Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – Monografie

 

 

 

Cap. II della monografia: Marisa De Filippi, Dignitas tra repubblica e principato, Cacucci Editore, Bari 2009, pp. 191.

Indice-Sommario

 

 

marisa -1Marisa De Filippi

Università di Bari

 

Dignitas tra retorica e diritto

 

 

 

 

Sommario: 1. Dignitas nei trattati retorici dell’ultima età repubblicana:osservazioni generali. – 2. Dignitas e maiestas rei publicae. – 3. Dignitas e tempus come parametri nell’innovazione del diritto. – 4. La Rhetorica ad Herennium. – 5. Dignitas in Quintiliano.

 

 

1. – Dignitas nei trattati retorici dell’ultima età repubblicana: osservazioni generali

 

Prenderemo in considerazione tre opere istituzionali retoriche dell’ultimo secolo della Repubblica, l’Auctor ad Herennium, il De inventione – in realtà, esse si occupano dei primi elementi della retorica e di una sola delle parti di cui questa scienza si compone, l’inventio - e i Topica di Cicerone, tralasciando quelle, per lo più in forma dialogica, dedicate da Cicerone all’arte oratoria, quali l’Orator, il De oratore, il Brutus, le Partitiones oratoriae, di taglio più esclusivamente metodologico.

Fra le prime ci occuperemo in modo particolare dell’Auctor ad Herennium, utilizzando, per ragioni che saranno spiegate, il De inventione e i Topica come contrappunto per far risaltare, per differenza, le posizioni che si rinvengono nel primo trattato. Chiuderemo questo capitolo con un riferimento significativo all’ Institutio oratoria di Quintiliano, probabilmente pubblicata nel 96 d.C., alcuni anni dopo il suo ritiro dall’insegnamento.

Com’è noto, l’Auctor ad Herennium è stato per secoli attribuito a Cicerone, al punto che nel Medioevo i libri ad Herennium furono definiti rhetorica nova rispetto ai due libri del De inventione. Ma già Lorenzo Valla in età rinascimentale giudicò l’ad Herennium indegno di Cicerone, pur non pronunciandosi sulla paternità dell’opera. Sempre nel Rinascimento si andò alla ricerca del nome dell’autore e Raffaele Regio, un noto filologo vissuto e operante verso la fine del ‘400, ne propose alcuni: Cornificio, Virginio Flavo, Timolao, cui si aggiunsero, ad opera di filologi di epoca successiva, Marco Gallione, Marco Antonio Gnigone, Lucio Elio Stilone, Papirio Fabiano. Fra di essi, la preferenza cadde su Cornificio, citato ben sette volte da Quintiliano

In tempi più recenti è merito del Calboli[1] l’aver dimostrato, in modo persuasivo, che la paternità dell’opera è da attribuirsi ad un personaggio politicamente legato alla famiglia degli Erenni, Cornificio.

Quanto alla data di composizione, giova ricordare che il De inventione e l’Ad Herennium furono pressoché coevi, molto probabilmente composti tra l’86 e l’82 a. C. sulla traduzione latina di un modello greco, riconducibile, non senza adattamenti, ad un archetipo di Ermagora di Temno.

Non così i Topica, che sono un’opera della maturità di Cicerone, composta nel 44 a.C. e dedicata all’amico giurista Gaio Trebazio Testa che, attendendo l’oratore nella biblioteca della casa di quest’ultimo, si era soffermato con stupore dinanzi ad un’opera di Aristotele, i Topica appunto, e aveva pregato l’amico di spiegargliene i contenuti[2], cosa che l’Arpinate fece componendo un’opera dall’omologo titolo.

Per rispettare il titolo di questo capitolo, opereremo una rilevante selezione delle fonti, soffermandoci, in particolare, su quelle in cui la parola dignitas ha una qualche forma di relazione con il diritto, sia pubblico, che privato, accennando soltanto a tutti quei luoghi sia dell’Ad Herennium, sia del De inventione e dei Topica, nei quali il termine dignitas compare nel suo significato più tecnico. Ci riferiamo ad Auct. ad Herenn. 4.17-18, nei quali ci si riferisce alle caratteristiche che l’elocutio deve possedere, elegantia, compositio, e dignitas, e si definisce quest’ultima come ciò che reddit ornatam orationem varietate distinguens, sottolineando che essa si divide in ‘abbellimento’ delle parole e dei detti. Dignitas è anche una caratteristica che esalta la ‘bellezza’ di un discorso[3].

Cicerone[4] enumera le caratteristiche che in un discorso semplice l’oratore deve utilizzare per illustrare e rendere più gradevole il discorso stesso: parole nuove, inusitate, trasporto; le parole inusitate si addicono più alla poesia, ma, sia pure raramente, anche nel discorso poetico non mancano parole che hanno una loro intrinseca bellezza. L’Arpinate sottolinea ‘la considerazione’ che l’arte oratoria attribuisce a chi la coltiva per occuparsi di problemi sia di rilievo pubblico che privato[5], o la serietà dell’argomento, dignitas rei, che deve indurre l’oratore a suscitare l’attenzione degli ascoltatori con riferimenti adatti alla circostanza, introducendo nel discorso ‘qualcosa di triste, di nuovo di terribile’[6].

Quanto alla suddivisione in species del discorso, sermo, che l’Auctor divide in quattro parti, solenne, dignitas, esplicativo, demonstratio, narrativo, narratio, faceto, iocatio[7]. Il primo si distingue per la serietà e la pacatezza della voce, mediante le quali si rende un’orazione ricca di contenuti per il ricorso a continue varietà di argomenti. Un discorso connotato da dignitas mira diritto alla verità, disdegnando le digressioni e le facezie, accentuando piuttosto la credibilità, la serietà, la severità oratoria[8]. Infine gli ammonimenti, ad opera sia di Cicerone che di Cornifico, ai futuri oratori di dare importanza alla dignitas del corpo, della voce, dei gesti.

L’estensione alle res incorporales del lessema dignitas rappresenta, fra altri e più importanti motivi, la diffusione nella società romana della tarda Repubblica di un relativismo etico, che ha i suoi modelli nella società ateniese del V e del VI secolo a. C., come è stato notato in un convincente saggio di Antonio La Penna[9]

 

 

2. – Dignitas e maiestas rei publicae

 

