N.
9 – 2010 – D. & Innovazione
Palazzo dell’Università,
Sala Consiliare dell’Ateneo
Commemorazione del Senatore Francesco
Cossiga. Il profilo
scientifico dello studioso
Università di Sassari,
Professore ordinario di Diritto costituzionale
nella Facoltà di
Giurisprudenza
La
produzione scientifica di Francesco Cossiga si concentra soprattutto in un
lasso temporale che va dal 1950 al 1953, e comprende scritti brevi ma comunque
significativi.
Il
futuro Presidente, infatti, muove i primi passi della sua carriera accademica
(e politica) a Sassari, sua città natale ma, in fondo, è figlio
del suo paese d’origine, Siligo, piccolo centro situato nel mezzo di
quella sub-regione della Sardegna chiamata “Mejlogu”, “luogo
di mezzo”; e Cossiga – verrebbe da dire: metonimicamente –
è in tutto e per tutto un “uomo di mezzo”, continuamente
sospeso tra le origini che intende preservare e il cambiamento che, soprattutto
da politico, fu chiamato a gestire quasi di giorno in giorno.
Per
coniugare tali propensioni palesemente divergenti occorrono doti particolari,
che Cossiga possedeva in quantità, e che traspaiono già dai
lavori giovanili: un’evidente tendenza alla conservazione del lascito dei
Padri, accompagnato però da una certa inventiva nei metodi per
ottenerla; una naturale inclinazione per la complicazione, temperata da
un’esercitata cifra pragmatica che lo induceva talora a ricercare
soluzioni immediate purché efficaci.
Cossiga
è stato “uomo di mezzo”, sempre in bilico tra mediazione e
intransigenza. Mai, però, egli ha sconfessato un piccolo ma coriaceo
nucleo di principi per lui assolutamente intangibili, o – come si direbbe
con terminologia più à la
page – “non negoziabili”.
Principi
che sono ben presenti nella sua produzione dottrinale.
Il
primo esempio che ci piace portare a conforto di tale profilo è un
lavoro pubblicato nel 1950 sulla Rassegna
di diritto pubblico (rivista che era pubblicata a Napoli dall’editore
Jovene e che ora non esiste più, ma in quegli anni era assai autorevole:
pubblicò peraltro tutti i primi contributi di Giuseppe Guarino sulla
costituzione repubblicana appena entrata in vigore). Il titolo del lavoro
è I membri dei consigli regionali
godono della inviolabilità parlamentare: si tratta di
un’annotazione (non adesiva) ad una pronunzia delle Sezioni riunite della
Corte di cassazione del 1950, con cui il supremo Collegio censurava la prassi dell’Assemblea regionale e
della magistratura siciliana di estendere analogicamente l’istituto
dell’inviolabilità parlamentare ai consiglieri regionali dell’isola.
La tesi degli ermellini era che, trattandosi di disposizione eccezionale, in
difetto di espressa previsione, non ne fosse possibile
l’applicazione analogica, e l’argomento è di quelli che
paiono difficilmente attaccabili.
Il
giovane studioso – con uno stile argomentativo sicuro – indaga
invece la ratio dell’istituto,
critica in maniera puntuale la qualificazione dell’art. 68 della
Costituzione quale norma eccezionale e ne dimostra invece la natura di coerente
declinazione di un principio generale e indefettibile di autonomia degli organi
deliberativi, con ciò gettando le basi per un fondato dissenso rispetto
alla pronuncia annotata. Abilmente Cossiga individua il fulcro del ragionamento
dei giudici di legittimità nel rapporto di specialità così
come istituito dalla sentenza annotata (status
dei comuni cittadini – status dei
parlamentari) e sposta il piano di operatività del principio de quo sul livello istituzionale dei
rapporti tra Parlamento e gli altri organi costituzionali.
