N. 9 – 2010
– Monografie
Cap. I della
monografia: Simone Sassu, La rasgioni in Gallura. La risoluzione dei conflitti nella cultura degli Stazzi, Armando Editore, Roma 2009, pp. 320. ISBN
978-88-6081-526-2 - Libro+ CD € 30, 00
Sassari
Ordinamenti giuridici di tradizione orale in
Sardegna
Sommario: 1.1. Il diritto vivente nella società sarda: tra oralità e scrittura. – 1.2. Le zone di interesse etnografico. – 1.3. Gli istituti consuetudinari nel diritto sardo di tradizione orale. – 1.3.1. I rapporti giuridici fondamentali: regole della parentela e del diritto successorio, rapporti di proprietà, forme contrattuali. – 1.4. Le dinamiche del conflitto. – 1.4.1. Il sistema vendicatorio. – 1.4.2. La risoluzione pacifica delle controversie.
Al momento del definitivo passaggio del Regno di Sardegna dal dominio spagnolo a quello dei Savoia (l'accordo fu sottoscritto all'Aja l'8 agosto 1720), la società sarda era in larghissima misura una società orale. Lo spagnolo era la lingua ufficiale anche per la redazione di leggi e decreti, ma era il sardo la lingua parlata presso le comunità legate all’economia agro-pastorale. La più importante raccolta normativa vigente rimaneva ancora la medievale Carta de Logu, che raccoglieva, scritte in sardo volgare, norme (di diritto civile e penale) tratte soprattutto dalle consuetudini, oltre che dal diritto romano e bizantino[1].
La Carta de Logu, promulgata da Eleonora d'Arborea alla fine del XIV Sec., fu estesa nel 1421 dal Giudicato di Arborea a tutta la Sardegna[2]. L’emanazione della Carta rispondeva, come in tutti i casi di codificazione, alle esigenze di predisporre una disciplina chiara a situazioni spesso complesse, e di rendere agevole l'attuazione del diritto e l'amministrazione della giustizia[3]. Numerose sono state le interpretazioni fornite in epoca moderna di questo fondamentale documento; sono stati messi in rilievo soprattutto i principi di pubblicità e di certezza del diritto che lo informano, e dai quali derivarono sia il suo notevole valore sociale, sia la lunghissima durata della sua applicazione. La Carta sopravvisse, infatti, alla fine del periodo giudicale, e rimase in vigore anche in epoca spagnola e sabauda, fino all'emanazione del Codice di Carlo Felice nel 1827.
Se è vero che fra gli aspetti più importanti della Carta de Logu vi è il suo essere finalizzata alla oggettiva conoscibilità popolare del suo contenuto, proprio perchè scritta in lingua sarda, va però anche ricordato che, come sottolinea Michel Contini[4], «la realtà linguistica del sardo è quella di una lingua a tradizione essenzialmente orale»; per essa la dimensione della scrittura era ed è tuttora riservata alle élites.
Nella realtà sarda “acquisita” dai Savoia, d’altra parte, le fonti normative andavano a comporre un sistema giuridico frastagliato e disorganico.
I magistrati sia del tribunale supremo della Reale Udienza, che di quello d’appello della Reale Governazione di Sassari, delle curie municipali e gli officiali baronali del Regno, si trovavano spesso in difficoltà non sapendo quali norme applicare nei giudizi criminali[5]. Le fonti in cui si articolava il diritto sardo vigente alla fine del Settecento sono ricostruite da Antonello Mattone sulla base di una relazione del Conte di Sindia Antonio Ignazio Paliaccio, che nel maggio del 1793 così le enumerava in ordine “gerarchico”:
1° La Carta de Logu; 2° le Reali
prammatiche; 3° li Capitoli di Corte; 4° i Capitoli di S. Giovanni; [il
pregon generale del ‘700]; 5° I regi editti; 6° le Carte Reali;
7° i Pregoni del Vicerè aventi forza di legge allorché sono
emanati col parere della Reale Udienza; 8° gli usi, i costumi di Catalogna[6].
Il diritto vivente doveva di conseguenza
manifestarsi prevalentemente filtrato attraverso lingue diverse
dall’italiano, in particolare in quelle fasi dell’iter processuale dominate dalla
dimensione dell’oralità.
A titolo di mero esempio, si può qui ricordare che ancora nei primi
decenni dell’800 era applicata in Sardegna la procedura dell’incarica (ossia l’istituto della
“responsabilità collettiva delle comunità per i delitti
commessi da ignoti nel proprio territorio”): dopo una prima fase che
prevedeva un riconoscimento del luogo del delitto da parte dei periti, essa si
svolgeva con la
notifica del provvedimento, attraverso
pubblico bando, a viva voce in lingua sarda e a suon di tamburo, alle
comunità o ai singoli pastori. Si proseguiva con i primi interrogatori
della parte lesa e degli eventuali testimoni in grado di fornire notizie
sull’accaduto[7].
Si imponeva quindi per il governo sabaudo un programma non solo di miglioramento delle misere condizioni economiche della società sarda[8], ma anche della sua “italianizzazione”. L’opera di diffusione della lingua italiana, in seguito alla sua istituzionalizzazione come lingua “ufficiale”, si presentava però difficoltosa anche tra le classi più elevate della popolazione (mentre le comunità tradizionali, specie delle zone interne, spesso perfino ignoravano che i nuovi dominatori fossero i Piemontesi)[9]; nondimeno, tale opera ottenne alcuni risultati importanti. Agli inizi del XIX si venne formando nei principali centri urbani dell’Isola un ceto borghese, burocratico, militare, giudiziario, in senso lato governativo, che costituiva per il regno sabaudo una necessaria “sponda” per l’attuazione del progetto di assimilazione linguistica e culturale della società sarda agli usi e alle istituzioni del continente[10].
Si andava
così ad accentuare lo scollamento tra le “maggiori”
realtà cittadine e le piccole comunità legate alle
attività economiche tradizionali, prevalentemente concentrate nei paesi
e nei centri minori dell’Isola, che continuavano perciò a
mantenere il loro carattere di comunità orali, restando fedeli ai
diversi dialetti della loro lingua. Il programma
di italianizzazione continuò con la formazione dello Stato Unitario e,
nel corso del secolo XX, si manifestò anche con un vasto progetto di alfabetizzazione che, peraltro, neppure
ai giorni nostri può dirsi interamente portato a termine[11].
E’ stato
soprattutto Michelangelo Pira a mettere in luce come lo sviluppo di questo
processo abbia fatto sì che l’alfabetizzazione dei sardi avvenisse
attraverso una lingua, appunto, “straniera” come l’italiano.
I sardi «in quanto tali»,
vengono tagliati fuori dalla comunicazione scritta (…). Le istituzioni
giuridiche sono scritte in una lingua diversa dalla loro. (…) Se si
prescinde dal breve periodo dei giudicati possiamo dire che lo scrivere in
Sardegna è strutturalmente connesso ad una lingua non sarda. Essere
istruiti, essere cioè alfabeti,
significa conoscere un’altra
lingua. Istruito è, almeno per tutto il secolo scorso e nel nostro
secolo, il sardo che sa scrivere e parlare in
italiano. Istruzione e cultura, scrittura e lingua italiana, sono per la
coscienza popolare la stessa cosa [corsivo
mio][12].
Ciò fa
sì che, mentre la vita pubblica “ufficiale”, tanto nelle
città quanto nel piccoli centri, è ormai dominata
dall’italiano (nella scuola, nella pubblica amministrazione, nei
mass-media, nelle aule di giustizia, nell’esercito, negli organi di
rappresentanza politica), i rapporti quotidiani, familiari e di lavoro danno
luogo ad una sostanziale polarizzazione, nella lingua e nella cultura, fra
l’italiano parlato nelle città più importanti e il sardo
che nei centri minori, nelle campagne, e nei centri rurali mantiene ancora una
solida aderenza al tessuto comunitario. A questo proposito, sembra importante
riportare qui anche la testimonianza di Bachisio Bandinu, antropologo e scrittore nato nel 1939, originario (come
M. Pira) del paese di Bitti, che ricostruisce così la “scissione
culturale” cui ha dato luogo la vicenda della sua formazione scolastica:
La mia esperienza di
studente si situava in una società agro-pastorale, ben definita, con
codici precisi, con valori conosciuti. La comunità del mio paese era
produttrice di cultura, nel senso di produzione economica, sociale, culturale.
Come studente, tuttavia, io appartenevo anche all’altra cultura, la
cultura della scuola, de "sos istudiatos" (lett. gli studiati, le persone “studiate” sono quelle
“che hanno studiato”, ndt).
Allora la comunità era divisa in "sos rusticos" (lett. i rustici, ndt) e in "sos
istudiatos": chi andava a studiare era possessore di due codici, il codice
d’appartenenza antropologica, della cultura paesana, e il codice della
cultura ufficiale, scolastica. Tuttavia, tra questi due codici, la maggior
influenza la esercitava il codice della cultura antropologica, perché
quel codice costruiva la personalità di base dello studente. (…)
Tuttavia ci si impadroniva anche dell’altro codice culturale, quello
della cultura tout court; e avveniva il confronto, possibile, tra i due
codici, ma, ripeto, la personalità di base, la struttura profonda era
radicata nella cultura d’appartenenza[13].
La “mutazione antropologica” di cui parla M. Pira a proposito della società sarda è consistita anche nel processo di dequalificazione delle comunità minori, con la popolazione che tendeva (e tende tuttora) ad abbandonare queste ultime per concentrarsi nei principali centri urbani, processo accompagnato ai numerosi tentativi, spesso fallimentari, di trasformazione dell’economia, da agro-pastorale e di sussistenza, a “moderna” ed industriale.
Come tale mutazione abbia inciso sugli istituti di tradizione orale che hanno condotto una plurisecolare “vita parallela” rispetto ai sistemi giuridici scritti, ufficiali, di volta in volta dominanti, è un tema che non è possibile trattare in modo esauriente in questa sede. E’ certo però che ogni tentativo, proveniente dall’esterno, di instaurazione del diritto positivo in Sardegna, ha sempre dovuto fare i conti con il perdurare nel vissuto quotidiano degli ordinamenti delle comunità tradizionali.
La resistenza nei secoli di questi istituti consuetudinari (che mostrano ormai la tendenza, acutizzatasi negli ultimi decenni, a scomparire del tutto) si spiega in parte con il fatto che, come vedremo, se si escludono fenomeni come quelli riconducibili al sistema vendicatorio, tali istituti (riscontrabili nell’ambito del sistema familiare, delle regole successorie, dei contratti agrari, della gestione pacifica dei conflitti), di frequente apparivano compatibili con i principi generali dell’ordinamento dello Stato, che perciò non aveva particolare interesse ad estirparli; in parte con le ragioni storiche e geografiche che hanno reso la realtà dell’Isola una fra le aree culturali più “conservative” del Mediterraneo, a causa degli scarsi contatti con l’esterno. La stessa longevità della Carta de Logu è forse da attribuirsi anche alle particolari condizioni di isolamento della Sardegna, che resero possibile, nonostante i ripetuti tentativi esterni di assimilazione culturale e giuridica, il tramandarsi di forme di vita collettiva autonome ed originali.
Affrontare il tema
degli ordinamenti giuridici di tradizione orale in Sardegna significa far
fronte a due opposte necessità: da un lato, tentare di rivolgere uno
sguardo d’insieme alla complessa realtà delle comunità tradizionali
dell’Isola; dall’altro, fornire descrizioni dettagliate e rigorose
delle molteplici specificità locali. Come conciliare queste due
esigenze?
Una rappresentazione di sintesi sul tema del diritto consuetudinario
sardo risulta particolarmente ardua, non solo per la presenza nell’Isola
di più aree di interesse etnografico, ma anche per il non elevato numero
di ricerche condotte col metodo socio-antropologico dell’osservazione diretta.
Sia
per provare a tracciare un quadro complessivo che per focalizzare
l’attenzione su specifiche comunità, o anche per compiere dei
tentativi di comparazione, è
necessario prendere in esame studi di
matrici eterogenee, che si devono soprattutto all’antropologia culturale
e alla sociologia (ma anche alla geografia: è il caso di Maurice Le
Lannou), e che si sono proposti in alcuni casi di indagare specificamente le
manifestazioni di diritto spontaneo, in altri di ricostruire, più in
generale, forme di organizzazione economica, modi di vita, valori di
riferimento e “background normativi impliciti” di alcune
comunità tradizionali, in particolare in area barbaricina.
Non va peraltro trascurata nemmeno la complementarietà tra indagine storica sul diritto e studi demologico-giuridici. Nel nostro caso, va detto che sono stati certamente più assidui e virtuosi gli studi storici sulle istituzioni (e gli istituti) giuridici sardi del periodo medievale/giudicale e dell’età moderna, rispetto alle ricerche che si ponessero il problema di verificarne la sopravvivenza in epoca contemporanea. Ciò rende, ad esempio, difficoltoso esaminare i rapporti tra gli istituti giuridici codificati nella Carta De Logu e le norme non scritte eventualmente sopravvissute agli avvicendamenti normativi del diritto “ufficiale” fino quasi ai giorni nostri. E’ un tema che ci porta qui ad alcune riflessioni.
Vi è chi ha sostenuto che gli ordinamenti giuridici elaborati dalle comunità tradizionali sarde nascerebbero come “risposta” alle istituzioni dello Stato, o meglio come “reazione” rispetto a inefficienze ed ingiustizie storicamente da esse perpetrate. L’ipotesi da cui parte, ad esempio, M. Brigaglia, è che «nell’assenza dello Stato, oppure in una sua presenza concretantesi quasi esclusivamente in operazioni di polizia, processi lenti e sommari, vere e proprie spedizioni militari come quella che il governo Pelloux ordinò nel 1899, di fronte a questa secolare presenza negativa la comunità pastorale, per ragioni di sopravvivenza, ha dovuto elaborare una serie di norme non scritte ma cogenti quanto e più di quelle della legge dello Stato»[14].
E’ una tesi che stimola verifiche ed approfondimenti critici, attraverso un confronto tra i risultati delle indagini storiche e i dati raccolti nel corso di ricerche di matrice antropologica. Un tale confronto potrebbe però fornire un supporto anche ad una tesi parzialmente differente, per cui le consuetudini giuridiche proprie delle comunità tradizionali sarde più che svilupparsi per contrapposizione, più verosimilmente preesistono rispetto all’ordinamento “dominante” (prima quello piemontese ed in seguito quello dello Stato unitario, per limitarci agli ultimi tre secoli circa), che cerca di scalzare il diritto autoctono anche attraverso la forza preponderante del proprio apparato militare e repressivo.
La strada più sicura da seguire ci pare quella di condurre indagini monografiche mirate, circoscritte dal punto di vista tematico e/o geografico, e coordinare il lavoro sul campo con la ricerca d’archivio, per tentare un approccio all’esperienza giuridica consuetudinaria che tenga conto sia delle sue articolazioni interne che dei suoi rapporti verso l’esterno, e in particolare verso il diritto “colto” o ufficiale (rapporti, come meglio vedremo in seguito, non necessariamente di incompatibilità).
Bisogna però tenere anzitutto presente che, per condurre indagini di questa natura in Sardegna, è necessario partire dal presupposto della esistenza, nella realtà dell’Isola, di diverse “zone di interesse etnografico”, cioè di diversi ambiti territoriali «in cui siano riconoscibili un certo numero di fenomeni culturali simili e una o più tecniche di sussistenza legate al tipo particolare di ambiente geografico»[15].
Per M. Brigaglia, quando diciamo “i sardi” utilizziamo un termine piuttosto approssimativo, storicamente e soprattutto antropologicamente impreciso. Perché ci sono, sostiene Brigaglia, in Sardegna, almeno due Sardegne.
Una è la Sardegna delle coste,
dove sono le città principali, dove si sono insediate le attività
commerciali e industriali più importanti e le burocrazie più
influenti (...)L’altra è la Sardegna interna, in particolare
quella raccolta intorno al grande acrocoro centrale del Gennargentu. (…)
Due Sardegne principali, diciamo così, senza contare altre piccole
Sardegne a loro volta separate, come sono la Gallura (i galluresi chiamano
“sardi” tutti quelli che non sono galluresi), Alghero, che ha
memorie, usanze e dialetto catalani, Carloforte, dove si sente ancora oggi
l’accento dei primi colonizzatori liguri, il Sulcis ancora legato alle
memorie della sua epopea mineraria, i Campidani, grandi produttori di grano e
dunque contrassegnati da una civiltà contadina che si tende a
configurare come antagonista di quella pastorale[16].
Su questo particolare punto è importante ricordare che vi è stato anche chi, contestando il carattere “mitico” (o mitizzato) della cultura sarda, intesa come un tutto unitario ed indifferenziato, ha anche criticato le troppo rigide e schematiche classificazioni di carattere sociologico riferite all’Isola (zone interne/zone costiere, zone urbane/zone rurali, zone ad economia agropastorale/zone toccate dall’industria ecc.). Tra questi, Antonio Fadda, secondo il quale si registra invece l’esistenza di una vera e propria «frammentazione culturale e di esperienze diversissime tra loro, i cui confini non passano assolutamente attraverso la distinzione tra urbano e rurale, tra moderno e arcaico, anzi, se di cultura sarda una è possibile parlare questo è stato reso possibile dal livellamento prodotto dai mass-media e dalle altre forme di penetrazione dei valori e degli stili di vita della società industriale» [17].
