N. 9 – 2010 –
Note-&-Rassegne
«M. Folio pontifice maximo praefante carmen
devovisse eos se pro patria»: a proposito di Tito Livio 5.41.3
Università
di Sassari
sommario: 1. Tito Livio 5. 41: il testo. – 2. Analisi del testo. – 3. La morte dei patres:
una devotio. – 4. La morte dei patres
come sacrificio umano. – 5. Conclusioni.
Con una
drammaticità narrativa e un’eleganza non comune, lo storico Tito
Livio[1]
ci presenta un episodio tragico di storia romana, che si incentra su un momento
di debolezza romana verificatosi nel IV sec. a.C., quando i Galli
saccheggiarono e incendiarono l’Urbe[2]:
Romae
interim satis iam omnibus, ut in tali re, ad tuendam arcem compositis, turba
seniorum domos regressi aduentum hostium obstinato ad mortem animo
exspectabant. Qui eorum curules gesserant magistratus, ut in fortunae pristinae
honorumque aut uirtutis insignibus morerentur, quae augustissima uestis est
tensas ducentibus triumphantibusue, ea uestiti medio aedium eburneis sellis
sedere. Sunt qui M. Folio pontifice
maximo praefante carmen deuouisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis
tradant. Galli et quia interposita nocte a contentione pugnae remiserant
animos et quod nec in acie ancipiti usquam certauerant proelio nec tum impetu
aut ui capiebant urbem, sine ira, sine ardore animorum ingressi postero die
urbem patente Collina porta in forum perueniunt, circumferentes oculos ad
templa deum arcemque solam belli speciem tenentem. inde, modico relicto
praesidio ne quis in dissipatos ex arce aut Capitolio impetus fieret, dilapsi
ad praedam uacuis occursu hominum uiis, pars in proxima quaeque tectorum agmine
ruunt, pars ultima, uelut ea demum intacta et referta praeda, petunt; inde
rursus ipsa solitudine absterriti, ne qua fraus hostilis uagos exciperet, in
forum ac propinqua foro loca conglobati redibant. ubi eos, plebis aedificiis
obseratis, patentibus atriis principum, maior prope cunctatio tenebat aperta
quam clausa inuadendi; adeo haud secus quam uenerabundi intuebantur in aedium
uestibulis sedentes uiros, praeter ornatum habitumque humano augustiorem,
maiestate etiam quam uoltus grauitasque oris prae se ferebat simillimos dis. ad
eos uelut simulacra uersi cum starent, M. Papirius, unus ex iis, dicitur Gallo
barbam suam, ut tum omnibus promissa erat, permulcenti scipione eburneo in
caput incusso iram mouisse, atque ab eo initium caedis ortum, ceteros in
sedibus suis trucidatos; post principium caedem nulli deinde mortalium parci,
diripi tecta, exhaustis inici ignes[3].
Ė
il
Il
pontefice massimo M. Folio, prefante
carmen, suggerisce la formula solenne (carmen)
con la quale devovisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis. Il
massacro avviene quando uno dei Galli, per aver accarezzato la barba fluente di
M. Papirio, da questi viene percosso con lo scettro d’avorio.
Gli
elementi di analisi che emergono dal citato testo di Tito Livio sono i
seguenti: la quaestio principale, che
verrà analizzata nel paragrafo seguente della presente ricerca, riguarda
la natura giuridica dell’atto dei patres.
La sequenza degli eventi, descritti nell’episodio, inducono, infatti, a
ritenere che i senatori si siano immolati per la patria mediante il rito della devotio, come si cercherà di
dimostrare in seguito.
Il
secondo elemento, connesso al precedente, consiste nella locuzione M. Folio praefante carmen, la quale si
inquadra in un ambito più ampio: essa è costituita da un ablativo
assoluto, col verbo praefor coniugato
al participio presente, e, come il soggetto, declinato nel caso ablativo. Il
verbo praefor significa “dire
prima”, e pertanto, richiama il concetto di verba praeire. Il verba
praeire, già oggetto di numerose ricerche da parte della dottrina[5],
consiste nell’indicazione della solenne formula, prima di un rito, da
parte del sacerdote.
Nella
narrazione liviana, il compito di verba
praeire è assunto dal pontefice massimo M. Folio, il quale
suggerisce le esatte parole del carmen
necessario all’atto che i senatori stanno per compiere, mentre la devotio è posta in essere da M.
Papirio.
Ciò
sembra avvalorare la tesi di C. Gioffredi[6],
il quale ritiene che il compito di verba
praeire sia prerogativa del sacerdote, e non del magistrato; ciò
contrariamente a quanto afferma G.I. Luzzatto, per il quale il verba praeire aveva valore costitutivo
proprio perché prerogativa del magistrato; dal verba praeire deriverebbe, infatti, il potere di ius dicere, proprio
dell’autorità magistratuale[7].
Per
Tito Livio, la morte dei patres non
è, però, solo un atto giuridico-religioso. Esso è un
esempio della Romana virtus, come ha
osservato anche R.M. Ogilvie[8].
Lo storico, grazie alla concezione che egli aveva della storia dei patres, foriera di nobili insegnamenti,
si allontana da un’esposizione storica secca e pragmatica, riscontrabile
ad esempio nello storico greco Polibio[9].
Il suo racconto è, infatti, intriso di esaltazioni della virtus romana, propria dei majores.
Nello
stile di Tito Livio, ogni frase trova perfetta, adeguata collocazione nel testo,
sia stilisticamente che semanticamente, grazie anche ai requisiti fondamentali
della narratio. Fra questi, risalta
la varietas[10],
che, producendo un repentino mutamento di scena, genera efficacia emotiva e
storica: «E’ un aspetto della drammatizzazione e patetizzazione
della storia liviana: Livio rappresenta drammaticamente gli avvenimenti e, come
un regista, inquadra la scena e guida i personaggi, fa parlare le cose come fa
parlare i personaggi mediante i discorsi»[11].