Peraltro,
una delle premesse che – anche se non esplicitata – sta a
fondamento della ricostruzione cossighiana, è la comune natura di tutte
le assemblee legislative, quale che sia il livello di governo nel quale si
collocano: in altre parole, se c’è identità sotto il
profilo funzionale – e in questo caso c’è, perchè il
parlamento nazionale e i consigli regionali condividono la titolarità
della funzione legislativa –
allora deve esserci pure identità di struttura, sia sotto il
profilo dei principi organizzativi essenziali, sia sotto il profilo delle
posizioni soggettive spettanti ai loro membri. Forse nel 1950 era troppo presto
perché si affermasse con nettezza che le assemblee legislative nazionale
e regionali sono egualmente esponenziali della sovranità popolare,
egualmente rappresentative del corpo elettorale: in ogni modo, il discorso di
Cossiga sulle inviolabilità parlamentari (e in genere dei membri delle
assemblee legislative) contiene intuizioni interessanti, che sotto molti punti
di vista sicuramente precorrono i tempi.
Sotto
il profilo del metodo e della concezione teorica generale, nel saggio in
oggetto trapela un’idea peculiare di Costituzione, che invariabilmente
sarà riproposta anche nei saggi successivi: ossia, l’idea che la
Costituzione, e l’ordinamento, non siano solo un insieme di norme, ma anche la risultante di prassi,
applicazioni e considerazioni d’opportunità ed adeguatezza al
caso, tutte armonicamente orientate verso la salvaguardia di qualcosa di
superiore. Per Cossiga la costituzione non è solo un testo, ma anche un
insieme di valori extratestuali che non solo fondano il valore giuridico del
testo costituzionale, ma che altresì – pure alla luce degli
svolgimenti della prassi - debbono orientare l’attuazione e
l’interpretazione delle disposizioni scritte.
Questa
teoria del diritto è ben visibile nello scritto cossighiano
dell’anno successivo (nel 1951), il cui titolo è Diritto di petizione e diritti di
libertà, pubblicato in Il Foro
padano. È un saggio che ha per oggetto il diritto di petizione.
Anch’esso è originato da un’annotazione, stavolta adesiva,
ad una pronuncia giurisdizionale (nella fattispecie, del Pretore di Capua).
In
tale scritto, più che il tema in sé, sembra rilevare –
retrospettivamente – la concezione giuridica del futuro Presidente, che,
fedele alla sua impostazione fondamentalmente storicistica, vede nella
Costituzione il prodotto dell’interazione tra norme formali, prassi
applicative ed azione popolare. Cito dal testo cossighiano: «la caratteristica peculiare degli
ordinamenti democratici, prima e più ancora che da una organizzazione
formale degli organi costituzionali, è data da una effettiva
partecipazione della base popolare alla vita dello Stato».
Più
chiaramente ancora: «(…) ogni
ordinamento non è espressione astratta di una pura logicità
formale ma è la costituzione giuridica di una concreta realtà
politica che è momento di un comune processo storico (…)».
Ed
infine: « nel valutare
l’effettivo rendimento di un istituto, e quindi anche la sua vera natura,
occorre, al di là di un esame puramente formale del complesso normativo,
porlo sul piano del concreto funzionamento dell’ordinamento, occorre
inserirlo, cioè, nel sistema costituzionale che non è un puro
sistema statico di norme logiche ma un sistema dinamico di istituti che, nel
loro concreto operare, possono per l’appunto, pur nel generale loro
adeguarsi all’ordinamento normativo, produrre effetti e fenomeni da
questo non previsti o non compiutamente previsti.».
