
restitutionem nudus veni; nunc libertorum operas desidero. Profer tabellas illa
proscriptionis tabula crudeliores: persequebatur illa quos vicerat, hae
persecutae sunt quos receperant; in illa ultio fuit, in his perfidia; denique
illa iam desiit, hae perseverant. Non mea, inquit, sed aliena vis fuit. Aeque
dignus est poena qui ipse vim adhibet et qui ab alio admota ad lucrum suum
utitur. In hunc primum incidi et, dum timeo ne offenderem, secutus sum hoc
exigentem. Non recepit me, sed inclusit. Nihil est venali misericordia turpius.
[37] Contr. 9.3
Expositum repetens ex duobus
Per vim metumque gesta ne sint rata
Pacta conventa legibus facta rata sint
Expositum qui agnoverit solutis alimentis recipiat.
Contr. 9.3.9 An si in re vis et necessitas est, ita tantum
rescindantur quae per vim et necessitatem gesta sunt, si vis et necessitas a
paciscente adhibita est. Nihil, inquit, mea an tu cogaris, si non a me cogeris;
meam culpam esse oportet, ut mea poena sit. Non, inquit, neque enim lex
adhibenti vim irascitur, sed passo succurrit et iniquum illi videtur id ratum
esse quod aliquis non quia voluit pactus est, sed quia coactus est. Nihil autem
refert, inquam, per quem illi necesse fuerit; iniquum enim quod rescinditur facit
fortuna eius qui passus est, non persona facientis.
F.
Lanfranchi, Il diritto nei retori romani.
Contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano, cit., 167, ritiene che dalla frase “neque
enim lex adhibenti vim irascitur ... non persona facientis” sembra
«che i retori abbiano presente che in inizio il legislatore, ragionando
severamente in riguardo a chi era stato costretto a compiere un determinato
atto giuridico, offriva non un mezzo diretto contro al vim adhibens, ma
uno soltanto volto ad ovviare le conseguenze del negozio viziato. ... Quale poi
sia stato l'agente diretto di questa coactazione, non importa, perché in
ogni caso l'accusato ha tratto vantaggio da uno stato di fatto preesistente e
perché, essi ripetono, la legge ha presente non tanto la persona del vim
adhibens quanto la situazione obbiettiva».
[38] Si
deve precisare che questi due passi di Seneca sono normalmente riferiti dagli
studiosi alla i.i.r. e non all'a.q.m.c., in quanto il retore
avrebbe avuto presente l'editto generale sul metus, come si ricaverebbe
dalle parole “Per vim metumque gesta ne sint rata”.
Così F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im
antiken römischen Recht, cit., 225, anche
nt. 2, secondo il quale, tra l'altro, qui Seneca avrebbe utilizzato il termine
“poena” da incompetente;
U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa
gestum erit”, cit., 216; F.
Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia
dello sviluppo del diritto romano, cit., 157 e ss.; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 263 nt. 79. In termini diversi B.
Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 230,
il quale cita il passo come una delle prove della esperibilità dell'a.q.m.c.
contro il terzo nel caso B (terzo estraneo alla violenza, ma parte del negozio
estorto) e come prova della discussione dell'allargamento per il caso C (terzo
estraneo alla violenza e subacquirente del bene estorto).
Si veda anche B. Kupisch, Cicero, Pro Flacco 21,49 f. und die in
integrum restitutio gegen Urteile, in ZSS 91 (1974), 143, il
quale, criticando la posizione dello Schulz riguardo all'utilizzo da parte di
Seneca del termine “poena”: «da beleuchtet poena
bei Seneca schlaglichtartig die Möglichkeit einer ganz anderen
Wirklichkeit des Metusedikts und des ihm zuzuordnenden Rechtsbehelfs. Wie ihre Existenz ist auch der
Strafcharakter der Metusklage einwandfrei belegt».
Come vedremo in seguito (infra,
2),
questi brani di Seneca ci offrono un ulteriore argomento per ritenere che
già prima della redazione dell'editto perpetuo in tema di metus vi
fosse una sola clausola edittale, l'unica che ci è stata tramandata, e
che, appunto, è nota anche a Seneca, con la quale veniva promessa anche
l'a.q.m.c.
Anche
B. Albanese, Gli atti
negoziali nel diritto privato romano, Palermo, 1982, 183, nt. 488 e 184,
nt. 490, ritiene che i brani del retore siano da riferire all'a.q.m.c. ed
in particolare ritiene che dall'opinione di Seneca possa trarsi un indizio
della discussione ancora viva sulla posizione del terzo di buona fede.
[40] S.F. Bonner, Roman Declamation, cit., 85 sottolinea come «The
declaimers put the gist of the law in an adapted or simplified form for the
purposes of their exercise, but this does not mean that they may not represent genuine
legislation, or even that they do not contain some genuine phraseology». Th. Mayer-Maly, voce “Vis”, col. 330,
ritiene che Seneca in Contr. 9.3, così come Cicerone in ad
Quintum fratrem 1.1.21, avesse avuto davanti agli occhi la formulazione
meno recente della clausola edittale. Rispetto a questa considerazione si
osserva che non il Cicerone del ad Quintum fratrem, ma piuttosto quello
del de officiis avrebbe potuto avere davanti agli occhi la stessa
formulazione della clausola edittale che era nota a Seneca.
[41] A.F. Rudorff, De iuris
dictione edictum. Edicti perpetui quae reliqua sunt, Lipsiae, 1869, 55 e
ss., ricomprendeva sotto la rubrica Quod metus causa gestum erit due editti, il primo, Edictum Gai Cassi Longini Vari a. u. 678,
del quale avremmo le tracce in D.4.2.1 e contenente la formula rescissoria, e il secondo, Edictum Gnaei Octavi a. u. 680, del quale avremmo le tracce in
D.4.2.14.1; D.4.2.19 e in C.2.19.4 e contenente la formula Octaviana in personam. Pertanto, secondo l’Autore
tedesco sarebbe sorto prima l’editto concernente la i.i.r. ad opera di Gaio Cassio Longino (lo stesso pretore che non
avrebbe introdotto, come ricorda Ulpiano in D.44.4.4.33, l’exceptio metus) e subito dopo, a
distanza di appena due anni, l’editto di Gneo Ottavio che avrebbe
introdotto la formula Octaviana. Le
fonti riportate dal Rudorff a 56, nt. 2 per provare l’attribuzione a Gaio
Cassio Longino dell’editto “Quod
metus causa gestum erit” in realtà non sembrano così
forti, perché nessuna di queste si riferisce alla i.i.r. propter metum.
Invece,
O. Lenel, Das Edictum Perpetuum, cit., 110 e 111, riteneva che nell’Editto
Perpetuo, sotto la rubrica “Quod
metus causa gestum erit”, vi fossero tre parti: «das allgemeine
Edikt», riportato in D.4.2.1; «das spezielle Edikt»
sull’a.q.m.c. e la proposta
della formula dell’a.q.m.c. In particolare, per quanto
riguarda l’editto speciale che non ci è pervenuto, il Lenel
ritiene che iniziasse con le parole “Quod
metus causa factum erit (oder
dicetur)”, in modo simile all’editto
riguardante l’actio de dolo.
Hanno
ipotizzato una seconda clausola edittale anche: E. Betti, Studii sulla litis aestimatio del
processo civile romano, II, Città di Castello, 1915, 13, nt. 1, il
quale riteneva che la seconda clausola edittale sul metus recitasse
“quod metus causa factum erit, neque (=nisi) ea res arbitrio iudicis
restituetur, in eum ad quem ea res pervenit iudicium dabo”; F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 221 e in
particolare 231 e ss.; U. von
Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit”,
cit., 221 e ss. e successivamente Idem, Die
Aufgaben des römischen Prätors auf dem Gebiet der Zivilrechtspflege,
in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano, 1983, 395 e ss.; G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 91 e ss.; M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano,
cit., 142, nt. 163; A.S. Hartkamp,
Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 196; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 113-114; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 231 e ss.; H. Ankum, Eine neue Interpretation von Ulpian Dig. 4.2.9.5-6 über die
Abhilfen gegen metus, in Festschrift für H. Hübner zum 70. Geburtstag
am 7. November 1984, Berlin, 1984, 3, anche nt. 3. Nelle pagine successive
cercherò di spiegare perché questa tesi mi sembra meno
condivisibile.
[42] F.
Schulz, Die Lehre vom
erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 221 e in particolare 231 e ss.; U. von Lübtow, Der Ediktstitel
“Quod metus causa gestum erit”, cit., 221 e ss.
[43] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Leipzig, 1889, ristampa Graz, 1960, col. 462, nt.
2; A. d’Ors,
El comentario de Ulpiano a los edictos
del «metus», cit.,
287.
[45] In dottrina si ritiene generalmente che la
clausola edittale contenuta in D.4.2.1 avesse applicazione nei casi di metus
causa gestum, cioè nei negozi posti in essere in presenza di metus
e che successivamente a questa clausola edittale se ne fosse affiancata un’altra che
avrebbe trovato applicazione nei casi di metus causa factum, cioè
ad ogni attività esercitata sotto la pressione del metus. In questo senso si veda F.
Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken
römischen Recht, cit., 218; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “quod metus
causa gestum erit”, cit., 81 e ss., i quali precisavano pure che
la clausola edittale introducente la i.i.r.
sarebbe stata la più antica e che solo successivamente a questa se ne
sarebbe aggiunta un'altra avente ad oggetto il metus causa facere e derivata dalla formula Octaviana. Diversamente G.H.
Maier, Prätorische Bereicherungsklagen,
cit., 94 e ss., ha sostenuto che quello appena descritto non può essere
il carattere differenziale dei due editti, perché, nella visione secondo
la quale metus causa si riferisce al soggetto attivo della violenza, il metus
è il mezzo con cui chi esercita violenza riesce ad ottenere quella
condotta, quel negozio giuridico, che altrimenti non avrebbe ottenuto.
Pertanto, se l'espressione metus causa gerere/facere ha un significato finale
e non causale non ha rilevanza la distinzione tra gerere e facere.
Tenuto ciò presente, il Maier ha sostenuto che il carattere
differenziale dei due editti sia il mezzo processuale in essi proposto per
porre rimedio alla medesima fattispecie. Infatti, mentre l’editto
generale promette una i.i.r. in tutti i casi in cui ciò fosse
possibile, l’editto speciale prometteva un’azione penale nel
quadruplo. Ancora e in modo diverso B.
Kupisch, In integrum restitutio und
vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen
im klassischen römischen Recht, cit., 125 e ss., secondo il quale
sarebbe esistita solamente la clausola edittale riportata in D.4.2.1, che
avrebbe avuto questo significato: «Was aufgrund von Zwang vorgenommen
worden ist» (176).
[46] Perplessità in proposito erano state
già avanzate da B. Kupisch,
In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen
im klassischen römischen Recht, cit., 125, il quale, diversamente,
riteneva che la clausola edittale conservata fosse, in realtà,
l’unica esistita.
[47] Tuttavia, è stato pure ritenuto che non
può essere dato troppo peso a questa contraddizione, in quanto i
compilatori, nel loro lavoro di fusione, accorpamento, non avrebbero seguito un
criterio fisso. In questo senso si vd. A.
d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del
«metus», cit., 233,
nt. 27.