Ci soffermeremo ora su due brani dell’ad Herennium estremamente importanti per il diritto, il primo dei quali ha importanti referenze in passi di opere ciceroniane. In esso l’Auctor descrive la definizione[10]. Essa è una ‘sottospecie’ della constitutio legittima, che si ha quando nasce una controversia in scripto o ex scripto e si divide in sei parti: scritto e ‘spirito’ dello scritto, scriptum et sententia, leggi contrarie, leges contrariae, ambiguità, ambiguitas, definizione, definitio, traslazione, translatio, ragionamento per analogia, ratiocinatio[11]. Dopo aver spiegato inche modo una controversia nasce da ognuna delle precedenti parti, egli chiarisce che una causa è inquadrabile nello schema della definitio, quando si controverte in quale fattispecie criminosa un fatto deve sussumersi. Questo schema è ripreso in un punto del quarto libro in cui l’Auctor ne individua le caratteristiche fondamentali, la brevità e la chiarezza e propone un esempio a mio avviso molto importante e significativo: ‘Maiestas rei publicae est in qua continetur dignitas et amplitudo civitatis’[12]. E’ estremamente probabile, se non sicuro[13], che la definizione si riallacci al dettato di una delle tre leggi che disciplinano il crimen maiestatis o de maiestate, probabilmente la lex Varia del 90 a.C. – le altre due furono la Appuleia del 103 a.C. e la Cornelia dell’81 a.C. -, e che molti decenni dopo, probabilmente nell’8 a.C., fu riformulato da Augusto con successivi inserimenti dovuti alla realtà di un impero ormai decisamente autocratico, come osserva il Bretone[14], commentando un frammento delle Sententiae pseudo paoline, ( Pauli sent. 5.29.1 = fr. Leid. 9 ):

 

Lege Iulia maiestatis tenetur is, cuius ope consilio adversus imperatorem vel rem publicam arma mota sunt exercitusve eius in insidias deductus est, quive iniussu imperatoris bellum gesserit dilectumve habuerit, exercitum comparaverit sollicitaverit (deserueritque Leid.) imperatorem. His antea in perpetuum aqua et igni interdicebatur ( aqua eis et igni antea interdicebatur Leid.); nunc vero humiliores bestiis obiciuntur vel vivi exuruntur, honestiores capite puniuntur.

 

Secondo la lex Iulia de miestatis è responsabile colui con il cui aiuto o consiglio siano state prese le armi contro l’imperatore o la repubblica, o l’esercito sia stato tratto in insidie; o colui che abbia condotto una guerra o tenuto la leva senza comando dell’imperatore, abbia radunato e istigato l’esercito o abbia abbandonato l’imperatore. Costoro, in antico, subivanoin perpetuo l’interrdizione dell’acqua e del fuoco; ora, se appartengono allo strato più basso della popolazione libera, sono condannati alle belve o bruciati vivi; se ai ceti più elevati, sono puniti con la decapitazione.

È proprio dell’Auctor proporre esempi che siano in dialogo con norme desunte anche da antiche leggi. Sappiamo, inoltre, che, a parte qualche variazione, i contenuti delle leggi appena ricordate erano omogenei. Non ci interessa esaminare le varie ipotesi in cui si incorreva nelle previsioni delle leggi de maiestate, quanto interpretare il significato di dignitas in relazione al termine maiestas.

Una breve storia di quest’ultimo è tracciata dal Lear[15], secondo cui la parola deriva da maius e denota una elevata posizione e una certa preminenza dei quali ‘gli inferiori’ devono tenere conto. Con molta onestà intellettuale Lear chiarisce che egli accoglie l’ipotesi mommseniana dell’origine della parola[16], nonostante quest’ultima avesse incontrato, per la mancanza di prove definitive, numerosi e autorevoli contraddittori, tra i quali ricorderemo Humbert e Lecrivain[17]. In sintesi, secondo Mommsen la maiestas entrerebbe a far parte della ‘ procedura criminale romana’ come risultato di una condizione politica di inferiorità della plebe rispetto al patriziato, che si sarebbe espressa, tra l’altro, nell’impossibilità per i plebei e soprattutto per i suoi ‘magistrati’ di essere parte lesa nel crimen di perduellio, dal momento che i tribuni non erano muniti di imperium. Nella lotta tra i due ordini sociali, soprattutto al tempo della grande rivolta del 287 a.C., si sarebe ‘udita’ per la prima volta la frase ‘diminuizione della maestà dei tribuni’, al fine di assicurare l’uguaglianza di fronte alla legge delle offese ai magistrati patrizi e a quelli plebei e, conseguentemente, di consegnare alla giustizia chi si fosse reso colpevole di perduellio per offesa alla maestà tribunizia. Raggiunta la parità tra i due ordini, il termine maiestas sarebbe rimasto con un’estensione semantica e politica più ampia. Non ci intratterremo su questo specifico problema, ma ci sembrava doveroso farne un rapido cenno.

Come tradurre il termine maiestas ? Un passo ciceroniano, de oratore 2.164, è in una quasi assoluta sintonia con l’esempio di definizione proposto dall’Auctor[18]:

 

Si res tota quaeritur, definitione uniuersa uis explicanda est sic: «si maiestas est amplitudo ac dignitas civitatis, in eam minuit, qui exercitum hostibus populi Romani potestati tradidit.

 

Data una certa definizione della maiestas, come amplitudo e dignitas civitatis, essa è diminuita se si consegna l’esercito al nemico del popolo romano, non se si rimette un singolo cittadino alla potestà del popolo romano.

In un altro passo, questa volta delle Partitiones oratoriae[19], Cicerone identifica la maiestas nella dignitas dell’imperium e del nomen populi Romani.

Credo che a questo punto interpretare e definire maiestas rei publicae come sovranità della civitas romana, in particolare del popolo romano non sia ipotesi priva di fondamento. Se è così, dignitas è uno dei caratteri costitutivi della maiestas, insieme all’ampiezza del territorio, locuzione con cui tradurrei amplitudo civitatis, che, a mio avviso, rende l’idea dell’ampiezza territoriale e fotografa, in modo non casuale, la realtà di una res publica, come quella romana, che ha visto in pochi secoli estendersi enormemente il suo territorio, che si confonde ormai con quasi tutta la penisola italica, sottolineando che una res publica che non la possiede non cessa di essere tale, ma non ha maiestas. A me pare che l’Auctor esprima e giustifichi, sul piano definitorio, i capisaldi dell’imperialismo romano, il che è in linea con l’ideologia dell’Auctor, così come ricostruita da Gualtiero Calboli[20].

Quanto a dignitas, è molto probabile che con il lessema l’Auctor, ma anche Cicerone, alludano, riassuntivamente, oltre che ad un insieme di caratteristiche di uno Stato potente, alla libertas e alla fides rei publicae, anche e soprattutto all’orgoglio e all’identità nazionale, minacciati quando si realizzano le varie ipotesi per le quali si è accusati di lesa maestà. E non solo con comportamenti esternamente rilevanti, con altre popolazioni, in tempo di guerra e di pace, ma anche con condotte miranti a sconvolgere la concordia e la salus dello Stato romano.

 

 

3. – Dignitas e tempus come parametri nell’innovazione del diritto

 

In alcuni punti del suo trattato l’Auctor si sofferma sull’organizzazione del diritto e sulle sue partizioni, in particolare in un brano che sembra offrire una visione d’insieme del suo pensiero in materia, Rhet. ad Herenn. 2.19, nel quale si occupa della absoluta constitutio iuridicialis, che l’oratore deve utilizzare, quando intende dimostrare, che il fatto posto in essere dal suo assistito è conforme al diritto, senza avere alcun bisogno di ricorrere ad argomenti difensivi diversi:

 

Absoluta iuridiciali constitutione utemur, cum ipsam rem, quam nos ferisse confitemur, iure factum dicemus, sine ulla adsumptione extrariae defensionis. In ea convenit quaeri, iure ne sit factum. De eo causa posita dicere poterimus, si, ex quibus partibus ius constet, cognoverimus. Constat igitur ex his partibus, natura lege, consuetudine, iudicato, aequo et bono, pacto.

Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur.

Lege ius est id, quod populi iussu sanctum est, quod genus: ut in ius eas, cum voceris.

Consuetudine ius est id, quod sine lege aeque, ac si legitimum sit, usitatum est, quod genus id quod argentario tuleris expensum, ab socio eius recte petere possis.

Iudicatum est id, de quo sententia lata est aut decretum interpositum. Ea saepe diversa sunt, ut aliud alio iudici aut praetori aut consuli aut tribuno plebis placitum sit et fit, ut de eadem re saepe alius aliud decreverit aut iudicarit, quod genus: M. Drusus, praetor urbanus, quod cum herede mandati ageretur, iudicium reddidit, Sex. Iulius non reddidit. Item: C. Caelius iudex absolvit iniuriarum eum, qui Lucilium poetam in scaena nominatim laeserat, P. Mucius eum, qui L. Accium poetam nominaverat, condemnavit. Ergo, quia possunt res simili de causa dissimiliter iudicatae proferri, cum id usu venerit, iuidicem cum iudice, tempus cum tempore, numerum cum numero iudiciorm conferemus.

Ex aequo et bonus ius constat, quod ad veritatem et utilitatem communem videtur pertinere, quod genus, ut maior LX et cui morbus causa est, cognitorem det. Ex eo vel novum ius constitui convenit ex tempore et ex hominis dignitate.

Ex pacto ius est, si quid inter se pepigerunt, si quid inter quos convenit. Pacta sunt, quae legibus observanda sunt, hoc modo: Rem ubi pagunt, orato; ni pagunt, in comitio aut in foro ante meridiem causa coicito. Sunt item pacta, quae sine legibus observantur, ex convento quae iure praestare dicuntur.

His igitur partibus iniuriam demonstrari, ius confirmari convenit, id quod in absoluta iuridiciali faciundum videtur.

 

«Utilizzeremo la causa giudiziale completa, quando sosterremo che l’atto da noi compiuto è conforme al diritto, senza far ricorso ad argomenti difensivi estranei alla causa. In essa conviene chiedersi se si è agito secondo il diritto. Di tale problema potremo discutere, una volta posta la causa, se sapremo di quali parti consti il diritto.

Il diritto consta di queste parti: della natura, della legge, della consuetudine, del precedente giudiziario, dell’equo e del buono, del patto.

Il diritto naturale è ciò che si osserva spinti da un sentimento di lealtà familiare o religioso; esso fa sì che i genitori rispettino i figli e questi i genitori.

Il diritto legislativo è ciò che è stabilito per ordine del popolo; esso fa sì che tu ti rechi in giudizio, se citato.

Il diritto consuetudinario è ciò che, pur in assenza di una legge, è ugualmente e costantemente osservato, come se fosse una legge; esso fa sì che tu possa richiedere il denaro depositato presso un banchiere al suo socio.

Il diritto del precedente è quello che scaturisce dal fatto che una sentenza è stata emanata o un decreto interposto. Esso è spesso diverso, nella misura in cui un giudice o un pretore o un console o un tribuno della plebe giudichino o agiscano diversamente dai loro colleghi. In base ad esso è avvenuto, ad esempio, che il pretore urbano Marco Druso concesse azioni di mandato a chi agiva contro un erede, a differenza del pretore Sesto Giulio, che non la concesse. E parimenti, che il giudice Gaio Lelio assolse dal delitto di offesa personale l’attore che aveva leso espressamente sulla scena l’onorabilità del poeta Lucilio, mentre Publio Mucio condannò chi aveva nominato sulla scena il poeta Lucio Accio. Dunque, poichè è possibile produrre in giudizio giudicati diversi su uno stesso fatto, potremo comparare giudice con giudice, tempo con tempo, numero con numero di giudicati, quando tutti questi dati entreranno a far parte di un uso giudiziario.

Il diritto consta del buono e dell’equo quando è in accordo con la verità e l’utilità comune; esso si ha nel caso in cui chi ha più di sessanta anni e sia ammalato, sia rappresentato (in giudizio) per procura: in base a questa parte è opportuno che sia stabilito un nuovo diritto, in accordo con le circostanze di tempo e la dignità personale dell’individuo.

Il diritto deriva dal patto, se due parti hanno contratto o hanno convenuto qualcosa tra loro. Vi sono patti che devono essere osservati in accordo alle leggi, in questo modo: la causa si tenga dove le parti hanno stabilito; se non l’hanno fatto, la causa sia chiamata nel comizio o nel foro prima di mezzogiorno. Parimenti vi sono patti che sono osservati anche senza un riferimento legislativo, in base ad una convenzione che si assume essere conforme al diritto.

Sul fondamento di queste parti, dunque, è utile dimostrare la contrarietà al diritto o confermare la giuridicità di un atto; ed è quanto sembra doversi fare, quando si voglia utilizzare l’argomento di conformità al diritto di una atto o di un fatto».

 

La necessità di qualificare come giuridicamente lecito il fatto commesso costringeva l’oratore ad avere una buona conoscenza giuridica. Nell’individuazione delle partes iuris l’autore procede secondo la collaudata tecnica delle partitio, che non lo impegna a dare una definizione del diritto completa ed esaustiva, ma solo ad indicare i fatti di normazione, cioè i momenti attraverso i quali il diritto si manifesta ed esige applicazione[21]. Il tutto con pretesa di esaustività nell’esposizione della materia trattata[22] e, verosimilmente diretto all’indicazione di fatti concreti[23]

Nonostante manchi una ricerca organica sul significato della partitio nella Rhetorica ad Herennium[24], si possono ipotizzare due caratteristiche delle partizioni oratorie, che potrebbero essere nell’ottica dell’Auctor: la funzionalità dello schema divisorio rispetto alla finalità della conoscenza del diritto che si sarebbe potuto applicare nei tribunali e la sostanziale parità reciproca delle singole parti della scomposizione dell'unico ius, come sostiene il Crifò[25], il quale pone in luce che la partitio prefigura un "piano di eguaglianza su cui le varie parti si trovano", conservando, tuttavia, ciascuna parte "una certa diversità funzionale, rispetto al totum composto dalle singole parti"[26]. In altre parole, le parti ipotizzate nel brano in esame sarebbero ognuna dotata di propria autonoma incidenza nella configurazione del ius, ma al tempo stesso con prospettive differenti dell'una rispetto all'altra.

Questo credo si possa dire, in prima approssimazione, pur in mancanza di notizie più circostanziate sull’Autore del brano e sulla sua cultura[27], tenendo presente che probabilmente nel caso delle partizioni del ius ci troviamo di fronte ad una classe (quella del ius) considerata come totum e tale da formare, per dirla con il Nörr[28], una 'Ganzheit'.

E vediamo nella sua articolazione questa unità scomponibile del ius, cercando di restare il più possibile aderenti alla plausibile ottica di Cornificio.