I
pochi frammenti riportati potrebbero tranquillamente essere stati scritti quarant’anni
dopo, a supporto e spiegazione della singolare cifra della sua Presidenza della
Repubblica. Ma soprattutto fanno emergere il profilo di uno studioso attento al
dibattito teorico del suo tempo. Attento soprattutto al dibattito di teoria
costituzionale che si svolse qualche anno prima nel mondo germanico durante gli
anni della sfortunata repubblica di Weimar. Cossiga conosceva le opere di Hans
Kelsen (nelle cui tesi però non si riconosceva) e aveva letto
attentamente Carl Schmitt. Conosceva altresì le opere di autori minori
(che poi minori non sono…), come Rudolf Smend e Hermann Heller: il passo
citato sembra proprio rievocare, anche nella terminologia, le tesi di
quest’ultimo, in particolare l’idea che la costituzione sia un
fenomeno complesso, che intreccia normalità sociale e normatività
giuridica, secondo un processo dinamico d’interazione continua.
Francesco
Cossiga non è stato solo uomo politico e delle istituzioni in tempi di
transizione, non è stato solo “uomo di mezzo”; è
stato anche “uomo in mezzo”,
in mezzo al popolo, alla gente di Sardegna.
In
particolare, l’attenzione del giovane studioso per i problemi della sua
terra è ben visibile negli scritti che stiamo commentando, aventi a
oggetto le competenze regionali in
materia creditizia (1952) e la libertà d’espatrio e
d’emigrazione (1953).
Sotto
il profilo metodologico, essi meritano di essere ricordati per la già
poderosa crescita dello studioso, che si muove con estrema confidenza
all’interno di perimetri apparentemente ristretti ma che presuppongono,
in realtà, il dominio di una chiara e salda concezione istituzionale del
diritto, in cui il dato testuale – per essere “approvato”
– deve sempre superare il vaglio della “ragion pratica”.
Ma,
soprattutto, i due saggi in parola (particolarmente il secondo) testimoniano il
forte rapporto che il futuro Presidente ha sempre mantenuto con le
problematiche sociali della Sardegna, e non è forse sbagliato ipotizzare
che gli studi in questione possano aver rappresentato il primo “servizio”
che il giovane Francesco Cossiga pensava di rendere alla comunità, nei
limiti delle sue possibilità e dei suoi mezzi del momento.
Voglio
chiudere questa rapida riflessione sul profilo scientifico dello studioso
Cossiga con un ultimo saggio, che non appartiene alla produzione scientifica in
senso proprio. Infatti non è stato pubblicato su riviste scientifiche di
settore o in forma monografica. Si tratta del messaggio presidenziale sulle
riforme costituzionali trasmesso alle Camere il 26 giugno 1991 (ai sensi, ovviamente,
dell’art. 87, secondo comma, della Costituzione).
Nonostante
la forma e la finalità istituzionale, questo messaggio è
concepito come se fosse un saggio scientifico, dove trovano finalmente sviluppo
e compimento quei motivi, quelle intuizioni, quelle analisi e –
perché no? – anche
suggestioni che già caratterizzavano gli scritti giovanili ricordati
prima.
Sicuramente
non sarebbe un errore definire il messaggio presidenziale del 1991 come il
documento che più e meglio d’ogni altro racchiude – con
ampiezza e coerenza di svolgimenti – la dottrina costituzionale di
Francesco Cossiga.
Fu
– non a caso – un saggio che ebbe vasta eco non solo nel dibattito
politico-giornalistico del tempo, ma anche nel dibattito specificamente
costituzionalistico di allora: basti pensare che l’autorevole rivista Giurisprudenza costituzionale
dedicò al messaggio, cosa mai fatta prima, un intero numero della
rivista, ospitando in forma di dibattito le opinioni di numerosi
costituzionalisti. Per il vero, le opinioni per la maggior parte non furono
adesive e i contenuti del messaggio vennero criticati anche aspramente. Col
senno di poi molti di questi giudizi negativi, probabilmente, andrebbero
rivisti, soprattutto quelli concernenti le proposte di Cossiga circa il metodo
da seguire per la realizzazione delle riforme costituzionali.
Dicevo,
si tratta di un vero e proprio saggio, assai denso e corposo (oltre 60 pagine!
