N. 9 – 2010 – Cronache
Incontro di Studi
“Giurisdizione,
Giustizia e politica”
Università
Roma Tre, 22-23 luglio 2010
Presso l’Aula
Magna dell’Università degli Studi Roma Tre, nei giorni 22-23
luglio 2010, si è tenuto un incontro sul tema “Giurisdizione, Giustizia e Politica”,
promosso dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Centro di Eccellenza in
diritto europeo “Giovanni Pugliese” dell’Università
degli Studi Roma Tre.
Come suggerisce il
titolo che si è scelto di dare alla sessione dei lavori, chiaro è
l’intento che tale incontro si è prefissato: fare il punto della
situazione sullo stato dei rapporti tra l’amministrazione della giustizia
e la politica, rapporto di cui in tempi recenti non si è potuto fare a
meno di constatare la crisi profonda e la spesso violenta
conflittualità.
Al fine di dibattere
questo nevralgico argomento e di analizzarlo sotto il profilo dei tre soggetti
che l’attualità ha visto principalmente coinvolti –
magistrati, politici e mass media – l’incontro si è
articolato in tre diverse Tavole Rotonde: la prima, dal titolo “Una riflessione introduttiva”, ha
visto come protagonisti esponenti del mondo politico; la seconda, “Giurisdizione, indipendenza e
professionalità: attuazione di una riforma”, ha invece coinvolto
i magistrati, in special modo membri laici e togati
dell’uscente Consiglio Superiore della Magistratura; la terza, “Magistratura e giustizia nella percezione
collettiva”, ha invece chiamato in conto rappresentanti degli organi
di stampa, intesi come testimoni, interlocutori e interpreti della crisi
succitata.
I lavori si sono
aperti con il saluto di Guido Fabiani, rettore
dell’Università degli Studi di Roma Tre, che si è fatto
altresì portavoce dei saluti del Ministro Angelino Alfano e
dell’Onorevole Michele Vietti, assenti per sopraggiunti impegni
istituzionali. Il Rettore ha ricordato l’attualità e
l’importanza di un tema che coinvolge la società civile tutta, e
che non manca di rappresentare una fonte di preoccupazione costante per gli
stessi cittadini, chiamati sovente a far da testimoni del conflitto in atto tra
potere giudiziario e potere politico; un conflitto, questo, che altera i
fragili equilibri alla base dello Stato democratico e della sua dialettica
interna. Il Rettore ha poi sottolineato la pregnanza della scelta
dell’Università come luogo di dibattito pubblico, poiché
è nelle aule universitarie che non solo si tesaurizza e si trasmette il
sapere, ma che soprattutto si forma la classe dirigente cui sono demandate le
sorti di un Paese. Scegliere dunque l’Università per discutere un
tema di immediato interesse sociale vuol dire coinvolgere direttamente il
nucleo più fertile e ricettivo della società civile, chiamandola
a essere artefice consapevole del proprio futuro.
La parola passa poi al
preside della Facoltà di Giurisprudenza, il professor Paolo Benvenuti,
che riprende le considerazioni già fatte dal Rettore per rimarcare
l’attualità del tema dei rapporti tra giustizia, giurisdizione e
politica. Il Preside sottolinea la longevità di un dibattito ormai
secolare «ma che trova di volta in volta nella società nuovi
spunti, poiché la giustizia è un elemento di equilibrio del
sistema». Viene poi ribadito come la naturale mobilità di un
tessuto sociale in costante evoluzione interessi direttamente la nozione di
giustizia, incidendo sui suoi parametri di identificazione quale valore e sulle
modalità del suo perseguimento. Come già il Rettore, così
anche il Preside ribadisce l’importanza della partecipazione
dell’Università a un dibattito d’interesse pubblico,
poiché «l’Università appartiene essa stessa al
sistema e dunque questi temi essenziali non debbono sfuggirle».
L’intervento si chiude con un rapido sguardo al Diritto Internazionale,
di cui il professor Benvenuti è docente presso l’Università
degli Studi di Roma Tre, ricordando come il tema giustizia-politica abbia un
ruolo centrale anche sul piano sopranazionale, sebbene oggetto di dibattito
solo nell’ultimo quindicennio. Il Preside ricorda non a caso i più
recenti sviluppi della giurisdizione del Tribunale Penale per la Jugoslavia e
la scelta di sottoporre a un nuovo processo l’ex primo Ministro del
Kosovo Haradinaj (decisione del 21 luglio 2010) quale
esempio d’intersezione dei piani giustizia-politica.
Terzo e ultimo
intervento nel quadro della presentazione dell’incontro è quello
della professoressa Letizia Vacca, già Preside della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma
Tre e membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura uscente.
L’intervento della professoressa Vacca si apre con un ringraziamento agli
organi dell’Università per la disponibilità mostrata alla
ricezione di stimoli provenienti non solo da ambito accademico, quanto anche da
altre realtà istituzionali; una sinergia, questa, che, se tradotta in un
impegno e in una collaborazione costanti, andrebbe a sanare la frattura troppo
spesso esistente tra le due anime del diritto, quella teorica e quella pratica.