Le parti indicate nella Rhetorica ad Herennium constano della natura, lege, consuetudine, iudicato, aequo et bono, pacto. Possiamo domandarci se l'elencazione di Cornificio sia da lui considerata esaustiva oppure abbia solo carattere indicativo, senza la pretesa della completezza. Ritengo che la prima ipotesi sia quella più corretta, per la semplice ragione che in un trattato di retorica destinato alla formazione di un futuro oratore non si poteva procedere, soprattutto quando si dovevano trattare le parti fondamentali di una constitutio, nella specie quella iuridicialis, per exempla, ma si dovevano fornire tutti gli elementi in base ai quali poteva essere organizzata una difesa il più possibile convincente.

Questo convincimento è suffragato dal confronto con l'elencazione delle partes iuris in De inventione, 2. 22. 65-67, ‘ripresa con leggere modifiche’[29], che attengono alla definizione della legge e all’esclusione del diritto pretorio dal novero del diritto consuetudinario, in 2. 53. 160-162, poi, in modi quasi radicalmente diversi, in Top. 5. 28 [30].

Delle parti nella retorica ad Herennium si è detto: esse sono costituite dalla natura, dalla legge, dalla consuetudine, dal giudicato, dall’aequum et bonum e dal patto. Nel De inventione, dalla natura, dalla consuetudine, che comprende a sua volta gli editti pretori, il patto, il par e il giudicato, dalla legge. Nei Topica, dalla legge, dai senatoconsulti, dal giudicato, dall’auctoritas dei giuristi, dagli editti dei magistrati, dal mos, dall’aequitas.

Già ad un primo sguardo si rivela la non coincidenza tra i tre elenchi: in Cornificio e nel De inventione mancano i riferimenti ai senatoconsulti e all’ auctoritas dei giureconsulti; nei Topica, è assente il richiamo al diritto naturale ed ai patti. La differenza tra le prime due opere ed i Topica è notevole e significativa, ma non bisogna dimenticare che questi ultimi, dedicati all’amico Trebazio, furono composti intorno al 44 a.C, quasi quaranta anni dopo le prime due.

Al di là del confronto con i Topica e il diverso rilievo dato nell’ad Herennium e nel De inventione alle singole partes iuris, mi sembra che nelle due ultime opere tali parti siano sostanzialmente omogenee quanto alla loro denominazione. Questa circostanza depone, a mio avviso, per la completezza degli elenchi. Diversa è semmai l’ideologia complessiva che sottende i due ‘elenchi’, legalistica nella prima, giusnaturalistica nella seconda delle due opere[31].

Quanto ai Topica, non deve sorprendere la presenza dei senatoconsulti e dell’auctoritas dei giuristi, considerato, da un lato che, nonostante il Senato non sembra aver prodotto norme di diritto civile, esso ebbe per Cicerone un forte rilievo politico, quale simbolo della libertas negli anni dell’agonizzante Repubblica, dall’altro, la mutata consistenza teorica della scientia iuris, che si avvaleva tra l’altro di giuristi amici di Cicerone, Servio Sulpicio e Gaio Trebazio Testa, più volte documentata nel De oratore e nel Brutus.

La ragione della diversità dell’elenco dei Topica risiede, per il Bretone, nella particolare visione del "diritto civile", che è visto come "un insieme di opinioni, di massime e di criteri regolativi interpretativamente fissati"[32]. Può ben essere che il diritto fosse considerato non come un apparato di norme quanto nell'esplicazione della particolare ars, che lo individuava e caratterizzava, e, dunque, che fosse una realtà in costruzione ed in continuo divenire[33], ma né Cicerone, né l’Auctor potevano non tenere presente i destinatari e il fine pratico della sua opera, abbandonandosi all’enunciazione di una più che improbabile filosofia del diritto, almeno non in termini espliciti. Tanto è vero questo, che l’Arpinate non pone nei Topica quale pars iuris il diritto naturale, come aveva fatto nel De inventione. Una posizione questa definibile in termini di Rechtspositivierung, le cui radici culturali, al di là dell’innegabile intento pratico, sono, a mio avviso, ancora tutte da spiegare.

 

 

4. – La Retorica ad Herennium

 

Occupiamoci, tuttavia, della Rhetorica ad Herennium, non senza aver prima sottolineato, come si è detto, l’ispirazione ‘legalistica’ di tutto il catalogo, in cui le diverse partes iuris sono equiparate direttamente o indirettamente alla legge, forse in linea con le tendenze ‘democratiche’ dell’Auctor, così come rilevato nell’importante saggio di Gualtiero Calboli sull’identità e l’ideologia politica dell’autore del trattato di retorica dedicato ad Erennio[34].

Assumiamo come punto di partenza la prima partitio di Cornificio: il diritto naturale. Esso è ravvisato nei rapporti parentali: Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, qua iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur. In tale accezione è molto affine alla visione che molti secoli dopo fu enunciata da Callistrato ed Ulpiano[35].

La convinzione che la natura si manifestasse nella famiglia sembra radicata in tutto il Mediterraneo ed accompagna il modo stesso di concepire la vita dei 'viventi' e la formazione delle città; essa era espressa da molti autori greci ed era fatta propria anche da Cicerone, il cui pensiero influenzò gran parte del cammino giurisprudenziale del Principato[36]. Evidentemente essa costituiva la prima percezione del diritto naturale ed era consona alla formazione delle società antiche, nelle quali l'organizzazione di tipo statuale non era un prius, come nelle società di oggi, bensì costituiva il secondo anello tra l'uomo e l'umanità, di modo che i rapporti parentali preesistevano all'organizzazione cittadina (civitas)[37].

Qui occorre una precisazione e nasce un interrogativo. Dobbiamo, infatti, chiarire se l'esplicazione di ciò che fosse ius naturale si esaurisse nel richiamo alla cognatio. In tal caso se ne dovrebbe dedurre che il retore coglieva un aspetto essenziale del diritto naturale, mentre gli sfuggivano le implicazioni più generali ed ampie, che coinvolgevano il concetto di 'umanità', presenti in altri autori, anche contemporanei, come Cicerone[38]. Questa conclusione, tuttavia, non è persuasiva.

Leggendo la spiegazione che, nel prosieguo Cornificio forniva a proposito della consuetudine, del giudicato, dell'equità e dei patti si scorge chiaramente che gli esempi addotti, per illustrare la defìnitio della specifica pars non dovevano avere carattere esaustivo, bensì servivano a porre in primo piano casi e situazioni intorno alle quali le caratteristiche e la rilevanza giuridica fossero evidenti, in modo da porre fuori discussione la stessa defìnitio.

Per le leggi, tra le molte ed importanti già emanate durante la Repubblica, si faceva riferimento solo all'obbligo della presentazione in giudizio, in seguito ad in ius vocatio, sancito fin dalle XII Tabulae[39].