E’ stato
perciò osservato che nel caso della cultura sarda si può parlare
di “uniformità verso l’esterno” e
“discontinuità interna”. In questo senso anche
l’orientamento di G. Angioni, il quale rileva
il contrasto assai forte (…) tra
una grande discontinuità interna e il suo apparire, tuttavia, come
sostanziale unitarietà quando la si paragona con l’esterno.
L’isola, così come presenta una discontinuità geografica
rimarchevole presenta anche una sua interna discontinuità linguistica ed
economico-produttiva, da vedersi legate ad una grande difficoltà di
circolazione interna oltre che di vie di comunicazione verso l’esterno,
ma tuttavia, visto in rapporto col mondo esterno, questo “piccolo
continente remoto”, come lo definisce il geografo Maurice Le Lannou,
possiede una forte individualità (…) Allo stesso modo le
tradizioni culturali sarde, la vita tradizionale delle campagne soprattutto,
(…) ci appaiono come fortemente unitarie (…) pur essendo esse,
viste all’interno dell’isola, fortemente differenziate e ricche di
varianti locali [18].
Quali fattori contribuiscono a delineare
da un lato l’uniformità e dall’altro la
discontinuità?
Indubbiamente, l’avere avuto per secoli scarsi contatti con l’esterno può aver contribuito a rafforzare un qualche profilo identitario, ma vi è da aggiungere che, se pure nella visione “da lontano” si può avere una percezione diffusa (ma indifferenziata e dunque superficiale), ad esempio, di un’economia fondata sulla pastorizia e sulla coltivazione diretta, a ben vedere anche da questo punto di vista vi sono diversi fattori che marcano la discontinuità. Tra essi, la prevalenza delle attività agricole in alcune sub-regioni, come il Campidano, nonchè le forme organizzative della pastorizia, diverse da zona a zona; valga per tutte la distinzione tra la pastorizia transumante delle zone interne e quella stanziale della Gallura.
Sul punto, giungono preziose le ricerche di Antonello Ruzzu[19], che pur prendendo spunto da fatti di “banditismo” verificatisi nella Sardegna di fine ‘800 (quindi in un’epoca in cui le discordanti visioni culturali tra le varie aree dell’Isola erano certamente più marcate), mettono bene in evidenza la stretta interrelazione, individuabile anche presso le comunità tradizionali sarde, tra differenti forme di organizzazione economica e tratti antropologici. Ruzzu riporta, fra i tanti, anche un episodio accaduto nelle zone montuose centro-settentrionali, dunque in un’area culturale assimilabile a quella barbaricina: una rapina subita da un agricoltore-commerciante campidanese ad opera di una piccola banda di pastori del luogo. Il fatto è in sé banale: ma i dettagli contenuti nel fascicolo processuale mostrano, a giudizio di Ruzzu, non solo l’atteggiamento temerario e sprezzante del pastore nei confronti del contadino, giudicato “servo”, “pavido”, “arrendevole” di fronte ai soprusi dei padroni della terra, i suoi veri dominatori, ma proprio uno scontro tra due modi diversissimi di concepire l’attività economica. Da un lato, la realtà contadina, e con essa “il sistema di appropriazione dei beni legato al movimento del denaro, alla possibilità di disporne e di ricavarlo dalle merci”. Dall’altra, il duro mondo pastorale “della montagna”, in cui la destrezza fisica e intellettuale, la forza e l’audacia, “sono la base per valutare le capacità del singolo”[20].
Non bisogna neppure
commettere l’errore di sopravvalutare, come fattore unificante, la
“resistenza” delle culture agro-pastorali sarde nei confronti del
potere esercitato dallo Stato, e della cultura egemonica di cui quel potere era
ed è espressione. E’ certamente vero, come sostiene M. Pira, che
«lo Stato era un’astrazione incomprensibile per un mondo rustico
che per millenni non ne aveva sentito l’esigenza, pago del suo
stato-condizione fondato sull’immobilità, sulla famiglia, sulla
terra, sulla tradizione, sul vecchio, sui vincoli di sangue, sulla
solidarietà personale»[21].
Ma è altrettanto vero che quella immobilità, quel modo di vivere
la terra, la famiglia e le tradizioni trovò nell’Isola forme ed
espressioni diverse, come vedremo, anche sul piano delle norme di diritto
consuetudinario. La tendenza all’attaccamento a codici fortemente
interiorizzati delle culture tradizionali sarde, e la conseguente
ostilità verso il diritto e le istituzioni dello Stato, si possono
dunque presentare con coefficienti diversificati[22].
Se però da un lato è corretto, per evitare generalizzazioni eccessive, condurre studi mirati su realtà locali circoscritte (senza per questo sottovalutare la possibilità anche di un approccio microcomparativo), dall’altro va pur detto che in Sardegna la precisa individuazione delle zone di interesse etnografico sembra tutt’altro che agevole. E’ vero che è possibile riconoscere diverse aree linguistiche (ed è verosimile che la dimensione prevalentemente orale del sardo abbia favorito la frammentazione dialettale attuale), ma va accuratamente evitata la sovrapposizione meccanica tra aree linguistiche e aree culturali. Secondo Cirese
dal punto di vista delle tradizioni che
si dicono “popolari” la Sardegna costituisce, (…), una
“zona conservativa”, e deriva questa sua caratteristica dal fatto
di essere quel che in termini di geografia linguistico-folklorica si chiama
un’area “meno esposta alle comunicazioni”. (…) Del
resto, a smentire ogni pretesa assolutezza sia dell’isolamento che della
conservazione stanno anche le differenziazioni, non soltanto linguistiche,
all’interno stesso della Sardegna. Dall’esterno, infatti, e ad un
accostamento superficiale può sembrare che le tradizioni sarde
costituiscano un corpo indifferenziato da un capo all’altro
dell’isola; ma dall’interno e ad un esame appena un po’
più attento ci si avvede subito che le cose stanno altrimenti. (…)
Purtroppo (…) non si è ancora in grado di riconoscere
nell’isola una partizione in zone etnografiche che abbia lo stesso grado
di precisione raggiunto dalla identificazione delle zone linguistiche.
(…) Perciò, se non si vogliono arbitrariamente istituire tante
aree etnografiche quante sono le variazioni di ogni singolo fenomeno (e
cioè in numero spropositato) occorre riconoscere gruppi concomitanti di
variazioni e comunque spingere l’indagine a livelli soggiacenti.
Naturalmente si hanno casi in cui le differenziazioni sub-regionali affiorano
con immediata evidenza[23].
Quando in Sardegna si fa riferimento alle sub-regioni, si intendono normalmente le regioni storiche dell’Isola – Anglona, Arborea, Barbagia, Baronia, Campidano, Cixerri, Gallura, Goceano, Iglesiente, Logudoro, Mandrolisai, Marghine, Marmilla, Meilogu, Nurra, Ogliastra, Planargia, Romangia, Sarcidano, Sarrabus, Gerrei, Sulcis, Trexenta. Meno agevole è capire se, e fino a che punto, ognuna di queste possa anche costituire un’area linguistica e/o una zona di interesse etnografico. Dal periodo giudicale fino all’età contemporanea (sia pure in misura molto minore), le regioni storiche dell’Isola hanno segnato dei confini non solo geografici e politico-amministrativi ma soprattutto di ordine culturale, facendo registrare appartenenze linguistiche e identitarie a tratti anche fortemente diversificate; ma se si considerano le differenti origini storiche di molte fra queste regioni (alcune risalgono infatti alle suddivisioni amministrative bizantine, altre alle curatorie giudicali-pisane, altre ancora alle investiture feudali della dominazione aragonese-spagnola), si comprendono facilmente le sovrapposizioni e l’incertezza dei confini tra esse. Se da un lato troviamo località che per ragioni storiche, geografiche o culturali fanno senza dubbio parte di una determinata sub-regione (ad es. Aggius in Gallura o Lanusei in Ogliastra), la collocazione di molte altre realtà resta problematica e un eventuale incorporazione può rivestire solo motivazioni di carattere amministrativo.
In assenza di una mappatura precisa e attendibile (lavoro che richiederebbe sforzi notevoli di rilevamenti di dati, con complesse ricerche d’archivio), se si fa riferimento alle regioni storiche sopra elencate, è opportuno perciò non trascurare di evidenziare i casi in cui le identità sub-regionali possono apparire più sfumate, specie se si prendono in esame comunità “di confine”.
Nel presente lavoro ci si concentrerà prevalentemente sulle aree della Gallura e, in prospettiva comparata, su quella barbaricina, cercando di metterne in luce le specificità e, tra queste, gli istituti consuetudinari che di esse sono (o sono state) espressione. Nei suoi studi sulla pratica della vendetta in Barbagia, d’altra parte, Pigliaru insiste proprio sulla specifica identità culturale di quest’ultima (più che della“ società sarda” genericamente intesa), e sottolinea come tra i segni più evidenti di tale specificità e identità vi sia l’ordinamento giuridico che proprio le comunità del centro-Sardegna esprimono. “La società barbaricina ha pertanto un suo ordinamento giuridico” scrive Pigliaru, “è un ordinamento. Ha cioè un proprio sistema di vita organizzata. […] ché una società che non si esprime come ordinamento in forma autonoma ed originale, perderebbe la propria caratterizzazione, la propria individualità ed originalità”.
L’usanza che costituisce l’oggetto principale della presente ricerca (la rasgioni) è invece caratteristica di una diversa regione storica (la Gallura c.d. “degli stazzi”) che, come meglio si avrà modo di precisare, presenta delle peculiarità culturali per molti aspetti differenziate rispetto all’area della Barbagia.
Una volta ipotizzata l’esistenza di diversi ordinamenti consuetudinari in Sardegna, e individuate le ragioni della sopravvivenza di essi fino ad epoca recente (in alcuni casi fino ai giorni nostri), occorre ora esaminarli meglio in alcune fra le loro manifestazioni più rilevanti.
Antonio Pigliaru, nel Marzo del 1966, fu invitato a Vienna dalla
Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research per intervenire ad un
convegno internazionale sul tema “Etnografia del diritto”. Lo
studioso orunese dovette declinare l’invito, a causa delle già gravi
condizioni di salute; inviò però una lettera, nella quale, tra le
altre cose, scrisse: «A mio avviso, la Sardegna offre per
l’antropologia giuridica un campo di indagine di straordinaria
ricchezza»[24].
Tuttavia, nonostante la spinta delle sue ricerche sulla pratica consuetudinaria
della vendetta, non si assistette in questa regione, tanto arretrata sul piano
economico quanto ricca dal punto vista della cultura popolare, ad uno sviluppo
organico e coerente di questo genere di indagini.
Faremo perciò, senza alcuna pretesa di completezza, un rapido cenno a studi che, hanno indagato a fondo gli istituti fondamentali del diritto privato consuetudinario nell’ambito delle comunità tradizionali della Sardegna, tenendo però presente che, se si eccettuano alcune importanti ricerche (prime fra tutte quelle di Antonio Pigliaru), parafrasando quanto scritto da Lombardi Satriani a proposito del panorama italiano della disciplina, si può dire che anche la storia degli studi demologico-giuridici sardi è la “storia di un’assenza”.
Prima di entrare nel vivo dell’analisi degli istituti preposti alla risoluzione dei conflitti ci soffermiamo, aprendo una breve parentesi, sui rapporti giuridici fondamentali. Tra questi ultimi, vanno annoverati anzitutto quei complessi sistemi di norme che, in qualunque cultura svolgiamo la nostra indagine, danno vita alle strutture e alle terminologie della parentela; non è certo casuale il fatto che le prime ricerche antropologiche in questo ambito furono introdotte da studiosi di formazione giuridica[25].
Nell’Isola tale settore di indagine è spesso consistito nella raccolta di dati etnografici sulle forme più o meno ritualizzate delle usanze di fidanzamento, di nozze (abbigliamento, corteo, banchetto, auguri e scongiuri agli sposi) e di corteggiamento[26], nonché la verifica di come le terminologie e le funzioni della parentela e dell’affinità, presso le comunità sarde, stabiliscano «un rapporto con le strutture e le forme dell’organizzazione sociale, a cominciare da quelle produttive agro-pastorali»[27].
Le ricerche, piuttosto numerose, sulla famiglia in Sardegna, a partire dal noto “rapporto” di Luca Pinna sul familiarismo[28] fino agli studi più recenti[29], si sono mostrate tese a mettere in evidenza, sotto un profilo sia sociologico che antropologico, da un lato la definizione dei ruoli parentali della famiglia nelle comunità agro-pastorali, dall’altro i mutamenti che ne sono derivati con le profonde trasformazioni socio-economiche che hanno investito la società sarda negli ultimi decenni. Tali indagini si sono perciò concentrate sulle dinamiche interfamiliari (con un’attenzione particolare alla posizione della donna), sui riflessi di tali dinamiche nel più vasto reticolo dei rapporti comunitari e, infine, sulle vicende anche conflittuali dovute al radicale cambiamento dei modelli culturali di riferimento, tanto per la vita familiare che per quella della comunità.
Un importante contributo in una direzione connotata in senso antropologico viene fornito di recente da Maria Gabriella Da Re[30]. Da questo studio emerge come il sistema della parentela presso le comunità tradizionali possa essere ricompreso tra quelli “bilaterali” o “cognatici”[31]. Secondo l’A. presso le culture della Sardegna agro-pastorale va tenuto conto del rapporto tra strutture della parentela e controllo della terra, elemento, questo, varabile nell’Isola a seconda della zona. Nonostante vi siano dati empirici che suggeriscono un’influenza del regime della proprietà terriera sulle concezioni parentali, il problema, di cruciale importanza, del rapporto tra i due fattori è da considerare ancora in buona parte inesplorato, e necessita di un’indagine approfondita da condurre anche a livello comparativo.
Un altro significativo lavoro di natura etnografica lo si deve a Marinella Carosso, con una inchiesta condotta a Desulo[32], che contiene una analisi approfondita del termine sardo s'arèu, parola di origine catalana che, in rapporto al tema del sangue e della discendenza, mette in rilievo soprattutto i legami di parentela consanguinea fra fratelli e sorelle[33]. Dallo scavo linguistico sul termine la Carosso deriva che i concetti di visione del mondo, appartenenza sociale e identità personale possono essere elaborati a livello individuale attraverso svariate forme culturali di parentela. S'arèu manifesta inoltre un importante collegamento con su connottu (lett. “ciò che è noto”, termine che indica le tradizioni e le consuetudini giuridiche popolari) e con sa sienna (il patrimonio, inteso anche nel senso di azienda familiare), andando così a formare un microcosmo culturale che si traduce in una specifica tipologia cognitiva, esperienziale e giuridica, con la funzione, tra l’altro, di regolare anche il trasferimento dei patrimoni fra generazioni.
Arriviamo così ad un altro settore fondamentale del diritto, relativo appunto alla successione dei beni. Si possono rilevare, fra le varie ricerche socio-antropologiche realizzate sul tema delle strutture familiari, elementi di interesse anche per una ricostruzione dei sistemi di diritto successorio presenti nelle culture orali sarde[34], considerato che, come è noto, esistono relazioni strette non solo tra legami di parentela e istituti successori ma anche, specie nelle società contadine, tra modelli dell’aggregato domestico e strutture economiche (in particolare con la proprietà e la disponibilità della terra)[35].
Secondo M.G. Da Re,
la bilateralità come principio di
strutturazione del sistema parentale trova nel sistema ereditario sardo,
teoricamente basato su un rigido egualitarismo tra eredi, una profonda
corrispondenza morfologica e ideologica. E se è vero che nella pratica
testamentaria i compromessi sono ricorrenti, l’accanita
conflittualità tra eredi che consegue ad ogni atto divisorio non
è solo conseguenza di interessi materiali in gioco, ma anche, talvolta
soprattutto (dato lo scarso valore dei beni), dei valori simbolici e sociali
implicati nella successione. Ciascun individuo in ogni atto di divisione dei
beni e di conseguente appropriazione vede ribadito il proprio status di heres,
la propria appartenenza legittima al gruppo degli eredi, la propria
identità familiare e parentale[36].
Intensa è stata anche la ricerca nell’ambito degli usi popolari concernenti i diritti di proprietà, soprattutto in relazione ai rapporti fondiari, tema che presenta connessioni evidenti sia con la materia dei contratti (in particolare, dei contratti agrari) che col settore della gestione dei conflitti[37].
L’indagine sul rapporto delle comunità tradizionali con la terra è tradizionalmente considerata centrale nella riflessione sociologica e antropologica sul diritto[38]. In rifermimento alla Sardegna, l’attenzione degli studiosi si è prevalentemente concentrata sulle norme consuetudinarie che, soprattutto in una fase storica che attualmente può dirsi pressoché esaurita, regolavano l’uso comunitario del territorio.