Certamente, si potrebbe pensare che la clausola edittale che i
compilatori hanno conservato fosse più adatta al “loro” modo
di considerare l'a.q.m.c. Come vedremo nel corso della ricerca, questa
spiegazione mi sembra poco probabile.
[48] In questo senso A.W. Von ScHröter, Ueber Wesen
und Umfang der in integrum restitutio, in Zeitschrift für
Civilrecht und Prozeβ 6 (1833), 116 e 119; K. Czyhlarz, Der Einfluß des
Zwanges auf die Giltigkeit der Rechtsgeschäfte, in Jahrbücher
für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts
XIII (1874), 30 e ss., nt. 62, il quale, in particolare, contesta l'ipotesi di
un secondo editto formulata da Rudorff (si veda supra nt. 41):
«Denn erstens ist gar kein Grund vorhanden, ein besonderes Edict eines
Cassius über metus anzunehmen; … Zweitens: ebenso grundlos
ist es aber überhaupt, zwei Edicte über metus anzunehmen; der
Titel quod metus 4,2 spricht stets nur von einem Edict (hoc edictum)
...»; C.F. Savigny, System des heutigen römischen Rechts,
VII, cit., 193, il quale riteneva che il passo dell’editto riportato,
proprio perché concepito in modo generale, si sarebbe potuto applicare
ad entrambi i mezzi di difesa. Secondo il Savigny
anche i giuristi classici lo avrebbero interpretato in questo modo; pertanto,
il testo riportato in D.4.2.1 poteva esser stato inserito nell’originaria
clausola edittale concernente la restitutio
in integrum, senza, però, che ci fosse necessità di una
qualche modifica per aggiungervi i rimedi introdotti in seguito; U. Schliemann, Die Lehre vom Zwange, cit., 4 e ss.; S. Schlossmann, Zur Lehre vom Zwange. Eine civilistische Abhandlung, Leipzig, 1874, 92 e ss.; B.
Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 123
e ss.; W. Selb, Das
prätorische Edikt: Vom rechtspolitischen Programm zur Norm, in Iuris
professio, Festgabe für Max Kaser zum 80.Geburtstag, Wien, 1986,
264, secondo il quale «Wahrscheinlicher ist jedoch auch hier, daβ die actio [cioè l'a.q.m.c.]
eine der speziellen Konkretisierungen des ratum non habebo aus der
juristischen Praxis ist, selbst also eine untechnisch verstandene in
integrum restitutio darstellt».
[49] Si veda Seneca, Controversiae
9.3 “Per vim metumque gesta ne sint
rata. Pacta conventa legibus facta rata sint …”; 9.3.9 “An, si in re vis et necessitas est, ita
tantum rescindantur quae per vim et necessitatem gesta sunt si vis et
necessitas a paciscente adibita est. Nihil, inquit, mea an tu cogaris si non a
me cogeris; meam culpam esse oportet ut mea poena sit. Non, inquit …”. Sembra che qui il retore si stia
riferendo all'a.q.m.c. e la prova di questo si può riscontrare non solo nella
menzione di pena, che male si spiegherebbe se Seneca stesse parlando della i.i.r.,
ma anche nella ratio che porterebbe a giustificare la estensione della
legittimazione passiva ad ogni terzo, cioè la tutela della vittima della
violenza e la necessità di ripristinare la situazione nello stato
precedente. Eloquente è, a questo proposito, il confronto tra le posizioni
e le rispettive argomentazioni dei partecipanti alla controversia con le
opinioni ricordateci da Ulpiano in D.4.2.14.15, in cui i quidam avevano
negato l'esercizio dell'a.q.m.c. contro un subacquirente, mentre
Viviano, Pedio e Ulpiano lo ammettevano. Questo parallelismo, anche se nel caso
discusso nelle Controversiae non è certo che si stesse trattando
di un terzo subacquirente, prova la problematicità legata alla ampia
sfera dei soggetti passivamente legittimati in un rimedio che prevedeva, anche
se solo come eventualità, la conseguenza di una pena e, dunque, non
può non parlare a favore della tesi che vede l'a.q.m.c. come
oggetto della controversia riportata da Seneca.
[50] Anche B.
Kupisch, In integrum restitutio und
vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen
im klassischen römischen Recht,
cit., 160, osserva il modo di esprimersi di Seneca, il quale parla di una poena subito dopo aver detto inritum facere, e pertanto sembra
lasciar desumere «eine Verknüpfung von Metusedikt und
Metusklagen».
[51] In particolare, si veda: Gaio, nel libro quarto
All’editto provinciale; Paolo, nel libro undicesimo All’editto;
Ulpiano, nel libro undicesimo All’editto.
[52] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II,
cit., col. 462; A.
d’Ors, El
comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 247 e 287.
[53] Nel
testo si legge: “... libro primo praetoris urbani ...” senza
menzionare la parola editto. Secondo alcuni studiosi questa sarebbe
un'integrazione da fare nel testo (così, ad esempio J. Partsch, Das Dogma des Synallagma
im römischen und byzantinischen Recht, in Aus nachgelassenen und
kleineren verstreuten Schriften, Berlin, 1931, 9; A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani,
Napoli, 1971, 37; A. Guarino, Diritto
privato romano, 12a ed., Napoli, 2001, 774 nt. 63.5.1);
secondo altri, invece, l'integrazione non sarebbe necessaria, come risulterebbe
tra l'altro da un confronto con D.4.3.9.4 (in questo senso O. Lenel, Palingenesia iuris civilis,
I, cit., col. 501, nt. 2; B. Albanese,
“Agere” “gerere” e “contrahere”
in D.50,16,19, in SDHI 38 (1972), 192 e
nt. 2; R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA 37 (1983), 53). F. von Velsen, Das edictum
provinciale des Gaius, in ZSS 21 (1900), 114, aveva ritenuto che questo
era un metodo di citazione dell'opera ad edictum di Labeone.
[54] Mi
sembra sia da accogliere l'opinione di F.
Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, Corso di diritto
romano I, Torino, 1992, 105 e ss., secondo il quale D.50.16.19
«apriva verosimilmente la disamina da lui [Ulpiano] dedicata a “gestum
erit” nella clausola in tema di metus». Inoltre,
l'Autore osserva che Ulpiano, come per l'analisi del termine “metus”
aveva iniziato con una citazione di Labeone, così aveva fatto lo stesso nell'iniziare
il commento dei verba “gestum erit”. Anche B. Albanese, “Agere”
“gerere” e “contrahere”
in D.50,16,19, cit., 194 e ss., aveva, attraverso una
nuova indagine, confermato la ricostruzione palingenetica proposta dal Lenel.
[55] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II,
cit., col. 502, nt. 3, secondo il quale il testo tramandato in D.50.16.19
«Tractatur apud Ulpianum 11 ad edict. edicti clausula 'quod metus
causa gestum erit'. sed incertum est, an Labeonis definitio ad idem edictum
sit referenda». Nello stesso senso anche B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 190, il quale, però, ipotizza
(207 e ss.) che il discorso labeoniano riportato da Ulpiano in D.50.16.19 sia
da collegare alla materia dello ius domum revocandi; A.S. Hartkamp,
Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 62, dubita della relazione tra la definizione di Labeone e il
“Metusedikt”.
A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani, cit.,
50, pone un'alternativa: o un errore dell'amanuense che avrebbe scritto
“primo” invece di “quarto” o “quinto”;
oppure pensare che l'editto al tempo di Labeone avesse una struttura diversa
rispetto a quella dell'editto che commentava Ulpiano. Lo stesso studioso,
però, in un contributo successivo (A.
Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della
rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico, Bari, 1987, 163) afferma che potendo solo avanzare
congetture sia meglio lasciare la domanda senza risposte «limitandoci a
supporre che il passo esaminato da Labeone dovesse comunque contenere almeno
una delle tre forme verbali, e fosse collocato agli inizi del testo pretorio,
in modo da consentire al giurista di proporre la definizione fin dal primo
libro del suo commento». A. Fernandez Barreiro, La
previa información del adversario en el proceso privado romano,
Pamplona, 1969, 157 e ss., ipotizza un collegamento tra D.2.13.6.3 e
D.50.16.19, perché in entrambi «se hace referencia al contrato
como ultro citroque obligatio, de modo expreso en un caso y
presuntamente en el otro». Sulla
base di queste premesse, l'Autore ipotizza che la definizione di Labeone,
riportata da Ulpiano in D.50.16.19, «pudiera referirse precisamente al
comentario del concepto de ratio argentaria que hace Labeón en
D.2,13,6,3». In questo senso anche A.
d’Ors, El comentario de
Ulpiano a los edictos del «metus»,
cit., 247, nt. 54.
R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, cit., 284 e ss., dopo aver sottoposto a critica
le tesi precedentemente formulate, ritiene che la definizione del giurista
augusteo riportata in D.50.16.19, nell'opera di Labeone, dovesse essere
collocata nell'ambito del commento all'edictum de pactis conventis.
F. Bona, Intervento,
in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale
nell'esperienza tardo-repubblicana, in Atti del convegno di diritto
romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera
Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, Napoli, 1990, 365 e ss., ha
ipotizzato che Labeone, nell'opera ricordata da Ulpiano nel testo in esame,
«potrebbe aver “premesso” un elenco di definizioni dei
termini più “significativi” ricorrenti nel testo dell'editto
del pretore urbano in uso ai suoi tempi, recuperabili dal lettore ogni qual
volta se ne dava l'occasione». Nello stesso senso F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia
contrattuale, in SDHI 55 (1989), 140; Idem,
Synallagma e conventio nel contratto, cit., 126. In parte
diversamente A. Burdese, Recenti
prospettive in tema di contratti, in Labeo 38 (1992), 205, secondo
il quale non si può escludere che Labeone avesse voluto
«distinguere l'uno dall'altro significati rigorosi, più ristretti
di quelli correnti, dei verba edicti considerati».
[56] Come avvertiva B.
Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 191, la
bibliografia di questo testo «è sterminata, e di differentissimo
valore».
[57] In
realtà, come vedremo nelle pagine seguenti, la classicità della
definizione di gestum riportata nel testo in esame è stata
sospettata, anche perché eccessivamente restrittiva rispetto al
significato che il verbo gerere assume nelle clausole edittali.
Tuttavia, credo sia utile considerare questo testo, perché esso potrebbe
aver costituito la base sulla quale Ulpiano ha costruito il proprio commento
della parola gestum nell'editto “Quod metus causa gestum erit,
ratum non habebo”.
[58] F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia
contrattuale, cit., 137, il quale, a conferma
della propria affermazione indica D.4.2.9.2 (per la clausola edittale “Quod
metus causa gestum erit”) e D.42.8.3.1-2 (per la clausola edittale
“Quae fraudationis causa gesta erunt”). Questo aspetto
sarà meglio precisato nelle pagine seguenti.
[59]
Così P. de Francisci, Synallagma.
Storia e dottrina dei cosiddetti contratti innominati, II, Pavia, 1916,
332 e ss.; J. Partsch, Das
Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht,
cit., 9 e ss.; G. Beseler, Miszellen.