È evidente che per il retore si trattava di una scelta precisa: quella di indicare la norma fondamentale per l'inizio del processo, sapendo che essa poteva essere emblematica per i destinatari del suo trattato. Non pare, pertanto, dubbio che Cornificio avesse la piena consapevolezza di avere accordato preferenza ad uno dei tanti esempi che avrebbe potuto addurre a chiarimento del ius nascente dalla legge. Va osservato, inoltre, che nella definizione del diritto legislativo manca qualsiasi riferimento alla rogatio magistratuale, come invece avverrà in quella di Ateio Capitone, riferita da Gellio. Secondo il Masiello[40], questa assenza rimarca per contrasto l’idea della sovranità popolare, che era corrente in una parte della giuspubblicistica romana, come acutamente osservato dal Bretone[41].

Riguardo alla consuetudo, che ‘è ciò che in assenza di una legge è osservato come fosse una legge’, veniva richiamata la regola della ripetibilità dal socio dell'argentario di ciò che fosse stato versato a quest'ultimo. Si tratta di una regolamentazione atta a favorire la circolazione monetaria nel commercio cittadino ed internazionale; essa era particolarmente significativa, ma certamente non doveva essere l'unica sorta dall'uso.

È notevole l’assenza nella definizione alla validità della norma consuetudinaria per il trascorrere del tempo, vetustas[42]. E’ estremamente probabile, inoltre, che l’impiego della categoria consuetudo più ampia e meno tecnica di mos, adoperata da Cicerone nei Topica, sia dovuto all’intento dell’Auctor di adoperare un termine idoneo ad abbracciare la ‘multiforme realta’ degli usi ricorrenti nell’area del mondo antico, in particolare del Mediterraneo, laddove mos si collocava tra le fonti del diritto dei Quirites[43].

Mi pare invero che l’uso di consuetudo da parte di Cornificio non fosse casuale, ma stesse ad indicare che egli intendeva richiamare tutto il diritto formatosi attraverso gli usi al suo tempo, non solo quelli che avevano costituito il ‘costume’ dei soli Romani.

Ancora più chiara l’apertura anche allo ius gentium appare nel riferimento ai pacta, che vengono osservati senza essere sorretti da nessuna legge (pacta, quae sine legibus observantur), ma per forza della convenzione (observantur ex convento): mi sembra, infatti, evidente il riferimento al diritto nato presso il praetor peregrinus, basato sulla capacità della sola convenzione a produrre di per sé sola obbligazione tra gli autori dell'accordo.

Nella ‘tormentata’ spiegazione del giudicato l'oratore avverte il peso derivante dalla frequente difformità delle sentenze. Egli se ne fa carico; cita esempi che dovevano essere stati clamorosi, infine tenta di ricavare un criterio di utilizzazione del iudicatum ragionevole ed accettabile: si devono comparare giudice con giudice, assegnando evidentemente, secondo noi, la preferenza a quello più autorevole, i tempi in cui le sentenze furono emanate, dando la preferenza, forse, a quelle più recenti, il numero dei giudicati, dando la preferenza a quelli più numerosi che fossero omogenei. Dunque anche questo punto era svolto attraverso esemplificazioni importanti, capaci di imporsi all'attenzione del lettore, ma certamente non uniche.

Occupiamoci ora del ruolo che nell'Auctor ha il bonum et aequum nella costituzione di un novum ius. Si tratta di Auct. ad Herenn. 2. 13.19:

 

Ex aequo et bono ius constat quod ad veritatem et utilitatem communem videtur pertinere; quod genus, ut maior annis LX et cui morbus causa est cognitorem det. Ex eo vel novum ius constitui convenit ex tempore et ex hominis dignitate.

'Il diritto consta del buono e dell' equo quando è in accordo con la verità e l'utilità comune; esso si ha nel caso in cui chi ha più di sessanta anni e sia ammalato, sia rappresentato (in giudizio) per procura: in base a questa parte è opportuno che sia stabilito un nuovo diritto, in accordo con le circostanze di tempo e la dignità personale dell'individuo'.

 

Esso doveva assumere una valenza generale e profondamente innovativa, poiché poggiava sul perseguimento della 'verità' e della 'utilità' di tutti, cioè su categorie generali ed universalmente riconosciute. In proposito va tenuto presente che proprio nella riflessione del I sec. a.c., il verum era considerato il fine ultimo dell'investigatio e che l'utilitas ebbe un ruolo decisivo nella creazione di norme giuridiche, oltre a svolgere il compito di valutare la fondatezza delle norme edittali create dai pretori. Di conseguenza il richiamo al vero e all'utile (comune) è uno strumento che Cornificio mette a disposizione degli oratori come argomento difensivo.

Possiamo comunque chiederci cosa o chi avesse in mente l'oratore nel sottolineare il ruolo dell' aequum e del bonum. La risposta lascia supporre che il riferimento fosse a varie realtà giuridicamente performanti. Infatti il buono e l'equo erano la base dell'attività giusdicente dei pretori, specialmente del praetor peregrinus[44], e costituivano l'essenza stessa dell' attività creatrice della giurisprudenza, che, per l'appunto, era ars boni et aequi come evidenzieranno, durante il Principato, i giuristi, dei quali rimase memorabile la scultorea definizione di Celso [45]. Il retore a ragione coglie la funzione innovatrice e di ammodernamento svolta dal bonum et aequum e lo dichiara anche 'costitutivo' di nuovo diritto: Ex eo vel novum ius constitui conventi ex tempore et ex hominis dignitate.

L'aequum e il bonum sembrano sottrarsi allo schema legalistico. Apparentemente, perché secondo il punto di riferimento scientifico del trattato latino, da individuare forse nella Retorica di Aristotele ( 1.13.1374a), il buono e l'equo agiscono come strumenti di integrazione e di correzione della legge e dunque traggono la loro ragion d'essere proprio da essa. Questo rapporto spiegherebbe il privilegio accordato al bonum et aequum nella produzione di ius novum. La legge, infatti, generale e astratta non è idonea a regolare tutti i casi particolari. E in caso di conflitti di interessi, è necessario che 1'accertamento giudiziale di diritti ed obblighi obbedisca a criteri in grado di determinare 'la giustizia del caso singolo'. Questi criteri si ispirano all' equità. La relazione tra legge ed equità, intesa come giustizia del caso concreto, era nota ai retori della tarda Repubblica romana, lettori di Aristotele. Ma c'è qualcosa di più nell' affermazione che il buono e l'equo devono fondare un 'nuovo diritto', affidando sostanzialmente il compito di creazione del ius ai magistrati giusdicenti. Il compito di questi ultimi sarebbe di enorme rilievo, se non fosse che il buono e l'equo, come osservato dal Masiello [46], devono obbedire alla verità e all'utilità comune, il che attenua di molto il carattere 'individualistico' della produzione normativa, essendo la verità e l'utilità comune l'ideale serbatoio cui attinge i suoi comandi e i suoi divieti anche la legge.