L’istituto degli ademprivi, ossia il diritto degli abitanti del villaggio di utilizzare gratuitamente queste zone per il pascolo, il legnatico o altre necessità principali, si sviluppava in un contesto in cui l’economia fondata sulla pastorizia ha sempre prevalso sull’agricoltura[39]. Ogni villaggio nel territorio di propria pertinenza vedeva la terra divisa in vidazzone e in paberile, il primo indicava la zona destinata alla coltura cerealicola, il secondo la zona a riposo annuale destinata al pascolo degli animali domestici. Queste terre erano divise in lotti, ed assegnate a sorte tra i capi famiglia. Con un criterio di rotazione annuale, l’uso del vidazzone veniva alternato con quello del paberile. Vi era però, attorno a queste due aree, anche un territorio periferico di uso pubblico, denominato saltus, costituito da boschi o cespugliati, e destinato al pascolo del bestiame brado e alla soddisfazione dei diritti di ademprivio. Intorno al villaggio vi era quindi un vasto territorio costituito da campi aperti, non recintati, e soprattutto non coltivati, in cui le greggi e le mandrie potevano essere fatte passare.
La nascita di questa forma di gestione della terra in Sardegna viene fatta risalire attorno al XIV sec. In seguito fu imposta dalla dominazione Spagnola nel ‘600, come sistema per risolvere i conflitti fra pastori e contadini. Nel corso del ‘700, però, da un lato coi Savoia comincia a rafforzarsi un orientamento politico-economico contrario alla gestione comunitaria della terra, e propenso invece a promuovere la diffusione della proprietà privata[40], dall’altro inizia ad esplodere il malcontento popolare per il sistema feudale[41]. Il c.d. Editto delle Chiudende arriverà quindi in una fase storica in cui, in Sardegna, tale sistema “ormai sull’orlo del tracollo definitivo, si vedeva completamente esautorato e sostituito dagli apparati statali”[42].
Gli ademprivi sono ufficilamente aboliti nel 1865. Tuttavia non solo nelle zone centrali, ma anche in quelle meridionali dell’Isola si poteva osservare, «ancora fino a una ventina d’anni fa in pieno funzionamento, tutto un sistema complesso di utilizzazione comunitaria del territorio, e di regolazione forzatamente collettiva delle fasi e dei luoghi più importanti del lavoro agricolo, e insieme di quello pastorale»[43].
Il problema della permanenza degli usi civici in Sardegna è stato variamente affrontato: si tratta di un settore in cui le indagini condotte sotto il profilo sociologico e quelle degli etno-antropologi trovano una certa comunanza di intenti, non solo nella scelta delle tematiche generali, ma anche nelle tecniche di rilevazione dei dati.
Sul piano strettamente antropologico sarebbero da approfondire gli aspetti simbolici e rituali legati alla visione “sacralizzata” della terra, riscontrabile in molte società tradizionali. Gli sforzi dei ricercatori si sono concentrati infatti prevalentemente sull’analisi delle dinamiche sociali legate ai rapporti fondiari e sulla ricezione, da parte delle comunità, delle normative vigenti in materia, nonchè sulla loro applicazione concreta (sul punto, emerge con nettezza una larga preferenza accordata tuttora dai pastori a forme di sfruttamento comunitario delle terre attualmente soggette ad uso civico, in alternativa al controllo privato). Certo è che nell’Isola si riscontra una sopravvivenza tenace degli usi civici, a dispetto degli sforzi compiuti dalle amministrazioni dello Stato per combatterli, e nonostante una buona parte degli stessi studiosi del diritto li abbiano spesso bollato come superati o inattuali[44].
Anche in questo settore, tuttavia, sono accertate apprezzabili differenziazioni tra le diverse aree della Sardegna. Vedremo infatti nel prosieguo come le vicende storiche, la particolare conformazione territoriale, e la peculiare organizzazione economico-produttiva caratteristica dello stazzo gallurese consentano di condurre indagini comparate tra la realtà della Gallura e le altre regioni dell’Isola.
In tema di consuetudini legate ai contratti (e in modo particolare contratti agrari) la ricerca è stata piuttosto approfondita e articolata. In particolare Gian Giacomo Ortu sottolinea che «tra il 1821 e il 1851, quando una densa successione di atti legislativi libera l’isola dai lacci dell’ordinamento feudale, i più diffusi patti agrari sardi hanno già una lunga storia»; i modelli più frequenti possono facilmente essere individuati nella sotzaria, o colonia parziaria, in agricoltura e nel contratto in comu, o soccida, nell’allevamento[45].
Le diverse tipologie contrattuali che intercorrono tra proprietari delle greggi e/o dei pascoli mettono in evidenza una realtà complessa e variegata: si va dalle ipotesi in cui il proprietario sia del bestiame che dei pascoli si serve di manodopera salariata a contratto annuale o pluriennale, fino ai casi in cui coloro che dispongono soltanto delle greggi, oltre a concludere contratti di affitto con i proprietari dei terreni, arrivano anche a entrare in rapporti associativi di varia natura[46], che per lo più, tuttavia, trovano origine nel forte squilibrio «tra detentori di mezzi produttivi e monetari e contadini e pastori in cronica penuria di risorse produttive e sussistenziali»[47]. Né sembrano esservi dubbi sulla natura prettamente sinallagmatica di tali rapporti contrattuali perfino quando vestiario, vitto e capi di bestiame costituivano, per i servi pastori, tutta la remunerazione, o quando (ancora fino agli anni cinquanta del secolo scorso) una parte del compenso destinato a servi contadini e pastori era costituita solo dal vitto e dall’alloggio forniti dal padrone, e il resto del compenso erogato in natura, misurato di norma secondo la quantità di grano seminato.
Entriamo quindi nel vasto campo della “tutela dei diritti” (per prendere ancora una volta a prestito una formula estrapolata dalla codificazione giuridica, dunque dal diritto “colto”). La prospettiva antropologica dello studio dei sistemi giuridici di risoluzione dei conflitti presso le culture di tradizione orale riveste particolare importanza anche perchè permette di analizzare procedure consuetudinarie le quali però, a loro volta, applicano altre norme, o principi, sempre di natura consuetudinaria. Ciò equivale a dire che l’importanza di questi istituti non si esaurisce nell’analisi delle norme che ne reggono l’attuazione su un piano meramente procedurale; estendendo l’indagine al merito del conflitto, si possono registrare dati significativi anche sugli istituti “sostanziali” che via via entreranno in causa.
Nell’ambito del diritto “colto” spesso è dato rilevare questo gioco di rimandi e di rinvii dal diritto processuale a quello sostanziale. E’, anzi, soprattutto attraverso l’individuazione delle norme da applicare al caso concreto, che sarà possibile enucleare ciò che si definisce il thema decidendum: si pensi al moderno processo civile e penale, in cui i riferimenti alle norme che devono o meno costituire oggetto di applicazione mettono in risalto i temi essenziali del conflitto in atto. Anche negli istituti che studiamo presso le culture orali, ci troviamo di fronte a norme (consuetudinarie) di natura procedurale che, rimandando a consuetudini di natura sostanziale, costituiscono un’implicita conferma di queste ultime, e ne garantiscono il rafforzamento presso il contesto sociale in cui operano.
Presso le comunità agro-pastorali sarde si riscontra la presenza di più dispositivi giuridici finalizzati a questo scopo. I dati di cui disponiamo su tali sistemi sono però complessivamente esigui, a fronte di un quadro generale piuttosto vario (essendo possibile esaminare istituti diversi tra loro per natura, struttura e diffusione sul territorio dell’Isola).
Se la mancanza di ricerche sistematiche e, di conseguenza, la scarsezza di repertori etnografici sul tema non consentono, al momento attuale, di avventurarsi in tentativi di classificazione sufficientemente attendibili, è però possibile fare alcune considerazioni di ordine generale ricordando anzitutto che accanto a sistemi “violenti” (valga per tutti quello legato alla pratica della vendetta studiato da Antonio Pigliaru in Barbagia), si osserva anche la presenza, molto diffusa fino a pochi decenni fa, di metodi “pacifici”, come quello del ricorso agli arbitrati degli òmines nella Sardegna centrale, o come la rasgioni gallurese.
Separare la trattazione del sistema vendicatorio da quella dei sistemi non violenti è opportuno soprattutto se si considera che ogni dispositivo va contestualizzato in relazione alle diverse fasi, oltre che alla natura e alle cause, del conflitto. Sarebbe sbagliato, infatti, ritenere che nelle comunità del centro-Sardegna il sistema della vendetta fosse in assoluto “privilegiato” rispetto a quelli pacifici, mentre è vero che ogni sistema è improntato a un criterio di adeguamento in rapporto al momento e alle circostanze di ogni specifica situazione di contrasto.
Tali situazioni possono essere molto complesse ed articolate, ad esempio, in una società come quella barbaricina: secondo Bachisio Bandinu si possono rilevare due poli, uno di totale armonia (semus tottu nois, “siamo tutti una sola cosa”) e uno di conflittualità massima (semus in disamistade, “siamo in discordia insanabile”). A livelli “decrescenti” si usano invece le espressioni semus a pirma (“siamo in discordia”), no’ semus (lett. “non siamo”, per dire “non siamo in pace”), no’ nos faeddamus (“non ci parliamo”, la negazione del saluto, che rappresenta il primo stadio del conflitto), semus frittus (“siamo freddi”), semus (“siamo”, non c’è una relazione di confidenza ma neppure ragioni di contrasto), nos trattamus (“ci intratteniamo, ci frequentiamo”), semus costrintos (“siamo legati”, nel senso di amicizia o parentela), infine semus tottu nois, per indicare la pienezza della pace, lo scambio dei doni, un informarsi costante sulle condizioni di salute, una frequentazione quotidiana[48].
Va però precisato che questa “scala decrescente di conflittualità” messa in luce da Bandinu si può osservare sempre nel quadro del rapporto tra famiglie, poiché nelle comunità tradizionali sarde è la famiglia l’istituzione-cardine (il riferimento d’obbligo è a Michelangelo Pira, per cui il rapporto tra famiglie può anzi essere considerato quasi un rapporto tra “Stati sovrani”). Questo vale in particolare nelle ipotesi di escalation del conflitto, quando si assiste a una degenerazione di esso che dà luogo a ritorsioni, a vendette o a faide. Verranno però presi in esame (specie con riferimento alla realtà gallurese) casi in cui il meccanismo consuetudinario è predisposto dalle norme delle comunità anche per la regolazione dei conflitti interindividuali.
Molti tra questi elementi di riflessione sono rintracciabili, seppure in maniera a volte solo implicita, anche nelle indagini barbaricine di Antonio Pigliaru, al quale faremo ora riferimento. Andremo poi ad esaminare altri due importanti lavori, svolti anch’essi in ambito barbaricino, relativi ad una pratica consuetudinaria nota come “andare a òmines” che si configura come sistema di risoluzione pacifica dei conflitti, e che si presenta alla nostra attenzione come istituto più affine al sistema della rasgioni gallurese che alla vendetta.
Sono passati ormai molti anni dagli studi di Antonio Pigliaru sulla pratica della vendetta presso le comunità del centro-Sardegna. A tutt’oggi, il lavoro realizzato alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso dallo studioso orunese sulla “vendetta barbaricina come ordinamento giuridico” rappresenta lo studio più completo, analitico e documentato sul tema degli istituti di tradizione orale presso le comunità agro-pastorali sarde[49]. E’ questo, d’altra parte, il lavoro per cui l’Autore è universalmente noto, e riconosciuto come pioniere di quella che Renato Treves definì “sociologia empirica del diritto”, se non come uno degli esponenti più importanti di una vera e propria antropologia giuridica ad indirizzo demologico particolarmente audace e innovativa.
Il tema della pluralità degli ordinamenti giuridici, nella prima metà del ‘900, era stato affrontato da Santi Romano e Capograssi sotto un profilo “speculativo”, ma (come già abbiamo ricordato) prima di Pigliaru nessuno, perlomeno in Italia, si era posto il problema di sottoporre a una verifica pratica tale questione, con riferimento cioè ad una realtà sociale concreta[50]. Senza contare che molte delle tematiche da lui affrontate, in particolare sotto i profili della modernizzazione e acculturazione giuridica, sono di notevole importanza, e nel seguito andranno trattate anche a proposito del fenomeno della rasgioni.
Rivolgendo l’attenzione verso la pratica della vendetta presso le comunità tradizionali sarde, si pone però un problema di inquadramento generale; bisogna cioè spiegare, sia pure brevemente, in quali termini anche la vendetta – persino la vendetta, verrebbe da dire – venga generalmente inclusa dagli antropologi fra i “sistema di risoluzione dei conflitti” [51].
E’, in primo luogo, pacifico che possano aversi meccanismi di composizione delle dispute anche in assenza di un organo “terzo” che dirima la questione. Si pensi alla negoziazione diretta tra le parti, detta anche negoziazione bilaterale, in cui la regolazione del conflitto avviene non solo senza l’intervento di un’autorità in vario modo riconducibile alla figura del giudice, ma anche senza la partecipazione di quel soggetto terzo (da non confondere però con l’autorità giurisdizionale) che si individua ad esempio nel mediatore[52]. In quanto forma pacifica di risoluzione dei conflitti, il sistema della negoziazione bilaterale (tipicamente “non giurisdizionale”), se si configura come un meccanismo in qualche modo opposto rispetto alla vendetta, ha in comune con quest’ultima perlomeno un aspetto: si presenta cioè come ipotesi di gestione del conflitto sulla base del permanere di un rapporto diadico. Inoltre, la negoziazione bilaterale è presente, sia pure in misura diversa, presso tutte le società e tutte le culture (presenta qualche somiglianza con essa l’istituto barbaricino detto accaramentu). Né va trascurata l’eventualità che essa possa vedere, come sbocco finale della controversia, una transazione[53].
In secondo luogo, è
ormai del tutto superata la convinzione, radicata nel pensiero evoluzionista,
che la vendetta sia un sistema legato esclusivamente alle culture
“barbare e primitive”. Sono ormai numerose, infatti, le ricerche
effettuate non solo su fenomeni di vendetta presso culture determinate, ma
anche sul sistema vendicatorio come istituto generale, e sui complessi ed
elaborati meccanismi che ne reggono l’attuazione, nonché sulla sua
accertata presenza tanto nelle società tradizionali quanto in quelle
moderne[54].
Dai dati etnografici ricavati dai contesti più disparati si evince
nettamente non solo una vasta diffusione transculturale di questo sistema, ma
anche, come elemento costante, l’esistenza di norme non scritte che, nel
regolamentarne la pratica secondi principi di gradualità,
proporzionalità e ragionevolezza, smentiscono in radice l’idea di
una vendetta “smisurata” e priva di controllo[55].
Questa pratica viene quindi considerata “sistema di risoluzione dei
conflitti” in quanto “sistema di regolarità sociale”,
cioè di certezza nei rapporti
giuridici, e conforme alle aspettative
tanto dei singoli quanto della comunità nel suo complesso.
Arrivando alla Sardegna, ricordiamo le tesi di fondo sviluppate da Pigliaru, e le riassumiamo in estrema sintesi: la pratica della vendetta in Barbagia è da considerare una consuetudine giuridica, o, per usare un’espressione cara a Gurvitch e a Bobbio (autori da Pigliaru spesso citati), un fatto normativo, capace cioè di generare comportamenti percepiti come doverosi da parte di ciascun membro di quella comunità[56]. Il titolare del dovere della vendetta verrebbe così a configurarsi come una sorta di “organo” della comunità stessa. In definitiva l’istituto esprimerebbe l’esistenza di un vero e proprio ordinamento giuridico, dando luogo a un contrasto, non solo potenziale ma effettivo (cioè rilevabile storicamente) fra tale ordinamento – o, per essere più precisi, tra alcune sue manifestazioni – e quello dello Stato.
Dall’analisi delle norme consuetudinarie individuate da Pigliaru (e da lui raccolte, come è noto, in forma di codice), è possibile fare alcune considerazioni generali sui percorsi involutivi delle diverse vicende conflittuali che sfociano in atti di violenza.
Vi è anzitutto una minuta elencazione dei fatti capaci di innescare il meccanismo delle ritorsioni a catena: centrale a questo proposito è il concetto di offesa, intesa come lesione della dignità e onorabilità. Se il danno economico, fuori da ipotesi specificamente individuate, non può considerarsi offesa, sono invece da ascrivere a questa categoria, tra gli altri, il passaggio provocatorio in un terreno chiuso, in presenza di una situazione pregressa di conflitto, l’ingiuria, la diffamazione e la calunnia (con attribuzione di fatti determinati), la rottura ingiustificata di una promessa di matrimonio, la delazione e la falsa testimonianza, infine l’offesa del sangue. A margine di questo inventario di situazioni, che sembrano delineare l’esigenza primaria di aderire a un generale principio di lealtà nei rapporti interpersonali (per Pigliaru infatti l’ordinamento di quelle comunità è lo «sviluppo giuridico di un sistema etico»), va però precisato che, come ricorda Bachisio Bandinu, quella barbaricina è una società «a bassa soglia di sicurezza, in cui il conflitto può esplodere all’improvviso, senza segni che lo preannuncino, una cultura del sospetto, del rischio di fraintendimento»[57]: va quindi tenuto conto anche della possibilità che il conflitto sorga per atteggiamenti non palesi, ma ritenuti implicitamente offensivi.