Nei
primi tre paragrafi del brano in cui Livio descrive il suddetto episodio,
l’attenzione ricade ineluttabilmente sul comportamento dei patres, paradigma di coraggio e virtus. Essi attendevano i nemici, e
dunque la morte, con animo grave, nobile e superiore, come è dimostrato
dal loro atteggiamento: indossavano la veste più augusta e offrivano in
voto agli dèi la loro vita per la patria e per i cittadini romani.
E’ un esempio degli aspetti del mos
maiorum che Livio ci propone: negli
animi dei patres non si scorge
un’ombra di timore, mai s’avverte un’ombra d’indugio, o
di esitazione; paiono volgere le loro menti unicamente al valore della vita e
dell’onore.
Lo
scopo che l’annalista si prefigge ha una portata molto più ampia
della semplice ricognizione storica: egli si propone di onorare quelle
virtù tipicamente romane al fine di “educare” i posteri,
secondo la concezione ciclica della storia, propria dei Romani, attraverso un'esaltazione, talvolta,
forse, esasperata, del mos maiorum[12].
Le implicazioni morali concernenti i valori, tanto richiamati, espressi dai patres,
trovano una loro perfetta connotazione storica, sia nell’epoca precedente
Livio, sia posteriore all'Autore patavino: pertanto, appare evidente come, nel
periodo tardo repubblicano, il mos civium non fosse ancora stato
corrotto dalla «wealth, greed, luxury, and various pleure»[13].
Rivive,
nella descrizione di Livio, l'eco di quella concezione ciclica della storia che
ha sempre caratterizzato il pensiero dei Romani, secondo la quale si
prospettava, e si temeva, la decadenza di Roma nel momento esatto in cui
quest’ultima avesse raggiunto il suo apice. E’ emblematica
l’anticipazione che Livio fa nella sua praefatio[14],
in cui parla della grandezza di Roma come causa della sua successiva decadenza: creverit ut iam magnitudine laboret sua.
Lo
stesso Cicerone[15]
aderiva alla concezione ciclica della storia, anche se non passivamente. Egli,
nel ciclo di rivoluzioni che, nel primo secolo a.C., stava sconvolgendo
l’equilibrio di Roma, e nel cui vortice si trovava ad aver un ruolo
attivo e quasi ostinato, «riteneva che non si trattasse di un evoluzione
fatale, ma di una crisi per la quale esistono rimedi: sarebbe bastato in primo
luogo eliminare i faziosi ed elaborare in seguito leggi buone(…)in quanto
aveva dimostrato che il genio dei legislatori poteva rompere i cicli di un
determinismo storico» la cui causa primaria era costituita dal fatto che
«Roma poteva affondare solo sotto il peso della sua propria massa»[16].
D’altro canto, il crepuscolo di Roma era stato avvertito già dal
secondo secolo a.C., proprio da parte di coloro che avevano contribuito, o che
avevano assistito, alla massima ascesa della potenza romana.
Sotto
questa luce deve essere letto l’emblematico assunto di Gaio: cuiusque rei potissima pars principium est[17],
ed in ciò si inserisce il richiamo di Tito Livio ai valori degli antichi
patres, i quali vengono enfatizzati
con arguzia tramite l’efficace contrapposizione della descrizione dei
Galli, che si presentano sine ira, sine ardore[18] secondo Livio, gens natura ferox, moribus incondita[19] per Floro e il cui “furore”
si concretizza in queste azioni: lasciare un modesto presidio sul foro, e
spargersi a far preda nelle vie.
Ma, gli
animi dei nemici sono colpiti da un’atmosfera surreale e quasi spettrale,
così come rimane colpito, nel profondo, il lettore: i barbari sono
intimoriti dalla solitudine stessa, e la titubanza che li trattiene dal
penetrare nelle case aperte è generata da una venerazione che essi
provano, quasi loro malgrado, nei confronti degli uomini che siedono nei
vestiboli delle case[20],
simili a dèi, non solo esteriormente, ma soprattutto nello sguardo
solenne, superiore e ieratico, e nella gravità del volto. Nelle sue
descrizioni, Tito Livio esalta volutamente le qualità morali degli
antichi patres, quelle qualità che trovano, come più
remota ed antica origine, la recondita e quasi mitologica genealogia divina di
Roma; e, proprio nell'ossequio a quella tradizione, riconosciuta implicitamente
come leggendaria, e tuttavia non confermata, né confutata, Livio
«dimostra di avere l'intuizione che – quelle favole e superstizioni
– sono anch'esse Storia, cioè storia di un dato popolo in una data
epoca (...). Per cui, se dalla così detta storia leggendaria, per es.,
da quella Romana, si togliesse la parte favolosa, come, secondo la critica moderna,
Livio avrebbe dovuto fare per la storia Romana, non avremmo più quella
tale storia, ma una storia nostra, incompleta e vuota, cioè un'altra
favola»[21].
Con
sdegno e con condanna per l’infimo comportamento dei Galli, Livio
descrive l’episodio che fece scattare l’ira degli stessi: uno di
loro viene percosso sul capo con lo scettro di avorio da Marco Papirio, al
quale aveva accarezzato la barba fluente (fatto che appare come una sacrilega
mancanza di rispetto, giustamente punita). Da quest’episodio avrebbe
avuto inizio la strage: dopo l’uccisione degli uomini più
illustri, nessuno fu risparmiato, le case furono saccheggiate e, una volta
vuote, incendiate.