La professoressa, non a caso, ricorda il personale impegno profuso sul piano
del coordinamento di una serie di iniziative volte proprio a favorire e a
rinvigorire il dialogo tra gli operatori pratici del diritto – avvocati e
magistrati – e l’Università, intesa come luogo di formazione
del giurista colto. La riflessione sull’esigenza di una convergenza operativa
tra teoria e prassi del diritto, che ha preso le mosse dal convegno “Ius dicere:
ritualità e verità nel giudizio” (Venezia, 9-10 maggio
2008), per poi svilupparsi ulteriormente nel convegno ARISTEC “Scienza
giuridica e prassi” (Palermo, 26-28 novembre 2009), vede dunque nelle
Tavole Rotonde del 22-23 luglio 2010 solo un’ulteriore tappa di un lungo
e proficuo percorso di analisi del rapporto che intercorre tra interpretazione
giudiziale e scienza giuridica. La professoressa Vacca richiama l’attenzione
sul valore pregnante dei tre termini scelti per inquadrare l’oggetto
dell’incontro: giurisdizione, giustizia e politica. Il termine
giurisdizione, in particolar modo, «indica un’attività che
nella formalizzazione dello ius dicere tende verso la giustizia», il che pone una
serie di interrogativi circa l’effettiva possibilità di realizzare
nel concreto un obiettivo tanto astratto, suscettibile d’essere per altro
recepito in modo diverso a seconda della temperie storica di cui si parla. Non
a caso, la relatrice individua il momento di sintesi tra la giustizia come
valore astratto e la giurisdizione intesa come suo esercizio concreto, quando
l’attività dichiarativa del diritto esercitata nelle aule dei
tribunali si configura come «quanto di più vicino vi sia a ciò
che la collettività percepisce come ‘giusto’». Come
tuttavia ricorda ancora, lo ius dicere è solo uno dei poteri dello Stato
sovrano, cui va necessariamente affiancato il potere legislativo, che è
invece di competenza del Parlamento. Che rapporto esiste, dunque, tra la
giurisdizione intesa come ‘dichiarazione del diritto’ e la
politica, intesa come ‘luogo delle scelte’? Il potere
giurisdizionale è meramente ricognitivo delle decisioni del Legislatore,
ovvero integra, interpreta le norme e le riempie di ulteriori contenuti, sino
ad avvicinarle quanto più possibile all’idea sociale e condivisa
di giustizia? La professoressa Vacca sottolinea in tal senso il rischio di un
pericoloso relativismo legato alla naturale fluidità del concetto di
giustizia, cui va invece opposta la neutralità della funzione
giurisdizionale. Tra giurisdizione e politica non deve infatti esistere un
rapporto agonale e conflittuale, ma una sintesi
sinergica che muova verso la realizzazione di una giustizia riconosciuta. A tal
proposito, in chiusura del proprio intervento, richiama l’attenzione
sulla responsabilità dei mass media, che troppo spesso sono portati a
esasperare toni e posizioni di conflitto, offrendo alla collettività
un’immagine distorta della necessaria e permanente riflessione sulla
giustizia.
A questa presentazione
generale dei temi oggetto del dibattito, segue la Tavola Rotonda, “Una
riflessione introduttiva”, coordinata da Ernesto Lupo, Primo
Presidente della Corte di Cassazione.
La riflessione di Ernesto
Lupo apre con uno sguardo alla temperie storica attuale, la cui
complessità sociale e politica direttamente incide sulla trasformazione
e sull’ampliamento delle competenze della funzione giurisdizionale. La
diffusione europea di tale fenomeno, che obbedisce all’inesorabile
divenire della società, non ha impedito all’Italia di distinguersi
per la violenta e patologica conflittualità con cui potere giudiziario e
potere politico hanno teso a rivendicare i rispettivi ambiti di
operatività, nel quadro di una profonda evoluzione delle strutture
interne dello Stato. A tal proposito, il relatore individua alcune
tipicità della situazione giuridica italiana, cui andrebbero demandate
le ragioni del nevralgico rapporto tra giurisdizione e politica:
· sottoposizione
della classe politica alla giurisdizione penale (a seguito
dell’eliminazione dell’autorizzazione a procedere in attuazione
dell’art. 3 Cost.)
· dilatazione
degli spazi che la cultura giuridica (e politica) contemporanea riconosce
all’interpretazione giudiziale, tanto da poter configurare il tempo
presente come «età dell’interpretazione della legge»
più che come «età della legge»
· insufficienza
o inidoneità della legge a disciplinare una realtà sociale e
civile in continua evoluzione.
Il complesso di questi
fattori ha senz’altro alterato gli equilibri sussistenti tra
giurisdizione e politica, poiché tanto l’assoggettamento dei
politici al potere giudiziario, tanto il sostituirsi di
un’interpretazione con valenza talora nomopoietica
a un’ermeneutica meramente ricognitiva del testo, definiscono i termini
di una contrapposizione agonale dei poteri. Tale
conflitto, d’altra parte, ingenera nella società civile diffidenza
nei confronti dei rappresentanti dell’uno e dell’altro potere, e un
diffuso sentimento di sfiducia nei confronti del Diritto e della giustizia,
poiché, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni, «perdono
credibilità due valori di fondo dello Stato democratico: quello di chi
realizza la giustizia e quello di chi gestisce la polis».
Poiché non esiste senz’altro una risposta univoca alla domanda su
come sia possibile uscire da una simile situazione di stallo, la scommessa per
il futuro riposa dunque nella disponibilità dei rappresentanti dei
diversi ordini alla riapertura di un confronto su tali temi.