E’ stata spesso sottolineata la forte componente di ritualità che impronta questo istituto consuetudinario: sono cioè operanti nel tessuto comunitario norme dal carattere rigidamente prescrittivo, che legittimano l’atto vendicatorio stabilendone i presupposti, e individuandone i soggetti attivi e passivi, nonché forme e modalità di esecuzione[58].
Si evince in modo chiaro, inoltre, che nonostante il principio per cui “La vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva”, il dovere di metterla in atto (“se non ti vendichi, non sei un uomo”) è un fattore che inevitabilmente spinge verso una radicalizzazione dello scontro. Un chiaro esempio in questo senso si ha con il fenomeno della interazione a tempo differito, per cui la sequenza di ritorsioni si dipana nel tempo, coinvolgendo non più solo individui, ma interi gruppi sociali a base parentale, fenomeno che secondo alcuni fa sì che la vendetta degeneri in faida. Anche la vendetta legittimamente esercitata, infatti, attribuisce al gruppo parentale che la subisce il diritto ad un ulteriore atto vendicatorio.
Negli anni successivi alla morte di Pigliaru, ci si è posto, in alcune indagini, il problema di verificare nell’attualità non solo il permanere di questa pratica, ma il suo configurarsi ancora come “fatto di interesse pubblico” per la comunità, e la sua rispondenza ai criteri sopra ricordati, in particolare quelli di non arbitrarietà e ponderatezza dell’atto vendicatorio.
La già citata ricerca interdisciplinare curata da Roberto Cipriani, realizzata nella seconda metà degli anni ’80 presso la comunità barbaricina di Orune[59], ha messo bene in evidenza come la persistenza delle strutture economiche di matrice agro-pastorale trovi ancora oggi una rispondenza, sul piano culturale, con episodi riconducibili alla logica delle pratiche ‘arcaiche’ descritte da Pigliaru.
Il fenomeno, tuttavia, ha conosciuto in Sardegna una
diffusione non circoscritta alla sola area barbaricina. Anche la regione della Gallura è stata durevolmente
insanguinata da ripetuti episodi di violenza legati a lunghe faide, nelle loro
dinamiche essenziali non diverse da quelle verificatesi in Barbagia, e anche
qui in alcuni casi tanto intollerabilmente gravose per le comunità
coinvolte da condurre queste ultime (e le istituzioni) a celebrare pubblicamente
le paci, per sancire la
fine delle ostilità tra le due famiglie in lotta. Gli ultimi episodi di
questo tipo in Gallura risalgono però alla seconda metà
dell’Ottocento.
Sul tema della vendetta in questa area della Sardegna non disponiamo di trattazioni scientifiche organiche, come quella che dobbiamo a Pigliaru per la Barbagia. Vi sono tuttavia numerose testimonianze, contenute per lo più in opere storiche, letterarie e poetiche. E’ utile riportare anzitutto, fra le più risalenti, quella riportata nel Dizionario Storico Sardo di Angius/Casalis, che ci dà una descrizione delle modalità attraverso le quali le vendette, degenerate in faide, erano attuate in Gallura:
Il più comune fu la vendetta
principalmente per ingiuria all’onore. In altri tempi facilmente
formavansi grosse fazioni, chè i consanguinei e gli amici correvano
subito all’offesa o alla difesa, fervevano ostinate guerre, fremevano
frequenti battaglie, accadevano sanguinose stragi, poi si stabilivano tregue,
si patteggiavano paci solenni: (…) L’altra colpa più
frequente era il furto; di che furono accusati gli agiesi [abitanti del paese di Aggius, ndc] finchè
non si rivolsero agli esercizi agrarii, e molto più i lurisinchi [abitanti del paese di Luras, ndc], i
quali accompagnati da cani feroci soleano alla luna cavalcare, e soventi in
Padulu, a far caccia di vacche. (...)
Raccoltesi, come si è detto
sopra, intorno a due avversari le rispettive genti si cominciano le
ostilità, vanno a cercarsi in campagna, si tendono insidie, si
affrontano, e si battono se gli animi e le forze siano eguali, o uno fa le
parti di offensore e l’altro veglia a star nelle difese. Sono piccole
guerre, e in esse hanno luogo tutti gli incidenti, che veggonsi nelle
contestazioni degli stati[60].
Lo studioso gallurese Silla Lissia, autore di un attento e puntuale saggio sulle specificità storico-sociali della Gallura, nel descrivere il “temperamento dei galluresi” fornisce anche alcune indicazioni utili a inquadrare il fenomeno in questa regione:
Il sentimento
della vendetta è così profondamente radicato nell’animo
della popolazione gallurese, che sopraffa ogni altro sentimento e ne determina
la condotta morale. La vendetta è
personale e famigliare. Quest’ ultima è rimasta come una
sopravvivenza dell’antica costituzione gentile, per cui tutta una gente
era tenuta a vendicare le offese portate contro qualcuno dei suoi membri. Ed il
gallurese vendica personalmente le offese fatte al suo individuo
sull’offensore: ma quando egli per una ragione qualunque non può
da se compiere la sua vendetta, la compiono gli altri della sua famiglia, del
suo parentado; e quando la vendetta non può cadere sull’offensore,
ricade su qualche altro della famiglia di lui. Generalmente però dalle
conseguenze della vendetta famigliare sono escluse le donne ed i bambini: ed
è reputata opera vile e disonorante far cadere la vendetta su di un
essere debole, quale è la donna od il bambino[61].
Tra le numerose faide che ebbero come teatro la Gallura, la più celebre fu quella che, tra il 1850 e il 1856, nel comune di Aggius vide contrapposte le famiglie Vasa e Mamia, e che fu originata da una questione d’onore. La vicenda è nota grazie al romanzo Il Muto di Gallura, opera dello scrittore sassarese Enrico Costa (1841-1909)[62], e può essere così sintetizzata. Con una cerimonia pubblica fu celebrato il fidanzamento ufficiale di Mariangela Mamia con Pietro Vasa. A seguito del rifiuto di quest’ultimo di fare pace con la famiglia Pileri, imparentata coi Mamia, vi fu la rottura del fidanzamento e la restituzione dei doni. Iniziò così una lunga serie di attentati, omicidi e rappresaglie, e le due famiglie furono decimate. In particolare, l’uccisione di Michele Mamia, giovanissimo fratello di Mariangela, fu attribuita al Sebastiano Tansu Addis, nato ad Aggius nell'ottobre 1827, cugino di Pietro Vasa e soprannominato Il Muto per via dell’handicap del linguaggio da cui era afflitto. Questa uccisione contribuì ad alimentare in tutta la Gallura la sua fama di assassino spietato, nonostante la sua responsabilità per questo specifico delitto non fu mai acclarata con certezza. La lunga catena di delitti culminò in un agguato che ebbe luogo il 24 giugno 1855, in cui venti sicari eliminarono uno dei due capi-fazione, l’anziano Antonpietro Mamia. Dopo un periodo di ulteriore recrudescenza, terminò il 26 maggio 1856 con la cerimonia pubblica della pace, strumento estremo di risoluzione del conflitto che la comunità si riserva per interrompere una spirale di violenza inarrestabile, nel momento in cui non è più in grado di sostenerne i costi umani e sociali. Il Dizionario di Angius/Casalis riporta il racconto di una di queste paci celebrate in Gallura:
Dopo le pratiche fatte o per gli probi uomini o per qualche
ecclesiastico rispettabile, composte le differenze e pattuito per
gl’interessi, si concerta sul luogo e l’ora della riconciliazione.
Spesso questa solennità usasi fare nell’aperta campagna presso
qualche cappella, accadendo che alcuni tra gli intervenuti diffidino della
giustizia. Dunque nel giorno stabilito muovonsi le due parti con tutta intera
la parentela e gli amici, e giungendo presso il luogo indicato fermansi in
certa distanza gli uni dagli altri, osservandosi molto cauti come se poco si fidino,
taciti e foschi come se siano alieni da ogni pensiero di pace. Gli arbitri o
paceri compariscono in mezzo, e da questa passano nell’altra parte per
vedere non sia nata alcuna novità, o si vacilli nelle prese
deliberazioni, e dove sia sorvenuta qualche difficoltà studiasi
sollecitamente ad appianarla, sì che questi e quelli vadano
all’amplesso della fraternità… Ecco il sacerdote. Al vedere
in sue mani il crocifisso si abbassano e depongono le arme, si sberrettano le
teste, e la parte dell’offeso alla destra, quella dell’offensore
alla sinistra, si muovono e avvicinano. Sale l’uom sacro sopra un sasso e
ragiona sulla carità fraterna, sul precetto del perdono, propone
l’esempio di Cristo che prega pe’ suoi carnefici, dimostra la
necessità di riparare il mal fatto, e parla su di altri argomenti
relativi, terminando con una affettuosissima esortazione. Dopo la quale
discende, e ripigliata la croce chiama gli offensori… Grande spettacolo
delle passioni quando le due fazioni da una e dall’altra parte si avvicinano
al sacerdote. Gli occhi scintillano, si scolorano le faccie, suonano i fremiti
d’ira, strida di dolore, da uomini, da donne, da fanciulli, da vecchi,
che veggonsi incontro gli uccisori de’figli, de’ padri, degli
sposi. Alle parole evangeliche si suscitano nelle anime sentimenti migliori,
(…) Presto la tetraggine delle fonti si rischiara, le minacciose
sovraciglie si abbassano, cade lo sguardo, prorompono i sospiri, grondano le
lacrime; e la scena di ferocia e di orrore si cambia in una scena di pietà
e tenerezza. La commozione è in sua massima forza quando gli offensori
dal bacio del Cristo volgonsi agli offesi e presentansi a chiedere il perdono.
Essi che in sul principio posti incontro ai nemici li riguardavano con un
feroce orgoglio, or impallidiscono, e a lento passo, e quasi vergognosi di se
stessi, vanno al principal offeso. (…) Egli apre le braccia, e
accogliendo in seno il suo nemico, e pronunciando – Dio ti perdoni,
dà il bacio della pace. E gliel danno successivamente gli altri del
partito, e lui e i suoi con tenere parole accettano alla amicizia. Le femmine
che finora avean temuto pe’ loro diletti, ai nuovi sentimenti piangono
consolate e dan grazia a Dio: ma quelle che han ferito il core, se si astengono
dalle usate imprecazioni urlan però inconsolabili invocando i loro cari
che stan sotterra. La letizia comune non lampeggia né un istante su
quelle fronti, e le anime tenere involte nella oscurità del dolore
continuano a gemere. Compiti questi doveri si mescolano tutti ad un cautissimo
convito. (…) A stabilir vie più fortemente la pace i capi delle
due parti propongono matrimonii, e alcune giovinette ricevon la fede da taluni
che comincian allora ad amare, altre dan la mano a quelli, dà quali
furono amate: talvolta i padri si impegnano pe’ loro piccoli figli, e
molti danno e ricevono parole di comparesimo. In questo scoppiano le pistole e
gli archibugi, lanciando innocente il piombo in aria, si balla, si canta, ed
è sparsa in tutta la più bella gioja: se non che in disparte qua
e là fra le macchie, o all’ombra degli alberi, restano solitarie e
sospirano alcune donne sconsolate. Fattisi finalmente scambievoli doni si separano con le più belle
testimonianze di amicizia rivolgendosi chi al paese e chi alle capanne.
Paci cosiffatte sogliono essere perpetue, e con tutta la fede se ne osservano i
patti. A questi aggiungesi comunemente la danza, che dicon di sangue, per cui
la persona più potente e autorevole della parte degli offensori si
obbliga con giuramento d’impedire o punire le ingiurie, che alcuno di sua
parte tentasse o inferisse. Se egli non nol faccia, concede che gli offesi si
vendichino sopra lui[63].
E’ evidente che si tratta di un cerimoniale complesso, articolato in diverse fasi[64], e che si mostra particolarmente degno di interesse poiché attesta la compenetrazione reciproca tra ordinamenti: quello popolare-consuetudinario, quello dello Stato e quello ecclesiastico.
La fase preparatoria consiste nel trovare un accordo sulla conclusione stessa della faida. Decisivo a questo scopo, per l’Angius-Casalis, risulta l’intervento e la mediazione di “probi uomini” o di “qualche ecclesiastico rispettabile” fra le due fazioni. La ricostruzione dell’Angius-Casalis fa riferimento infatti alla necessità di un accordo preliminare sull’oggetto del contendere (composte le differenze e pattuito per li interessi)[65] e all’attività degli arbitri o pacieri (i quali poco prima che abbia ufficialmente inizio il rito, verificano non sia nata alcuna novità, o si vacilli nelle prese deliberazioni” e, qualora sia sorto qualche contrasto imprevisto fra le due fazioni,“studiasi sollecitamente ad appianarla”).
Ciò
trova riscontro nella narrazione del Costa, secondo la quale nella faida
Vasa-Mamia furono necessari diversi passaggi, che si svilupparono in un arco di
tempo piuttosto ampio: l’incertezza sull’effettivo raggiungimento
dell’accordo rimase infatti fino al giorno della celebrazione della pace.
Il primo intervento fu dell’intendente di Tempio, Angelo Conte il quale,
pur garantendo un salvacondotto per i soggetti
coinvolti, dovette scontrarsi con la pervicace
posizione negativa di Pietro Vasa, uno dei due capi-fazione. Il secondo intervento si deve al Rettore
d’Aggius, Leonardo Sechi, che invece riuscì a sortire esiti
positivi. Ancora E. Costa:
Egli era
molto amato in paese, e godeva a buon diritto la fiducia generale; era stato
lui che aveva favorito la cerimonia dell’abbraccio, lui ch’era
stato fra gli arbitri nelle diverse questioni sorte fra i Vasa e i Mamia; lui
infine, a cui i due partiti avevano fatto le più segrete confidenze. Di
comune accordo colle persone più sagge ed influenti del paese, e col
concorso di Raimundu Orrù (intendente di Tempio, succeduto al Conte) il
Rettore riuscì a persuadere le due fazioni dei Vasa e dei Mamia a
riconciliarsi. I principali capi delle due famiglie nemiche si recarono a
Tempio muniti di salvacondotto, e furono presi i necessari accordi per la
cerimonia delle paci. E ciò avvalora le parole rivolte dal Re Carlo
Alberto al Padre Bresciani: valere, cioè in Sardegna, più una
dozzina di buoni missionari, che dieci reggimenti di soldati[66].
La seconda fase della cerimonia riveste un carattere più marcatamente religioso e a sua volta si articola in tre momenti: rito di introduzione (adorazione della croce), omelia (sul perdono), rito di riconciliazione (bacio del crocifisso e bacio dell’avversario). Sembra trattarsi di un rituale fisso, con gesti e studiati, non lasciati all’estemporaneità del momento: sono rigorosamente stabilite la disposizione delle due fazioni (che devono tenersi a debita distanza), a destra della croce la parte dell’offeso e a sinistra quella dell’offensore, con l’apparizione del sacerdote e l’ostensione della croce, si procede a disarmare e a far riavvicinare fisicamente le due fazioni. Seguono l’omelia del sacerdote, il bacio della croce, la richiesta di perdono, l’abbraccio, e il bacio pronunciando la formula “Deu ti paldonia” (“Dio ti perdoni”):
Sopra un
palco costruito per la circostanza, sormontato da un gran crocifisso, era il
ministro della chiesa, il Padre Carboni, frate scolopino, venuto appositamente
da Sassari. Da una parte e dall’altra, divise in due schiere, a dieci
passi di distanza, erano due lunghe file di avversari: a destra del frate i
coniugi del Vasa, con a capo Pietro, a sinistra quelli del Mamia, guidati da
Michele Pileri. Il frate cominciò a voce alta la sua predica, esortando
quei feroci alla pace ed al perdono, in nome di Cristo. Terminato il sermone,
le due schiere si slanciarono l’una verso l’altra, ed offesi ed
offesori si baciarono sulla guancia. Narra la cronaca, che fra le schiere ci
fosse un fanciullo ostinato, che non voleva baciare sul viso alcuno degli
avversari, e non fu che dopo mille preghiere ed esortazioni che si decise ad
accostare la bocca alle guance del nemico di suo padre. Quest’incidente
turbò alquanto la cerimonia, ma fu cosa di un momento[67].
Il ruolo della Chiesa si dimostrava perciò centrale in occasione delle paci: si giustifica così l’affermazione del Costa, per cui “ Ciò che non potè il Governo, lo poté infine la religione”[68]. Francesco Cossu, cultore di tradizioni sarde, in un saggio ha sostenuto la tesi per cui l’azione pacificatrice e civilizzatrice della Chiesa abba contribuito ad estirpare il banditismo e la violenza in Gallura molto più che “gli editti, i pregoni ed altri simili provvedimenti emanati per il regno di Sardegna, dopo che l’isola passò sotto la dominazione della casa reale di Savoia”, o le “leggi civili e criminali per il regno di Sardegna emanate da Carlo Felice e poi raccolte e pubblicate da Carlo Alberto il 16 gennaio 1827”[69]. Secondo il Cossu, si può anzi affermare che è anche grazie all’azione missionaria della Chiesa (con il suo contributo attivo nella promozione e celebrazione delle paci) che è stato possibile far diventare la Gallura, «uno dei centri del banditismo (…), ormai da molti decenni una delle zone più tranquille e pacifiche dell’isola»[70].