A
conclusione di questa narrazione, Livio condanna moralmente i Galli per la
violenza compiuta, poiché generata da un abuso dovuto allo squilibrio
delle stesse forze che si scontravano: la barbarie dell’esercito Gallo e
la solennità dei vecchi. É proprio tale squilibrio che genera
l’enfasi che tinge di tinte positive il comportamento degli anziani, e
che rigetta nello squallore quello dei nemici.
Ciò
che desta attenzione è la natura giuridico-religiosa che assume questo
episodio: la quaestio riguarda la
configurabilità, o meno, di un sacrificio umano nella condotta dei patres.
Il
primo termine che induce ad una risposta affermativa del quesito è quel devovisse che Livio utilizza nella
descrizione dei patres: la locuzione
verbale devovisse eos se è una proposizione infinitiva,
nella quale il soggetto (eos)
è espresso in accusativo, il verbo coniugato nella forma riflessiva;
deriva dal verbo devoveo, che,
proprio in questa forma, significa letteralmente “offrirsi alla morte,
consacrarsi, sacrificarsi”[22].
Ciò che sembra emergere è un implicito richiamo alla devotio[23],
attesa la precisione terminologica propria di Livio, il quale utilizzava i
vocaboli con profonda consapevolezza circa il loro valore giuridico[24].
La devotio costituiva un particolare votum[25]
compiuto dal magistrato durante la guerra, quando sembrava non vi fosse
possibilità di vittoria. Si presentava «come la sovrapposizione di
una pluralità di azioni, magico-religiose, d’innegabile
antichità»[26].
Il rito, descritto da Livio nel libro ottavo, a proposito del sacrificio di
Decio Mure[27],
si svolgeva nel modo seguente: il magistrato indossava la toga praetexta, si velava il capo[28]
e, manu subter togam ad mentum exserta[29],
invocava gli dèi inferi e superi con una preghiera dettata dal pontifex maximus, al fine di chiedere la vittoria per i Romani.
In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna uoce inclamat.
'deorum' inquit, 'ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi
Romani, praei uerba quibus me pro legionibus deuoueam.' pontifex eum togam
praetextam sumere iussit et uelato capite, manu subter togam ad mentum exserta,
super telum subiectum pedibus stantem sic dicere: 'Iane, Iuppiter, Mars pater,
Quirine, Bellona, Lares, Diui Nouensiles, Di Indigetes, Diui, quorum est
potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, uos precor ueneror, ueniam peto
feroque, uti populo Romano Quiritium uim uictoriam prosperetis hostesque populi
Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. sicut uerbis nuncupaui,
ita pro re publica [pouli Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis
populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus
Tellurique deuoueo [30].
Terminata
la preghiera, si gettava fra i nemici[31],
con lo scopo di morire e di portare, con sé, terrore e morte, come se ne
contaminasse l’esercito[32],
poiché «la fine è la forza e la vittoria contro quel
nemico»[33].
Il
forte valore attribuito alla morte del generale ed alla conseguente vittoria
dei Romani era enfatizzato, in negativo, nel caso in cui il generale non fosse
caduto in battaglia: se ciò accadeva, significava che gli dèi non
avevano accettato il suo sacrificio, ed il devovens
veniva considerato impius[34].
Sacrificava se stesso per il bene di Roma, consacrandosi come piaculum omnis deorum irae[35] «prima ancora che gli déi
avessero ottemperato alla preghiera loro rivolta» [36].
Non si trattava di un suicidio, ancorché “altruista”, ma
presentava i caratteri di un sacrificio e, al contempo, di un’ordalia[37].
Si trattava di una morte volontaria che, inquadrata in quest’ambito
sacrale, assurgeva a modello di comportamento[38]
nel quale la virtus e la religio trovavano la sintesi più
completa[39],
come si evince anche da
Flor. I.7: Tum igitur aut numquam alias apparuit vera illa Romana
virtus.
La
preghiera, le cui parole dovevano essere suggerite dal pontifex maximus al magistrato prima del compimento
dell’atto, riportata da Livio, termina con il verbo devoveo, lo stesso utilizzato per descrivere l’azione dei patres di fronte ai Galli: M. Folio pontifice maximo praefante carmen
devovisse eos se pro patria. Si potrebbe ipotizzare che il carmen di cui parla Livio in questo brano sia
lo stesso con il quale Decio Mure compì, poi, la sua devotio.
Flor. I. 7: Iam primum
maiores natu, amplissimis usi honoribus, in forum coeunt, ibi devovente
pontifice se diis manibus consecrant, statimque in suas quisque aedes regressi,
sic ut in trabeis erant et amplissimo cultu, in curulibus sellis sese
reposuerunt, ut, cum venisset hostis, in sua quisque dignitate morerentur.
In
questo passo, l’unica differenza con la descrizione di Livio si rinviene
in quel forum dove i majores avrebbero recitato il carmen. Questa circostanza sembra
avvalorare l’ipotesi che si tratti di devotio,
perchè il devovens doveva
stare in piedi su un telum[40].
La contraddizione col passo liviano sembra essere, tuttavia, minima, in quanto
anche Floro narra che i majores
attesero in curulibus sellis, ut, cum
venisset hostis, in sua quisque
dignitate morerentur. Ancora più esplicito è quel devovente pontifice se diis manibus
consecrant, che delinea i caratteri del carmen
di cui parla anche Livio.
Vi sono,
inoltre, altri due aspetti che inducono a ritenere che i senatori si siano
sacrificati mediante una devotio. Il
primo è costituito dall’osservazione che tutti i senatori avevano
ricoperto magistrature curuli: il devovens
doveva, infatti, essere un magistrato cum
imperio[41].