La parola passa poi
all’avvocato Gianfranco Anedda,
componente laico del CSM uscente, che esordisce ricordando la latitudine delle
problematiche in esame e la loro longevità storica. Il relatore sceglie
di circoscrivere il proprio intervento al tema del conflitto in atto tra
magistratura e politica, o meglio – come puntualizza subito – tra
il Parlamento, i governi e la magistratura. Nello sforzo di indagare le cause
– vere o presunte – di tale contrasto, e di valutare s’esso
sia effetto della particolare temperie storica che sta vivendo l’Italia,
o non abbia piuttosto concorso a fondare un clima di veleni e di sospetti
spesso ulteriormente amplificati dalle cronache giornalistiche,
l’Onorevole Anedda ricorda il valore sociale
del processo, e l’anomalia tutta italiana della tendenza recente a
«difendersi dal processo, anziché nel
processo». In opposizione a quanto suggerito da Ernesto Lupo, Gianfranco Anedda sottolinea la persistenza, nella cultura collettiva,
dell’idea di un giudice come Bouche
de la Loi, e non quale artefice dinamico della
legge attraverso la propria interpretazione della norma. Il relatore richiama
poi gli articoli 101 e 104 della Costituzione come fondativi
dell’indipendenza della magistratura, definita d’altra parte
‘ordine’ e non ‘potere’, e in tali articoli individua
la radice del conflitto in atto. Se infatti i Padri Costituenti avevano
costruito un sistema equilibrato, fondato su un controbilanciamento
costante dei poteri, neutralizzando la forza politica della magistratura, ma
assicurando per converso che quest’ultima fosse immune da qualsivoglia
controllo esterno, il preteso acquisto di una competenza paranormativa da parte
dei giudici per effetto dell’art. 12 delle Preleggi,
ha innescato immediatamente una situazione di conflitto con il potere politico,
che si è sentito in parte esautorato delle proprie prerogative. Un
contrasto tra monadi, questo, che ha prodotto perniciose lesioni sul fronte
della certezza del diritto e pregiudicato l’autonomia degli stessi
magistrati.
A seguire,
l’intervento dell’Onorevole Oliviero Diliberto, segretario
nazionale del Partito dei Comunisti Italiani, apre ricordando la
longevità del dibattito sulla situazione di crisi della giustizia
italiana, perniciosamente afflitta da arretrati giudiziari e lungaggini
burocratiche. Accanto infatti alla specificità di un problema che
attraversa la stessa storia del diritto – segue un breve excursus
storico sulle voci autorevoli che dal Settecento in poi hanno analizzato i
difetti e i limiti della giurisprudenza, proponendo eventuali misure rimediali
– è innegabile come, negli ultimi venti anni, il sistema
giudiziario italiano sia parso gravato da difetti strutturali che hanno
senz’altro concorso a preparare l’attuale situazione di conflitto.
L’Onorevole Diliberto fissa nella fine degli anni Ottanta il dies a quo della crisi della politica, intesa
come progressiva delegittimazione della politica stessa; una crisi, questa,
ostativa a un serio programma di riforme quale quello di cui il diritto –
e in special modo la procedura – aveva bisogno.
Se poi la debolezza della politica ha impedito che si attuassero sotto il
profilo normativo snellimenti strutturali, a premere perché restassero
nell’alveo della giurisdizione materie altrimenti suscettibili
d’essere sottratte al processo, sono state le forze più
conservatrici di magistratura e avvocatura, costituitesi come veri e propri
gruppi di potere. Il relatore suggerisce come il contrasto tra i rappresentanti
dei due ordini – politici e magistrati – sia successivo agli anni
Settanta, allorché la progressiva ‘politicizzazione’ della
magistratura comincia a essere vista come una qualità sociale condivisa,
e si individua nell’autonomia del magistrato una garanzia per lo stesso
cittadino. L’Onorevole Diliberto evidenzia come la tradizionale tripartizione
dei poteri dello Stato debba oggi essere intesa come quadripartizione,
poiché l’influenza dei media e dell’informazione è
ormai tale nella vita delle collettività da incidere sulle stesse scelte
politiche. Il relatore porta poi l’attenzione sull’anomalia tutta
italiana per la quale il principale soggetto detentore del controllo sui media
occupa anche un ruolo di primo piano nell’esecutivo del Paese, con una
conseguente commistione dei poteri (economico, politico e istituzionale) che
non ha eguali in alcun altro stato al mondo, e che in Italia si è
tradotto nella graduale mortificazione della funzione parlamentare, di fatto
assoggettata alle scelte governative. A fronte di questa concentrazione di
poteri in un unico polo, la magistratura si è dunque sentita investita
– e come tale è stata vista dalla collettività – come
ultimo baluardo per la preservazione della democrazia. Da ciò, ricorda
il relatore, l’attacco autoconservativo del
gruppo di potere, che ha individuato nell’autonomia dei magistrati un pericolo
per il perseguimento di una ‘politica dei privilegi’ e che dunque
non ha esitato a ricorrere ai media per promuovere una campagna di
delegittimazione degli stessi – definizione dei magistrati come toghe
rosse.