Una sorta di snello lavoro monografico). Contiene numerose notazioni e analisi
sulla cornice storico-politica nella quale si addivenne alla formulazione e
approvazione della Costituzione del ‘47; vengono investigate le
condizioni sociali ed economiche positive che ne hanno accompagnato
l’attuazione nei decenni successivi e, di contro, le difficoltà
del sistema politico-partitico, con una rassegna ragionata di tutti i problemi
di funzionamento della forma di governo, del sistema elettorale,
dell’ordinamento giudiziario e del sistema delle autonomie territoriali:
l’analisi di Cossiga non risparmia nessun ganglio dell’articolazione
costituzionale complessiva. Vengono, inoltre, ricordate ed esaminate tutte le
proposte di riforma avanzate nelle legislature precedenti, con
l’illustrazione testarda, ostinata, dei loro pregi e difetti.
Infine,
il messaggio proponeva di modificare l’art. 138 della Costituzione in
modo da sostituire il procedimento di revisione costituzionale vigente con un
procedimento imperniato sull’elezione di un’Assemblea costituente,
cui affidare il compito di riscrivere la parte organizzativa della Costituzione
italiana. Insieme alle proposte e analisi in tema di forma di governo, fu
indubbiamente il passo più criticato da parte della dottrina
costituzionalistica del tempo. In particolare non piacque il riferimento alla
necessità di avviare un processo costituente, poiché si riteneva
che il potere costituente fosse ormai “esaurito” e che non fosse
possibile riattivarlo senza porsi al di fuori della legalità
costituzionale. Si temeva, inoltre, che questa rottura della continuità con
la costituzione del ’47 potesse suonare come un giudizio sostanzialmente
negativo sulla stessa esperienza costituzionale repubblicana per come, fino a
quel momento, era stata realizzata dalle forze politiche costituenti.
In
realtà, Cossiga non intendeva evocare la necessità di un potere
costituente assoluto e totale, che facesse piazza pulita del passato marcando
una profonda discontinuità con le realizzazioni costituzionali del
dopoguerra. Non abbandonò mai l’idea, già vigorosamente
avanzata negli scritti giovanili, che al di sopra del testo costituzionale vi
fossero taluni principi superiori – “supremi” direbbe la
dottrina costituzionalistica – che concernono la sovranità
popolare, le libertà fondamentali dell’individuo, i principi di
eguaglianza, i diritti sociali; principi che una costituzione
democratico-pluralista, e le riforme di una costituzione
democratico-pluralista, non potrebbero cancellare o depotenziare senza con
ciò tradire la missione e il significato che sono propri di una
costituzione degna di questo nome: la costituzione non è qualsiasi atto
che organizzi il potere, ma è quell’atto che organizza il potere
secondo certi valori e certi principi che la cultura del
costituzionalismo considera irrinunciabili.
Ciò
premesso, Cossiga semplicemente osservava che si era alla vigilia di
trasformazioni costituzionali spontanee, non volute e impreviste – come
puntualmente accadde di lì a un paio d’anni, quando in seguito
all’introduzione del sistema elettorale maggioritario mutò la
fisionomia dei partiti allora esistenti e furono travolte molte convenzioni
costituzionali seguite fino a quel momento. A giudizio di Cossiga, il sistema
politico-partitico e la stessa nazione italiana non potevano rimanere inerti di
fronte a questi processi trasformativi, non potevano subirli passivamente: dovevano
invece riprendere in mano le redini del proprio futuro costituzionale, come
avevano fatto i Padri costituenti, nonostante le macerie della II guerra
mondiale.
Cossiga
è passato alla storia per essere stato il grande picconatore delle
istituzioni repubblicane. In realtà, probabilmente, è stato
l’ultimo dei grandi uomini politici italiani a credere nella
capacità di autoriforma del sistema politico e a nutrire una profonda
fiducia nella capacità del popolo italiano di gestire con consapevolezza
il proprio destino costituzionale.