Il secondo, dalla reazione del senatore al gesto del Gallo: quando
quest’ultimo gli accarezza la barba, interrompe la gestualità che
M. Papirio stava compiendo per la perfezione del rito, poiché egli
aveva, molto probabilmente, manum subter
togam ad mentum exerta.
Fra le differenze
formali con la devotio perpetrata da
Decio Mure, L. Sacca[42] evidenzia la modalità
dell’azione, che, se per i Decii è attiva, per i senatori è
quasi passiva, in quanto essi attendono la morte immobili, senza reagire. In
relazione a questo aspetto, tuttavia, un’azione iniziale si riscontra
proprio nelle percosse che M. Papirio infligge al gallo che gli aveva
accarezzato la barba, il quale sembra assumere su di sé la
responsabilità dell’iniziativa. Egli risulta quale devovens principale, risolvendo
così la difficoltà di definire quest’atto come devotio, difficoltà generata
dalla apparente mancanza di un devovens
individuale. La contrapposizione fra «il senso notevolmente
dinamico» della devotio deciana
e «la stasi dell’aneddoto senatoriale» sembra essere solo
apparente, in quanto si evince, dall’insieme delle azioni compiute, la
ferma volontà dei senatori di “votarsi”, e di provocare, in
qualche modo, la loro morte[43],
obstinato animo ad mortem.
Linguisticamente,
pertanto, numerosi elementi inducono a ritenere che l’atto dei patres fosse un vero sacrificio umano,
inquadrabile nell’ambito della devotio.
L’atto
dei patres è, pertanto, un
sacrificio umano. Semanticamente, con il termine “sacrificio” si
indica quell'atto attraverso cui «si onora il dio» e si
«sollecita il suo favore»[44].
Ciò avveniva attraverso l'“offerta”, ossia quel sacrificio
che, consacrando ciò che si offre, lo si rende sacro e si «fa
passare l'umano nel divino»[45].
Il
sacrificio, dunque, «si presentava come un'azione rituale che permetteva
alle diverse aggregazioni comunitarie romane di stabilire, per mezzo della
vittima immolata, forme di comunicazione con le divinità destinatarie
del sacrificio»[46].
L'offerta consisteva in prodotti della terra (libamina), oppure in esseri animati (hostiae), ritenuti molto superiori ai primi, «in ragione del
radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali, versato
nell'azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità»[47].
Nella continua ricerca di un mantenimento, nonché di un accrescimento,
della pax deorum[48],
il rapporto di reciprocità che si instaurava fra gli uomini e gli
dèi è altresì rinvenibile nel verbo mactare e nella locuzione mactare
victimam[49],
la quale richiama il concetto, insito nel vocabolo medesimo, di
“accrescimento, nutrimento” della divinità[50].
Se, dunque, il sangue[51]
degli animali “nutriva” gli dèi, ancor di più questi
ultimi avrebbero gradito sangue umano.
Anche
gli uomini potevano considerarsi quali «possibili vittime
sacrificali»[52].
Nell’episodio de quo, è
lecito supporre che i patres si siano
immolati come vere e proprie vittime sacrificali[53],
e dunque come hostiae (o,
poiché si tratta di una narrazione liviana, è lecito supporre che
Livio abbia interpretato in tal senso l’uccisione dei patres). Hostia comprende i concetti espressi dal termine hostis, del quale ha la medesima radice,
che convergono nel termine aequor[54]:
hostis era lo straniero che si
trovava in un rapporto di reciprocità cum populo romano; il termine aequor,
utilizzato per descrivere la superficie piatta e livellata del mare, indica
ciò che vale allo stesso modo per tutti. Nel termine hostimentum, invece, si rinviene il
significato di «compenso di un beneficio»[55].
Col sacrificio,
pertanto, si offriva qualcosa agli dèi in cambio di un beneficio.
«La parola medesima religio
(...)significava l'insieme dei legami riconosciuti che univano
l'attività umana agli dèi. Questi legami consistevano in obblighi
giuridici reciproci (fides)»[56],
e configuravano una sorta di do ut des[57].
Ecco che, dunque, paiono configurarsi tutti gli aspetti del sacrificio. Il rispetto per la
superiorità degli dèi, la richiesta di un compenso, le
divinità che possono essere favorevoli oppure ostili, l’antica
commistione di ius e fas[58],
sembrano concentrarsi nel termine hostia.
Un
altro termine parallelo assume estrema importanza: munus. Significa dono che necessita di un contro dono, quindi una
natura di scambio, sinallagmatica; immunis,
nel suo arcaico significato, significa chi non tiene fede all’obbligo di
restituire, ed anche ingrato; communis
chi condivide i munia[59].
Deve
essere considerato un ulteriore aspetto del sacrificio. Concerne i numerosi
significati che derivano dal verbo greco θύω
(thùo). Il suo significato
base, “sacrificare”, è arricchito di un'ulteriore accezione:
la nozione di “fumicazione”, «grasso che si fa bruciare,
esalazione delle carni che arrostiscono, fumo che si alza e sale come offerta
agli dèi»[60].
L'origine etimologica del termine è da ricollegare su un presente dhu-yō,
il cui radicale significa “produrre fumo”.
Appare,
pertanto, suggestivo lo svolgimento della strage compiuta dai Galli, che si
conclude con l’incendio dell’Urbs.