(Einzelne Stellen), in ZSS 52 (1932), 293 e ss.; P. Voci, La dottrina romana del
contratto, Milano, 1946, 55 e ss., ha ritenuto che i compilatori siano
intervenuti sulle definizioni di Labeone, con la conseguenza che «per
diritto giustinianeo, è da distinguere tra il senso proprio e il senso
improprio di actum, contractum, gestum»; M. Kaser, Gaius und die Klassiker,
in ZSS 70 (1953), 160, nt. 124, secondo il quale le parole “sive
verbis sive re quid agatur” si devono attribuire ad Ulpiano e non a
Labeone e, comunque, vi sarebbero diversi sospetti di interpolazioni; B. Biondi, Contratto e stipulatio.
Corso di lezioni, Milano, 1953, 207 e ss.; D. Behrens, Miszellen (Begriff und Definition in den
Quellen), in ZSS 74
(1957), 358; F. Schulz, Classical
Roman Law, cit., 466; G. Grosso, Il
sistema romano dei contratti, 3a ed., Torino, 1963, 48, il quale suggerisce
delle integrazioni nel testo (sive litteris tra sive verbis e sive
re nella definizione di actum e mandatum subito dopo societatem
negli esempi di contractum), ma precisa pure di non ritenere giustificata
«l'induzione di interpolazioni, in vario senso sospettate» (49, nt.
3); A. Carcaterra, Le
definizioni dei giuristi romani. Metodo mezzi e fini, Napoli, 1966, 216; F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia
contrattuale, cit., 124 e ss.; Idem, Synallagma e conventio
nel contratto, Corso di diritto romano I, cit., 99 e ss.; 138 e ss.
Tuttavia, è stata anche affermata la sostanziale
genuinità del testo in esame. Così: H.P. Benöhr, Das sogenannte Synallagma in den Konsensualkontrakten
des klassischen römischen Rechts, Hamburg, 1965, 10 e ss.; B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 229 e ss.;
R. Santoro, Il contratto nel
pensiero di Labeone, cit., 48 e ss.; A.
Guarino, Diritto privato romano, cit., 774 e 775, nt. 63.5.1, secondo
il quale, anche se è stato sostenuto da molti studiosi e in modo vario,
che il testo abbia subito interpolazioni, ritiene ciò poco verosimile,
in quanto non si capirebbe quale interesse avrebbe spinto un intervento
compilatorio.
In dottrina ci si è anche
chiesto se la parte iniziale del testo sia riferibile ad Ulpiano o a Labeone.
La maggior parte degli studiosi che si sono occupati di questo testo hanno
ritenuto che anche la prima parte di esso (quod quaedam
‘agantur’ quaedam ‘gerantur’ quaedam ‘contrahantur’)
sia da attribuire a Labeone. Diversamente, si era espresso S.E. Wunner, Contractus. Sein
Wortgebrauch und Willensgehalt im klassischen römischen Recht,
Köln, 1964, 33 e ss., secondo il quale Ulpiano avrebbe voluto precisare il
significato dei verbi (per questo la prima parte del testo sarebbe da
attribuire a lui), mentre il testo di Labeone conteneva il significato dei
sostantivi actus, contractus, gestus.
[60] Da un
punto di vista contenutistico è stato sottolineato come le definizioni
attribuite da Ulpiano a Labeone in D.50.16.19 non corrispondano ad altre
definizioni dei medesimi verbi contenute nelle fonti (in questo senso si veda
J. Partsch, Das Dogma des
Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, cit., 10; P. Voci, La dottrina romana del
contratto, cit., 53 e ss.) e in particolare, per quanto riguarda il verbo gerere,
è stato osservato come la definizione contenuta nel testo in esame sia
piuttosto ristretta rispetto all'uso che di questo verbo si riscontra nelle
fonti, specie se si osserva che «Gestum è il termine
più generico che ci sia, tanto che è proprio dell'Editto pretorio
per indicare qualsiasi attività» (P. Voci, La dottrina romana del contratto, cit., 54). Di opinione analoga era già J. Partsch, Das Dogma des Synallagma
im römischen und byzantinischen Recht, cit., 10, nt. 21, il quale
riteneva che gestum «ist anscheinend ein weiterer Begriff, in dem
die Kontrakte mitbegriffen sind. Das ist schon für das ältere
Edicktsrecht klar, wo das gerere sowohl auf Grund des Kontrakts wie auf
Grund der Tutel vorliegen kann». F. Gallo, Eredità
di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 132 e ss., nonché Idem, Synallagma e conventio nel contratto. Corso
di diritto romano I, cit., 96, ha osservato che con la definizione di gerere
riportata nel testo si attribuisce a tale verbo un significato che contrasta
con l'uso che di esso si fa nell'editto e nel linguaggio sia giuridico che
comune; ancora Idem, Contratto
e atto secondo Labeone: una dottrina da riconsiderare, in Roma e
America. Diritto romano comune 7 (1999), 20 e ss.
[61] Da un
punto di vista formale è stata notata da un lato la mancata
corrispondenza tra l'ordine dell'elenco dei verbi che è contenuto nella
prima parte del testo e l'ordine di spiegazione degli stessi: infatti, mentre nella
parte iniziale l'ordine è agere, gerere, contrahere,
nella seconda si definiscono nell'ordine actum, contractum e gestum.
Per questa asimmetria si veda J. Partsch,
Das Dogma des Synallagma im römischen und
byzantinischen Recht , cit., 10; H.P.
Benöhr, Das sogenannte Synallagma in den Konsensualkontrakten des klassischen
römischen Rechts, cit., 10 e ss.; B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 230; A. Guarino, Diritto privato romano,
cit., 774 e 775, nt. 63.5.1. Il Guarino ritiene che l'asimmetria sia da
ricondurre ad Ulpiano, mentre l'Albanese afferma che il non rispetto
dell'ordine espositivo della prima parte si possa spiegare con il fatto che
Labeone avesse anticipato la definizione di contractum, perché in
questo modo sarebbe seguita a quella di actum tra i quali vi è
un'affinità sostanziale che non c'è tra actum e gestum.
Sempre dal punto di vista formale,
poi, è stato osservato che Labeone avrebbe cambiato «nicht nur die
Reihenfolge der benhandelten Wörter, sondern auch die Art der jeweilingen
Erläuterung ...» (in questi termini H.P. Benöhr, Das sogenannte Synallagma in den Konsensualkontrakten
des klassischen römischen Rechts, cit., 10 e 11); B. Albanese, “Agere”
“gerere” e “contrahere”
in D.50,16,19, cit., 231, il quale osserva che «Per actum,
infatti, il discorso si incentra francamente sul piano lessicale (verbum generale); per contractum,
il discorso si colloca sul piano degli effetti del contrahere (ultro
citroque obligatio); per gestum,
infine, l'attenzione del giurista è rivolta al piano
dell'attività (res...facta)», ma questo dato è stato
spiegato dall'Autore stesso con l'ipotesi che «il discorso labeoniano
aveva proprio l'ambizione di distinguere rigorosamente i tre termini
considerati».
Inoltre, si veda F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia
contrattuale, cit., 132, nt. 21 e Idem, Synallagma e conventio nel
contratto. Corso di diritto romano I, cit., 100 e ss., il quale sottolinea
che mentre le definizioni di actum e contractum sono aperte
rispettivamente da quidem e da autem ciò non vale per il
significato di gestum. Ciò, secondo l'Autore, lascerebbe pensare
che la definizione di gestum non sia inclusa nella sequenza e che quindi
essa sia estranea all'operazione diairetico-definitoria posta in essere da
Labeone.
[62] In
questo senso: J. Partsch, Das
Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht,
cit., 10; P. Voci, La dottrina
romana del contratto, cit., 53 e ss.; B.
Biondi, Contratto e stipulatio. Corso di lezioni, cit., 207; A.S.
Hartkamp, Der Zwang im
römischen Privatrecht, cit., 62, il quale afferma «... dass gestum
in D.4,2,1 eine so enge Bedeutung wie in der Definition von Labeo gehabt
hätte, wird durch die Stellen widerlegt, in denen die i.i.r. auch
im Falle der ezwungenen stipulatio oder acceptilatio gewährt
wird». F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia
contrattuale, cit., 128; Idem, Synallagma e conventio nel contratto.
Corso di diritto romano I, cit., 96. Diversamente, non sembra ritenere
sospetta la definizione di gestum contenuta nel testo in esame B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 244,
secondo il quale il giurista augusteo «identifica evidentemente nel gestum
la connotazione specifica delle “attività di fatto”.
È una connotazione che, anche sul piano non giuridico, si rivela nella
lingua latina in locuzioni del tipo res gestae, come equivalente di
“impresa”; ma che, sul piano tipicamente giuridico, emerge
ottimamente nelle locuzioni tecniche: gerere tutelam, rem gerere,
gerere negotium, pro herede gerere». Infatti, quest'ultimo
Autore ritiene che il contrasto che vi è tra il significato assunto da gerere
nel testo in esame e i diversi significati che di questo verbo si trovano nelle
fonti, si spieghi con il fatto che il giurista augusteo nel contesto dal quale
la definizione è stata tratta avesse precisato che i valori da lui
definiti «non erano quelli edittali (e comunque quelli
tecnico-giuridici), bensì valori rigorosamente esatti da un teorico
punto di vista lessicale. ... In quest'ordine di idee si spiega bene come, pur
genuino, D.50,16,19 costituisce oggi una testimonianza urtante e quasi
paradossale, che mette -sembra- Labeone in contraddizione con la giurisprudenza
in genere, e perfino con se stesso» (226).
A. d’Ors, El
comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 248, ha sostenuto, a proposito del significato
ristretto che la parola gestum verrebbe ad assumere in D.50.16.19:
«Así, pues, Ulpiano empezaría por aclarar que la palabra gestum
excluía la aplicacíon de edicto del metus a la
rescisión de los contractos, pues para éstos eran ya suficientes
las acciones de buena fe nacidas del mismo contractos». Questa interpretazione della parola gestum,
però, mi sembra sia contraddetta da tutte quelle fonti che trattano
dell'applicazione dell'a.q.m.c. o della i.i.r., ad esempio, per
ipotesi di estorta compravendita (ad esempio: D.4.2.14.5; C.4.44.1; C.2.19.3;
C.2.19.4).
[63] Si
consideri, infatti, che Labeone, citato da Ulpiano in D.44.4.4.13 utilizza il
verbo gerere per indicare l'attività negoziale viziata da dolo,
espressa nella clausola edittale con il verbo facere. In questo senso B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 218 (il
quale riporta una rapida rassegna delle testimonianze labeoniane in tema di gerere); F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto.
Corso di diritto romano I, cit., 118. Interessante, su questo punto, anche
l'ipotesi avanzata da M. Brutti, La problematica del dolo processuale
nell’esperienza romana, II,
cit., 434, nt. 131, secondo il quale si può supporre che «la
definizione di Labeone fosse enunciata all'interno di un discorso critico nei
confronti degli impieghi consueti e indiscriminati del termine gerere,
quindi tra l'altro nei confronti delle formulazioni edittali: è questo
un atteggiamento espresso anche in qualche altro luogo dell'opera labeoniana,
nella quale mi sembra più volte in primo piano il problema di stabilire
le condizioni per un corretto uso degli schemi di qualificazione
pretori». In questo modo l'Autore spiega la contraddizione che emerge
dalla definizione di gestum in D.50.16.19 e il fatto che anche acta e
contracta rientrassero nella previsione delle clausole costruite con il
verbo gerere.