Il novum ius deve essere costituito ex tempore et ex hominis dignitate. Ex tempore: il nuovo diritto di creazione magistratuale deve corrispondere a situazioni sociali, economiche e politiche, storicamente determinate. Non sono ammesse dall'Auctor 'inaccettabili fughe in avanti normative' [47], che si risolverebbero nello stravolgimento totale dei valori fondanti la comunità politica romana e il suo sistema sociale: la parola d'ordine è progresso, non rivoluzione. Questa idea è ribadita dal riferimento alla dignitas hominis, identificabile nello status sociale di coloro che fanno parte dell'intera collettività. È evitato l'impiego del plurale hominum, per circoscrivere l'operatività del sistema di produzione di novum ius alla comunità romana, non, genericamente, all'intera umanità.

Quanto all’interpretazione della espressione convenit constitui, esistono due possibilità a seconda che alla forma verbale convenit si attribuisca il significato di ‘si è d’accordo’, ‘si conviene’, ‘si riconosce’, oppure di ‘conviene’, ‘è opportuno’. Nel primo caso, infatti, l’Auctor si limiterebbe a registrare una convinzione diffusa nella consapevolezza dei ceti egemoni e dell’intera comunità del privilegio da accordarsi all’attività giurisdizionale dei magistrati nella produzione del diritto nuovo; nel secondo, si tratterebbe dell’espressione di un personale convincimento dell’Auctor, idoneo a farci comprendere le sue persuasioni sul delicato tema della gerarchia delle fonti di produzione normativa. Mi sembra che la seconda opinione sia la più praticabile, sia in riferimento al periodo storico in cui il trattato fu composto, 86-82 a.-C., un periodo in cui si andava appena affermando la ‘potestà normativa’ del pretore, che alla circostanza per cui nel trattato consimile e coevo di Cicerone, il De inventione, non si concede affatto, come vedremo, all’esercizio della giurisdizione né particolare rilevanza, né rilievo formale autonomo, essendo il par, l’isotes, ricompreso nella più ampia categoria normativa della consuetudine. Proprio il confronto con Cicerone ci consente, tuttavia, di formulare una più rilevante, dal punto di vista ideologico, considerazione. Nella valutazione dell’Arpinate, infatti, l’inclusione del par in una più ampia fonte di produzione normativa, quale la consuetudine, obbediva ad un preciso disegno, la sottolineatura della necessità che l’efficacia normativa di ciascuna delle partes iuris, all’infuori della legge, fosse ‘convalidata’ dal consenso della collettività e dal trascorrere del tempo. L’Auctor, invece, recupera i valori obiettivi e unanimemente diffusi solo come fonte dell’attività ‘procedimentale’ dei magistrati, ma i risultati di essa, il novum ius, non sono successivamente sottoposti al vaglio della pubblica opinione e, soprattutto, non soggiacciono al criterio del trascorrere del tempo come fattore di convalida. Il tempus e la dignitas hominis permangono dunque come i soli parametri rispetto ai quali valutare la legittimità della produzione di nuovo diritto.

 

 

5. – Dignitas in Quintiliano

 

Esaminiamo ora l’impiego del termine dignitas in Quintiliano. Accanto ai consueti significati del termine dignitas, di grande rilievo è un passo dell’Institutio oratoria, 3.7.13:

 

Fortuna vero tum dignitatem adfert, ut in regibus principibusque (nacque est haec materia ostendendae virtutis uberior), tum quo minores opes fuerunt, maiorem benefactis gloriam parit. Sed omnia quae extra nos bona sunt quaeque hominibus forte optigerunt non ideo laudantur quod habuerit quis ea, sed quod iis honestate sit usus.

La fortuna invero da una parte conferisce dignità, come nei re e nei principi ( e infatti questa è materia più feconda di mezzi per illustrare il valore), dall’altra parte quanto minori sono stati i beni [ tanto] maggior gloria produce con belle imprese. Ma tutti i beni esterni e che toccano agli uomini per caso, non per questo sono lodati, perché qualcuno li ha possedutii, ma perché ne ha fatto un uso onorevole.

 

L’oggetto dell’intero paragrafo è la laus hominum, l’encomio degli uomini. La prima operazione che chi loda deve compiere è la ‘storicizzazione’ della persona da lodare, occupandosi del tempo a questi precedente, di quello in cui è vissuto, del tempo successivo alla sua morte. Deve poi parlare della sua patria, dei genitori e degli avi, sottolineando se il personaggio lodato è stato pari o superiore alla sua tradizione familiare. Si alluderà alla circostanza se la sua ‘grandezza’ sia stata ‘segnalata’ da presagi degni di rilievo. Si deve lodare traendo spunti dal corpo, da elementi esterni, dall’animo. I primi non hanno molto peso, dipendendo dal caso. Quanto agli elementi esterni, in primo piano è la dignitas, che si aggiunge a posizioni di grande prestigio sociale e politico, poi la gloria che è maggiore, quanto meno rilevanti sono nella vita le posizioni di partenza. In entrambi i casi, trattandosi di beni ottenuti grazie al destino, non è importante che qualcuno li abbia avuti, quanto il fatto che li abbia saputo gestire. La dignitas è dunque un bene esterno, sopravvenuto, di cui fare buon uso: il che significa che come la si può ottenere, la si può perdere. Da questo punto di vista, Quintiliano è in linea con la tradizione di pensiero repubblicana, soprattutto ciceroniana.

In questa linea ci sembra di poter interpretare un passo riguardante i tipi di discorso, nel caso di specie quello funebre, Inst. 11. 3.153:

 

Igitur in laudationibus, nisi si funebres erunt, gratiarum actione, exhortatione, similibus laeta et magnifica et sublimis est actio. Funebres contiones, consolationes, plerumque causae reorum tristes atque summissae. In senatu conservando auctoritas, apud populum dignitas, in privatis modus. De partibus causae et sententiis verbisque, quae sunt multiplicia, pluribus dicendum.

‘Pertanto nelle lodi, tranne che negli elogi funebri, le consolazioni, la maggior parte dei dei discorsi di difesa avranno un tono triste e dimesso. I discorsi funebri, le consolazioni, la maggior parte dei discorsi di difesa avranno un tono triste e dimesso. In senato bisogna conservare l’autorità, davanti al popolo la dignità, nei processi civili la misura. Bisogna dire di più sulle parti del discorso, sui pensieri e sulle parole, che comportano molteplici problemi’.

 

La parte del brano quintilianeo per noi più interessante è che nel pronunciare un’orazione funebre o un discorso consolatorio o un’arringa difensiva l’oratore deve, se in senato, conservare l’autorevolezza, se dinanzi al popolo, la dignità. Se non interpretiamo male – con ogni evidenza deve trattarsi di un oratore di grande prestigio politico – il brano significa, a mio avviso, che nel primo caso si trattava di un rapporto tra pari, nel secondo di una relazione nella quale era il popolo ad avere la supremazia e dunque era necessario assumere toni deferenti e di grande compostezza. Ne è prova un brano in Inst. 7.3.35, nel quale Quintiliano richiama una celebre frase delle Partitiones oratorie di Cicerone ( Cic. Part. Orat. 30.105):

 

Est interim certa definitio, de qua inter utramque partem convenit, ut Cicero dicit: « maiestas est in imperari atque in nominis populi Romani dignitate»: quaeritur tamen an maiestas minuta sit, ut in causa Corneli quaesitum est.