Livio manifesta, almeno formalmente, in quanto non esplicitamente palesati,
tutti gli aspetti di un rito sacrificale, la devotio, il cui rigido formalismo è giustificato dalla
gravità della situazione incombente: la solennità delle vesti; la
ieraticità e la totale assenza di resistenza o ribellione (che non
è supina acquiescenza, bensì tacita determinazione, obstinato (…) animo), il casus belli, (rappresentato dal sacrilegio della
barba tirata, giustamente punito in difesa della dignità), il massacro,
le carni lacerate, e, infine, l'incendio appiccato, l'esalazione dei corpi
bruciati dei senatori, i majores immolati per la salvezza[61].
Non
appare, pertanto, del tutto azzardato sostenere che, in questo caso, i patres abbiano assunto la natura
giuridico-religiosa di hostiae;
immolando se stessi contro un hostis,
nemico, ed anche, in quel momento, hospes,
padrone della loro vita, votandosi per ricevere, dagli dèi, un beneficio
maggiore del loro sacrificio, cioè la vittoria finale della guerra e la
salvezza di Roma. L'immediata ricompensa degli dèi sembra essere data,
nel seguito della narrazione, dalle oche che avvisarono dell'arrivo dei Galli
sul Campidoglio e che avrebbero provocato l'immediata reazione di M. Manlio e,
ancor di più, si concretizza con la vittoria dei Romani all'arrivo di Camillo.
Il
brano analizzato rispecchia il peculiare connubio religione-diritto che
caratterizzò la civitas
romana. L’atto dei patres, che
Livio descrive come devovisse eos se pro
patria, deve essere qualificato giuridicamente come sacrificio umano in
generale, e come devotio in
particolare, sia in ossequio alla cognizione che lo storico Tito Livio aveva
dei significati tecnico-giuridici dei termini utilizzati[62],
sia rispetto a ciò che emerge dall’analisi del testo liviano, il
quale racchiude, in sé, l’incarnazione ideale
dell’insegnamento del grande annalista: il valore della vita enfatizzato
dall’assenza di timore per la morte, la consapevolezza della
superiorità degli antichi romani nei confronti dei barbari, il coraggio,
mai intorbidito dal timore, di immolarsi per la patria. Questi aspetti
celebrativi del mos maiorum
costituiscono un topos
nell’opera liviana. In ciò sta la grandezza di Tito Livio,
poichè la sua attualità è sita nei valori che egli stesso
ha saputo riconoscere come immortali e che ha efficacemente tramandato.
F.
Calderaro, nell’osservare ciò, si richiama alle parole del
Machiavelli, il quale biasima gli uomini che, ignorando gli insegnamenti della
storia, non traggono alcun vantaggio o positiva emulazione:
«…infiniti che leggono le storie pigliano piacere di udire quella
varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare
altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile, ma
impossibile; come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini fossero variati
di moto, di ordine, e di potenza da quello che erano anticamente». Al
riguardo, F. Calderaro rileva come «più che imitatori, studiando
la storia noi siamo interpreti della storia, la quale può quindi darci
ciò che noi sapremo e potremo nella medesima trovare»[63].
[1] Vedi L. Bessone, La tradizione liviana,
Bologna 1977, 191-192, il quale osserva: «...l'opera liviana, che
compendiava in sé larga messe della ricerca annalistica precedente,
costituiva un autentico, inesauribile serbatoio di notizie, tale da rendere
superfluo il ricorso alla produzione storiografica anteriore, della quale
concorse in maniera decisiva a determinare l'affrettata caduta nell'oblio, e in
questo senso rappresentava uno strumento di lavoro insostituibile». Per
converso, tuttavia, l'Autore osserva come, a causa della profonda conoscenza,
cultura, e, non di meno, ricchezza materiale, richieste per il possesso e lo
studio dei libri Ab urbe condita,«Livio registrò un
notevole calo di interesse nei lettori, e dovette cedere a Sallustio la palma
di storico più letto nell'impero, anche se la sua fama rimase
sostanzialmente intatta».
[2] Tutte
le fonti che narrano questo episodio sono raccolte e commentate da L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, vol. I, L’Italia e Roma avanti il conflitto con Taranto, Torino
1952, 536 s. e da G. De Sanctis, La conquista del primato in Italia, Storia dei Romani, vol. II, Firenze 1988, 161 ss.
[3] Liv. 5.41: R.M. Ogilvie, A
commentary on Livy, books 1-5, Oxford 1965, rist. 1998, 725 ss.; J.
Bayet, Tite Live, Histoire romaine,
Livre V, texte établi par Jean
Bayet et traduit par Gaston Baillet, Paris 1964, 64 ss.
[4] Per quel che concerne la determinazione
della cronologia della storia romana prima del
[5] Da
vedere, in particolare, G.I. Luzzatto,
Il verba praeire delle più antiche magistrature romano-italiche. Spunti per una valutazione dell’imperium,
in Symbolae Raphaeli
Taubenschlag dedicatae (Eos,
Vol. xlviii, fasc. 1.),
Vratislaviae-Varsaviae 1956, 439 ss.; C.
Gioffredi, Sulle attribuzioni sacrali dei magistrati
romani, in Iura 9, 1958, 41 ss; infine
L. Franchini, Voti di guerra e regime pontificale della
condizione, Milano 2006, 22.
[10] J.
L. Catteral, Variety
and Inconcinnity of language in first decade of Livy, in Transaction and
Proceeding of the American Philological Association 69, 1938, 292 ss.
[11] E. Pianezzola: Traduzione e ideologia: Livio
interprete di Polibio. Bologna, 1969, 7, pone in evidenza come
l’influenza della storiografia annalistica comportasse una impostazione
degli episodi narrati «lontana da ogni obiettività storica per la
sua stessa natura di storia legata alle gentes
e in generale agli interessi politici e ideologici dell’oligarchia
senatoria dominante».
[12] Su questo punto, cfr. F. Calderaro, Nuovi discorsi sulla prima deca di Tito Livio, studio filosofico, storico, politico, Padova 1952, 74.