[64] Oltre
alla clausola edittale sul metus, si pensi alla clausola edittale
“Quod cum minore quam viginti quinque annis natu gestum esse dicetur,
uti quaeque res erit, animadvertam” (D.4.4.1.1) in relazione alla quale
Ulpiano precisa: “... gestum sic accipimus qualiterqualiter, sive
contractus sit, sive quid aliud contigit” (D.4.4.7pr.); alla clausola
dell'editto De curatore bonis dando in relazione alla quale Ulpiano
affermava “Quaeque per eum eosve, qui ita creatus creative essent,
acta facta gestaque sunt, rata habebuntur ...” (D.42.7.2.1) e Gaio
precisava “Licet inter 'gesta' et 'facta' videtur quaedam esse
suptilis differentia, attamen katacrhstikîς nihil
inter factum et gestum interest” (D.50.16.58pr.); alla clausola
edittale “Quae fraudationis causa gesta erunt cum eo, qui fraudem non
ignoraverit, de his curatori bonorum vel ei, cui de ea re actionem dare
oportebit, intra annum, quo experiundi potestas fuerit, actionem dabo”
(D.42.8.1pr.) in relazione alla quale Ulpiano precisa: “... haec verba
generalia sunt et continent in se omnem omnino in fraudem factam vel
alienationem vel quemcumque contractum. quodcumque igitur fraudis causa factum
est, videtur his verbis revocari, qualecumque fuerit: nam late ista verba
patent. sive ergo rem alienavit sive acceptilatione vel pacto aliquem liberavit”
(D.42.8.1.2) e precisa ancora “vel ei praebuit exceptionem sive se
obligavit fraudandorum creditorum caiusa sive numeravit pecuniam vel quodcumque
aliud fecit in fraudem creditorum, palam est edictum locum habere. 1.
Gesta fraudationis causa accipere debemus non solum ea, quae contrahens
gesserit aliquis, verum etiam si forte data opera ad iudicium non adfuit vel
litem mori patiatur vel ea debitore non petit, ut tempore liberetur, aut usum
fructum vel servitutem amittit. 2. Et
qui aliquid fecit, ut desinat habere quod habet, ad hoc edictum pertinet”
(D.42.8.3pr.-1-2). In relazione al significato di gerere in quest'ultima
clausola edittale si veda anche Paolo: “In fraudem facere videri etiam
eum, qui non facit quod debet facere, intellegendum est, id est si non utatur
servitutibus” (D.42.8.4). Relativamente al significato ampio,
attribuito da Ulpiano al verbo gerere presente nella clausola edittale
sulla restitutio minorum, è interessante anche D.4.4.7.4 (Sed
et in iudiciis subvenitur, sive dum agit sive dum convenitur captus sit),
dal quale -come osserva M. Brutti, La problematica del dolo processuale
nell’esperienza romana, II,
cit., 433, nt. 131- emerge che il verbo gerere è riferito anche a
comportamenti processuali.
Inoltre è interessante notare (in questo senso già F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto.
Corso di diritto romano I, cit., 118) che in D.44.4.4.13 Ulpiano
riporta un'opinione di Labeone, nella quale il giurista augusteo, utilizza il
verbo gerere per descrivere l'attività negoziale viziata da dolo,
attività che nella clausola edittale De dolo è indicata
con il verbo facere. Secondo l'Autore l'uso di gerere al posto di
facere non sarebbe stato causale, ma piuttosto avrebbe costituito la
prova che il giurista augusteo si sarebbe avvalso «del verbo gerere,
e non di facere o agere, per rappresentare l'attività da
lui ripartita nell'agere o nel contrahere». Sulle
ricorrenze del verbo gerere nelle clausole edittali si veda anche P. Voci, La dottrina romana del
contratto, cit., 15, in particolare nt. 1.
Relativamente al significato del verbo gerere nella
clausola edittale riportata in D.4.2.1 e al confronto con il significato del
verbo facere, invece presente nella clausola edittale in materia di
dolo, si veda: Bartoli a Saxoferrato, Commentaria
ad D.4.3.15.3, De dolo malo l. Sed et, § In hac
actione, Venetiis, 1575, I, f. 130 r., il quale pone a confronto il gerere
della clausola edittale sul metus con il facere contenuto in
quella sul dolus e, come osserva S.
Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel, cit., 100,
propone: «daβ “gestum” (beim metus-Edikt)
weit und “factum” (beim dolus-Edikt) eng zu verstehen
sein könnte, fand die Lösung letzlich aber darin, daβ das dolus-Edikt
weitere Teile enthalten haben müβte, die nicht überliefert
worden waren und aus denen sich die in personam Formulierung der
Rechtsbehelfe eindeutig ergeben hätte». La ricorrenza dei due
diversi verbi, rispettivamente nella clausola edittale sul metus e sul dolus,
è stata interpretata diversamente da H.
Donelli Opera omnia. Commentarium de iure civili, IV, Maceratae,
1830, De iure civili lib. XV, cap. XLI, col. 394.V, che nel commento
alla clausola edittale de dolo precisa: «Non
exigit praetor gestum, ut edicto de eo quod metus caussa, L.1 D.
quod met. sed sat habet si quid factum sit verbo generaliore. Non sane quod
non omnia quae per metum ablata sunt, aeque restitui debeant, atque ea quae
sunt ablata dolo malo: cum in dolo insit delictum, in vi et metu etiam facinus.
L. item. § quid si homo, D. quod met.
cau. Et quidem tale, quod comprobare putetur contra bonos mores, ut supra
dixi. L. nihil consensui, D. de reg. jur. sed quia metu illato
nihil extorquetur alii, nisi quod ab eo volente quanvis prius coacto accipitur;
ac proinde ita, ut cum eo negotium gestum sit. At dolo malo possunt pleraque
alii detrahi etiam eo ignorante, et invito, proinde sine gestu, quae
nihilominus aequum sit restitui, quaeque etiam praetor velit pertinere ad
restitutionem hujus edicti. Quae quia non poterant verbo gesti comprehendi,
ideo dolo facta generaliter dici oportuit, ut esset verbum, quo omnia
contineretur, quae dolo malo cum alio gesta sunt, et a decepto expressa, non
secus quam edicto de metu ea, quae per vim et metum alicui extorta sunt: puta
si quis deceptus alienarit quid de suo, aut debitorem liberarit, aut susceperit
in se aliquam obligationem: sed non minus contineri etiam ea, quae cum alio
gesta non sunt ex consensu, sed quovis modo facta, quae alteri rem aliquam
suam, aut jus suum auferunt. Veluti, si animal a dominus
promissum alius occiderit; quo facto creditori actio sua et ignoranti et invito
amittitur. [...]». Su questo, si veda: M. Brutti, La problematica del dolo processuale
nell’esperienza romana, I, cit., 66 e ss., secondo il quale
Donellus, «sottolineando il fatto che può esservi dolo anche dove
non vi sia incontro di volontà, mostra di designare con il termine gerere
proprio l'ambito dei comportamenti negoziali»; M.F. Cursi, L'eredità dell'actio
de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., 169-170,
secondo la quale dalla distinzione di Donellus si ricava che: «La
maggiore ampiezza del facere rispetto al gerere, confinato invece
in ambito negoziale, consente di ricomprendere condotte che integrano anche
ipotesi di maleficia».
Accostando alla distinzione di Donellus tra il verbo gerere
e il verbo facere rispettivamente relativi alla clausola edittale sul metus
e sul dolus, il commento alla prima parte della clausola edittale Quod
metus causa gestum erit, ratum non habebo, (H. Donelli Opera omnia. Commentarium de iure civili,
IV, Maceratae, 1830, De iure civili lib. XV, cap. XXXIX, col. 358.IV: «Ergo in
haec caussa duo spectanda, quibus in summa illa continetur; gestum et gerendi
modus. Gestum hoc edicto coercetur. Gestum alias proprie significat rem sine
verbis factam, ut traditur in L. Labeo libro, D. de verb.
signific. Hoc edicto generaliter quidquid geritur cum alio ex consensu.
Cujus tres sunt species, alienatio, liberatio, promissio. Id est si quis quid
tradendo de suo in alium transfert, si debitorem, si quo modo se alteri
obligat. Notae hae species
in L. metum, 9. §. sed quod praetor, D.
quod met. caus. Ubi et ad hujus edicti restitutionem pertinere omnes
dicuntur, si quis quid earum rerum coactus fecerit. Ex quo
intellegimus gesti verbo in hoc edicto haec omnia contineri»)
sembrerebbe cogliersi la limitazione del significato del verbo gerere
all'attività negoziale, in particolare nelle tres species dell'alienatio,
della liberatio e della promissio.
Non credo che il significato, limitato alle attività
negoziali, del verbo gerere che propone l'umanista francese, possa
essere accolto con riferimento a Labeone o ad Ulpiano.
Si veda, inoltre, B.
Brissonii De verborum quae ad ius civile pertinent significatione,
Lipsiae, 1721, voce gerere, 388 e ss., secondo il quale: «Gerere,
facere significat. Inter Gestum tamen & Factum, subtilis
differentia statuitur, l. 19 in fi. ff. de verbor. significat. (= D.50,16,19)
l. 2 ff. de curat. bon. dand. (= D.
42,7,2) qua neglecta, Gestum & Factum, pro eodem ponimus, l. 58 ff.
de verb.signif. (= D.50,16,58). Et ita latissime accipitur in l. 2 §
Gestum. ff. ad municipal. (= D. 50,1,2,1 e ss.) In Edicto autem de Minorib. Quo
cum minore quam 25. Annorum Gestum erit, Ulpian. Sic interpretatur, ut Gestum
accipitur qualiter qualiter, sive contractus sit, sive quid aliud
contigit. Proinde, sive emit, sive vendidit, sive societatem coiit, sive soluta
ei pecunia, et eam perdidit, inde ei succurretur, l. 7. ff. de minorib. (=
D.4,3,7pr.-1) […]. Sed & hac parte Edicti, Quae Fraudationis causa
Gesta erunt [...] Gestaque accipimus non solum ea, quae contrahens
gesserit, verum etiam si forte, data opera, a judicium non adfuit, vel litem
mori passus est, vel a debitore, ut tempore liberaretur, non petiit vel
usumfructum aut servitutem amisit: et omnimo qui aliquid fecit, ut desinat
habere quo habet, ad Edictum pertinet, l.3. ff. quae in fraud. Cred. (=
D.42,8,3,2) [...]». Dall'analisi del verbo gerere proposta dallo
studioso, emerge come esso nelle fonti venisse utilizzato con diverse
accezioni, non necessariamente negoziali.
[65] Così B.
Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 226 e 242.
Mi sembra che anche R. Santoro, Il
contratto nel pensiero di Labeone, cit., 39 e ss., sia orientato a non
considerare le definizioni di agere e gerere come termini
edittali.