Prende poi la parola
l’avvocato Ubaldo Perfetti, vicepresidente vicario del Consiglio
Nazionale Forense. Il relatore concorda nella sostanza con le riflessioni
già offerte dal coordinatore Ernesto Lupo: preso atto
dell’effettività di una situazione di conflitto, le ragioni sono
senz’altro da ricercarsi nell’invasione progressiva da parte della
magistratura degli spazi deputati tradizionalmente alla politica.
L’avvocato Perfetti ritiene nei fatti come «il contrasto tra
giurisdizione e politica sia frutto di un mutamento genetico indotto sulla giurisdizione
dalla parabola dello stato legislativo di diritto che si trasforma in stato
costituzionale». Mentre infatti lo stato liberale si concreta
nell’esercizio della funzione legislativa, e dunque si identifica
nell’attività del Parlamento, lo stato costituzionale è
caratterizzato da un pluralismo delle fonti del diritto e da un allargamento
dello spettro delle situazioni garantite. A fronte delle esigenze di una
società più complessa di quella che apparteneva alla tradizione
dello stato borghese, la politica si vede sovente costretta ad abdicare a una
funzione che recupera l’interprete, mediando tra la norma e quegli
elementi che, pur esterni al diritto, ne influenzano il contenuto e
l’attuazione. Analogamente a quanto poi ricordato dall’Onorevole
Diliberto, si imputa a una classe politica in crisi l’ontologica e
perniciosa incapacità di adottare riforme in grado di migliorare la
gestione della Cosa Pubblica, intesa purtroppo sovente come feudo personale e
serbatoio di privilegi. Se queste sono le radici del conflitto in atto,
più complesso è individuare le misure rimediali. Non convince la
proposta avanzata in alcuni ambienti di abrogare la norma che sancisce
l’obbligatorietà dell’azione penale, poiché tanto
importerebbe una subordinazione dell’attività delle procure alle
decisioni della politica, che, sola, finirebbe con il vagliare
l’opportunità o meno di procedere. Complesso anche definire la
posizione del Consiglio Superiore della Magistratura, la cui terzietà come organo di vigilanza è stata
spesso adombrata da accuse di correntismo. Il principio dell’autonomia
della magistratura come ordine, nei fatti, deve attuarsi sotto un duplice
aspetto: autonomia esterna rispetto agli altri poteri, e autonomia interna,
intesa come indipendenza degli organi di autogoverno dalle ingerenze della politica (modifica
dei criteri di nomina dei membri del CSM). Se tuttavia la trasformazione degli
equilibri che regolano i rapporti tra i poteri dello Stato finisce con
l’imputare al magistrato una competenza paranormativa, il problema che si
pone è soprattutto quello della responsabilità: manca infatti tra
il giudice e il cittadino quello stesso rapporto di controllo–legittimazione
che sussiste invece tra il Parlamento e la collettività in esso
rappresentata.
Il relatore ribadisce
con forza il principio per cui non può darsi alcun potere cui non si
associ una responsabilità, sicché accanto all’indipendenza
e all’autonomia necessarie all’espletazione delle funzioni
demandate, la magistratura deve dotarsi di strumenti che ne regolino disciplina
e funzioni. In particolar modo l’avvocato Perfetti auspica una riforma
della normativa che disciplina la responsabilità dei magistrati; una
riconfigurazione della funzione dei capi direttivi degli uffici, che devono
essere assimilati ai manager e chiamati a garantire l’efficienza
operativa del sistema; l’inserimento di regole per la valutazione della
carriera sulla base di un criterio efficientista, nonché un
potenziamento della funzione dei consigli giudiziari per evitare compenetrazioni
tra valutatori e valutati. A ciò deve poi aggiungersi una necessaria
riforma del codice deontologico del magistrato, soprattutto per quel che
riguarda i profili che regolano i suoi rapporti con i media. Perché
tuttavia queste riforme possano essere attuate, è necessario prima di
tutto che lo scenario politico recuperi la propria credibilità: solo
così, nei fatti, sarà possibile promuovere interventi strutturali
che non vengano immediatamente avversati dalla controparte in quanto tacciati
di opportunismo di casta.
Segue
l’intervento dell’Onorevole Anna
Finocchiaro, presidente del gruppo del Partito
Democratico al Senato. La senatrice ricorda come appartenga alla fisiologia di
ogni Stato democratico una certa tensione tra i poteri che ne vestono le
diverse funzioni, poiché proprio tale tensione assicurerebbe il loro controbilanciamento e reciproco controllo. Al contempo,
tuttavia, questa tenue tensione non dovrebbe innescare una situazione di
conflitto, quanto essere «produttiva del risultato finale della riaffermazione
dei principi costituzionali della fedeltà alla Costituzione
nell’agire del potere politico», fungendo dunque da garanzia anche
contro gli abusi del potere esecutivo. L’anomalia della
contemporaneità – come tiene a sottolineare la relatrice, nei
fatti, il contrasto tra giurisdizione e politica non è appannaggio del
solo scenario italiano – si realizza nondimeno nell’esacerbazione
di questa tensione, che diviene conflitto e innesca dunque una serie di
conseguenze pregiudizievoli per la stessa dialettica istituzionale.