[14] Si
veda, in proposito, M. Mazza, Storia e ideologia in Tito Livio: per un’analisi storiografica della praefatio
ai Libri ab urbe condita, Catania
1966, 37 ss.
[16] S. Mazzarino, La fine del mondo antico: le
cause della caduta dell’impero romano, Milano 1995, 20.
[18] Liv.
5.41.
[19] Flor., Epitomae de Tito Livio bellorum omnium
annorum DCC, I.7.
[20] E. Pais, Storia di Roma, dalle
origini all'inizio delle guerre puniche, IV, Roma 1928, 13, nota 1. I
senatori attendono i Galli, e, con essi, la morte. Livio (5. 41), descrive
l'attesa dei patres, i quali paiono domos regressi; viceversa,
Plutarco, Cam. 21 sostiene che essi attendevano έν
αγορά, e lo stesso particolare è riportato da
Floro (I 7.9), il quale narra che i majores in Forum coeunt.
Ciò su cui, però, è necessario porre l'attenzione,
è l'affermazione del Pais, il quale osserva che i patrizi «si
sacrificarono per il bene della patria».
[22] O. Diliberto, Voveo, in Enciclopedia Virgiliana, V, Roma 1990, 629 ss.; A.
Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine: histoire des mots [v. Voveo],
Paris 2001, 753.
[23] In questo senso M.
C. Guittard, Aspects
épiques de la première décade de Tite Live: le rituel de la devotio, in Colloque l’épopée
gréco-latine, Calliope II, édité par R. Chevallier,
Paris 1981, 36: «Pourtant, l’analyse du récit livien montre
qu’ll s’agit bien d’une devotio, d’une acte religieux
consciemment assumé et non d’un ultime sursaut
d’héroïsme romain face aux barbares»; R. M.Ogilvie, Le origini di Roma, Urbino 1999 [titolo originale Early Rome and the Etruscan, London
1976], 186; tutte le fonti sono raccolte da G.
Wissowa, v. Devotio, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, I A-Q, Stuttgart 1893, col. 277. Estremamente
critico, rispetto all’individuazione di questo atto come devotio, è L. Sacca,
Devotio, in Studi Romani LII-NN. 3-4, Roma 2004, 340: l’Autore, evidenziando
talune differenze formali fra la devotio
classica e la morte dei patres
nell’episodio de quo, rifiuta
di considerare quest’ultimo atto quale una devotio per analogia. Nello stesso senso, vedi anche E. Montanari, Devotio, in Enciclopedia
Virgiliana, II, Roma 1985, 37 s. G.
Forsythe, Livy and early Rome, cit., 31, traduce l’assunto sunt
qui devovisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis, come segue: «Elderly
senators devoted themselfs for the country», cioè i senatori
«sacrificarono se stessi».
[24] Si
veda, in proposito, C. St. Tomulescu, La valeur
juridique de l’historie de Tite Live, in Labeo 21, 1975, 295 ss.
[25] L. Cesano, Devotio, in Dizionario
epigrafico di antichità romane,
II.2, Roma 1961, 1712 ss.; L. Sacca, Devotio, cit., 316. Sul votum
e sui vota publica, A. Bouchè-Leclercq, Les
pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions
religieuses de Rome, Paris
1871 [New York 1975], 165 ss.; J.
Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, 2a ed., Leipzig 1885 [New York 1975], 264 ss. (= Id., Le culte chez les Romains, I, Paris 1889, 315 ss.); G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, 2a ed., München 1912, 381 ss.; J. Toutain, Votum, in Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines 5,
Paris 1919, 969 ss.; A. Magdelain,
Essai sur les origines de la sponsio,
Paris 1943, 114 s.; P. Noailles,
Du droit sacré au droit civil, Paris 1949, 302 ss.; K.
Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 46; W. EiSENHUT,
Votum, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, Suppl. 14, Stuttgart 1966, 964 s.; K. VISKY, Il votum in diritto
romano privato, in Index 2, 1971, 313 ss.; O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in
Studi in onore di A. Biscardi, IV,
Milano 1983, 297 ss.; ID., Voveo,
in Enciclopedia Virgiliana, V, Roma 1990, 629 ss.
[26] H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 54: «La devotio semblait se présenter comme la superposition de plusieurs actions, magique ou religieuses, d’inégale ancienneté». Si veda, altresì, G. Stübler, Die religiosität des Livius, Amsterdam, 1964, 185, n. 35, e 34 ss.; sulla devotio hostium e la devotio ducis: H. S. Versnel, Two types of Roman devotio, in Mnemosyne XXIX, 1976, 365 ss.; Id, Destruction, devotio and despair in a situation of anomy: the mourning for Germanicus in triple perspective, in Perennitas. Studi A. Brelich, Roma 1980, 541 ss.; A. Dick, Cicero’s Devotio, in Harvard Studies in Classical Philology 2004, 304; L.F. Janssen, Some unexplored aspects of devotio deciana, in Mnemosyne XXXIV, 1981, Fac. 3-4, vol. 361; L. Sacca, Devotio, cit., 339.
[27] Liv.
8.9.1-14. Tito Livio narra di tre sacrifici umani, riconducibili al rito della devotio, compiuti sia da Decio Mure,
così come riportato sopra, nonché dal figlio e dal nipote. Questo
brano è stato oggetto di varie critiche: in particolare, K. J. Beloch, Römische Geschicte, Berlino 1926, 440, ritiene che solo la devotio del “terzo Decio”
sia autentica; per K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit.,
125 ss e 204, la devotio del primo
Decio Mure è una falsificazione; si veda, contra, G. Dumézil,
[La religion romaine archaïque avec
un appendice sur la religion des Étrusques, Paris 1966] La religione romana arcaica, con
un’appendice su la religione degli Etruschi, edizione italiana e
traduzione a cura di Furio Jesi, Milano 1977, 150; F. Altheim,
La religion romaine antique,
traduction de H.E. Del Medico, revue par l’auteur, Paris 1955, 78 s. Per
un’analisi storiografica: M.A.
