N. 9 – 2010
– Note-&-Rassegne
Laudes Italiae *
Prato
“salve, magna parens frugum, Saturnia
tellus,
magna virum”
(Verg., Georg.
II, 173-174)
Publius Vergilius Maro, uno dei
più grandi poeti che l’Italia abbia dato all’umanità[1],
nacque per le Idi di ottobre nell’anno del primo consolato di Pompeo e
Crasso (15 ottobre del 70 a.C.) ad Andes[2],
piccolo villaggio – abitato in gran parte da popolazione di origine
celtica, insediatasi piuttosto tardi in Italia, che ormai parlava latino
– nel territorio del Municipio di Mantova, sacro a Mantu, di cui mantenne la denominazione rivelatrice delle etrusche
origini. Anche i nomi prettamente romani del sommo Vate tradiscono la sua
origine etrusca: “Vergilius” è nome noto in luoghi
propriamente etruschi (Veio, Sutri, Volterra), “Maro” (maru) era originariamente un titolo
magistratuale dell’antica Etruria. Anche il nonno materno, Magius,
portava un nome etrusco.
Virgilio, studiando per
avvocato, ebbe l’opportunità di imparare l’arte della
retorica, che insegnava l’utilizzo di «tutte le potenzialità
dell’arte linguistica insite nella prosa latina, anche nella
musicalità della lingua»[3],
dapprima a Cremona, poi a Milano ed infine a Roma, «dove il giovane ebbe
in comune con Antonio e Ottaviano, il futuro Augusto, un insegnante di retorica
nella persona di Elpidio»[4].
Significativamente i suoi
antichi biografi sottolineano che «la toga
virilis, il primo gradino per accedere ad una carica pubblica, fu concessa
al quindicenne alle Idi di ottobre del 55, nello stesso giorno in cui si spense
Lucrezio Caro, il grande poeta romano autore di testi filosofici, ricchi di pathos, e dalla melodia per nulla
sdolcinata»[5].
Con l’assegnazione dei
territori del Cremonese e del Mantovano ai veterani, dopo la battaglia di
Filippi, dovendo rinunciare alla piccola proprietà terriera di famiglia,
potette ritirarsi in un podere nei pressi di Napoli per dedicarsi all’otium creativo, grazie all’aiuto
di amici e benefattori, tra cui il console Asinio Pollione, Cornelio Gallo e
Mecenate.
Chi meglio di lui poteva
cantare ed incarnare la nuova Italia? La «grande genitrice di messi,
terra Saturnia, grande madre di eroi» che nei quattro libri delle Georgiche voleva in certo qual modo
celebrare nei suoi molteplici aspetti. «L’Italia concreta con le
sue ricchezze, con i suoi reali contorni che lasciano persino emergere quelli
più elevati», troncando con la elementarità obbligata agli
aspetti pratici della lirica esiodea, divenendo «poesia essenziale, che
unisce l’utile all’orazione e che nella sua più profonda
essenza non è effettuale, ma rassomiglia ad un inno»[6]. Gli
antichi apprezzavano anche dal punto di vista pratico le molteplici
prescrizioni sull’attività agricola; «l’importanza
dell’opera andava però ben al di là. Si trattava della
glorificazione dell’Italia intera nello spirito della Roma arcaica, ma in
una forma tanto classica da rappresentare per la Roma nuova di Augusto la
nascita di una poesia nazionale di eterno valore»[7].
Le Georgiche si possono porre alla base di un’orazione, come
sintetizza lo storico delle religioni Karl Kerényi, «con il titolo
Laudes Italiae – Elogio dell’Italia – e dal
contenuto del tutto reale, che canta
già nella lingua di Virgilio, la quale non abbisogna di un compositore,
ma lo invoca»[8].