A questo proposito si veda anche M. Talamanca, Intervento,
in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale
nell'esperienza tardo-repubblicana, in Atti del convegno di diritto
romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera
Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, Napoli, 1990, 368, che afferma
«Io sono convinto che la triade labeoniana e, soprattutto, la
caratterizzazione che se ne dà del contratto sia
“situationsgebunden”, il che avviene puntualmente anche per il contractus
gaiano».
[66] F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso
di diritto romano I, cit., 142 e ss., secondo il quale «Ulpiano, nel
determinare il significato di quod gestum erit nella clausola relativa
al metus, aveva richiamato la diairesi-definizione labeoniana in merito
al verbo gerere, sottoponendola quindi a critica». Pertanto
secondo Gallo il verbo gerere costituirebbe il definiendum
dell'operazione diairetico-definitoria di Labeone. L'Autore ricostruisce nel
modo seguente il testo in esame: “Labeo libro primo praetoris urbani
gerere (oppure gestum) definit, quod 'agantur' quaedam
'contrahantur': et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid
agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque
obligationem, quod Graeci sunall£gma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem
conductionem, societatem”. Idem, Eredità di giuristi
romani in materia contrattuale, cit., 143 e ss.; Idem, Synallagma e conventio nel contratto. Corso
di diritto romano I, cit., 138 e ss., ritiene che l'intervento dei
compilatori sul testo in esame avrebbe trovato la propria spiegazione nel fatto
che essi avrebbero voluto eliminare lo ius controversum (e quindi la
diversa opinione di Ulpiano) e nel fatto che la definizione labeoniana
contrastava con il significato di gerere prevalso nell'età classica
e comunque accolto dai compilatori. La definizione di gestus come res
sine verbis facta, invece, sarebbe stata utile per enucleare un secondo e
diverso significato di gerere, più ristretto, ma adatto ad
integrare i significati di actus e contractus nella definizione
labeoniana. Il testo, così modificato, però avrebbe trovato la
giusta collocazione non nel commento del termine edittale gestum, ma
piuttosto nel titolo De verborum significatione. In parte diversa la
ricostruzione del testo di Ulpiano che l'Autore propone in Contratto e atto secondo Labeone:
una dottrina da riconsiderare, cit., 21, perché in quest'ultima
stesura il riferimento a gerere sarebbe implicito.
Già J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen
und byzantinischen Recht, cit., 10, nt. 21, aveva rilevato come gestum
per i classici non potesse essere un concetto (Begriff) tale da poter stare
accanto agli acta e al contractum, ma fosse più ampio e
tale da ricomprendere anche i contratti.
[67] Questa
tesi di Gallo (cfr. supra, nt. 66), dal punto di vista della logica
definitoria, sembra essere persuasiva. Inoltre essa spiegherebbe anche il
richiamo di Ulpiano, in questo preciso punto, del brano di Labeone. Se nel
testo originale del giurista augusteo, infatti, il verbo gerere avesse
avuto il ruolo di definiendum a maggior ragione sarebbe stato utilizzato
da Ulpiano nel commento della clausola edittale in tema di metus.
Tuttavia, non ritengo che la definizione di gestum contenuta in
D.50.16.19 (i.f.) sia da attribuire ai compilatori, piuttosto mi sembra
che con questa si voglia far risaltare il significato più ampio di gerere,
il quale, oltre a comprendere actum e contractum, include anche
attività in questi non comprese. A.
Burdese, Rec. a F. Gallo,
Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli
archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di
impostazioni moderne. Corso di diritto romano. I, Giappichelli ed., Torino
1992, pp. IV-262, in SDHI 59 (1993), 358, propone un'interpretazione del
testo in esame per la quale non sarebbe necessaria l'indicazione da parte di
Labeone del verbo gerere come definiendum unitario e precisa:
«pur permanendo i dubbi formali che potrebbero far pensare ad una
aggiunta dell'elemento del gerere alla originaria definitio
labeoniana: sostanzialmente tuttavia già sarebbe potuta risalire a
Labeone la individuazione di una nozione più ristretta di gerere
o gestum o gestus, comprensiva di atti materiali (e di contegni
omissivi), rientranti anch'essi nel gerere edittale. In D.4,2,9pr. infatti,
a proposito dell'editto quod metus causa gestum erit, Labeone,
richiamato da Pomponio, negava che esso si applicasse al caso in cui taluno
avesse abbandonato il fondo solo sul sentito dire … con riferimento
quindi a un comportamento materiale (l'abbandono del fondo, cui sarebbe
applicabile l'editto relativo a gestum, almeno nell'ultima ipotesi
contemplata nel testo), non dissimile dalla depositio aedifici di cui al
successivo D.4,2,9,2, ove pure è menzionato Pomponio, da parte di
Ulpiano».
M. Talamanca, Lo
schema 'genus-species' nelle sistematiche dei giuristi romani,
in Accademia Nazionale dei Lincei, 374/1977, Quaderno n.
221, Atti del colloquio italo-francese: La filosofia greca e il diritto
romano [Roma, 14-17 aprile 1973], Roma, 1977, 253, nt. 711, riteneva che si
dovesse escludere la possibilità di vedere nell'agere, inteso
come verbum generale, un'espressione tale da potersi estendere al contrahere
e al gerere, così che si sarebbe avuta «una tricotomia,
ricondotta ad un genus mentre una species della tricotomia
sarebbe omonima al genus stesso». Piuttosto, secondo Talamanca,
è possibile riconoscere nell'agere, dal punto di vista
diairetico, un genus, al di sotto del quale si sarebbero potute trovare
le species, cioè l'agere re o verbis ed eventualmente
litteris; diversamente, continua l'Autore, contrahere e gerere
potrebbero aver costituito, dal punto di vista di Labeone, delle categorie
unitarie.
[69] Come era stato sostenuto da F. Gallo, Synallagma e conventio
nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 115 e ss.
[70] Si
veda la Glossa a “Facta”, nella quale si dice che tra facta e gesta non
vi è una grande differenza e si rinvia a D.50.16.58 e a D.4.4.7. E. Betti, Sul valore dogmatico della
categoria “contrahere” in giuristi proculiani e
sabiniani, in BIDR 28 (1915), 13, il quale dopo aver ricordato il
significato di actum in Labeone, precisa che per il giurista augusteo gestum
significa ogni negozio che non ha bisogno di essere espresso per “verba”,
«in cui cioè la volontà può esprimersi anche per
atti concludenti, a prescindere da dichiarazioni formali. ... Che del resto il
“gestum” de' due edicta accennati [i.e. l'editto sul metus
e quello sui minori di venticinque anni] comprendesse anche gli “acta”
(p. es. la mancipatio) e i “contracta” non
avrà Lab. stesso disconosciuto nelle sue decisioni pratiche».
A. Burdese, Recenti prospettive in tema di contratti, cit., 205, ritiene che gestum già
nel pensiero di Labeone avrebbe indicato «un comportamento di mero fatto,
non dichiarativo di un regolamento di interessi, come la depositio edificii
di D.4,2,9,2 o i comportamenti
omissivi di cui in D.42,8,3,1. Potrebbe essersi
trattato di definitiones relative a nozioni rientranti in un factum
indeterminato (ma pur sempre riferito ad attività umana, secondo
l'impiego del termine in talune clausole edittali) piuttostoché di partes
di un totum necessariamente esauriente in esse».
Pur ammettendo la
riconducibilità a Labeone-Ulpiano della definitio di gestum,
non credo sia da accogliere il rilievo del d'Ors (A. d'Ors, Creditum und contractus, in ZSS 74
(1957), 93 e ss., in particolare nt. 52),
secondo il quale la definizione in esame sarebbe particolarmente adatta
per la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit”,
perché secondo la definizione riportata in D.50.16.19 la stipulatio
non sarebbe ricompresa nel gestum come sarebbe confermato dal fatto che
per una estorta stipulatio non si sarebbe potuta concedere una i.i.r.
propter metum, come risulterebbe anche da D.4.2.9.3. Non credo, infatti,
che con res sine verbis facta si volesse escludere la stipulatio
dall'ambito del gestum, ma piuttosto si volesse estendere l'applicazione
della clausola edittale anche alle fattispecie sine verbis facta.
[71] A. Burdese, Rec. a F. Gallo, Synallagma e conventio
nel contratto, cit., 359, osserva: «Così non si può
escludere che Labeone in D.50,16,19 abbia potuto contemporaneamente individuare
l'actum sive re sive verbis da un lato, e dall'altro il gestum come
res sine verbis facta, senza che il secondo, riferito a meri
comportamenti materiali (od omissivi), si intendesse ricompreso nel primo:
altro sarebbe invero l'agere re, altro la res facta, nel suo
pensiero». Diversamente, F. Gallo, Synallagma e conventio nel
contratto. Corso di diritto romano I, cit., 102, secondo il quale, nella
versione del testo in esame che ci è pervenuta, mancherebbe la
disomogeneità di gestus rispetto ad actus. Più in particolare,
l'Autore ritiene: «Anzi la res sine verbis facta è
ricompresa nell'agere sive verbis sive re, come emerge dalla duplice
circostanza che, come agere, anche il verbo facere, è
circoscritto, nel contesto, all'area del comportamento umano e che sine
verbis evoca in chiave negativa gli stessi comportamenti indicati in chiave
positiva da sive re».
[72] Si
consideri che, all'inverso, in D.44.4.4.13 Labeone utilizza il termine gestum
per descrivere l'attività viziata da dolo che però nella clausola
edittale “Quae dolo malo facta esse dicentur, si de his rebus
alia actio ...” (D.4.3.1.1) è descritta con il verbo facere.
[73] Questo
mi sembra il significato da attribuire al testo, anche se in esso, più letteralmente,
si legge che la manomissione di un servo o la demolizione di un edificio siano
da estendere alla restitutio. Dubbi sulla genuinità
dell'espressione “ad restitutionem huius edicti porrigendam esse”
sono stati già espressi da F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im
antiken römischen Recht, cit., 188 e, più in particolare, da C. Longo, Note critiche in tema di violenza morale, in BIDR 42 (1932), 96 e ss., nt. 3,
secondo il quale la locuzione in esame sarebbe logicamente scorretta,
perché si sarebbe dovuto dire che la restitutio era da estendere
alle due ipotesi e non viceversa. Nello stesso senso A. d’Ors, El
comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 245 e ss., secondo il quale è quindi
possibile che i compilatori avessero riassunto in modo deformato una citazione
di Pomponio che Ulpiano aveva effettivamente riportato nella parte in cui
commentava i casi nei quali si sarebbe applicata l'azione penale.
[74]
Sull'ipotesi di una seconda clausola edittale formulata con il verbo facere e
relativa all'a.q.m.c., si veda supra nt. 41. In dottrina è
stato sostenuto che la fattispecie della demolizione di un edificio e dunque
l'espressione “vel adificii depositionem” debba essere
ricondotta ai compilatori giustinianei. In questo senso G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen
Rechtsquellen, I, Tübingen, 1910, 72, secondo il quale «Die depositio
aedificii ist weder ein ziviles noch überhaupt ein Rechtsgeschäft
und folglich der prätorischen Nichtratihabierung unfähig»; F.