E’ importante sottolineare infine come la cerimonia delle paci si concludesse con un momento conviviale (il“lautissimo convito”), che si conferma come uno degli elementi costitutivi di molti rituali di conciliazione (come vedremo, di rilevante importanza anche per l’istituto della rasgioni): si partecipava al banchetto, infatti, secondo Angius-Casalis, «come se sia interamente abolita la memoria delle cose passate».
Anche i momenti che caratterizzano questa ultima fase (il pranzo, il canto e il ballo, lo sparo a salve, lo scambio dei doni, il commiato), sono peraltro tutti elementi dotati di potente carica simbolica.
Si arriva alla celebrazione con le armi,
è un esigenza fondamentale, la faida non è ancora terminata, si
ha costantemente paura di una rappresaglia. Non si depongono subito, si aspetta
che la celebrazione abbia inizio. Lo si fa in un momento ben preciso:
l’elevazione della croce. Si riprendono in mano dopo il banchetto, ma
solo per far festa. Gli stessi fucili che avevano ucciso decine di famigliari
diventano inoffensivi. La forza del rito sta proprio nel riuscire a trasformare
uno strumento di morte in strumento di gioia. Anche la danza, ha un importante
funzione simbolica. In Sardegna infatti i vari balli di gruppo prevedono un
momento di unione in cerchio. Capitava così che i vari membri delle
fazioni contrapposte si “legavano” tra di loro attraverso la danza,
ricostituendo idealmente l’unione comunitaria spezzata dal circolo
vendicativo[71].
Presso le culture sarde di tradizione orale, tuttavia, il panorama dei metodi consuetudinari di risoluzione delle controversie è, come si è detto, piuttosto vario ed articolato; ci troviamo infatti di fronte a forme molteplici, non soltanto espressione diretta di retaggi plurisecolari, ma frutto di elaborazioni culturali locali che adattano ogni sistema a specifiche tipologie e fasi della vicenda conflittuale.
Abbiamo visto come anche gli episodi violenti legati al susseguirsi delle vendette abbiano trovato in Sardegna una conclusione concordata tra le parti, col fenomeno delle paci. Va precisato che se pure nell’Isola permangono, specie in area barbaricina, strascichi attuali di faide radicate nei decenni, l’istituto delle paci si colloca in una fase storica che può dirsi ormai esaurita.
Bisogna però concentrare l’attenzione anche verso le forme pacifiche di gestione delle controversie che intervenivano prima che il conflitto degenerasse in ragion fattasi, senza ricorrere dunque nè all'uso della forza, né a una decisione vincolante emessa dall'autorità dello Stato. Sarà così possibile individuare la linea di confine (a seconda dei casi più netta o più sfumata) tra i caratteri della giuridicità popolare-consuetudinaria e quelli del diritto formale-ufficiale, e l’eventuale meccanismo di interazioni che scaturisce dall’incontro tra i due ordinamenti.
A Pigliaru non sfuggiva
affatto che il fenomeno della vendetta andasse considerato solo parte di
un sistema più complesso. «Il codice della vendetta – scrive
l’A. – non rappresenta che un momento di tutto un ordine giuridico
che non si esaurisce in esso e che, se mai, in esso ha l’organizzazione
della sua propria tutela». Presso la cultura barbaricina, o meglio
nell’ordinamento giuridico che da essa promana, in cui essa si esprime,
questo “codice” sarebbe quindi demandato a svolgere le funzioni di
un apparato normativo di diritto e procedura penale.
Nel già
citato art. 18 del “codice” barbaricino della vendetta, Pigliaru
definisce “vendetta prudente” «un’azione offensiva
posta in essere dopo la conseguita certezza circa la esistenza della
responsabilità dolosa dell’agente, e successivamente al fallito
tentativo di pacifica composizione della vertenza in atto, ove le circostanze
della offesa originaria rendano ciò possibile». Affermazione,
quest’ultima, di particolare interesse riguardo all’oggetto della
nostra ricerca, poiché mostra come Pigliaru fosse ben a conoscenza del
fatto che le comunità barbaricine praticassero anche forme non
violente e non ritorsive
di risoluzione dei conflitti, da considerare dunque parti integranti di
quell’ordinamento.
Pigliaru parla, infatti, del «rapporto costante della pratica della vendetta con un sistema normativo originario del quale essa non esprime che un atteggiamento, un momento. (…) Nel suo complesso questo ordinamento giuridico è ancora da studiare, sistematicamente e in tutte le sue componenti particolari, ma già nel corso delle ricognizioni effettuate per la rilevazione (….) delle norme regolanti la pratica della vendetta, la sua presenza è continuamente risultata accertata»[72].
L’esistenza,
documentata presso le comunità barbaricine, di forme di risoluzione
delle dispute pur sempre regolate dalle consuetudini locali ma, a differenza
del fenomeno della vendetta, non foriere di fratture insanabili, né
nelle relazioni interpersonali, nè rispetto all’ordinamento dello
Stato, sembra confermare l’impostazione teorica pluralistica per cui,
oltre alla possibilità del contrasto
tra ordinamenti giuridici, va anche verificata l’eventualità che
tali ordinamenti possano tra loro integrarsi,
oppure reciprocamente ignorarsi.
Le indagini di Pigliaru, per le ragioni che abbiamo illustrato, erano concentrate sulle situazioni di scontro irriducibile e radicale tra ordinamento dello Stato e ordinamento autoctono. Nella sua opera i mezzi pacifici di risoluzione dei conflitti nella società tradizionale barbaricina non sono oggetto di riflessione e di approfondimento, ma è precisato come, in specifiche situazioni, il dovere della vendetta non escludesse affatto il ricorso a forme “bonarie” di soluzione della controversia. E’ vero che non chiarisce quale di questi meccanismi fosse esperibile; tuttavia, si è probabilmente prossimi al vero dando per implicito che il filosofo orunese intendesse riferirsi alle procedure note come s’accaramentu (incontro vis à vis tra i due protagonisti di una vicenda conflittuale, allo scopo di chiarire i termini della questione)[73], s’abbonamentu (un incontro tra due pastori, con eventuale nomina di un terzo in veste di perito, ad es. per la quantificazione di un danno subito da uno dei due a seguito dello sconfinamento del gregge nel terreno dell’altro, o in occasione di furto di bestiame)[74] e soprattutto l’andare a òmines[75]. Quest’ultima è un’usanza ora quasi scomparsa ma molto diffusa fino a pochi decenni fa nell’area centrale dell’Isola, e individuata anche nel corso di indagini condotte da altri studiosi sul campo.
La consuetudine barbaricina consistente nell’affrontare e risolvere le controversie rivolgendosi a degli “arbitri” (verificheremo in seguito se e fino a che punto tale procedura possa essere ricondotta a un arbitrato in senso tecnico), chiamati appunto “sos òmines”, viene descritta sommariamente da Michelangelo Pira. L’antropologo bittese parla infatti dell’utilizzo di questa forma di “arbitrato”, descrivendolo tuttavia come una extrema ratio, forse una sorta di “ultimo gradino” prima del ricorso alla vendetta: secondo Pira ci si rimetteva cioè alla decisione degli “uomini” solo dopo un primo incontro, senza esito, tra le parti interessate e quando il litigio aveva già assunto il carattere di una grave inimicizia tra famiglie. Solo a questo punto, riferisce Pira, poteva aver luogo il deferimento della controversia agli “arbitri”, che erano solitamente tre; i contendenti ne nominavano due – uno per parte, i quali a loro volta nominavano il terzo (detto “su ‘e tres”). La decisione emanata dal collegio, investito delle ragioni del conflitto, veniva generalmente accettata e rispettata. «Ancora oggi – scriveva Pira nel 1962 – non sono rari i casi in cui le liti civili definite dalla Magistratura Statale con insoddisfazione delle parti vengono successivamente affidate a questi giudici rustici e risolte in termini così appropriati da suscitare non solo il consenso ma addirittura la riconciliazione delle parti»[76].
Anche Gonario Pinna, noto avvocato penalista nuorese, autore di una produzione memorialistica piuttosto ricca, racconta quanto da lui appreso sull’utilizzo, in area barbaricina, di questo sistema di risoluzione dei conflitti.
Pinna ci descrive la forma più semplice e comune di un arbitrato “irrituale”, ovvero la nomina dei tres òmines (lett. “tre uomini”), ossia tre arbitri nominati dalle parti, uno per ciascuna, e il terzo (“su terzeri”), «nominato dai due arbitri come persona conosciuta per la sua indipendenza e obiettività»[77]. Pinna, tuttavia, non precisa da quali fonti le informazioni in suo possesso vengano attinte: le sue testimonianze, ad ogni modo, nella penuria di studi approfonditi sul tema risultano preziose, oltre che per la ricostruzione dell’istituto barbaricino di cui stiamo trattando, anche, come vedremo in seguito[78], per una analisi comparata della cultura barbaricina e di quella gallurese nel loro rispettivo relazionarsi con la giustizia “ufficiale”.
Negli scritti di M. Pira e G. Pinna troviamo però solo indicazioni frammentarie su questo fenomeno. Ben più approfondite e pregnanti sono le analisi che scaturiscono da due differenti ricerche condotte in Barbagia all’incirca nello stesso periodo (prima metà degli anni ’80), una da Michelina Masia, l’altra da Marinella Carosso. La prima è stata condotta presso la comunità di Gavoi, la seconda presso quella di Desulo[79]. Gli unici studi che si sono concentrati in modo specifico e approfondito su queste forme autoctone di risoluzione pacifica dei conflitti, perciò, sono ancora una volta relativi a comunità “dell’interno”, e, se lasciano nell’ombra istituti in qualche modo analoghi, osservabili presso altre realtà dell’Isola, sono però relativi a fenomeni che presentano alcune analogie con la rasgioni gallurese.
Confrontare questi due lavori (piuttosto differenti tra loro) è utile inoltre per confermare la comunanza di intenti, di tematiche (e, sia pure solo in parte, di tecniche di indagine seguite) tra le tendenze più recenti della sociologia del diritto e dell’antropologia giuridica. Anche sulla base delle considerazioni che verranno svolte con riferimento a questi due studi, apparirà sufficientemente chiaro come sia sempre meno sostenibile un “riparto di competenze” tra le due materie basato unicamente sulla distinzione tra società tradizionali e moderne.
Il primo dei due lavori (in ordine di tempo) si deve a Michelina Masia e documenta una ricerca condotta presso la comunità di Gavoi, paese in provincia di Nuoro, collocato geograficamente nel cuore della Barbagia tradizionale[80]. L’importanza di questo studio risiede anche nel fatto che si tratta di un segmento di una ricerca interculturale di più vasto respiro, svolta contemporaneamente in tredici diverse nazioni sul tema Law and Dispute treatment.
Prima di addentrarci nella materia trattata da questo saggio, vanno fatte però alcune considerazioni generali circa i presupposti teorici e i metodi seguiti nell’inchiesta, che è stata condotta, nella rilevazione e soprattutto nell’analisi dei dati, con criteri scientifici di matrice sociologica.
Va anzitutto sottolineato che l’ipotesi da cui muove l’indagine è che in realtà sociali chiuse e fortemente conservative come quelle del centro-Sardegna la tendenza prevalente per la risoluzione dei conflitti è quella di affidarsi a procedure di matrice consuetudinaria piuttosto che ai sistemi offerti dal diritto statale. Da questo punto di vista, la scelta di svolgere l’indagine a Gavoi non è casuale: il paese barbaricino era infatti sede di una Pretura. Ciò permetteva al ricercatore di formulare conclusioni attendibili circa le motivazioni della scelta del ricorso alle vie consuetudinarie, piuttosto che a quelle ufficiali, posto che queste ultime, nel caso di specie, non risultavano particolarmente disagevoli.
La caratteristica della ricerca condotta dalla Masia è stata dunque quella di partire da una prospettiva “localistica” o “comunitaria”: l’intento esplicito era trovare una verifica empirica all’assunto di base per cui “il grado di integrazione sociale sia da annoverare tra i fattori più decisamente influenti nella scelta del meccanismo giuridico di composizione delle dispute”[81]. Tentare un tale tipo di indagine presso le comunità del centro Sardegna, significava evidentemente addentrarsi in un contesto sociale ad economia soprattutto pastorale, «in cui le relazioni individuali sono stabili e modellate secondo regole consuetudinarie fortemente interiorizzate»[82].
Sul piano del metodo, è opportuno rilevare che l’A. si è avvalsa tanto delle forme classiche dell’indagine etnografica, basata per lo più sull’osservazione diretta e sulle testimonianze raccolte con interviste “a campione” sulla popolazione del paese[83], quanto della ricerca d’archivio, con la consultazione di un certo numero di sentenze pretorili, e con una successiva sistemazione di tipo statistico dei dati relativi ai casi giudiziari trattati dall’organo dello Stato.
Le testimonianze sul campo sono state raccolte attraverso il metodo delle interviste libere non strutturate[84], che hanno coinvolto non soltanto gli uomini del paese esperti in questa pratica consuetudinaria, ma anche operatori del diritto “ufficiale” (tra cui, precisa l’A. anche alcuni funzionari di Polizia). Per la raccolta di questi dati, L’A. ha vissuto ad alterni periodi presso la comunità, con una esperienza di carattere sostanzialmente etnografico, da lei stessa definita “semipartecipante”, avvalendosi anche della collaborazione di persone conosciute sul posto per verifiche e/o chiarimenti su quanto appreso nel corso delle rilevazioni[85].
L’antropologa Marinella Carosso ha invece realizzato uno studio[86] sull’istituto degli omines presso la comunità di Desulo, paese che si trova nella Barbagia di Belvì, area tra le più tradizionali e “conservative” dell’Isola[87]. Anche in questo caso si è trattato di una lunga ricerca condotta in loco, soprattutto attraverso interviste, rivolte principalmente agli “omines”, i protagonisti di questa pratica consuetudinaria. La Carosso si muove su un terreno di indagine strettamente antropologico, in particolare puntando sulla ricognizione delle genealogie degli arbitri, su una approfondita ricostruzione storica del fenomeno (con richiami al più generale fenomeno dei boni homines presente anche in altre regioni d’Italia), nonché sui suoi aspetti simbolici. Gli interrogativi a cui si cerca di rispondere in questo saggio sono essenzialmente i seguenti: «chi sono e a quali famiglie appartengono gli arbitri? Come è avvenuto l’apprendimento del loro sapere? Perché sono stati indotti o hanno scelto di fare gli arbitri?». Inoltre si indaga sul funzionamento “procedurale” di tale pratica e ci si interroga su quali siano i «rapporti tra l’arbitrato e il potere, l’arbitrato e la stratificazione economica, l’arbitrato e il prestigio, (…) in una società dove i rapporto con il potere si rivela particolarmente complesso»[88].
In entrambe le ricerche si fanno alcune ipotesi sulle origini storiche di questa pratica consuetudinaria. La Carosso, in particolare, evidenzia come fenomeni analoghi all’andare a òmines (e, come vedremo, analoghi anche alla rasgioni gallurese) siano presenti in tutta l’area mediterranea, tanto in Corsica quanto in Andalusia, in Calabria e in area balcanica., sottolineando come la diffusione di questi istituti consuetudinari sia stata analizzata molto più dal punto di vista storico che seguendo itinerari etnologico-comparativi. Particolarmente interessanti, sul punto, anche le osservazioni di M. Masia, che si sofferma in maniera approfondita sugli studi di carattere storiografico su questo fenomeno, e annota come si possa trovare traccia dell’attività degli omines già in antichi ordinamenti sardi, risalenti all’epoca medievale.
La lettura dei due saggi sembra così rafforzare la tesi per cui, fra le tante possibili origini di una consuetudine, una sia da ricercare nella sopravvivenza di istituti del diritto ufficiale, i quali, se pure vengono superati da nuove norme, nonostante ciò continuano ad essere praticati correntemente negli strati subalterni del tessuto sociale, specie nel settore della risoluzione dei conflitti. La Carosso sostiene infatti che l’arbitrato si è conservato in Sardegna sul modello dell’ordinamento della Carta de Logu, «facendo fronte ai diversi governi che hanno retto l’Isola dal XV secolo ai giorni nostri, resistendo quindi ai passaggi dalla consuetudine orale all’ordinamento giuridico scritto e di nuovo, infine, alla consuetudine»[89].