L’Onorevole Finocchiaro richiama espressamente
le responsabilità della politica in merito all’acuirsi del
contrasto tra i poteri dello Stato, poiché la dilatazione degli spazi di
apprezzamento dell’interprete è strettamente legata a un’attività
legislativa poco rispettosa del dettato costituzionale, ovvero produttiva di
norme ambigue, imprecise o in contrasto con il diritto comunitario. La
relazione si concentra poi su quelli che sono gli effetti del conflitto
succitato, isolati dalla relatrice nei seguenti punti:
· angustia
e parzialità del punto di osservazione.
Quando si parla di
conflitto tra potere politico e giurisdizione, nei fatti, si sottintende in
realtà sempre riferire di un contrasto tra politici e magistratura
penale, con un conseguente impoverimento del dibattito sulla giustizia,
poiché si marginalizza il ruolo altrimenti essenziale che le diverse
giurisdizioni presenti nel nostro ordinamento ricoprono nella dialettica
istituzionale del Paese. L’angustia di un simile punto di vista mortifica
un dibattito secolare, che ha oggi una dimensione transnazionale.
· Necessaria
ridefinizione degli equilibri tra i poteri.
La dilatazione degli
spazi di apprezzamento del giudice, in una società complessa e destinata
a una sempre più rapida evoluzione, importa una nuova registrazione
degli equilibri che regolano la tensione interna tra i poteri.
· Voluto
e colpevole fraintendimento sul tema delle riforme che dovrebbero interessare
la giustizia italiana.
La trattazione di tale
tema da parte dei mezzi di comunicazione di massa è stata tale da
rendere impossibile isolare l’effettivo oggetto del dibattito,
poiché alla voce di chi ritiene la riforma debba riguardare alcuni
profili strutturali dell’Ordine, si è sovrapposta l’opinione
di chi invece associa tale etichetta alla revisione dei principi costituzionali
che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale.
In conclusione del
proprio intervento, l’Onorevole Finocchiaro
lancia un monito: il mancato superamento di questa tensione nefasta per
l’ordinamento – nefasta perché dispone in modo agonale forze che dovrebbero piuttosto cooperare nel quadro
degli equilibri costituzionali – finirebbe con il condannare
l’Italia a un destino di povertà.
Nella relazione
seguente, Nicola Mancino, vice Presidente
del Consiglio Superiore della Magistratura uscente, risponde alla domanda posta
dal coordinatore Ernesto Lupo – se il CSM abbia o meno un ruolo attivo
nel conflitto in atto – richiamando ancora una volta le
responsabilità della politica. In un intervento sostanzialmente
ricognitivo delle voci di chi l’ha preceduto, il vice Presidente
sottolinea il peso che la dialettica costituzionale ha sul finale assetto dei
poteri e sugli equilibri interni, ricordando ad esempio il valore della
magistratura amministrativa come strumento di controllo attivo
dell’esercizio della funzione esecutiva. Il relatore prende atto del peso
che l’involuzione del quadro politico complessivo ha avuto sulla mancata
attuazione di una serie di riforme strutturali che avrebbero reso più
snello ed efficace l’esercizio della funzione giurisdizionale. Auspica
dunque un ritorno alla Costituzione come valore consustanziale alla formazione
dei politici e dei magistrati, nonché una nuova responsabilizzazione
della classe politica che consenta la riapertura del dialogo tra i
rappresentanti dei diversi ordini, e una loro convergenza operativa in vista
dell’utile collettivo.
Chiude la tavola
rotonda un nuovo, breve intervento del coordinatore Ernesto Lupo, che porta l’attenzione dei convenuti su un tema
che sarà poi ripreso nella seconda giornata di lavori: la
centralità della formazione del magistrato nel superamento del conflitto
in atto tra i poteri dello Stato. Il relatore sottolinea nei fatti come
l’amplificazione della funzione giurisdizionale avrebbe dovuto associarsi
a una maggiore selettività delle prove concorsuali, anziché a una
riduzione delle stesse in vista di un ampliamento del bacino di reclutamento,
necessario, d’altra parte, a garantire la copertura necessaria dei ruoli.
La seconda giornata di
lavori si apre con la Tavola Rotonda “Giurisdizione, indipendenza e
professionalità: attuazione di una riforma”, coordinata dalla
professoressa Letizia Vacca, membro laico del Consiglio Superiore della
Magistratura uscente, in sostituzione del professor Salvatore Mazzamuto, assente per motivi
di salute.