Schulz, Die Lehre von erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 188 e ss. e 234
e ss., secondo il quale all'ipotesi della demolizione di un edificio non si
sarebbe potuta applicare la i.i.r.
e pertanto non sarebbe potuta
rientrare nel commento al termine edittale gestum (presente nella
clausola edittale che avrebbe promesso la i.i.r.) e piuttosto sarebbe
stata collocata nell'attuale testo dai compilatori nel tentativo di fondere l'i.i.r. e l'a.q.m.c. Critici
rispetto alla genuinità del richiamo a questa fattispecie, anche: U.
von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum
erit”, cit., 32; 116 e 216; C. Longo, Note critiche in tema di
violenza morale, cit., 96 e ss.; G.H.
Maier, Prätorische Bereicherungsklagen,
cit., 109, nt. 5; C. Sanfilippo, Il
metus nei negozi giuridici, cit., 81 e ss. Meno chiara mi sembra la
posizione di A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 61 e ss. e 136 e ss., il quale da un lato sostiene che le parole vel
aedificii depositionem possano essere interpolate per i motivi spiegati
dallo Schulz, però poi aggiunge che relativamente a questo testo non si
deve seguire la posizione dello Schulz e che il richiamo alla aedificii
depositio si possa spiegare con il fatto che Ulpiano avesse messo a
confronto gerere e facere e come esempio di quest'ultimo verbo
avesse riportato la fattispecie della aedificii depositio. Infine, poi,
l'Autore a 136 ritiene possibile (anche se ipotizza diverse soluzioni) che
l'ipotesi “vel aedificii depositionem” sia stata
introdotta dai giustinianei e che ciò si lasci spiegare con il fatto che
questi abbiano eliminato l'i.i.r. e abbiano esteso l'intero titolo all'a.q.m.c.
Non credono che sia da accogliere l'ipotesi
interpolazionistica delle parole “vel aedificii depositionem”:
H. Kreller, Rec. a Georg H. Maier, Prätorische
Bereicherungsklagen, cit., 577, nt. 3, il quale ipotizza un confronto di
Ulpiano tra i verbi gerere e facere; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio
utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht,
cit., 152 e ss., il quale mette in evidenza come nell'ipotesi nell'estorta
manomissione e in quella della demolizione dell'edificio fosse possibile
ravvisare una perdita per la vittima della violenza e un vantaggio per l'altra
parte. Infatti, da un lato il manumissus avrebbe acquistato la
libertà e la persona che aveva estorto la demolizione dell'edificio, con
il venir meno di quest'ultimo, avrebbe raggiunto il suo scopo materiale o
immateriale; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 111, nt. 33.
I tentativi di ritenere interpolate le
parole “vel aedificii depositionem” non mi sembrano
convincenti, perché essi partono dal presupposto dell'esistenza di una
seconda clausola edittale, non pervenutaci, e non si accorgono, invece,
dell'affinità che vi è tra la definizione labeoniana del termine gestum
e la fattispecie della demolizione di un edificio. L'affinità era stata
colta da Ulpiano, ma i compilatori giustinianei, per le esigenze della
compilazione, separano D.50.16.19 da D.4.2.9.2.
Si sono pronunciati per la
genuinità del testo in esame anche B. Albanese, “Agere”
“gerere” e “contrahere”
in D.50,16,19, cit., 197 e 198, il quale riferisce sicuramente il testo
contenuto in D.4.2.9.2 al “gestum” della clausola edittale
“Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” e afferma:
«È evidente che Ulpiano espone qui l'opinione di Pomponio relativa
alla possibilità di considerare gestum, ai fini dell'editto in
questione -e cioè, di considerare attività suscettibile di restitutio,
se determinata dall'altrui minaccia-, tanto la manomissione di un servo, quanto
la demolizione di una costruzione. (197) ... è interessante notare che
in D.50,16,19 la nozione di gestum fornita da Labeone è tale da
attagliarsi a meraviglia proprio alla aedificii depositio: res sine
verbis facta; cioè, pura e
semplice attività di fatto. Naturalissimo è allora pensare
che Ulpiano, proprio per confortare il giudizio favorevole di Pomponio rispetto
all'opinione dei quidam di cui è parola in D.4,2,9,2 (quosdam
bene putare), possa aver citato quella definitio labeoniana nella
quale, per l'appunto, il gestum è inteso in maniera adattissima
ad un riferimento alla fattispecie discussa»; F. Gallo, Synallagma e conventio nel
contratto, Corso di diritto romano I, cit., 132, il quale, riconoscendo il
carattere “bifronte” del caso della depositio aedificii
(«Non è dubbio che essa individua un comportamento umano
volontario a cui è ricollegata la produzione di effetti giuridici; non
si tratta tuttavia di un'operazione di per se stessa giuridica, come lo
è invece, ad esempio, la compravendita. La quale configura un istituto
giuridico, mentre non è considerata tale la demolizione di un
edificio»), lo giustifica con il fatto che il gerere nelle
clausole edittali con il senso di facere riferito all'uomo è
comprensivo come tale del contrahere e di ogni altro comportamento produttivo
di conseguenze giuridiche.
[75] Così, F. Schulz, Die Lehre von
erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235;
G.H. Maier, Prätorische
Bereicherungsklagen, cit., 109, nt. 5; C. Longo, Note critiche in tema di
violenza morale, cit., 98, secondo il quale i compilatori avrebbero
aggiunto l'ipotesi della demolizione di un edificio, perché «in
entrambe le fattispecie si riscontrava la medesima situazione giuridica»,
che secondo l'Autore sarebbe stata la perdita definitiva della proprietà;
M.G. Zoz, 'Restitutio in
integrum' e manomissioni coatte, in SDHI 39 (1973), 119; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 137, nt. 47.
[76] In
questa sede non è possibile approfondire la questione, inerente anche la
politica legislativa, della concessione di una i.i.r. rispetto ad una
manomissione, controversa nel diritto romano (oltre a D.4.2.9.2 si veda, ad
esempio, D.4.3.7pr.; D.4.4.9.6; D.4.4.11.1; D.4.4.48.1=P.S.1.9.5a; D.40.4.29; C.7.11.3)
e interpretata in modo diverso nei moderni studi romanistici: F.
Schulz, Die Lehre von erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 185 e ss. e 234
e ss.; U. von Lübtow, Der
Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit”, cit., 32; 116 e 216; C. Longo, Note critiche in tema di
violenza morale, cit., 96 e ss.; C. Sanfilippo, Il metus nei
negozi giuridici, cit., 81 e ss.; C.
Ferrini, Manuale di Pandette, cit., 165, nt. 1; B. Albanese, La sussidiarietà
dell'actio de dolo, in Annali del Seminario Giuridico
dell'Università di Palermo 28 (1961), 190 e ss. e nt. 24, secondo
il quale «la non concedibilità di una restitutio in integrum
adversus libertatem è un punto del tutto pacifico nel diritto
dell'età classica» (come sarebbe provato da D.4.3.7pr.; D.4.4.9.6;
D.4.4.48.1=P.S.1.9.5a; C.2.30.1; C.2.30.2; C.2.30.3; C.2.30.4); A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 61 e 136 e ss.; M. Brutti, La problematica del dolo
processuale nell’esperienza romana, I, cit., 20 e ss.; M.G.
Zoz, 'Restitutio in integrum' e manomissioni coatte,
cit., 115 e ss.; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del
«metus», cit., 245 e
ss.; E. Stolfi, Studi sui «Libri Ad Edictum» di Pomponio, I, Trasmissione
e fonti, Napoli, 2002, 359 e ss.; M.F.
Cursi, L'eredità dell'actio de dolo e il problema del
danno meramente patrimoniale, cit., 71 e ss.
[77] B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 200, nt. 14,
ha ipotizzato che la divergenza di opinioni tra i giuristi da un lato si
sarebbe potuta fondare sul contrasto tra un'interpretazione ristretta di gestum
limitata alle attività negoziali tra il coactus e l'autore della
coazione ingiusta e una, invece, più estesa; oppure, come l'Autore
ritiene più verosimile, «sulla ripugnanza che un giureconsulto
romano doveva probabilmente -come si vedrà più avanti- provare
davanti all'ipotesi di una eventuale ricomprensione della manumissio tra
i gesta, che sembrano esser propriamente atti di amministrazione di
fatto». F. Gallo,
Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I,
cit., 132, nt. 148, aveva osservato come l'ipotesi della manomissione del servo
presentasse minori difficoltà ad essere annoverata nel gestum, in
quanto, a differenza della demolizione di un edificio, «è essa
stessa un'operazione di natura giuridica».
[78] In questo senso recentemente E. Stolfi, Studi sui «Libri Ad Edictum» di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, cit., 361, secondo
il quale: «Neppure però possiamo escludere che Ulpiano –
passato a commentare il termine edittale gestum, e non più metus
(causa) – in esso ricomprendesse, sulla scia di Pomponio, la
semplice attività materiale, e anch'essa valutasse suscettibile di restitutio».
[79] In
questo senso anche B. Albanese, “Agere” “gerere”
e “contrahere” in D.50,16,19, cit., 200,
secondo il quale era possibile che altri giuristi avessero negato
un'interpretazione ampia del gestum edittale, tale da ricomprendere
anche la demolizione di un edificio.
[80] Grazie
alla clausola restitutoria presente nella formula dell'a.q.m.c.,
infatti, sarebbe stato possibile, per la vittima di violenza, ottenere la restitutio
del suo immobile.
Non mi sembra probabile, infatti, che l'accostamento delle due
ipotesi fosse stato compiuto dai compilatori giustinianei, i quali, per
entrambe, avrebbero ritenuto applicabile l'.a.q.m.c. In questo senso, C.
Longo, Note critiche in tema di violenza
morale, cit., 98; A.S. Hartkamp, Der Zwang
im römischen Privatrecht, cit., 136 e ss. Il Longo ritiene che per il
caso della demolizione l'a.q.m.c. non sia concepibile se non come azione
di indennizzo, perché l'edificio non sarebbe più restituibile in
natura; pertanto i compilatori, che non avrebbero ammesso la i.i.r. per
le ipotesi della manomissione di un servo, avrebbero esteso, anche a
quest'ultimo caso, l'a.q.m.c. come azione di indennizzo. La tesi del
Longo, però, non tiene conto del fatto che già i giuristi classici
avrebbero potuto ritenere applicabile l'a.q.m.c. alle ipotesi della
estorta manomissione.
B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio
utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht,
cit., 129 e 152 e ss., ritiene possibile che per entrambe le ipotesi si
applicasse una restituzione giudiziale: l'a.q.m.c.; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 245 e ss., ritiene,
d'accordo con il Kupisch, che il testo riguardasse ipotesi di applicazione
dell'a.q.m.c., però non è d'accordo con lo studioso
tedesco relativamente all'esistenza di un'unica clausola edittale e
all'identità tra a.q.m.c. e i.i.r. Piuttosto il d'Ors
attribuisce l'attuale collocazione del testo ai compilatori giustinianei.