E’ stato già indagato, peraltro, il rapporto tra la sopravvivenza di arbitrati popolari come quelli di cui ci stiamo occupando e le figure dei boni homines, caratteristiche dell’ordinamento della Sardegna giudicale[90]. La loro presenza nell’organo giudiziario sardo medievale della Corona è un tema trattato in maniera esauriente da Enrico Besta, che sottolinea lo “spiccato carattere popolare” di questa forma di amministrazione della giustizia[91]. Sappiamo tuttavia che una volta venuto meno l’ordinamento giuridico della Carta de Logu[92], non per questo le figure dei boni homines scompaiono; è quindi verosimile che la loro presenza fino a tempi recentissimi[93], e di conseguenza la loro “trasformazione”, dallo status di giudici affiancati allo iudex publicus a quello di arbitri privati, possa costituire uno di quei casi di istituti giuridici che, inizialmente regolati anche da norme scritte, pur se poi ufficialmente abrogati, continuano ad esistere come diritto vivente, a livello consuetudinario.
Ci sono però altri aspetti dei due lavori che vale la pena sottolineare; il significato della parola omines nell’accezione barbaricina, ad esempio, è di particolare importanza, considerato che incontreremo un termine analogo (“omini”) anche nella rasgioni praticata in Gallura. Per M. Masia sos omines vuol dire “un certo tipo di uomini”, «secondo un significato più prossimo al latino vir che al latino homo, da cui sembra discendere la parola sarda. E’ quel certo tipo di uomo che può fare giustizia (la sua giustizia) e dirimere una controversia». Nella sua ricerca sulla comunità di Gavoi, la Masia riporta inoltre alcuni brani di interviste riguardanti il significato del termine omini nell’accezione che qui ci interessa, legata cioè alla risoluzione delle controversie. «Perché hanno la capacità di farlo e sanno di poterlo fare». «L’arbitro (l’omu) è un uomo giusto … non è una professione ma una qualità» [94].
Anche M. Carosso precisa il significato della parola òmini distinguendo opportunamente la figura dell’omine da quella del balente. Se infatti la balentia, nel suo uso corrente in area barbaricina è sinonimo di spavalderia, di coraggio (e anche, spesso, di aggressività)[95], altre sono evidentemente le capacità richieste a chi è chiamato a risolvere le controversie. Nelle testimonianze raccolte da M. Carosso presso gli “arbitri” della comunità di Desulo, non si rileva infatti nessun riferimento alla forza fisica. «òmine è colui che fa il giusto»; «òmine nel senso di persona valida che ragiona»; “Ci vuole buon senso, bisogna partire da una buona coscienza, essere una brava persona che non fa male a nessuno”. «E’ un uomo onesto, di coscienza, in tutte le faccende della sua vita, anche privata; non dice bugie, non tradisce i segreti»; «Si dicono òmines perché sono competenti, regolari, non imbrogliano, hanno coscienza»[96].
Secondo quanto riportato anche da M. Pira il termine òmines sottintenderebbe infatti òmines de cussenzia, (letteralmente uomini di coscienza, uomini giusti); “e in quanto omines de cussenzia, erano omines in assoluto”. Anche Pira chiarisce il senso e la portata della parola òmine: “Si tende superficialmente a identificare questi omines con i printzipales, i capiclientela, i moderni notabili, ma (…) si tratta di figure molto diverse. La ragione del prestigio degli omines è tutta morale, de cussenzia appunto, mentre la posizione del printzipale-notabile è eminente per ragioni di censo e di prossimità al potere politico, di partecipazione al suo esercizio. (…) La forza del printzipale, è forza politica o economica, quella degli omines de cussenzia era forza morale”[97].
Soffermiamoci ora brevemente sulla natura delle controversie sottoposte al giudizio degli òmines presso le due comunità barbaricine, e sulle procedure decisionali seguite; sarà interessante sviluppare, nell’ultima parte di questo studio, alcune considerazioni sul grado di interazione/integrazione tra ordinamento locale e ordinamento Statale così come emerge dalle due inchieste – anche per verificare e discutere le affermazioni di Pigliaru circa l’esperienza che del processo “colto” fa il pastore barbaricino, e per mettere a confronto sotto questo profilo gli istituti consuetudinari barbaricini con quelli galluresi[98].
La Masia sottolinea che a Gavoi la maggiore conflittualità in tema di proprietà si spiega poiché essa «fa da sfondo ad altri tipi di controversie, anche se d’altro oggetto giuridico: il lavoro a mezzadria, l’affitto di pascolo. Direttamente attinenti alla proprietà sono ovviamente controversie di servitù e confini»[99]. Per M. Carosso alcune fra le liti più frequenti presso la comunità di Desulo riguardano appunto gli sconfinamenti di bestiame nel pascolo, quasi sempre dolosi, con conseguente necessità di interpellare un “arbitro” in veste di perito per una quantificazione del danno, che può essere risarcito tanto in merce che in denaro[100].
Altri motivi di conflitto riguardano l’utilizzo delle acque e, soprattutto, la divisione dei beni. Fino a poco meno di vent’anni or sono, la più gran parte delle divisioni avveniva oralmente. Tale pratica è suddivisa, precisa la Carosso, in tre fasi: perizia, stima e divisione. Va sottolineato come sia nel lavoro su Desulo che in quello su Gavoi venga fatta una descrizione molto precisa sulle consuetudini “sostanziali” in tema di diritto successorio, su cui non possiamo qui dilungarci e a cui rinviamo.
E’ invece importante illustrare le modalità procedurali seguite dagli òmines barbaricini. M. Masia riferisce che, nel diritto consuetudinario osservato dalla comunità di Gavoi, va fatta una distinzione tra una prima ipotesi in cui l’”arbitro” sia uno solo, scelto di comune accordo tra i due contendenti (che si recheranno entrambi a casa sua per sottoporgli la questione), e una seconda in cui gli arbitri sono più di uno. In quest’ultimo caso si è in presenza di una controversia più radicata, e gli òmines «si incontreranno dopo aver ciascuno sentito la parte che rappresenta. E’ interessante riferire che non è la parte ad informare l’altra di aver scelto un arbitro, ma è l’arbitro stesso che, recandosi dalla controparte, verrà informato del nome dell’altro arbitro»[101].
Vi è poi una fase che si può definire “istruttoria”, in cui gli òmines insieme chiedono informazioni ai vicini o ai parenti che possono riferire elementi utili alla decisione, e consultano i documenti scritti eventualmente esibiti dalle parti. Esaurita la fase dell’istruzione probatoria, i due arbitri discutono tra loro per trovare una soluzione alla controversia. Se la decisione si mostra particolarmente impervia, essi possono, anche senza il necessario assenso delle parti contendenti, nominarne un terzo, s’òmine ‘e mesu (l’uomo di mezzo). La decisione, che può anche essere presa per iscritto, a seconda del maggiore o minore grado di fiducia reciproca, è normalmente inappellabile e, osserva M. Masia, «ben difficilmente un arbitro sarà disposto o a riesaminare una questione per lui già chiusa o a rivedere una decisione resa da un altro arbitro»[102].
Anche a Desulo le procedure possibili sono diverse a seconda della partecipazione di uno o due arbitri e a seconda della presenza o meno dell’òmine ‘e mesu che però, secondo quanto riferito a M. Carosso dai suoi informatori, può essere nominato, in mancanza di accordo, anche dal sindaco del paese o dal pretore. Inoltre la Carosso riporta testimonianze relative a casi di arbitrati che vedevano coinvolti non tre arbitri, ma addirittura cinque, in casi particolarmente gravi, come gli omicidi. Qui ciascuna parte ne nomina due, e il quinto sarà nominato dai quattro arbitri, o dall’autorità dello Stato. A Desulo gli òmines si riuniscono preferibilmente in campagna, ma la fase istruttoria può durare due settimane o, se necessario, un mese. Questo è il termine che ogni arbitro prende per sentire testimoni e raccogliere prove dopo aver conferito col proprio “assistito”. In seguito vi è una fase di discussione che però coinvolge sia gli arbitri che le parti in causa, prima che gli òmines si ritirino per la loro deliberazione conclusiva. Se sono in tre, riferisce M. Carosso, l’òmine ‘ e mesu ha l’ultima parola.
Va fatto ora qualche cenno alla pratica del giuramento, presente presso entrambe le comunità barbaricine, così come ci viene raccontata nei due studi. (Anche questo aspetto sarà poi oggetto di comparazione con quanto emerso dalla ricerca da noi svolta in Gallura). A Desulo il giuramento non è elemento necessario dell’arbitrato, ma solo eventuale; riguarda i casi più gravi, come omicidi e furti, non può essere rifiutato da colui al quale viene deferito ed è praticato anche al di fuori della procedura degli òmines. E’ circondato da un’aura di leggenda e comporta un rituale segreto; non può essere compiuto, infatti, all’interno dello spazio abitato.
Vi sono, fuori del paese, dei luoghi in cui tale pratica può essere esperita. Sia a Desulo che a Gavoi il giuramento era compiuto sulla reliquia di un santo locale, su un crocifisso contenente una reliquia, su una medaglia raffigurante un’effigie sacra, oppure su un pezzo di pane o di nastro (del tipo usato per confezionare il vestito tradizionale), o su un portafoglio. “Si giurava sul crocifisso e la reliquia avvolti in un pezzo di stoffa. Per rendere il rituale più spettacolare e nello stesso tempo per conferirgli un carattere sacro, si disponevano due o quattro candele accese intorno al crocifisso. Si giurava mettendo la mano destra sulla reliquia”[103].
Mentre a Desulo, però, sono entrambi gli òmines a chiedere a una delle due parti di giurare, a Gavoi la consuetudine contempla solo l’ipotesi del giuramento deferito dall’arbitro alla parte da lui rappresentata, come una forma di cautela «sia per la veridicità di quanto afferma, sia per la futura adesione a quanto verrà deciso»[104]. In entrambi i casi, tuttavia, normalmente il giuramento viene “imposto” a quella parte che si ritiene meno propensa a giurare il falso, e comunque sembra che «la qualità morale della parte sia l’elemento che induce gli arbitri a far giurare»[105].
E’ giusto, infine, fare alcune riflessioni sul fatto che in entrambe le ricerche l’istituto degli òmines viene classificato senza esitazione sub specie “arbitrato”. Tale qualificazione appare giustificata, e porta a qualche riflessione su come la procedura che viene attualmente definita in senso tecnico “arbitrato”, così come viene praticata nel diritto delle società c.d. “evolute”, sia in larga misura radicata nel diritto consuetudinario. Non v’è dubbio, infatti, che le ragioni che portano (o portavano) i membri di quelle comunità agro-pastorali a gestire i loro conflitti attraverso i sistemi descritti dalle due ricercatrici siano le stesse che troviamo ora alla base degli arbitrati conclusi tra datori di lavoro e dipendenti, o tra grandi gruppi commerciali: esigenze di celerità, di competenza dei membri dell’organo deliberante su questioni molto specifiche, di minore dispendiosità, e naturalmente di riservatezza[106].
Va soprattutto tenuto conto, infatti, della necessità, fortemente avvertita presso le comunità barbaricine, che le cose avvengano “con discrezione”, cioè in privato. Ma nonostante rimanga ferma la convinzione che una controversia, un conflitto, attengono alla sfera individuale, il bisogno di privatezza sembra investire anche la comunità nel suo complesso. Sia a Desulo che a Gavoi infatti assume importanza decisiva il “vincolo comunitario” dell’appartenenza, l’importanza cioè che l’arbitro sia di quello stesso paese; intendiamo qui sottolineare questo aspetto per rinviare a quella parte successiva del lavoro in cui andranno messe in luce, anche sotto questo aspetto, le differenze rispetto agli istituti consuetudinari della Gallura; vedremo infatti come la qualifica di “arbitrato” è certamente più giustificata in questa procedura barbaricina appena descritta, piuttosto che in quella gallurese della rasgioni[107].
Possiamo perciò a questo punto concentrare l’attenzione proprio su questo fenomeno, che testimonia la presenza in Sardegna di una forma di alterità giuridica non in conflitto con l’ordinamento dello Stato, e che presenta analogie, ma anche alcune differenze rimarchevoli, rispetto alla consuetudine degli òmines barbaricini. Ci proponiamo di fornire così un contributo che possa aggiungere un piccolo tassello al variegato panorama degli ordinamenti giuridici di tradizione orale, e che trovi ulteriore conferma all’ipotesi antropologica del diritto come «arte che opera alla luce della conoscenza locale»[108].
[1] Per qualunque studio storico, etnologico e linguistico della Sardegna Medievale, quindi, una lettura analitica della Carta si rende certamente necessaria. Si veda l’importante contributo di I. Birocchi, A. Mattone (a cura di) La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medioevale e moderno, Laterza, Bari, 2004. Per una ricostruzione degli istituti di provenienza romanistica v. F. Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d'Arborea, Giappichelli, Torino, 1997.
[2] Col termine Giudicati
in Sardegna intendiamo entità statuali autonome, che mantennero il potere fra
il IX
ed il XV secolo.
Si trattò di realtà alquanto differenti
rispetto alla forma feudale vigente nell'Europa medievale. I quattro giudicati
fondevano infatti le tradizioni autoctone (consistenti in istituti
consuetudinari presumibilmente derivati dalla civiltà nuragica) con
istituti giuridici romano-bizantini. Il governo del re-giudice era basato su un
patto con il popolo (cosiddetto "bannus-consensus"). Il venir meno di tale patto poteva
portare non soltanto alla detronizzazione del sovrano ma persino alla sua uccisione legittima da parte del popolo.
[3] La Carta de Logu continua ad essere considerata uno degli statuti
più innovativi del Trecento. Uno
dei suoi elementi di maggiore interesse è
costituito dalla presenza tanto di “norme di condotta” quanto di
“norme di struttura”, che andavano a disegnare i profili di un
ordinamento giuridico organico e coerente. Per la presenza di concetti e
principi di portata generale, la Carta è stata da alcuni ricondotta alla
materia del diritto costituzionale, mentre la
disciplina di diversi settori della vita civile, con la previsione di norme
anche di carattere penale, era tratta in parte dagli usi locali, in parte dalla
legislazione
in uso nella Sardegna dei primi secoli del millennio, costituita
prevalentemente da regolamenti edittali. La carta è ancora oggi ritenuta
un documento di grande attualità:
disciplina infatti istituti che rispondono a “beni giuridici” come
la tutela della donna,
la difesa del territorio, la repressione dell'usura, l'esigenza di
certezza nei rapporti sociali.
[4] M. Contini, Lingua sarda e dialetti sardi, in M. Brigaglia (a cura di), La Sardegna. Enciclopedia, Della Torre, Cagliari, 1982, 3, 181.
[5] Cfr. G. Catani e C. Ferrante, Un antico istituto del diritto criminale sardo:
l’«incarica», in I. Birocchi, A. Mattone (a cura di) La Carta de Logu d’Arborea, cit,
385 ss.
[6] A. Mattone, «Leggi patrie» e consolidazione del diritto nella Sardegna sabauda, in I. Birocchi e A. Mattone (a cura di), Il diritto patrio. Tra diritto comune e codificazione, Viella Roma, 2006, 507 ss.
[8] L’anacronistico regime feudale ed ecclesiastico sottraeva alla possibilità d’intervento dello Stato i 9/10 della proprietà terriera. Queste forze, entrambe responsabili dello stato di arretratezza economica e sociale della Sardegna, si opponevano perciò all’introduzione degli istituti dell’ordinamento sabaudo, specie in materia fiscale e di politica dell’agricoltura. La crisi irreversibile del sistema feudale in Sardegna porterà all’emanazione dell’Editto delle chiudende (v. infra). Cfr. G. Sotgiu, Alle origini della questione sarda, Cagliari, Fossataro, 1968, p. 13 ss. , che tuttavia si sofferma ampiamente e criticamente sulla politica agricola dei Savoia in Sardegna, una politica tesa a cancellare, insieme coi privilegi feudali ed ecclesiastici, anche gli usi comunitari delle terre delle comunità agro-pastorali. Sul punto v. anche L. Bulferetti, L’eredità piemontese, in M. Brigaglia (a cura di) Sardegna. Enciclopedia, 3, cit. 42 ss.
[9] E’ assai noto l’episodio, riportato da La Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, ILLISSO, Nuoro, 1997 (ed. or. 1860) del Sindaco di Alà dei Sardi, che, ancora nel 1803, minacciava di rivolgersi “al re di Spagna” per dirimere una controversia in cui si vedeva coinvolto.
[10] I sardi ancora oggi si riferiscono spesso alla realtà italiana fuori dall’Isola usando questo termine.
[11] Cfr. La Nuova Sardegna, 15 dicembre 2004: Un’isola che non sa più leggere e scrivere, il 40% dei sardi è semianalfabeta, il 70% ha difficoltà a comprendere un articolo di giornale. Dopo quasi sessanta anni l’analfabetismo in Sardegna non è stato ancora sconfitto. (…). A lanciare l’allarme è il presidente nazionale dell’Unla (Unione Nazionale per la Lotta all’Analfabetismo) Saverio Avveduto, docente all’università La Sapienza di Roma, che ha presentato a Sassari i risultati di una ricerca svolta in tutta Italia. Dati preoccupanti. La Sardegna, con Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria e Campania è tra le sei regioni a rischio analfabetismo. «Tre anni dopo il censimento del 2001 l’Istat non ha ancora diffuso i dati sul livello di istruzione in Italia - afferma Avveduto -. Esiste una parte della popolazione che non è capace di leggere e scrivere. Ma il vero pericolo sono quelli che io definisco “alfabeti”, persone che non sono in grado di comprendere e riassumere l’articolo di un quotidiano, di capire l’estratto conto della banca che arriva a casa. In cinque anni anche chi ha una laurea subisce il processo di analfabetismo di ritorno. Un problema che riguarda i due terzi dei cittadini».