La relazione
introduttiva della professoressa Letizia
Vacca si apre con un richiamo al fondamentale valore paideutico
dell’Università, che non deve essere intesa alla stregua di un
‘esamificio’, quanto piuttosto vista come un luogo di formazione
della coscienza civile, e di riflessione sui temi di immediata
attualità. Senza un autentico raccordo tra le aule
dell’Università e la società civile, nei fatti, non
potrebbe mai costituirsi una classe dirigente consapevole, in grado di
interpretare le trasformazioni del Paese e di farvi fronte nel modo più
opportuno. Non a caso l’intervento prosegue con un richiamo a quella che
è l’attuale debolezza della politica: debolezza le cui radici
vanno individuate proprio nello scollamento progressivo della vita parlamentare
da un sistema di valori condivisi. Alla crisi del potere politico,
d’altro canto, per riprendere alcuni dei temi affrontati nel corso della
prima tavola rotonda, va associata la progressiva perdita di credibilità
della magistratura, con un conseguente crollo della fiducia dei consociati
nella terzietà dell’Ordine. Le cause di
tale delegittimazione sono da ricercarsi, secondo la professoressa Vacca, anche
nell’eccessiva esposizione mediatica di certuni magistrati, il cui
protagonismo d’immagine ha finito con lo screditare l’Ordine tutto
e appannare quella ch’è nei fatti l’autentica funzione della
magistratura. La relatrice fa poi il punto su quello che è ormai da
decenni l’invincibile male della giustizia italiana, sarebbe a dire
l’assenza di una riforma strutturale che coinvolga prima di tutto la
giustizia civile, i cui lunghi tempi di attesa finiscono spesso con il tradursi
nei fatti in una vera e propria ‘negazione di giustizia’. Come ribadisce
la professoressa Vacca, se «il processo tende alla realizzazione della
giustizia, non vi può essere giustizia senza un (giusto)
processo». Perché questa situazione di stallo venga superata
è però necessario che vi sia una sinergia delle risorse materiali
disponibili in vista di un bene collettivo, senza settarismi o ricerca di
privilegi di casta, poiché «quando si perde la percezione delle
regole (che, sole, devono disciplinare la dialettica dei poteri), si perde il
tessuto connettivo della società civile», con il conseguente
– e rovinoso – crollo culturale dell’intero sistema.
L’esperienza quadriennale del CSM uscente si configura dunque, agli occhi
della relatrice, come particolarmente fertile e proficua proprio sul piano
della ricerca di una composizione negoziale dei contrasti: la ricerca costante
dell’unanimità e di una condivisione democratica delle scelte; lo
sforzo di superare la lottizzazione partititica, il
serio e costante monitoraggio disciplinare, sono stati infatti solo alcuni
degli elementi che ne hanno connotata l’attività nel quadro della
sua azione di organo di governo e di controllo dell’Ordine.
L’auspicio della professoressa Vacca è volto a un futuro in cui
tale modus agendi
trovi validi epigoni e in cui dunque resti alta l’attenzione per la
formazione del magistrato – intesa come momento coessenziale alla
costruzione di un operatore pratico consapevole e responsabile – e per il
monitoraggio tecnico tanto dell’azione dell’esecutivo che della
qualità dei magistrati.
Di parere quasi opposto
Giuseppe Maria Berruti, magistrato e
componente del CSM uscente, il quale ritiene che, per quanto animata da nobili
intenzioni, la parabola del Consiglio Superiore della Magistratura di cui
è stato membro si sia rivelata sostanzialmente fallimentare. Se non nei
mezzi, senz’altro nei risultati. Il consigliere Berruti ricorda prima di
tutto come la riforma dell’ordinamento giudiziario sia stata concepita in
un momento di grave crisi del rapporto tra giurisdizione e politica, e
sottolinea pure quanto questo abbia pesato sulle concrete possibilità di
attuazione. Al contempo – e con rammarico – osserva come sia stata
spesso la stessa magistratura a ostentare una reazione autoconservativa
a fronte di un rinnovamento necessario della giurisdizione –
necessità data dalla complessità di una temperie storica
caratterizzata da un potere diffuso. Un CSM disponibile all’attuazione
della riforma, persino in spregio a specifiche indicazioni politiche, si
è dunque visto tacciato di correntismo proprio allorché ha tentato
di andare oltre gli interessi di parte. Con lucidità e amarezza, il
relatore porta di nuovo l’attenzione sulla centralità della
formazione – permanente – del magistrato, poiché a fronte di
«una democrazia moderna incapace di controllare e gestire la stessa
libertà di scelta (…), un’ineccepibile
professionalità diviene l’unica condizione per assicurare
l’autonomia dell’ordine». Chiude con un monito diretto ai
magistrati, posti innanzi a una scelta ineludibile, poiché «o
comprendono che devono rilegittimarsi in forza di una
lucida e controllabile professionalità, ovvero bisogna aspettarsi per il
futuro che il richiamo a un criterio efficientista uccida l’indipendenza
dell’Ordine».
Segue
l’intervento del dottor Edmondo
Bruti Liberati, Procuratore della Repubblica di Milano, la cui attenzione
si è focalizzata soprattutto sui profili strutturali e tecnici della
riforma dell’ordinamento giudiziario, nonché sull’analisi
delle proposte avanzate in sede politica in merito a un’ulteriore
trasformazione dell’assetto e delle competenze degli organi
giurisdizionali. Il relatore richiama in apertura un articolo di Angelo Panebianco, apparso sul Corriere della Sera, in cui si
auspica un sostanziale svuotamento delle competenze del CSM (competenze
definite dall’art. 105 Cost.), senza che si indichi tuttavia un soggetto
deputato a ereditarne la funzione. Il corollario di un simile disegno sarebbe,
secondo la ricostruzione del dottor Liberati, una cooptazione tutta interna dei
magistrati e un’azione di vigilanza esercitata direttamente
dall’esecutivo; una scelta, questa, che decreterebbe pure il venir meno
dell’indipendenza dell’Ordine. Il relatore sottolinea poi il
rinnovamento dato dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, come pure
le difficoltà della sua messa in opera, imputabili senz’altro a
una resistenza autoconservativa della magistratura
agli elementi di novità introdotti, in special
modo per quel che riguarda la temporaneità degli uffici direttivi e il
nuovo assetto delle procure. Il dottor Liberati vede del resto nella nuova
disciplina delle procure uno strumento valido, sebbene non esaustivo, per
controllare alcune anomalie tutte italiane, come l’estrema disinvoltura
mostrata da alcuni Pubblici Ministeri nell’esercizio dell’azione
penale che, come ricorda il relatore, non può divenire lo strumento di
una crociata politica senza che se ne snaturino profondamente le funzioni.