Cavallaro, Duride, i Fasti capitolini e la tradizione
storiografica sulle devotiones dei
Decii, in Annuario della Scuola
archeologica di Atene XXXVIII, 1976, 216 ss.
[28] Vedi H.
S. Versnel, Self sacrifice, compensation and the anonymous gods, in Le sacrifice dans l’antiquite,
Entretiens sur l’antiquite classique, Geneve 1981, 149: «The capitis velatio as one devoted to death,
which produces the pictures of the priest being his own victim».
[29] Questo
gesto è stato interpretato come un’invocazione della dea Fides da A. Carcaterra, Dea Fides e
fides. Storia di una laicizzazione,
in SDHI L, 1984, 220 ss: «La dea Fides era implicitamente evocata, e
(...) la struttura della devotio era
costruita sull’idea personificata della dea (...). Emerge il concetto di fides, quale rispetto del vincolo
bi-polare, esistente nella devotio,
fra l’uomo e la divinità». Per Kurt Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 126, il gesto della mano subter togam costituiva un atto di concentrazione, mentre per H. Wagenvoort,
Roman Dynamism, studies in ancient Roman thought, language
and custom, Westport 1976, 31, rappresentava un atto di consacrazione e di
contatto.
[30]
Sull’autenticità della suddetta preghiera, si veda G. Dumezil, La religione romana arcaica, con un’appendice su la religione
degli Etruschi, cit., 96 ss., 139, e 157: l’Autore, in particolare,
evidenzia come, nell’invocazione, vengano anzitutto nominati, quali
destinatari delle spoglie, Giove, Marte e Quirino, cioè la «triade
divina che ha potere sulle tre parti costitutive della vita in
società», a difesa della quale si invoca la protezione. Si veda,
inoltre, sulla gestualità, H.
Wagenvoort, Pietas, selected studies in roman religion,
Leiden, 1980, 253: il rituale era fondamentale, poiché la
gestualità necessaria rendeva “sacro” quell'atto, lo rendeva
tabù, : «the word for “sacrifice”, sacrificare,
“make tabù” in fact, originally signified an act
which preceded the actual sacrifice of the victim»; M. Le Glay, La religion romaine, Paris, 1971, 158; D. Sabbatucci, La
religione di Roma antica, dal calendario festivo all'ordine cosmico, Milano
1988, 257, 298; J.H.W.G. Liebeschuetz, Continuity and change in roman religion, Oxford
1979, 61.
[31] Per i
rapporti fra guerra e religione, si veda F.
Sini, Bellum Nefandum, Virgilio e il problema del diritto internazionale
antico, Sassari 1991, 189 ss.; L.
Franchini, Voti di guerra e regime
pontificale della condizione, cit., 11 ss.
[32] H.
S. Versnel, Self
sacrifice, compensation and the anonymous
gods, cit., 140-141: «The fact that Decius commits an act of kamikaze by hurling himself upon the
enemy has often been explained as a typically Roman trait, especially in
connection with the magical contagion he is expected to communicate to the
enemy troops». W.W. Fowler,
The religious experience of Roman people,
London 1933, 208.
[33] A. Carcaterra, Dea Fides e fides. Storia di una laicizzazione, cit., 222.
[34] L.F. Janssen,
Some unexplored aspects of devotio deciana, cit., 376.
[35] J.-H. Michel, L’extradition
du general en droit romain, in Latomus
XXXIX, Fascicule 3, 1980, 686: il generale assumeva, così, la natura di piaculum, «instrument de
purification». Per un confronto fra la devotio
e la deditio, Id., 687.
[36] L. Sacca, Devotio, cit., 317: questo aspetto
costituisce una delle principali differenze fra la devotio e ogni altro votum.
[37] M. Meslin, L’uomo romano, Milano 1981, 219, sottolinea come senza
vittoria non potesse esservi devotio».
[38] M. Meslin, L’uomo romano, cit., 220.
[39] G. Stievano, La supposta devotio di P. Decio Mure nel
[40] L. Sacca, Devotio, cit., 340.
[41] Su
questi aspetti, si veda R.M. Ogilvie,
A commentary on Livy, cit., 725 ss.
[45] E. Benveniste, Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, cit., 452; J.
Scheid , Quand faire, c’est
croire. Les Rites sacrificiels des Romains, Paris 2005, 275.
[46] F. Sini, Sua cuique
civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 187.
[47] F. Sini,
Sua cuique civitati religio, cit., 188; C.
Grottanelli, Il sacrificio, Roma 1999, 57: «quanto si offre rappresenta (e
in qualche modo sostituisce) la persona stessa dell’offerente».
L’Autore evidenzia ciò nell’analisi del sacrificio umano e
della sostituzione della vittima: «in questo passo cruciale (Genesi 22)
il tema dell’equivalenza fra vittima animale e vittima umana (...) si fa
problema reale, gestito appunto mediante i meccanismi della
sostituzione», 62. Si veda, sulla sostituzione sacrificale, anche R. Girard, La pietra dello scandalo, a cura di Giuseppe Fornari, Milano 2004,
346 ss.
[48] Sul cui
concetto, vedi: F. Sini, Sua
cuique civitati religio, cit., 167 ss.
[49] E, Benveniste, Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, cit., 454, e F.