[13] Intervista a
Bachisio Bandinu, in S. Corrias, Tramas
de amistade. Riflessioni e opinioni di un
antropologo sulla realtà della Sardegna e su alcune trasformazioni
dell’identità della sua gente, in http://web.tiscali.it/janpalach/BANDINU.htm
[14] In questo senso M. Brigaglia, Il senso della giustizia nella società tradizionale sarda, in www.cassaforense.it/Files/pdf/ChiaLaguna/15_09/_M_Brigaglia_.pdf
[15] Quella di “zona di interesse etnografico (o di “area culturale”) è ad ogni modo una nozione complessa, che può essere adottata tenendo come punti di riferimento parametri anche molto diversi tra loro (fattori geografici, sociali, economici, linguistici). Cfr. E. Comba, “area culturale” in U. Fabietti e F. Remotti (a cura di) Dizionario di antropologia, Zanichelli, Bologna, 2000, 67: «I problemi più significativi sorgono: a) nella definizione dei confini di una determinata a.c. (dove precisamente inizia una certa area e dove finisce un’altra?); b) nell’identificazione delle somiglianze culturali (quanto devono essere simili due culture per essere attribuite alla stessa a.c.?); infine c) nell’articolazione con la dimensione temporale (per quale periodo è valida l’identificazione di un’a.c. e quanto incide il fattore tempo nella modificazione dei suoi confini?). Queste difficoltà possono essere in parte superate se si tiene conto del grado inevitabile di arbitrarietà che un concetto come quello di a.c. comporta; esso costituisce uno strumento di organizzazione dei dati e di orientamento generale, che non può nascondere la complessità delle variazioni culturali e delle connessioni rintracciabili tra culture diverse nello spazio e nel tempo».
[17] A. Fadda, Il comportamento giuridico dei sardi tra stereotipi e mutazione culturale, in M. Lelli (a cura di) Diritto di proprietà diritto penale e percezione del diritto in Sardegna, cit. 28-29.
[18] G. Angioni, La cultura tradizionale, cit., in M. Brigaglia (a cura di) Enciclopiedia della Sardegna, 7.
[19] A. Ruzzu, La casacca del re, Edizioni ETS, Pisa - Iniziative culturali, Sassari, 1999, 73 ss. Si tratta di un’indagine sui fascicoli processuali dell’epoca, condotta con un approccio scientifico di taglio sia storico che antropologico-giuridico, in particolare laddove si concentra efficacemente sul rapporto tra l’ordinamento statale postunitario e gli ordinamenti locali.
[20] Tali caratteristiche sono osservabili nel modello culturale che solitamente si riconduce al concetto di balentìa. Sul punto, v. infra, cap. 1.3.2. e 4.3.
[22] Va quindi probabilmente rivisitato crtiticamente anche il riferimento alla categoria delle “società fredde”, utilizzato da Michelangelo Pira per definire, in generale, tutte le comunità tradizionali della Sardegna. Cfr. M. Pira, La rivolta dell’oggetto, cit., 270 ss. Pira si rifà evidentemente alla nota distinzione, elaborata a livello teorico soprattutto da Levi-Strauss, tra società calde, legate al progresso storico e disposte a sacrificare la propria saldezza, e ad accettare disequilibri e scompensi, pur di restarvi agganciate, e società fredde che, «preoccupate della propria continuità e stabilità, cercano di mantenere la propria struttura, sforzandosi di resistere all’inevitabile divenire storico». C R. Malighetti, Società fredde/società calde, in Dizionario di antropologia, cit., 692. Riguardo al superamento di questa dicotomia v. però C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1986, Introduzione, XIV.
[23] A. M. Cirese, Considerazioni sul mondo tradizionale sardo, in BRADS, 1968-71, n.3, p.5 ss.
[24] Il testo integrale della lettera può essere letto nel saggio di L.Lombardi Satriani, L’orizzonte giuridico folklorico e l’isolamento teoretico di Antonio Pigliaru, in Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, 4-5-6, 1979, 87 s.
[25] La natura spiccatamente giuridica delle norme sociali poste a fondamento delle terminologie e delle strutture che regolano le relazioni di parentela, i rapporti matrimoniali e gli istituti dello scioglimento del matrimonio e della filiazione, è messa in luce con efficacia dagli studi di N. Rouland, Antropologia giuridica, cit, 205 ss. e L. Scillitani, Dimensioni della giuridicità nell’antropologia strutturale di Levi-Strauss, Milano, Giuffrè, 1994. Scillitani, in particolare, nel ricostruire i profili di pertinenza giuridica ricavabili dalle elaborazioni teoriche dell’antropologo francese, si sofferma sulle proprietà invarianti della famiglia come “entità sociale trans-culturale”. Tra queste, anzitutto l’origine della famiglia, che presso tutte le culture si individua nell’istituto del matrimonio; inoltre «l’unità tra i membri della famiglia, assicurata in primo luogo da legami di natura giuridica. (…) Esiste dunque una giuridicità istitutiva, che istituisce la famiglia; non solo, ma è una giuridicità tale da strutturare la famiglia in quanto luogo di legami». Si può affermare, perciò, con Scillitani, che anche nell’antropologia strutturale di Levi-Strauss, è possibile «identificare come giuridica la regola che definisce la parentela, che distingue diritti ed obblighi a seconda delle linee – materna o paterna – della parentela».
[26] M. Pira, La rivolta dell’oggetto, cit., 274 ss., sulla scorta dell’antropologia strutturale di Levi-Strauss, offre alcuni elementi utili (cui si rinvia) per una analisi più approfondita sui cambiamenti, intervenuti presso le culture tradizionali sarde, nelle strutture elementari della parentela.
[27] Per G. Angioni, ivi, la questione essenziale, sul punto, consiste nel tentare di stabilire «se le forme di appropriazione degli oggetti, degli strumenti e della forza di lavoro siano prima di tutto e soprattutto forme di parentela e di affinità» e se queste ultime siano anche «il luogo e la struttura portante e dominante i rapporti giuridici e politici all’interno e all’esterno dei singoli paesi». Pur nella esiguità di ricerche approfondite sull’argomento, lo studioso cagliaritano ritiene di poter affermare, tuttavia, che i rapporti di lavoro, le forme di proprietà, numerosi istituti comunitari «sembrano veramente funzionare in modo relativamente autonomo dai rapporti e delle strutture di parentela, anche se questi, evidentemente, non potevano non giocare un loro ruolo, soprattutto in villaggi di piccole dimensioni. Ma d’altro canto, fenomeni di proporzioni vistose, come una forte endogamia di ceto tra proprietari terrieri o armentari di grossa o di media taglia, sembrano dirla lunga sulla prevalenza delle necessità dell’impresa economica rispetto alla pura logica dei rapporti di parentela di sangue e di affinità».
[28] Apparso nel 1961 sulla rivista Ichnusa, fondata da Antonio Pigliaru, il saggio di Luca Pinna (Un’ipotesi antropologica per la conoscenza della Sardegna , in Ichnusa, 1961, IX, 1, 17 ss.) è in realtà un sunto della “Relazione sui risultati della prima fase della ricerca sociologica connessa all’attuazione del piano di Rinascita della Sardegna”. Una prima conclusione cui il Pinna perviene è che il nucleo familiare sardo può essere definito come nucleo di “unione biologica”, essendo portato a «configurarsi limitato ai soli rapporti che possono intercorrere tra i due coniugi e tra questi e i loro figli», non essendo riscontrabile quel tipo di famiglia patriarcale presente invece in altre regioni italiane. La tendenza all’autosufficienza e all’autonomia di tale forme di nucleo familiare si manifesterebbe, secondo Pinna, attraverso la consuetudine di attribuire la dote ai figli maschi. L’ipotesi che riassume la tesi di fondo dell’A. è che “l’esclusivismo familiare”, per cui «i sardi manifestano il loro spirito di collaborazione esclusivamente nell’ambito familiare, escludendo contemporaneamente che possa manifestarsi fuori di esso», porta ad accettare solo forme di cooperazione non giuridicamente istituzionalizzate. Pinna rileva, inoltre, come in tali dinamiche i fattori regressivi prevalgano su quelli propulsivi, e come gli stessi alti livelli di analfabetismo siano dovuti «non soltanto a quella causa che è la miseria o le condizioni economiche disagiate in genere, ma anche ad una opposizione interna all’istruzione, che si manifesta nella stessa dinamica dei rapporti familiari come un fattore di tensione e di conflitto e quindi come una minaccia della stessa unità affettivo-emotiva ed economica della famiglia».
[29] Su questo punto, importanti spunti di riflessione ci vengono da P.G. Solinas, Forme di famiglia, Ricerche per un atlante italiano, "La Ricerca Folklorica" n. 25 – aprile (parte prima), n. 27, dic. (parte seconda). 1992-1993. V. anche i saggi di R. Cipriani, Il ruolo della famiglia nella comunità, 171 ss. e di M. Mansi, Penelope in Barbagia. Donna ,famiglia e comunità, 180 ss. – contenuti in Cipriani (a cura di) La lunga catena. Comunità e conflitto in Barbagia, Franco Angeli, Milano, 1988.
[30] M. G. Da Re, Essere parenti in Sardegna, in G. Angioni (a cura di), Pratiche e saperi, Saggi di antropologia, CUEC, Cagliari, 2003, 83 ss.
[32] M. Carosso, La genealogia muta. Risonanze intorno alla trasmissione in Sardegna, Collana "Chemins de l'Ethnologie", Coedizione CNRS Editions e Editions de la MSH, Parigi, 2006. Parte dei risultati di questa inchiesta, attinenti al tema della risoluzione comunitaria dei conflitti, è confluita in un saggio di cui si parlerà nel par. successivo.
[33] Per il Wagner, DES (Dizionario etimologico sardo), ILISSO, Nuoro, 2008 (ed, or. 1960-62), 334, il termine eréu (o arèu), oltre a quello di erede, assume anche il significato di ‘stirpe’ o ‘famiglia’.
[34] Alcune indicazioni utili in questo senso si possono però trovare nel saggio sopra ricordato di Luca Pinna, cit., 38 ss.
[35] Vanno al riguardo segnalate le ricerche di chi, come Benedetto Meloni, ha approfondito i modi attraverso i quali le forme di allocazione e sfruttamento delle risorse, nelle comunità tradizionali, incidono sulla struttura familiare e sui suoi modelli comportamentali. B. Meloni, Economia familiare e regolazione sociale dell’economia in centro-Sardegna, in A. Oppo (a cura di), Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale, La Tarantola, Cagliari, 1990, 55 ss. Si veda poi L.K. Berkner, F.F. Mendels, Sistemi di eredità, struttura familiare, e modelli demografici in Europa, in M. Barbagli (a cura di) Famiglia e mutamento sociale, Il Mulino, Bologna, 1977, 216-234. Una conferma in questo senso ci viene data anche dallo studio, di cui ci occuperemo più diffusamente nel prosieguo, di Marinella Carosso,“Parola da uomo”: sulla pratica dell’arbitrato in un paese sardo. Un contributo etnologico, in Annali della Fondazione L.Einaudi, XIX, 1985, 365. E vedi anche M. Margherita Satta, Struttura familiare e modello di trasmissione dell’eredità, in Donne e società in Sardegna – Eredità e mutamento, Iniziative culturali, Sassari, 1989, con riferimento alla Sardegna dei secoli XVI-XVIII.
[37] Cfr. M. Masia, Usi civici e conflitto perpetuo. Una ricerca pilota in un comune simbolico della Sardegna, in Sociologia del diritto, 3, 1997, e Il controllo sull’uso della terra: analisi socio giuridica sugli usi civici in Sardegna, Cagliari, CUEC, 1992.
[38] Secondo V. Ferrari, Reazione e pratica sociale in tema di usi civici. Osservazioni sociologico-giuridiche, in Sociologia del diritto, 1, 1983, p. 61 ss. in questa tematica «quasi si confondono l’analisi giuridica pura e l’analisi delle relazioni tra diritto e altri settori della vita sociale. (…) Possiamo infatti affrontarla sia per studiare, in rapporto tra loro, modelli generali di società e modelli generali di diritto, sia per studiare intensivamente gli effetti sociali ed economici di un particolare provvedimento legislativo».
[39] Cfr. J. Day, Caratteri della Storia economica della Sardegna medievale e moderna, in M. Brigaglia, (a cura di), La Sardegna. Enciclopedia, 3, cit., 93 ss.
[40] Emblematica di tale orientamento viene usualmente ritenuta l’opera del gesuita piemontese Francesco Gemelli, Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, Torino, Briolo, 1776, 2 voll.
[41] I villaggi, con una serie di rivolte, iniziano a rifiutarsi di pagare i tributi dovuti ai feudatari. Tra il 1793 e il 1796 Giomaria Angioy guida la lotta al feudalesimo promuovendo la “Sarda Rivoluzione”, ma viene sconfitto. Seguirà un lungo periodo di restaurazione.
[42] La monarchia Sabauda in Sardegna intraprese ai primi dell’800 una riforma che si concretizzò nell'emanazione dell'Editto delle Chiudende (1820), con lo scopo di favorire la chiusura dei terreni. Con esso si consentiva a comuni e proprietari dei campi aperti di recintare i propri terreni non soggetti a servitù e quelli soggetti a pascolo vagante, previo permesso del prefetto provinciale. I comuni potevano poi dividere le loro terre in parti uguali tra tutti i capofamiglia, oppure venderle o affittarle. La commissione veniva concessa a titolo personale, trasferibile al figlio primogenito qualora questo fosse agricoltore o proprietario. Lo scopo del provvedimento era quello di estendere la proprietà privata e migliorare l'agricoltura, stimolando la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari terrieri legati alla Corona, in grado di migliorare i sistemi produttivi. Nondimeno, esso diede luogo ad abusi ed illeciti che ebbero come conseguenza un periodo di forti contrapposizioni sociali, specie per le proteste degli allevatori, nettamente penalizzati dal provvedimento, che rivendicavano la continuità dei diritti di pascolo goduti nel passato.
[44] Cfr., in particolare, l’indagine svolta da un
gruppo di ricercatori coordinati da R. Cipriani sulla comunità di Orune.
Cipriani, (La lunga catena, Comunità e conflitto in Barbagia,
Franco Angeli, Milano, 1988 p. 31) si sofferma sulle vicende relative alla
regolamentazione del “salto” comunale, fondamentale per la vita dell’economia
del luogo, e ricorda gli episodi di reazione popolare seguiti ai numerosi
tentativi di limitare o sopprimere diritti goduti ab antiquo dai pastori
della comunità. V. anche R. M. Meloni, Un caso di rapporto diretto
tra consuetudine e novità: gli usi civici e l’ambiente, in M.
Lelli (a cura di), Diritto di proprietà, diritto penale e percezione
del diritto in Sardegna, Franco
Angeli, Milano, 1990, 122 ss.
[45] G.G. Ortu, I contratti agrari e pastorali, in M. Brigaglia (a cura di) La Sardegna, Enciclopedia, Della Torre, Cagliari, 3, 207.
[46] G. Angioni, I Pascoli erranti- antropologia del pastore in Sardegna , Napoli, 1989, 173 ss. Angioni osserva in particolare che «consociarsi formalmente (soccida) o informalmente nel lavoro è pratica importante tra pastori, specialmente in transumanza, meno importante è il consociarsi per il possesso del pascolo, (in proprietà o altro genere di possesso) meno importante ancora (ma non irrilevante) è il consociarsi nel possesso del gregge».
[48] B. Bandinu, Cultura,
riti, simbologia nella pratica della mediazione arcaica in Sardegna,
relazione al convegno “Cultura e pratica della mediazione tra
Sardegna, Africa, Area Mediterranea”, Cagliari, Palazzo Regio, 11/12
Novembre 2005.
[49] La principale opera di Pigliaru è Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Nuoro, 2000 (l’edizione originale è del 1959). Altre opere di Pigliaru da consultare sull’argomento: Che cosa si deve intendere quando si dice “banditismo sardo” in Atti di studio sul banditismo in Sardegna, a cura dell’Organismo rappresentativo universitario sassarese, 1956, p. 2-7; I condizionamenti sociologici nello sviluppo delle zone interne, in La programmazione in Sardegna, notiziario del centro regionale di programmazione, Cagliari, Settembre-Ottobre 1971; Considerazioni critiche su alcune posizioni del personalismo comunitario in Studi sassaresi, vol. XXIII, vol.3, 1950; L’eredità di Gramsci e la cultura sarda, in Gramsci e la cultura contemporanea, vol. I, p. 487-533.
[50] R. Treves, Un precursore della sociologia empirica del diritto in Sardegna: Antonio Pigliaru, in Sociologia del diritto, n. 1, 1982, 21 ss.
[51] E si veda ad esempio M. Meligrana, La vendetta di sangue: dimensione simbolica e statuto normativo, in Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, n. 4-5-6, 1979, 107 ss.