Le lodi per la Terra Italia[9] non
costituiscono una novità virgiliana ma la rappresentazione di una
conoscenza effettiva combinata a sentimenti divenuti comuni, espressi anche da
altri autori (fra tutti ricordiamo Varrone, De
re rustica I, 2, 3-8 e Properzio, Elegiae
III, 22), ma nelle Georgiche
certamente più rilevante per la competenza del poeta mantovano sotto il
profilo giuridico e religioso.
«I commentatori antichi
– ricorda Francesco Sini – interpretavano la ‘sapienza’
(diligentia, peritia, profunditas,
scientia) di Virgilio, valorizzandone in primo luogo gli aspetti antiquari,
teologici e giuridico-religiosi. Soprattutto nei casi in cui, ad una lettura
non avvertita, questi motivi potevano risultare assenti:
Est
profundam scientiam huius poatae in uno saepe reperire verbo, quod fortuito
dictum vulnus putaret (Macrobio, Sat. 3, 2, 7).
I commentatori di Virgilio non
dubitavano, infatti, di avere di fronte il testo di un poeta impegnato di
continuo nella scrupolosa osservazione delle res divinae, massimamente attento all’esattezza dei termini
utilizzati, alla verosimiglianza delle tecniche rituali riproposte,
all’insieme della teologia sacerdotale. Un poeta, dunque – per
usare le parole del Servio Danielino – gnarus totius sacrorum ritus (Ad
Georg. 1, 269); il quale, in ogni occasione, come scrive il medesimo
commentatore, disciplinam caerimoniarum
secutus est (Servio Dan., Ad Aen.
12, 172).
Non si riteneva possibile
cogliere pienamente tutte le implicazioni che la profunditas del poeta presentava, al di là del significato letterale
del testo, senza rispondere in maniera affermativa alla domanda che Pretestato
formula agli altri convitati nei Saturnalia
di Macrobio (3, 9, 16):
Videturne
vobis probatum sine divini et humani iuris scientia non posse profunditatem
Maronis intellegi?
Del resto, anche gli esperti
professionali del diritto non pare esitassero a considerare la testimonianza di
Virgilio, nel campo dello ius sacrum,
un autorevole precedente su cui fondare la soluzione giuridica proposta»[10].
Il sommo Vate è il
massimo esponente della Sapienza Italica[11],
profondo conoscitore delle antiche fonti storiche giuridiche e sacrali degli
antichi Italici, rivalutato anche da studiosi del diritto romano che nutrivano
dei pregiudizi nei suoi confronti[12].
Diventò un autentico profeta per i cristiani e un mago nel Medioevo[13].
Di seguito i testi latino ed
italiano delle delle Laudes Italiae
di Virgilio (Georg. 2, 136-176), con
l’avvertenza che nel testo italiano abbiamo seguito la traduzione curata
da Alessandro Barchiesi in Virgilio, Opere
minori[14],
discostandosene dove lo reputavamo opportuno ed alla quale rimandiamo per
l’apparato critico e le note.
[Vergilius,
Georg. 2, 136-176]
Sed
neque Medorum siluae, ditissima terra,
nec pulcher Ganges atque auro turbidus Hermus
laudibus
Italiae certent, non Bactra neque Indi
totaque
turiferis Panchaia pinguis harenis.
haec
loca non tauri spirantes naribus ignem 140
inuertere
satis immanis dentibus hydri,
nec
galeis densisque uirum seges horruit hastis;
sed grauidae
fruges et Bacchi Massicus umor
impleuere;
tenent oleae armentaque laeta.
hinc
bellator equus campo sese arduus infert, 145
hinc albi, Clitumne, greges et maxima taurus
uictima,
saepe tuo perfusi flumine sacro,
Romanos ad templa deum duxere triumphos.
hic uer adsiduum atque alienis mensibus
aestas:
bis grauidae pecudes, bis pomis utilis
arbos. 150
at rabidae tigres absunt et saeua leonum
semina, nec miseros fallunt aconita
legentis,
nec rapit immensos orbis per humum neque
tanto
squameus in spiram tractu se colligit
anguis.