Più complesso, invece, controllare il protagonismo mediatico di alcuni
magistrati, problema già più volte analizzato e affrontato nel
corso delle due tavole rotonde. Una lettura ‘personalizzata’ della
giustizia non può d’altra parte prescindere da un’adeguata
responsabilizzazione, e in tal senso dovrebbe essere proprio il CSM, nel dare
attuazione alla riforma sopraccitata, a fornire indicazioni in merito ai
rapporti che i magistrati dovrebbero intrattenere con la stampa. Consustanziale
al recupero di una credibilità dell’Ordine resta comunque la sua
orgogliosa indipendenza rispetto alle situazioni di conflitto innescate da una
politica debole e corrotta. Perché tuttavia l’evanescente fantasma
del ‘Partito dei Magistrati’, sovente evocato dagli scranni della
politica, si mostri per quello che è – un fantasma inconsistente,
appunto – è necessario che i magistrati per primi evitino di
assumere quegli atteggiamenti non ragionati e non meditati, che li precipitano
nel pieno di un agone politico da cui dovrebbero piuttosto, in ragione della
loro funzione, mantenere le distanze.
Prende poi la parola Vincenzo Carbone, ex Primo Presidente
della Suprema Corte di Cassazione, che propone un intervento ricognitivo di
molte delle opinioni già espresse, per portare poi l’attenzione su
alcuni degli elementi nevralgici dell’attuale stato della giurisdizione.
Il Presidente ricorda come quella tra potere politico e potere giurisdizionale
sia una tensione secolare, connaturata agli stessi equilibri interni allo
Stato; una tensione che coinvolge in particolar modo la giurisdizione penale,
mentre quella civile, che pure tocca da vicino l’interesse dei cittadini,
sembra periferica rispetto alle preoccupazioni della classe dirigente. Come
già i relatori che l’hanno preceduto, Carbone pone l’accento
sull’influenza che un sistema pluralista ha sullo stato della
giurisdizione, poiché la proliferazione dei centri di potere importa una
moltiplicazione degli organi necessari al loro autogoverno e pone dunque la
necessità di una loro organizzazione sistematica. Il relatore rimarca il
valore della terzietà accanto a quello
dell’indipendenza del giudice, e ribadisce la centralità
dell’interpretazione come condizione di vitalità del diritto. In
chiusura del proprio intervento, il presidente Carbone ricorda poi la
dimensione europea assunta ormai dal ruolo del giudice, che concorre dunque,
con il proprio operato, alla formazione stessa diritto dell’Unione; una
funzione, questa, che non può tuttavia prescindere da una stretta
sinergia operativa con la scienza giuridica che, sola, può assicurare la
razionalità sistematica delle regole così prodotte.
Dopo un breve
intervento di raccordo della coordinatrice professoressa Letizia Vacca, prende la parola la dottoressa Ezia Maccora, magistrato e componente togato
del Consiglio Superiore della Magistratura uscente. Come già il
consigliere Berruti, la relatrice inaugura il proprio intervento con un
bilancio dell’esperienza quadriennale maturata nel CSM uscente,
sottolineando in particolar modo le difficoltà incontrate
dall’organo nel dare attuazione a una riforma aspramente avversata
sovente dagli stessi magistrati. La dottoressa Maccora
pone l’accento sulla patologica resistenza opposta da certuni ambienti al
cambiamento; resistenza che alimenta la crisi dei poteri al pari di alcuni
fattori già ricordati dai relatori della prima giornata. In particolar
modo la relatrice rinviene le ragioni del conflitto tra giurisdizione e
politica, da un lato, nella massiccia sottoposizione della classe politica al
processo penale; dall’altro, nell’evoluzione della società
che ha portato con sé anche un’evoluzione dello spettro dei diritti.
La giurisprudenza, chiamata a colmare lacune normative e a dare risposte
immediate a problematiche contingenti, si è dunque sovente trovata in
una posizione concorrenziale al potere legislativo. Ha poi concorso a
esacerbare ulteriormente il conflitto il crescente peso dei media, che
andrebbero, al pari delle parti in causa, adeguatamente responsabilizzati. La
dottoressa Maccora cita Gustavo Zagrebelsky,
e la sua lucida definizione della democrazia come del «sistema che
maggiormente sviluppa oligarchie, perché è proprio la richiesta
diffusa di giustizia che genera patronati». La relatrice analizza poi
nello specifico l’esperienza del CSM, rilevando come la messa in opera da
parte di quest’ultimo di una riforma di costume e di
professionalità, improntata a un criterio meritocratico, gli abbia
sottratto i consensi degli stessi magistrati, ancorati a un conservatorismo
dispensatore di privilegi. La dottoressa Maccora
invita tuttavia a rifiutare la lusinga di un retropensiero
preconfezionato per riflettere piuttosto sui fatti concreti e sulle
responsabilità individuali: una riflessione, questa, che induce
purtroppo a ritenere fallimentare l’esperienza del CSM uscente per
effetto di un fraintendimento istituzionale – in buona parte alimentato
dai media – legato a una volontà passatista e conservatrice. La
relatrice chiude il proprio intervento con una provocazione, adombrando
l’ipotesi che il conflitto agonale tra politica
e giurisdizione sia espressione di un preciso disegno di non facere. Il mantenimento di tale
contrasto, nei fatti, rappresenterebbe un alibi per non affrontare gli
autentici problemi che affliggono la dialettica istituzionale del Paese.