[52] V. sul punto R. H. Mnookin, Alternative dispute resolution, in P. Newmann, (a cura di) Palgraves Dictionnary of Economics and Law, 1998. «Come il giudizio o l’arbitrato, anche la mediazione prevede l’uso di una figura terza, ma un mediatore, diversamente da un arbitro o da un giudice, non ha l’autorità di imporre una risoluzione alle parti. Lo scopo del mediatore è piuttosto quello di facilitare la negoziazione e aiutare le parti stesse a raggiungere una definizione reciprocamente accettabile della loro controversia. La mediazione è un sistema tipicamente volontario in cui le parti stesse possono scegliere la persona che agirà da agevolatore esterno. E’ privato e confidenziale, e non aperto al pubblico» [trad. mia].
[53] La transazione è un accordo negoziale che normalmente non contempla l’intervento di soggetti, organi o autorità esterne ai contraenti, e che purtuttavia presuppone, come elemento strutturale, una potenziale o attuale controversia. E per un riferimento alla disciplina dell’istituto nell’ambito di un ordinamento giuridico “colto”, si può ricordare la definizione che di essa fornisce il vigente codice civile italiano (art. 1965): “La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può insorgere tra di loro (primo comma). Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione della parti (secondo comma)”.
[54]
Vedi N. Rouland, Antropologia giuridica, Giuffré, Milano, 1992.
308 ss. e la ricca bibliografia ivi riportata. Va poi ricordato un monumentale
studio sistematico e interculturale sulle diverse forme di manifestazione della
vendetta, realizzato da un gruppo di lavoro diretto da R. Verdier. – La
vengeance, 4 voll. Paris, Cujas, 1980-1984.
[55] Si veda al riguardo N. Rouland, Aux confins du droit, Editions Odile Jacob, Paris, 1991, 88-97. Rouland sottolinea: «Le società tradizionali non adottano tutte lo stesso comportamento riguardo alla violenza. Se certe la valorizzano, altre, al contrario, fanno della pace il loro ideale. Per gli Esquimesi del Labrador o i Toradja di Célèbes, l’armonia è lo scopo primario verso il quale deve tendere l’organizzazione sociale; presso gli Indiani Zuni (America del Nord) o gli Mbuti (cacciatori-raccoglitori del Congo), vero uomo è chi sa evitare i conflitti. Lo stesso può dirsi della vendetta: certe società vi sono più inclini di altre. Ma tutte la praticano osservando un sistema di regole che possiede gli attributi del diritto, ivi comprese quelle che esitano meno a versare il sangue per preservare l’onore [trad. mia]». Sulla possibilità di enucleare dei criteri che regolino le modalità operative della vendetta, sulla coesistenza, anche in società moderne ed “evolute”, di sistemi penali e vendicatori, e sui parallelismi che si possono tracciare tra i due ordini di fenomeni si sofferma in particolare G. Cosi, Vendetta, pena, mediazione: dalla retribuzione alla restituzione, in G. Cosi-M.A. Foddai (a cura di), Lo spazio della mediazione, Giuffrè, Milano, 2003, 130 s. che si sofferma sulla «moderna tendenza ad affidare monopolisticamente a uno «stato» la gestione della «forza» indispensabile alla conservazione dell’ordine necessario: a ben vedere il diritto penale, nella sua dimensione pubblica, trae origine dall’espropriazione della vittima del suo diritto alla ritorsione. Si potrebbe sostenere che nelle società tradizionali siano definibili come «giuridiche» quelle regole di costume il cui mancato rispetto è degno di venire misuratamente vendicato. La vendetta «selvaggia», smisurata e priva di regole, esiste probabilmente soltanto nell’immaginario collettivo delle società moderne».
[56] «La prima cosa da rilevare in questo sistema che regola la pratica della vendetta barbaricina, è che l’offesa più che poter essere, deve essere vendicata. E ciò non perché un certo istinto primordiale di difesa, d’equilibrio o anche se si vuole di giustizia esiga la vendetta come giusta reazione all’offesa, ma perché l’ordine sociale, il sistema di regolarità che fonda e tutela quell’ordine, ciò impone al suo membro quando esso è stato offeso (e in quanto quindi l’ordine sociale sia stato in qualche modo turbato per causa di quell’offesa)». Così A. Pigliaru, La vendetta, cit., 160. Riflettendo su quali siano i fattori che attribuiscono forza coercitiva alle consuetudini giuridiche che impongono e regolano l’istituto della vendetta, Rouland ricorda che, sebbene quando si pensa alla forza vincolante delle norme giuridiche venga spontaneo pensare all’ordinamento Statale, tale forza non necessariamente viene meno, o si manifesta con minore intensità, nei casi in cui lo Stato si ponga in secondo piano: «le forme di pressione esercitate da un gruppo sociale (setta) o gli imperativi di natura religiosa allorché essi si associano al diritto (per non parlare della paura delle ossessioni inflitte dai morti ai loro parenti vivi che non li hanno vendicati) possono essere molto più penetranti di un’ingiunzione dell’ufficiale giudiziario» (N. Rouland, Aux confins du droit, cit., 137, trad. mia).
[58] Sul ruolo svolto dal sistema di regole comunitarie che, nelle comunità barbaricine, disciplinano il dono come complemento positivo del ‘codice’ della vendetta, v. C. Zene, Dono e vendetta nella Sardegna centrale, in Lares, 3, 2005, 683
[59]
R. Cipriani (a cura di), La lunga catena,
cit. In part. v. il contributo di V. Cotesta, La vendetta barbaricina tra modernità e tradizione culturale,
105 ss.
[60] Angius, op. cit., 273 s.
[61] S. Lissia, La Gallura. Studi storico sociali (1903), Ed. democratica sarda, Sassari 2002, 272. I dati relativi ai delitti commessi in area gallurese nella prima metà dell’Ottocento confermano come la regione fosse frequente teatro di episodi violenti. Inoltre, la Gallura, ricorda Da Passano, è una delle regioni in cui i Savoia ritennero di mandare un giudice della Reale Udienza, dotato di poteri particolari. Va poi ricordato che il 19 gennaio 1812 fu costituita una Commissione speciale con lo scopo di favorire una riconciliazione tra le famiglie coinvolte nelle sanguinose faide. Sul punto, cfr. N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, Torino 1885, 592, cit. da M. Da Passano, op. cit., 242
[62] E. Costa, Il muto di Gallura (1885), Ilisso, Nuoro 1998, p. 37.
[64] Cfr. Piero Fresi, Vendetta e ordinamento faidale nel pensiero di Antonio Pigliaru, tesi di Laurea, Università di Roma-La Sapienza, A.A. 2006/2007
[66] E. Costa, op. cit., 92. Antonio Bresciani, padre gesuita e letterato è autore dell’opera Dei costumi dell’isola di Sardegna, Nuoro, Illisso, 2001 (l’originale è del 1850), frutto delle sue visite nell’Isola dal 1844 al 1846.
[69] F. Cossu, Da
fiere e cinghiali al popolo di Dio:evangelizzazione della bassa Gallura,
Stil Graf editori, Roma 1995, 129. E’
una tesi che può trovare strette connessioni sul piano storico. Va infatti ricordato come Il ministro della guerra
Bogino, vedendo vanificati i tentativi di repressione del crimine con le
impiccagioni, nel 1771 si appellava ad una presenza più massiccia della
Chiesa sul territorio, e in particolare in Gallura. Va poi ricordato che lo
stesso ministro fu promotore di un provvedimento che obbligava tutti i giovani
dai 15 ai 18 anni a frequentare corsi di dottrina cristiana, compresi “oziosi, discoli e vagabondi”, anche
di età superiore, per necessità di ordine pubblico. Lo studioso
R. Turtas, Studio manoscritto di una
conferenza tenuta in occasione della presentazione del libro: Le chiese nel
verde, di AA.VV., Sassari 1989, cit. da F. Cossu, op. cit., 131.infine, osserva che,
nei secoli XVII-XX in Sardegna furono edificate benBrescaini 137 chiese
campestri, gran parte delle quali in Gallura.
[70] I. Pirastru, Il banditismo in Sardegna, Editori Riuniti, Roma 1973, 107, cit. da F. Cossu, op. cit., 127.
[73] Il termine deriva infatti dalla parola sarda kàra (trad. “faccia”, “volto”) e dal verbo akkaràre (trad. “confrontarsi”, “rinfacciarsi”). Cfr. M.L. Wagner, DES, cit., 219 s.
[74] La pratica de s’abbonamentu è in effetti legata prevalentemente al fenomeno dell’abigeato e diffusa in Barbagia. Ne parla, tra gli altri, G. Pinna, Il pastore sardo e la giustizia cit. che traccia una distinzione netta tra questa pratica e quella degli homines, chiamati a dirimere le controversie: «Cosa diversa dall’arbitrato irrituale è s’abbonamentu, (accomodamento, transazione, composizione privata) (...) a cui si ricorre spessissimo per comporre questioni relative a furti o danneggiamenti di bestiame. Il caso classico è quello del ladro sorpreso con le mani nel sacco o sopraffatto da prove inconfutabilie del ricettatore nel cui gregge viene trovato o riconosciuto tutto o parte del bestiame rubato e che per evitare la denuncia o la vendetta offrono, per il tramite di amici autorevoli, il risarcimento del danno; e sull’entità del risarcimento ma anche su eventuali torti dell’una e dell’altra parte si tratta e si decide con s’abbonamentu. Come ricorda esattamente Pigliaru, la Carta de Logu vietava espressamente s’abbonamentu, il che dimostrerebbe da una parte la lotta che la giustizia ufficiale di allora muoveva contro codeste forme di composizione privata che in sostanza le sottraevano abbondante materia di cognizione e di giurisdizione sue proprie, dall’altra l’antichità e la diffusione di tali forme transattive».
[75] Utilizzeremo sia il termine homines riportato da M. Pira e G. Pinna che la parola omines cui fanno riferimento, come vedremo, altri studi. E’ del tutto evidente, infatti, che le due parole hanno lo stesso significato.
[80] Gavoi
è un comune
di 3.011 abitanti della provincia di Nuoro, Situato nella Barbagia di
Ollolai, fra Nuoro
ed il Gennargentu.
Nel dopoguerra Gavoi ha conosciuto uno sviluppo
intenso sia nelle attività tradizionali (pastorizia, artigianato,
produzioni alimentari) che in settori economici più moderni, come quello
imprenditoriale e finanziario. Cfr. M. Masia,“Sos omines”:
osservazioni sulla pratica degli arbitrati nella Sardegna interna, in Sociologia
del diritto, 1, 1982, 77 ss. Lo scritto della Masia è preceduto da
una lunga e articolata introduzione di V. Ferrari, Diritto e dispute:
osservazioni empiriche in una piccola comunità, ivi, 25 ss.
[83] V. Ferrari, op. cit., 40, precisa che si è trattato di «interviste vertenti su possibili casi di controversie anziché su casi reali effettivamente capitati agli intervistati. In tal modo è sembrato possibile aggirare sia l’ostacolo costituito dalla naturale reticenza della popolazione a parlare dei propri casi privati, sia l’ostacolo rappresentato dalla tendenza altrettanto naturale a deformare la visione delle liti in cui ci si è trovati coinvolti».
[84] Secondo M. Masia, op. cit., 81, nel caso della ricerca svolta presso la comunità di Gavoi, l’intervista libera ha permesso «di instaurare un più facile rapporto, trasformando l’intervista stessa in una cordiale chiacchierata che, mettendo più a suo agio l’intervistato, non si limitava a provocarne le risposte, ma spesso lo portava a chiarire e integrare o, in ogni caso a riflettere “a voce alta” sui temi trattati nell’intervista».
[85] Nella sua ricerca M. Masia ha dunque scelto di seguire il c.d. village approach, nei confronti del quale, tuttavia, diversi antropologi del diritto mettono in guardia. Il pericolo cui si va incontro sarebbe quello di distorsioni interpretative del diritto autoctono, nell’ipotesi in cui l’osservatore si debba confrontare anche con rappresentanti (funzionari, burocrati, ecc.) del diritto Statale. M. Masia, op. cit., 82, supera tali obiezioni affermando che «se l’interesse del ricercatore, come nel nostro caso, è quello di stabilire se i vincoli di solidarietà sociale e l’attaccamento a valori e costumi tradizionalmente rispettati siano in sostanza più forti delle influenze che investono piccoli contesti sociali integrati, è naturale che il village approach sia necessario anche se queste ipotesi dovessero essere falsificate anziché confermate dall’indagine svolta. In altri termini, le obiezioni (…) paiono attenere più al merito che al metodo e si rivolgono (…) in un ammonimento a non accostarsi allo studio del “villaggio” nell’illusione (tipica di certa antropologia “romantica” legata al concetto, oggi in via di abbandono, di “primitività”) che il contesto esaminato presenti caratteri assolutamente tipici: tipici in sé, oppure tipici di un’area circostante».
[87] Desulo (in prov. di Nuoro) ha circa 4000 abitanti. Il paese è situato tra 800 e 1200 metri di altitudine; l’allevamento ovino e caprino costituisce tuttora la principale risorsa economica della comunità. La pastorizia viene esercitata sia allo stato brado che in forma transumante. Altre attività economiche di un certo rilievo sono rappresentate dall’artigianato e dall’agricoltura.
[90] Si veda ancora M. Carosso, op. cit., 369 ss. e la ricca bibliografia ivi riportata. Va precisato peraltro che l’istituto dell’ arbitrium boni viri era già contemplato nel diritto romano, e che la figura dei boni homines ha conosciuto una importante diffusione anche al di fuori della Sardegna, Cfr. C.Giardina, Boni homines in Novissimo Digesto, Unione tipografico-editrice torninese, 1980, 501.
[91] E. Besta, op.cit., 95 ss. ricostruisce così il ruolo dei boni homines nei giudizi della Sardegna medievale: «nell’amministrazione della giustizia il magistrato, chiunque esso fosse o il giudice (…) soleva essere assistito da un certo numero di boni homines. Il sistema del giudice unico non era prevalente in Sardegna: normalmente il giudizio era collegiale. (…) Il magistrato non solo presiedeva la corona, non solo dirigeva i singoli atti processuali, non solo eseguiva la sentenza, ma anche partecipava alla sentenza e le dava forza esecutiva. Non sembra invero esatto l’affermare che solo ai bonos homines appartenesse il sentenziare; il giudice chiedeva bensì ad essi il proprio avviso sulla credibilità di certe prove (…) e li invitava a dichiarare come si dovessero sciogliere le questioni incidentali, che si presentavano nel corso del processo, per fissare in termini precisi il punto giuridico della causa (…) Ma tutto ciò non costituiva che un accordiu preliminare alla sentenza. Questa infatti era pronunciata dal giudice in nome proprio e in nome dei bonos homines che l’aveano assistito». Sul punto, da ultimo, v. l’importante contributo di A. Mattone-C. Ferrante, Le comunità rurali nella sardegna medievale (secoli XI-XV) in Diritto @ Storia.Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 3, 2004 http://www.dirittoestoria.it/3/Lavori-in-Corso/Contributi/Contributi-web/Ferrante-Mattone-Comunita-rurali.htm
[92] Abbiamo già in parte spiegato come il rapporto tra consuetudini sarde e norme scritte dell’ordinamento ufficiale trovò nella fase dell’entrata in vigore della legislazione italiana (sardo-piemontese) un definitivo rovesciamento dei propri equilibri (sul punto, v. infra, cap. 4). In questo senso, A. Pigliaru, La vendetta, cit., 186 ss. e soprattutto M. Pira, La rivolta dell’oggetto, cit., in part. p. 67 ss.
[93] Un uomo anziano, di cui purtroppo non è stato possibile registrare i dati anagrafici, intervistato senza registratore a Bonorva, paese del Mejlogu, ci ha riferito che, fino ai primi anni ’70, per risolvere le controversie in ambito agro-pastorale si nominava un collegio arbitrale che veniva chiamato Sa Corona.
[96] M. Carosso, op. cit., 374 s.
[97] M. Pira, Sardegna tra due lingue, cit., Cfr. anche G. Pinna, Il pastore sardo e la giustizia, cit., 117. Per G. Pinna l’uso del termine “gli uomini” sta «quasi a voler significare che essi devono comportarsi da uomini, con tutta la dignità e responsabilità di uomini chiamati a dirimere una controversia».
[100] Vi saranno differenti criteri di calcolo se il danno è causato all’orto; si terrà conto, inoltre, del periodo agrario e del tipo di bestiame che ha sconfinato. V. ancora M. Carosso, op. cit., 387.
[106] Cfr. O. Ashenfelter, Arbitration,
in P. Newmann (a cura di) Palgraves dictionnary of Economics and Law, NY, 1988,
88 ss.
[107] Vi è un ulteriore aspetto che andrà poi sottoposto a una verifica di natura comparativa rispetto alle consuetudini galluresi: il fatto cioè che presso le comunità barbaricine vi fosse una valutazione negativa verso coloro che si rivolgevano alla giustizia “ufficiale”; sul punto, v. infra, cap. 4.