adde tot egregias urbes operumque
laborem, 155
tot congesta manu praeruptis oppida
saxis
fluminaque antiquos subter labentia
muros.
an mare quod supra memorem, quodque
adluit infra?
anne lacus tantos? te, Lari maxime, teque,
fluctibus et fremitu adsurgens Benace marino? 160
an
memorem portus Lucrinoque addita claustra
atque
indignatum magnis stridoribus aequor,
Iulia
qua ponto longe sonat unda refuso
Tyrrhenusque fretis immittitur aestus Auernis?
haec
eadem argenti riuos aerisque metalla 165
ostendit uenis atque auro plurima fluxit.
haec genus acre uirum, Marsos pubemque
Sabellam
adsuetumque malo Ligurem Volscosque
uerutos
extulit, haec Decios Marios magnosque
Camillos,
Scipiadas duros bello et te, maxime
Caesar, 170
qui nunc extremis Asiae iam uictor in oris
imbellem auertis Romanis arcibus Indum.
salue, magna parens frugum, Saturnia tellus,
magna uirum: tibi res antiquae laudis et artem
ingredior
sanctos ausus recludere fontis, 175
Ascraeumque
cano Romana per oppida carmen.
[Trad.
it-]
Ma né le selve dei Medi, terra
ricchissima,
né il Gange con la sua bellezza o
l’Ermo torbido d’oro
potrebbero gareggiare per meriti con
l’Italia, non Battra, non l’India
e neppure l’intera Panchèa
pingue di arene che portano incenso.
Questi luoghi non furono arati da tori
spiranti fuoco dalle narici,
per seminare i denti del mostruoso drago,
né vi spuntò una messe di
uomini irta di elmi e di aste fitte,
ma li ricolmano biade rigogliose e
l’umore màssico di Bacco;
li coprono olivi e armenti fiorenti.
Di qui il destriero da battaglia si avanza
a testa alta nei campi;
di qui, o Clitunno, le tue bianche greggi
e la vittima suprema, il toro, bagnati
molte volte nella tua sacra corrente
hanno guidato al tempio degli Dei i trionfi
dei Romani.
Qui primavera continua e, in mesi non suoi,
l’estate;
due volte all’anno è gravido
il bestiame, due volte fecondo di frutta l’albero.
Mancano invece le tigri rabbiose e la
feroce razza dei leoni,
né l'acònito inganna gli
sventurati raccoglitori,
né fa guizzare smisurati cerchi al
suolo
e con sì lunga estensione forma la
spira lo squamoso serpente
[come in altri paesi.
Aggiungi tante nobili città e lavoro
operoso,
tante rocche edificate con le mani
dell’uomo sopra rupi scoscese,
e fiumi che scorrono sotto antiche mura.
O dovrò ricordare i mari che la
bagnano sopra e sotto?
o i suoi grandi laghi? Te, massimo Lario,
e te, che ti innalzi con flutti e fragore
di mare, o Benaco?
O ricorderò il porto, la diga creata
sul Lucrino
e il mare che si infuria con grandi
stridori,
dove l’onda giulia risuona per lungo
spazio, al rifluire del mare,
e la marea del Tirreno penetra nel lago
d’Averno?
Questa terra, ancora, mostrò nelle
sue vene rivoli d’argento
e miniere di rame e fece scorrere gran
copia d’oro;
Questa terra generò tutta una stirpe
di uomini forti,
[i Marsi, la gioventù Sabella
e i Liguri avvezzi agli stenti, i Volsci
armati di lance,
questa i Deci, i Marii, i grandi Camilli,
gli Scipiadi duri in guerra e te,
grandissimo Cesare,
che ora, vittorioso ormai nelle più
lontane contrade dell’Asia,
tieni lontani dai colli di Roma gli Indiani
imbelli.
Salute a te, grande genitrice di
messi, terra Saturnia,
grande madre di eroi: per te io mi avanzo a
cose di antica gloria ed arte,
osando dischiudere le sacre fonti,
e canto per le terre romane un poema
ascrèo.