[83] Mi sembra che sia della stessa opinione F. Gallo, Synallagma e conventio
nel contratto, Corso di diritto romano I, cit., 105, secondo il quale
D.50.16.19 probabilmente apriva l'esame dedicato da Ulpiano all'espressione
“gestum erit”, mentre D.4.2.9.2 contiene una precisazione di
tipo casistico.
[84] Per
questa ipotesi discussa in D.4.2.9pr. si veda anche A. Burdese, Rec. a F.
Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, cit.,
358.
[85] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 461; A. d’Ors, El
comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 287.
Anche l'ipotesi discussa nella parte iniziale
del principium non rientra, verosimilmente, in un'attività
negoziale, in quanto si tratta dell'abbandono un dì di un fondo,
determinato dalla paura che qualcuno starebbe arrivando con le armi. Certamente
si può supporre (come era stato sostenuto da G.H. Maier, Prätorische
Bereicherungsklagen, cit., 109,
anche nt. 4 e da A.S. Hartkamp,
Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 61. Cfr. infra, nt. 90) che Ulpiano avesse commentato una sola
volta le parole metus causa, relativamente ad entrambe le clausole
edittali, e per questo motivo troviamo le ipotesi relative alla clausola
edittale che avrebbe introdotto l'azione nell'ambito del commento alla clausola
“Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”. Tuttavia,
questa ipotesi non mi sembra convincente.
[87] Con questa espressione
Labeone vuole precisare come la valutazione se il timore sia fondato o meno debba
essere effettuata sulla base di indizi obiettivi, come risulta pure
dall’esame congiunto del nostro par. con D.19.2.13.7. In questo senso si
veda R. Cardilli, L’obbligazione di “praestare”
e la responsabilità contrattuale in
diritto romano (II sec. a.C.-II sec. d.C.), Milano, 1995, 353.
[88] Quanto
alla genuinità del passo, la critica del testo ha segnalato diverse
imperfezioni: F. Eisele, Beiträge
zur Erkenntiss der Digesteninterpolationem, in ZSS 13 (1892), 133,
ha ritenuto tribonianea l’espressione id-aliquo, in quanto Ulpiano non avrebbe
utilizzato le parole timor illatus
per chiarire l’espressione metus
illatus; G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen
Rechtsquellen, I, cit., 55,
invece, ha considerato come interpolato il verbo audito (lo ha considerato come una glossa). Ancora P.E. Huschke, Weitere
Beiträge zur Pandektenkritik aus Ed. Huschekes Nachlass, in ZSS 9 (1888), 353, ha considerato che
Ulpiano al posto di tunc discessi: huic
enim edicto avesse scritto discessi:
tunc enim huic <me> edicto. Il Krüger (si veda la nt. 14 della
Mo.-Kr.), per la medesima espressione, ha proposto discessi: tunc enim vim huic. U. von
Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit”,
cit., 130 e ss., ha ipotizzato che il testo nell'opera ulpianea fosse dedicato
al commento dell'a.q.m.c. e spostato dai compilatori nella posizione che
ora occupa nel Digesto (in questo senso anche F.
Schulz, Die Lehre vom erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235). Il von
Lübtow ha poi scorto un segnale dell'intervento postclassico nel fatto che
Pomponio si chiedeva se si applicasse il rimedio a tutela del metus senza
menzionare l'interdictum unde vi e riportando Labeone precisa che
secondo quest'ultimo non si applicava né la tutela prevista per il metus,
né l'interdictum unde vi. Ulteriori indizi sarebbero il verbo tractare;
la costruzione del verbo audire con il quod; la frase che inizia
con il quoniam, con la quale si sarebbe passati al discorso diretto. Inoltre
il von Lübtow ha ritenuto che nel testo originale ci fosse cum armatis
al posto di cum armis e ha rilevato come a deici manchi il
soggetto. Malgrado tutti
questi rilievi, l'Autore tedesco ha affermato: «Immerhin dürfte an
der Echtheit des Falles und seiner Entscheidung festzuhalten sein». La paura di un male imminente (suspicio metus
inferendi) secondo Ulpiano-Pomponio non avrebbe dato luogo ad alcun tipo di
tutela. Però il von Lübtow sostiene che la frase “id est
si illatus est timor ab aliquo” sia una glossa postclassica o
giustinianea. Questa critica formale appare eccessiva, inoltre mi sembra che
non sia motivata da alcun cambiamento sostanziale. M. Balzarini, Ricerche
in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 121 e ss.,
accoglie il suggerimento del von Lübtow di leggere cum armatis al
posto di cum armis e ritiene eccessiva l'ulteriore critica del testo (si
veda 120, nt. 95 e 121, nt. 98). B.
Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 129
e ss., considera il testo sostanzialmente genuino e ritiene che potrebbe
provare che la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum
non habebo” si estendesse anche all'ipotesi di una
restituzione giudiziale. A. d’Ors,
El comentario de Ulpiano a los edictos
del «metus», cit.,
241, dopo aver ricordato che secondo la ricostruzione palingenetica del Lenel (O. Lenel, Palingenesia iuris
civilis, II, cit., col. 461)
questo testo è seguito da D.43.16.15, ritiene che Ulpiano avesse voluto
distinguere, nel caso di abbandono di un fondo, la concorrenza tra l'editto sul
metus e l'interdetto unde vi, specificando che se il fondo fosse
stato abbandonato prima dell'ingresso degli armati nel fondo, si sarebbe
applicato né l'editto sul metus, né l'interdetto unde
vi; mentre, se fosse stato abbandonato «por la coacción del
invasor, no procede el interdicto (pues tampoco hay propia deiectio),
pero sí procede el edicto rescisorio, pues hubo enajenación metus
causa» (243). Il d'Ors ritiene che in D.43.16.15 al posto di possessionem
tradidero ci fosse mancipavero e per questo si sarebbe applicato
l'editto rescissorio e non l'interdetto unde vi, proprio perché
non si sarebbe configurata una deiectio. Non credo che un simile cambiamento
del testo debba essere accolto, perché dal contesto che fa da sfondo al possessionem
tradere (l'ingresso degli armati nel fondo), sembra più probabile
che si sia abbandonato-consegnato il fondo in modo non formale, piuttosto che
sia stata posta in essere una mancipatio. Inoltre, conseguentemente a
questa precisazione, credo che il rimedio a tutela della vittima di metus
relativamente al quale il giurista si stava interrogando era l'a.q.m.c.
e non la i.i.r.
[89] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 506, non sembra ricondurre questa affermazione a Labeone, ma piuttosto a
Pomponio, si veda Idem, Palingenesia
iuris civilis, II, cit., col. 20.
[90] F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen
Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit.,
235, ha ritenuto che Ulpiano avesse scritto questo commento in un altro
contesto: «Die klassische i.i.r. kann aber in solchen
Fällen nicht in Frage kommen, und so hat man denn auch im gemeinen Recht
die Stelle auf die actio metus causa bezogen. Für uns ist aber
damit erwiesen, daß Ulpian die Stelle nicht im überlieferten
Zusammenhang geschrieben haben kann, daß sie vielmehr ein Stück aus
seinem Kommentar zum zweiten Edikt (über die Klage) ist, das die
Kompilatoren verstellt haben: 'metus causa factum' und 'metus causa
gestum' sollten eben in ihren Digesten immer nebeneinander behandelt
werden». Nello stesso senso U. von Lübtow,
Der Ediktstitel “Quod
metus causa gestum erit”, cit., 131 e ss. Diversamente G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 109, anche nt. 4, secondo il quale il principium della lex
9 apparterrebbe alla «Erörterung
des Grundbegriffs metus», che Ulpiano avrebbe riportato
nell'ambito del commento della prima clausola edittale e non avrebbe ripetuto
per la seconda clausola edittale; ugualmente, A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 61: «Wie in § 3
dargelegt, behandelt diese Stelle das Erfordernis, dass der metus praesens sein
muss, und zwar illatus, d.h. erregt durch eine Drohung von einem
anderen. Dieses
Erfordernis wird anschliessend (denique tractat) anhand der im
Text gegebenen Beispiele illustriert […]. Auch der am Schluss genannte
Fall einer erzwungenen Besitzübertragung gehört in diesen
Zusammenhang. […]. Freilich war auf die im Text genannten Beispiele nur
die actio q.m.c. und nicht die i.i.r. anwendbar, und Ulpian (bzw.
Pomponius) wird nicht versäumt haben, darauf hinzuweisen. Die Behandlung
an dieser Stelle bot Ulpian jedoch den Vorteil, seinen Kommentar zum Begriff metus
abrunden zu können, so dass er in seinem Kommentar zum besonderen
Edikt darauf nicht zurückzukommen brauchte». A. d’Ors, El
comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 241 e ss., invece, sulle orme di Schulz e von
Lübtow, non ritiene possibile che Ulpiano si stesse riferendo all'a.q.m.c.;
le sue considerazioni, infatti, sarebbe contenute in un contesto relativo all'«edicto rescisorio». Per
questo egli considera compilatoria la frase “et hoc edictum locum
habere, scilicet quoniam metu patitor id te facere”.
[91] In questo senso S.
Schlossmann, Zur Lehre vom
Zwange. Eine civilistische Abhandlung, cit., 77, anche nt. 104; F. Schulz, Die Lehre von
erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235; A.S. Hartkamp, Der Zwang
im römischen Privatrecht, cit., 60 e 61; B. Kupisch, In
integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 129.
[94] Per
questa tesi, relativamente al commento di Ulpiano all'editto sul metus,
si veda supra, § II.1.
[95] Si
veda supra, § II.2.A. Ai testi già visti, si possono
aggiungere anche D.4.2.9.6 e D.4.2.9.3.
[96] R.J. Pothier, Pandectae Justinianeae, in novum ordinem Digestae,
cum legibus codicis, et novellis, quae jus pandectarum confirmant, explicant
aut abrogant, Parisiis, 1818, 187, utilizza questo
testo per precisare che l'a.q.m.c. poteva essere concessa anche post
annum, sebbene in simplum.
[97] Sull’interpretazione
dell’espressione “ratum non
habebo”, mi sembra utile riportare l’opinione di B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 151: «Man darf der
traditionell Lehre unterstellen, daβ sie ratum habere hier einen technischen Sinn unterlegen möchte:
genehmigen, gelten (gültig sein) lassen. Dann paβte ratum non habebo nur zum erzwungenen
Rechtsgeschäft. Aber die allgemeinere, auch für tatsächliche
Handlungen taugliche Bedeutung von ratum
habere, die sich etwa im Interdiktenrecht findet, kann für das
Metusedikt nicht zwingend ausgeschlossen werden: ratum habere im Sinne von “billigen” (comprobare)». (Lo spaziato è mio).
[99] T. Schwalbach, Ueber ungültige Urtheile und die consumirende
Wirkung der Litiscontestation, in ZSS 7, I, (1886), 123; H. Erman, Beiträge zur
Publiciana, in ZSS 13 (1892), 200-201; B.
Kupisch, In integrum
restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im
klassischen römischen Recht, cit., 130.