‘Vi è talora una definizione sicura, sulla quale vi è accordo tra le due parti, come dice Cicerone: « L’autorità è nella dignità dell’impero e del nome del popolo romano»; si esamina, tuttavia, come si è esaminato nel processo di Cornelio, se l’autorità è stata lesa’.

 

Quintiliano sta trattando la definitio con dovizia di esempi, mettendo in rilievo la relatività di una definizione, tranne che in un caso su cui tutti sono d’accordo, la definitio della maiestas, che risiede nel potere e nella dignità del nome di popolo Romano. Quest’ultimo, non il principe, considerato che l’Institutio oratoria fu composta dal 93 al 95 d.C., in età flavia, incarna la sovranità dello Stato romano, visto che il retore non si limita ad usare un termine tutto sommato polisenso come dignitas, ma uno carico di significato politico come imperium, sebbene quest’ultimo fosse stato trasferito con una legge di investitura, la lex de imperio Vespasiani, dal popolo al principe.

 

 



 

[1] Cornificiana 2, l’autore e la tendenza politica della Rhetorica ad Herennium, 1965,1-114, ma v. pure Rhetorica ad Herennium, 1969, 3-42, dove il CALBOLI si esprime a favore dell’attribuzione a Cornificio, fondando questa sua convinzione in base ad alcuni confronti con brani della Institutio oratoria di Quintiliano. Quanto poi ad una possibile individuazione del personaggio, anche se le tracce rimaste sono molto povere, avverte lo studioso, si potrebbe, tuttavia, pensare o al Cornifico grammatico, come del resto si professa l’autore della Rhetorica in 4,17(in arte grammatica dilucide dicemus), o più esattamente all’etimologo citato da Macrobio, da Festo e da Arnobio.

 

[2] Su questo episodio M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto. Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana, Atti di un seminario, Firenze, 27-28 maggio 1983.

 

[3] Auct. Ad Herenn. 4. 32.

 

[4] De orat. 3.152-153

 

[5] Cic. De inv. 1. 5. 21.

 

[6] Cic. De inv. 1. 25. 20.

 

[7] Auct. ad Heren 3.13.23: Sermo dividitur in partes quattuor: dignitatem, demonstrationem, narrationem, iocationem. Dignitas est oratio cum aliqua gravitate et vocis remissione. Demonstatio est oratio quae docet remissa voce quomodo quid fieri potuerit aut non potuerit. Narratio est rerum gestarum aut proinde ut gestarum expositio. Iocatio est oratio quae ex aliqua re risum pudentem et liberalem potest comparare.

 

[8] Auct. ad Heren.4.32.22

 

[9] A. La penna, Mobilità dei modelli etici e relativismo dei valori, 183 ss..

 

[10] Auct. 1.21.12.

 

[11] Auct. 1.19.11: Legitima est constitutio, cum <in> scripto aut e scripto aliquid controversiae nascitur. Ea dividitur in partes sex: scriptum et sententiam, contrarias leges, ambiguum, definitionem, translationem, ratiocinationem.

 

[12] Auct. 4. 35. 25.

 

[13] H. Caplan, Ad C. Herennium de ratione dicendi, 38.

 

[14] M. Bretone, Tecniche e idologie dei giuristi romani, 2a ed., Napoli 1982, rist. 1984, 40-42.

 

[15] F.S. Lear, Treason, 11 ss.,

 

[16] T. Mommsen, Römisches Strafrecht, 538-40 e note.

 

[17] Daremberg et Saglio, Dictionaire…III ( 2 ) ….p. 1556

 

[18] Rhet. ad Her. 2.12.17: Cum definitione utemur, primum adferemus brevem vocabuli definitionem, hoc modo: ‘maiestatem is minuit qui ea tollit ex quibus rebus civitatis amplitudo constat’.

 

[19] Cic. Part. Orat. 30.105

 

[20] G. Calboli, Cornificiana 2., cit., 1-114.

 

[21] Vedi in tal senso, D. Nörr, Divisio und Partitio, 46 ss.. Per comprendere la rilevanza della classificazione attraverso partitio è fondamentale l’opinione di L. Vacca, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del Diritto Romano, 31 ss., che assegna alla partizione un valore più pregnante, che va ben al di là della mera elencazione delle fonti del diritto, ammesso che di fonti si possa trattare, ciò che l’autrice non crede, nella misura in cui osserva che con tale termine si indicano ‘tutti gli atti o i fatti che producono diritto oggettivo e non è pertanto idoneo a ricomprendere partes iuris, come il patto e il giudicato, alle quali mancano il carattere di generalità e astrattezza’. Il procedimento della partitio attiene, invece, secondo l’Autrice, alla divisione di un tutto, assunto come entità unitaria nelle sue parti costitutive…’; diversamente G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, 207, afferma che ‘guardando alle ‘partes’ si può risalire alle fonti, da cui le varie ‘partes’ derivano: deve, anzi, notarsi, che quelle opere – dei retori – indicano le parti con parole che in realtà per lo più convengono alle fonti’.

 

[22] Il senso della partitio poteva essere vario, cambiando a seconda della finalità che l’autore si proponeva. Cicerone ricorse spesso alla partitio. Nel 54 a.C. intitolò il trattato di oratoria destinato al figlio Marco Partitiones oratoriae, e già nel nel 44 nei Topica evidenziava l’essenza della definitio per partitionem, cogliendola attraverso un confronto con la definitio per divisionem, nella scomposizione di una componente che mantiene comunque la sua intrinseca unità, come membra di un corpo unico: Top. 5.28 Atque etiam definitiones aliae sunt partitionum aliae divisionum: partitionum, cum res ea quae proposita est quasi in membra discerpitur, ut si quis ius civile dicat id esse quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate consistat.

 

[23] Risiede proprio nella concretezza e non nella ricerca di concetti astratti la principale differenza tra la definitio per partitionem rispetto a quella per divisionem, come ha evidenziato D. Nörr, Divisio cit., 43. il punto è tuttavia controverso, specialmente riguardo alla possibilità che oggetto della partitio possano essere anche i genera alla cui divisione ricorsero spesso i giuristi romani; in tal senso, B. Schmidlin, Die römischen Rechtsregeln,186 ss., trovando la netta opposizione di autorevoli romanisti, tra i quali R. Martini, ‘Genus’ e ‘species’ nel linguaggio gaiano, 465 s., la cui tesi è condivisa da M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’,14-17 aprile 1973, II, 17 ss.; cfr. anche S. Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50.17.23, 108 ss.; G. Arricò Anselmo, Partes iuris, 109 ss.

 

[24] Agli Autori indicati alle note precedenti si dovrebbe aggiungere una copiosa lista di citazioni. Mi esimo, per il timore di non essere completa, tanto essa sarebbe numerosa. Vorrei, comunque, segnalare il perseguimento della funzionalità degli schemi divisori, più che la loro proiezione alla costruzione del 'sistema', seguita all'opera di th. Vieweg, Topik und Jurisprudenz, München, 1953; sul punto rinvio a M. Talamanca, Lo schema 'genus-species', 17 ss. Cfr. M. Bretone, Storia del diritto romano, p. 446.