Sini, Sua cuique civitati religio, cit., 190; si veda, inoltre, J. Champeaux, La
religion romaine, Paris 1998., 90. H. S. Versnel, Self
sacrifice, compensation and the
anonymous gods, cit., 150.
[50] F. Sini, Sua cuique civitati religio,
cit., 190: «Di questa concezione romana del sacrificio, costituisce una
prova incontrovertibile l’uso linguistico corrente del verbo mactare (…): tale verbo, dal
significato originario di «accrescere», «fare più
grande», ha finito per acquisire il senso prevalente di
«sacrificare», «immolare».
[51] La
concezione del sangue, quale nutrimento degli dei, assume una portata
estremamente ampia: si veda P. Scardelli,
Gli atzechi e il sacrificio umano, Torino 1980, 132; D. Hughes,
I sacrifici umani
nell’antica Grecia, trad.
it. di Luca Falaschi, Roma 1999, 178 ss.
[52] F. Sini, Sua cuique civitati religio,
cit., 202.; quando vennero vietati i sacrifici umani, si operò tramite
il meccanismo della sostituzione. H. S. Versnel,
Self sacrifice, compensation and the anonymous gods, cit., 159.
[53] M. Beard,
J. North, S. Price, Religion
de Rome, Paris 2006, 53: «Il devenait, en effet, sacré,
propriété des dieux (sacer), un peu comme une victime
sacrificielle».
[54] Per
un’analisi del termine, si veda
A. Carcaterra, L’analisi dello ius e della lex in elementi primi (Celso,
Ulpiano, Modestino), in SDHI
XLVI, 1980, 256; P. Cerami, La concezione celsina del ius, presupposti
culturali ed implicazioni metodologiche, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo
38, 1985, 19.
[55] E. Benveniste: Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, cit., 68. Il termine hostia potrebbe derivare da hostis?
Il termine hostis significa
“straniero”, “nemico”,“ospite”; quali
corrispondenti linguistici, troviamo il gotico gasts, l’antico slavo gostǐ. Per
poterne comprendere appieno il significato, è necessario richiamare un
altro termine, hospes, un antico composto di hosti-pet-s,
ove pet significa”signore”,
nel senso autoritario del termine, di modo che hospes andrebbe tradotto come “il signore
dell’ospite”. Proprio come hospes,
il su menzionato gostǐ
dell’antico slavo si presenta, altresì, nella forma composta di gospodǐ, che,
come hospes, significa
“signore”. In realtà, nella sua più arcaica
concezione, hostis significava
“straniero”: da questo concetto sarebbero poi derivati i
significati di “ospite”, quale “straniero favorevole”,
e “nemico”, straniero ostile. In questa accezione, con hostis si trova in importante
compenetrazione il verbo aequare(compensare,
uguagliare): Fest. ep., p.
[56] J. Bayet, La
religione romana, storia politica e
psicologica, Torino 1992, 54.
[57] J. Ferguson, Le religioni nell’impero Romano, Bari 1989, 142 s.: «a
Roma, il processo avveniva in due stadi: la nuncupatio
o promessa di un sacrificio in cambio della grazia ricevuta, e la solutio, o adempimento della promessa se
il dio concedeva il suo aiuto.(...)spesso si trattava di una promessa,
piuttosto che di un dono, l'offerta si rendeva una volta ottenuto l'aiuto
richiesto. Da qui deriva la sigla VSLM votum
solvit libens merito, che rappresenta il libero adempimento della
promessa». Si veda, inoltre, J.
Champeaux, La religion romaine,
cit., 87; J. Rüpke: La religione dei romani, trad. it. di
Roberto Gandini, Torino 2004, 165. E’ di grande interesse quanto
riportato da B. Biondi, in Scritti Giuridici, IV, Diritto Moderno, Varietà, La
giuridicità del Vangelo, Milano 1965, 683: l’Autore rileva
come anche nella Bibbia (Genesi 15-17) si parli di foedus, di un patto fra Abramo e Dio, anche se si tratta di un
patto particolare, «giacchè i contraenti non si trovano in
rapporto di parità».
[58] R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma
dall’età primitiva all’età classica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano 46, 1939, 194 ss. (ora in Id.,
Scritti, II. Sezione prima Saggistica [Antiqua 78], con una nota di
lettura di A. Mantello, Napoli 1998, 561 ss.).
[59] E. Benveniste, op. cit., 71.
[60] Vedi,
sul punto, E. Benveniste, cit.,
457.
[61] Fra le
differenze formali con la devotio
perpetrata da Decio Mure, L. Sacca,
Devotio, cit. 340, evidenzia la modalità dell’azione, che, se per
i Decii è attiva, per i senatori è quasi passiva, in quanto essi
attendono la morte immobili, «senza reagire». In relazione a questo
aspetto, tuttavia, un’azione iniziale si riscontra nelle percosse che
Marco Papirio infligge al gallo che gli aveva accarezzato la barba, il quale
sembra assumere su di sé la responsabilità dell’iniziativa.
Egli risulta quale devovens principale,
risolvendo così la difficoltà di definire quest’atto come devotio, difficoltà generata
dalla apparente mancanza di un devovens
individuale: in tal senso C. Guittard,
Le rituel de la devotio, cit., 37. La
contrapposizione fra «il senso notevolmente dinamico» della devotio deciana e «la stasi
dell’aneddoto senatoriale»sembra essere solo apparente, in quanto
si evince, dall’insieme delle azioni compiute, la ferma volontà
dei senatori di “votarsi”, e di provocare, in qualche modo, la loro
morte, obstinato animo ad mortem,
dopo che M.Folio pontifex maximus aveva
recitato un carmen.