[100] In questo senso: F. Schulz, Die
Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 239, secondo il quale «Die
Kompilatoren bezogen die §§ 1-4 in gewohnter Weise auf die actio
metus causa, was sie am Schluß des § 4 durch die Worte
“et ideo praetoria actio nascitur” deutlich machten»; U. von Lübtow, Der
Ediktstitel “Quod metus
causa gestum erit”, cit., 179, secondo il quale
originariamente il testo si sarebbe trovato nella parte del commento dedicata
all'azione nel quadruplo, «die auch gegen erzwungene faktische Handlungen
Platz greift»; A.S.
Hartkamp, Der Zwang im
römischen Privatrecht, cit., 62 e ss., il quale ritiene, a proposito
di D.4.2.21.2, che «Der Text muss daher von einem anderen Teil des paulinischen
Ediktskommentars hierher umgestellt worden sein», e lo spostamento
proverebbe che i compilatori avessero interpretato in modo ampio il termine
edittale gestum fino ad arrivare a farvi rientrare le fattispecie
tutelate con l'a.q.m.c. e quindi a riferire all'a.q.m.c. la
clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”.
[101]
U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum
erit”, cit., 179, secondo il
quale D.4.2.21 sarebbe un frammento nel quale i vari testi non sarebbero ordinati,
ma piuttosto messi insieme a caso. Anche B. Kupisch,
In integrum restitutio und vindicatio utilis bei
Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 130,
ritiene che Paolo nel frammento 21 trattasse “Einzelnfragen”, chiaramente riconducibili
all'editto sul metus.
[102] B.
Kupisch, In integrum
restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im
klassischen römischen Recht, cit., 130.
[103] G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, I, cit., 76; B. Kupisch, In integrum restitutio und
vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen
römischen Recht, cit., 130.
[104] B.
Kupisch, In integrum
restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im
klassischen römischen Recht, cit., 130; R. Zimmermann, The Law
of Obligations. Roman
Foundations of the Civil Tradition, Cape Town, 1990, 654, nt. 26, ricomprende nel gestum
«Legal transactions and factual acts; for examples of the latter cf.
Pomp./Ulp. D.4,2,9,2; Paul. D.4,2,21,2».
[105] La clausola
edittale, così come si è ricostruita, presuppone una
continuazione rispetto a quella riportata in D.4.2.1. Potremmo ipotizzare che
Ulpiano in quel testo ne avesse riportato solo una parte, perché gli era
più funzionale al modo di procedere del commento.
Io. Gottl.
Heineccii Opuscula postuma, in quibus historia
edictorum edictique perpetui, ipsiusque edicti perpetui, ordini et integritati
suae restituti, partes II. Vita Ludovici Germanici Imp. Aliaque continentur. Omnia
ex schedis paternis edita a Io. Christ. Gottl. Heineccio, cit., 400 e ss., continua la clausola edittale
riportata in D.4.2.1 in questo modo: “Sed si quid per metum ablatum
esse dicetur, neque ea res arbitrio iudicis restituetur, intra annum, quo primum
experiundi potestas erit, in quadruplum, post annum in simplum iudicium dabo. In
heredem quoque, quatenus ad eum pervenit, actionem dabo”.
Duarenus (F. Duareni Opera
omnia, I, Lucae, 1765, Tit. de eo quod metus causa & c., 138)
riteneva che l'editto sul metus contenesse duo capita «unum
generale, quo praetor ait se ratum non habiturum quod metu gestum est. Alterum est specialius de actione, quae ex hoc edicto
nascitur. Primi capitis verba sunt haec: Ait
Praetor, Quod metus causa gestum erit ratum non habebo in l. 1. hic (= D.4,2,1)»,
tuttavia dalla sua trattazione emerge come il secondo caput fosse
dipendente dal primo, generale. Infatti, a proposito dell'a.q.m.c. e in
particolare della caratteristica di essere un'actio in rem scripta,
osservava (141): «... Datur etiam haec actio contra eum, qui rem metu extortam
possidet, tametsi metum non intulit. l. Metum. §. ult. (= D.4,2,9,8). Unus
mihi metum intulit: ex eo metu nihil forte ad eum pervenit, sed ad alium, qui
metum non intulerat. Contra utrumque datur actio, quia haec actio in rem
scripta est, id est, concepta in rem, non in personam, ut ex his verbis
colligere licet: Quod metus causa gestum
erit, ratum non habebo. Videtis enim, non fieri ullius personae
mentionem in edicti verbis … Cum igitur animadverteret Jurisconsultus,
hoc edictum esse conceptum in rem, nec expressam esse personam metum
inferentis, interpretatus est facile actionem dari contra eum, ad quem aliquid
ex eo metu pervenit». Da
queste parole di Duarenus si percepisce bene che secondo il giurista francese
vi era una dipendenza dell'a.q.m.c. dalla clausola edittale riportata in
D.4.2.1.
Donellus (H. Donelli Opera omnia. Commentariorum de iure civili, IV, Maceratae, 1830, De iure civili lib. XV,
cap. XXXIX, col. 357.III), ipotizza l'esistenza di un'unica
clausola edittale: «Id edictum fuisse videtur in
haec verba: Quod metus caussa gestum
erit, ratum non habebo. Hoc amplius si quod eo nomine aberit, ei qui metum
passus est, heredive ejus arbitrio judicis non restituetur, de eo quanti ea res
erit, intra annum quo experiundi potestas est, in quadruplum: post annum in
simplum caussa cognita judicio dabo. In hederem de eo quod ad eum pervenit,
judicio dabo». Inoltre, anche più avanti nel commento,
l'umanista francese precisa (col. 373.XXIII): «Atque
haec vetus actio est restituta hoc edicto: via illa prior, quam hoc edicto
constitutam esse diximus, ejus quod per metum amissum est, recuperandi caussa.
Altera via est, ut proposui, eodem edicto comparata et eodem pertinens; actio
scilicet nova propria hujus edicti; quae dicitur quod metus caussa». In
entrambi questi passi del commento di Donellus si dà per presupposta
l'esistenza di un'unica clausola edittale in tema di metus. Sebbene,
come si è visto supra, nt. 64, egli proponesse un significato
alquanto ristretto del verbo gerere.
Ci si potrebbe chiedere che differenza vi sia tra l'ipotizzare
una sola clausola, come quella che si è proposta, e il supporre
l'esistenza di due clausole edittali. La differenza è notevole,
perché nel primo caso, la seconda parte della clausola dipenderebbe,
comunque, dal ratum non habebo, mentre, nella seconda ipotesi
ricostruttiva, quest'ultima dipendenza viene cancellata e si presume la
presenza di un diverso verbo per descrivere la fattispecie tutelata: “Quod
metus causa factum erit”.
[111] B. Albanese, Gli atti negoziali nel diritto
privato romano, cit., 176 e 177, ritiene che il gestum erit relativo
alla clausola edittale sul metus si riferisca ad ogni tipo di atto
lecito giuridicamente rilevante, per questo nei commenti giurisprudenziali vi
sarebbe l'uso del generico verbo facere per indicare gli atti metus
causa e ricorda che nelle fonti vi sono esempi di atti non negoziali
estorti con l'uso della violenza, fonte di metus (l'abbandono del
possesso di un fondo; la demolizione di un edificio).
[112] Relativamente
al significato dei verbi gerere/facere, si veda anche G.H. Maier, Prätorische
Bereicherungsklagen, cit., 95. Sebbene lo studioso affermi l'esistenza di
due diverse clausole edittali, che si distinguerebbero per il rimedio giuridico
promesso (si veda supra, nt. 45), ritiene «Ganz allgemein aber ist
zu bezweifeln, ob überhaupt ein Bedeutungsunterschied zwischen beiden
Ausdrücken bestand. In der nicht-juristischen Literatur werden sie fast
synonym begraucht, und die Juristen betonen mehrfach die Ausdehnung des gerere,
die über den Bereich des Rechtsgeschäfts weit hinausgeht. Gaius sagt
geradezu, daß beiden Termini mißbräuchlich promiscue verwandt
würden. Es ist vielleicht eine vorgefaßte Meinung, daß das gestum
im Metusedikt nur Rechtsgeschäfte erfasse».
[113] R.J.
Pothier, Pandectae
Justinianeae, in novum ordinem Digestae, cum legibus codicis, et novellis, quae
jus pandectarum confirmant, explicant aut abrogant, cit., 180, a proposito della
clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”
precisava, probabilmente alla luce dei commenti dei giuristi classici alla
clausola edittale: «Gesti autem
appellatione in hoc Edicto continetur, non solum quod quis contraxit, aut quasi
contraxit, sed omne quodcumque fecit coactus, unde aliquid ei absit».
Inoltre, si deve sottolineare come anche nei testi che si
riferiscono sicuramente alla clausola edittale contenuta in D.4.2.1 si utilizza
a volte il verbo facere: si veda
D.4.2.3 “Continet igitur haec
clausula et vim et metum, et si quis vi compulsus aliquid fecit …”,
oppure si veda D.4.2.7pr. “…
per hoc edictum non restituitur, quoniam neque vi neque metus causa factum est
…”. Non solo, infatti mi sembrano un indizio della presenza di
una sola clausola edittale anche D.4.2.9.3 dove Ulpiano scrive “sed quod praetor ait ratum se non habiturum,
quatenus accipiendum est videamus. et quidem aut imperfecta res est, licet
metus intervenerit … et Pomponius scribit in negotiis quidam perfectis et
exceptionem interdum et actionem competere …”, poiché nel commento al ratum non habebo parla sia dell’azione che
dell’eccezione, nonché D.4.2.21.1-2 dove Paolo scrive “Quod metus causa gestum erit, nullo tempore
praetor ratum habebit. 2. Qui possessionem non sui fundi tradidit,
non quanti fundus, sed quanti possessio est, eius quadruplum vel simplum cum
fructibus consequetur …”. Anche Paolo dunque, in questo testo,
commentando l’editto quod metus
causa gestum erit, ratum non habebo fa sicuramente riferimento
all’azione.
[114] Diversamente O.
Lenel, Zur Lehre von den actiones arbitrariae, in Gesammelte
Schriften, III (1902-1914), Napoli, 1991, 511, nt. 2, ricostruisce la parte
mancante dell'editto “Quod metus causa factum erit neque restituetur, de
eo in quadruplum, post annum causa cognita in simplum iudicium dabo”;
A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht,
cit., 196, aveva proposto la seguente ricostruzione dell’editto mancante: Quod metus causa factum erit neque
restituetur, de eo in quadruplum, post annum causa cognita in simplum iudicium
dabo, la quale si sarebbe dovuta trovare sotto il paragrafo D.4.2.9.7; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders
wegen metus und dolus, cit.,
113-114, secondo il quale questi frammenti di Ulpiano si adatterebbero bene ad
un commento di queste parole edittali: “Quod metus causa factum erit,
de eo, nisi arbitrio iudicis restituetur, in quadruplum, post annum causa
cognita in simplum iudicium dabo”. Riguardo alla sorte che questa
seconda clausola edittale avrebbe avuto, il Kaser ritiene che i compilatori
giustinianei non l'avessero trovata necessaria e che, proprio per questo
motivo, avessero cercato di riferire alla prima clausola il commento della
seconda anche attraverso il collegamento delle parole iniziali “Ex hoc
edicto restitutio talis facienda est”, contenute in D.4.2.9.7,
all'espressione “id est in integrum”.