 

[25] G. Crifò, Attività normativa del senato in età repubblicana, 80 ss..

 

[26] Cfr. M. Talamanca, Lo schema 'genus-species ', cit, 18 nt. 74.,

 

[27] Sul punto ulteriori approfondimenti appaiono essenziali, stante la grande diversità di posizioni nella filosofia greca, dalla quale la Rhet. ad Her. intendeva prendere le distanze ( lo evidenzia il Calboli, Cornificiana 2, cit. 43, citando il proposito iniziale dell’opera: 1.1: Quas ob res illa, quae Greci scriptores inanis adrogantiae causa adsumpserunt, reliquimus)e nella quale si era registrata, forse, la predilezione per la partitio da parte degli stoici v. M. Talamanca, Lo schema ‘genus- species’, cit. 111 ss. ed ivi bibl..

 

[28] D. Nörr, Divisto und Partitio, cit, 43.

 

[29] Così T. Masiello, Ideologia e diritto nel De inventione e nella Rhetorica ad Herennium, 87 ss.

 

[30] Supra nt. 21; cfr. M. Bretone, Storia, cit., p. 197

 

[31] Così T. Masiello, Ideologia cit., 75 ss.

 

[32] M. Bretone, Storia, cit, 197.

 

[33] Fra i tanti, in proposito cfr. P. Cerami, La concezione celsina del’ ius’, 7 ss., il quale attribuisce, però a Cicerone una visione statica del diritto, volta al perseguimento dell’unum ius, prospettato nel De le gibus 1.15.42.

 

[34] Supra, nt.1.

 

[35] D. 50. 16. 220. 1-3, Call. 2 quaest.: Sed et Papirius Fronto libro tertio responsorum ait praedio cum vilico et contubernali eius et fìlius legatos nepotes quoque ex filiis contineri, nisi voluntas testatoris aliter habeat: filii autem enim appellatione saepe et nepotes accipi multifariam placere. Divus quoque Marcus rescripsit non videri sine liberis defunctum, qui nepotem suum heredem reliquit. Praeter haec omnia natura nos quoque docet parentes pios, qui liberorum procreandorum animo et voto uxores ducunt, filiorum appellatione omnes qui ex nobis descendunt continere: nec enim dulciore nomine possumus nepotes nostros quam filii appellare etenim… Con sorprendente continuità era ritenuto indiscusso il concetto che il rapporto filiale derivasse direttamente dalla natura. La stessa continuità si riscontra nella notissima definizione di Ulpiano, che ravvisava il diritto naturale nei rapporti tra genitori e figli, comune persino agli animali D. 1. 1. 1. 3,: Ulp. 1 inst.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque comune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appella mus, hinc liberorum procreatio, hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appella mus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri. S. Tafaro, Famiglia e matrimonio, 31 ss.; va, infine, ricordato che il primo significato di ius concerneva proprio i rapporti parentali ed era adoperato in tal senso ancora da Marciano nelle Istituzioni: D. 1. 1. 12, Marcian. 1 inst., in una testimonianza finora trascurata dalla dottrina, ma ora valorizzata da P. Catalano, Diritto, soggetti, oggetti, 102.

 

[36] Per Cicerone, si tenga presente quanto egli dice in più luoghi ed incisivamente nel De off. 17. 54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima sodetas in ipso coniugio est. proxima in liberis... Sul punto v. S Tafaro, Famiglia e matrimonio, cit, 20 ss; l'a. sintetizza così il nesso natura-famiglia: «1. la famiglia romana realizzava i principii della 'natura' e, pertanto, nel diritto, aveva come punto di riferimento il diritto naturale" (p.23) e sostiene che per comprendere cosa ciò implicasse "si rivela essenziale il pensiero di Cicerone».

 

[37] La visione romana della realtà era quella di cerchi concentrici, nei quali "i due estremi sono l'umanità e la famiglia, la cellula minima di cui il singolo individuo fa parte; fra questi estremi si situa lo stato, un'istituzione insieme naturale e storica": cosi M. Bretone, Storia, cit., 38 s., dove viene ricordato che la suggestiva ed efficace immagine dei 'cerchi concentrici' per la visione romana della società proviene da M. Pohlenz, Antikes Fuhrertum. Cicero de officiis und das Lebensideal des Panaitios, 1934, 37 = L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel de officiis di Cicerone, Brescia 1970, 66.

 

[38] La pluralità di significati e di implicazioni della percezione sia della natura sia del ius naturae è più volte estrinsecata in differenti opere dall'Arpinate; su di essi vedi una sintesi in M. Bretone, Storia, cit. 327 ss.

 

[39] Tab. 1. 1-3, V. I1 testo in FIRA (Fontes iuris romani anteiustiniani) I. 26, C. G. Bruns, 17 ss. Cfr. M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München, 1996, 64 ss. ed ivi bibl. La tab. I conteneva un comando secco ed indiscutibile (secondo quella che lo Schmidlin definisce ‘Spruchregel’, avente in sé stessa autorevolezza, non bisognevole di giustificazione): Si in ius vocat ito, seguita dall'indicazione delle sanzioni contro l'inottemperante Ni it antestamino; 1.2: Si calvitur pedemve struit manum endo iacito; 1. 3: Si morbus aevitasve escit iumento dato. Si nolet arceram ne sternito).

 

[40] Ideologia, cit., 82.

 

[41] M. Bretone, Tecniche e ideologie, cit., 23 ss.

 

[42] Così T. Masiello, Ideologia cit.,82

 

[43] Erano, invero, i mores maionun universalmente riconosciuti come fonte del ius civile; sul punto cfr. M. Bretone, Storia, cit., 93, 106, 289. Gaio, che più volte faceva riferimento al diritto di natura consuetudinaria, usava il termine mos (mores): cfr., ad es., Inst 1. 1;. 4. 26-29. è ben vero che Cicerone adoperava sia mos sia consuetudo, ma è significativo che proprio quando trattava del ius civile (come in Top. 5. 28) parlava solo di mos. Perciò mi pare persuasiva l'esistenza di una contrapposizione o quanto meno di una differenziazione tra consuetudo e mos, così come è stato sostenuto dal Gallo, nel lavoro citato alla nt. prec. Né mi paiono definitive la conclusioni raggiunte da L. Bove, La consuetudine in diritto romano. I. Dalla Repubblica all’età dei Severi, Napoli 1971.

 

[44] M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, 148, 164, 167,290, 313 S., 333, 516, 547, 556, 580 s.

 

[45] D. 1.1.1. pr., Ulp. 1 inst.: ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et ae­qui, sul quale, tra la copiosissima bibliografìa v. P. CERAMI, La concezione celsina del «ius» , cit., 6 ss.; F. GALLO, Sulla definizione Celsina del diritto, 7 ss. = Opuscula selecta, cit., 553 ss. e, di recente, A. SCHIAVONE, Ius, 361 ss.

 

[46] Ideologia e diritto, cit., 86.

 

[47] Così T. MASIELLO, Ideologia e diritto, cit., 95.