*
Pubblicato in La Cittadella. Quaderni di studi storici e tradizionali
romano-italici. Fondatore Salvatore C. Ruta. Anno X, nuova serie, n. 37 ,
MMDCCLXII a.U.c., gennaio-marzo 2010.
[1]
Karl Kerényi, Virgilio, a cura di L. Canfora, Sellerio editore, Palermo
2007, 67.
[2]
La tradizione dantesca lo identifica con Pietole Vecchia, nel Comune
(costituito nei primi dell’Ottocento) che dal 1883 porta il suo nome.
[9]
Sui concetti di Italia e Terra Italia nei loro aspetti giuridici e sacrali cfr.
Pierangelo Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus,
templum, urbs, ager, Latium, Italia, in “Aufstieg und Niedergang der
Römischen Welt”, Band II.16.1, Berlin – New York
1978,[440-553] 516 ss.
[10]
Francesco Sini, Bellum Nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, Sassari 1991, 17-19 (al quale rimandiamo per le
note).
[11]
Ricordiamo a tal proposito il Convegno virgiliano avvenuto in Messina il 6
dicembre 1981, concepito e voluto dal gruppo “Arx” diretto da
Salvatore Ruta, fondatore de “La Cittadella”, la cui maggior parte
delle relazioni fu pubblicata col titolo Il sacro in Virgilio in un numero
speciale della rivista “Arthos” [n. 20, luglio-dicembre 1979 (ma
1983)].
[12]
Vedi Francesco Sini, op. cit., p. 16, n. 10: significativo, ad esempio, quanto
scrive a proposito della sua esperienza Giorgio Luraschi, ‘Foedus’
nell’ideologia virgiliana, AA.VV., Atti del III Seminario romanistico
gardesano, Milano 1988, 281: «Confesso che accettai l’incarico con
un certo scetticismo, nella convinzione che poco o nulla di tecnico o,
comunque, di utile, si potesse ricavare da una fonte poetica. Eppure, io sono
fra coloro che tengono in somma considerazione la tradizione letteraria, non
foss’altro perché su di essa ho sino ad ora fondato la maggior
parte delle mie ricerche. Il mio atteggiamento preconcetto nei confronti di Virgilio
era evidentemente dettato (come spesso avviene) da una scarsa conoscenza del
soggetto, dei suoi metodi, dei suoi intenti, delle sue fonti, del suo ambiente
culturale. È bastata una sommaria ricognizione della dottrina per farmi
ricredere. Ho scoperto, così, che l’Eneide fu concepita alle
origini come un vero poema storico, il quale, per sua natura e considerando
l’epoca particolarmente versata nelle antiquitates, doveva comportare,
per non essere clamorosamente smentito, un attento e scrupoloso vaglio delle
informazioni. Ed infatti è stato, ad esempio, dimostrato che Virgilio
non si limitò a dipendere da Ennio, Cicerone, Varrone, Livio, ma mise a
profitto addirittura una fonte etrusca, la quale gli consentì di essere
a volte più preciso e perspicace di Livio e della tradizione annalistica
in genere. Ho poi verificato personalmente la vasta erudizione del poeta, che
lo fa muovere con passo sicuro e linguaggio appropriato (pur con anacronismi e
simbolismi, per altro facilmente riconoscibili) fra cerimonie, riti, formule
giuridiche e religiose»; cfr. anche Marco Balzarini, Un esempio concreto
di collaborazione fattiva tra storici del diritto e filologi, ibid., 250 ss.
[13]
Cfr. Domenico Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, Livorno 1872, John Webster
Spargo, Virgil the Necromancer, Cambridge 1934. Da segnalare l’avvenuta
traduzione de Le leggende inedite di Virgilio, raccolte da Charles Godfrey
Leland, Edizioni Saecula, Montorso Vicentino 2008 [ed. or. New York 1900].