La coordinatrice Letizia Vacca chiosa rilevando come il
quadro prospettato dalla dottoressa Maccora sia in
realtà il corollario di un problema culturale. In Italia si assisterebbe
cioè, a tutti i livelli e non solo all’interno della magistratura,
a un rifiuto per le riforme dettato da un istinto autoconservativo.
In particolar modo, la protezione dello status
quo apparirebbe come l’unico mezzo certo per assicurarsi una rapida e
facile carriera, con un pernicioso accantonamento di quel criterio
meritocratico che, solo, può assicurare la modernità e la
crescita democratica di un Paese.
Interviene poi Antonio Patrono, consigliere togato del
Consiglio Superiore della Magistratura uscente. Quella del relatore è
una valutazione complessivamente positiva della consiliatura,
anche se viene sottolineato come manchi ancora un riscontro dell’operato
del CSM nella pratica della giustizia. Il consigliere Patrono ritiene che
quello della giustizia italiana non sia tanto un problema di uomini, come
sembra suggerire il trattamento mediatico del tema, quanto di strutture, sulla
cui revisione, nondimeno, grava un’impasse di matrice chiaramente
politica. Il suo intervento si concentra nei fatti soprattutto su quelle
riforme che, pur necessarie, non hanno mai trovato attuazione:
· non
basta ridisegnare l’organico interno delle procure, lasciando intoccato un assetto strutturale che risale al Codice
Rocco: proficuo sarebbe, agli occhi del consigliere, un rimodellamento degli
uffici su base territoriale, per venire incontro alle esigenze investigative.
· Utile
sarebbe, sempre ai fini dell’indagine e del processo,
un’unificazione del ruolo del PM nei diversi gradi di appello. Se
esigenze di giustizia legittimano nei fatti un mutamento del giudice, esigenze
di contingentamento dei tempi processuali suggeriscono sia più utile che
l’azione resti nella disponibilità di chi ha acquisito ab origine gli elementi di indagine.
Secondo elemento
ostativo a un ammodernamento della giustizia italiana è poi dato da una
resistenza culturale alla composizione stragiudiziale del conflitto,
sicché l’aver riformato la procedura in chiave accusatoria non si
è accompagnato, nel nostro Paese, alla predisposizione di quei mezzi
tecnici alternativi al processo e deflativi delle lungaggini burocratiche
ch’esso comporta. L’intervento si chiude infine con una difesa
appassionata dell’autonomia del CSM, soprattutto per quel che riguarda la
nomina del vice Presidente, la cui sottrazione alla disponibilità del
Parlamento rappresenta senz’altro la prima forma di garanzia per
l’indipendenza dell’Ordine.
Prima di una breve
pausa, la coordinatrice Letizia Vacca chiosa
l’intervento del consigliere Patrono e sottolinea come il quadriennio
della consiliatura uscente abbia comunque concorso,
almeno in parte, a modificare l’atteggiamento dei magistrati, lasciando
dunque sperare in un futuro di maggiore apertura verso le riforme e il
rinnovamento. La professoressa Vacca evidenzia però come nel novero non
debbano essere compresi coloro che hanno spettacolarizzato una funzione
pubblica attraverso i media, quanto piuttosto quelli che hanno silenziosamente
operato nelle procure per il concretarsi del nuovo assetto.
Dopo qualche minuto di
intervallo, la Tavola Rotonda riprende con l’intervento di Giorgio Santacroce, Presidente della
Corte di Appello di Roma, la cui relazione si articola su tre punti essenziali:
· la
necessaria valutazione delle qualità professionali del magistrato, come
condizione per esaurire o almeno arginare le situazioni di conflitto;
· il
doveroso rispetto delle regole da parte degli agenti nel quadro – e
politici e magistrati – nella consapevolezza del ruolo istituzionale
ricoperto;
· l’ostracismo
e la delegittimazione di quei magistrati che assumono iniziative che esulano
dai loro specifici compiti istituzionali.
Quello rivolto dal
Presidente della Corte di Appello di Roma ai magistrati è l’invito
appassionato a recuperare la consapevolezza del ruolo ricoperto nella
dialettica istituzionale, e dunque a vestire un abito confacente all’alto
compito cui l’Ordine è chiamato, resistendo da un lato alle
lusinghe della spettacolarizzazione mediatica della giustizia,
dall’altro, a vetusti e superati privilegi di casta.
All’ultimo
intervento, segue un breve dibattito tra i relatori:
Giuseppe Maria Berruti, in replica ad Antonio Patrono, sottolinea la
responsabilità di quei poteri che non hanno difeso l’operato del
CSM nell’attuazione di una riforma impopolare ma necessaria.
Antonio Patrono conviene con la chiosa del
consigliere Berruti e parla di una vocazione politica alla
‘destrutturazione’ della magistratura, in ragione
dell’emanazione di provvedimenti che in modo diretto o indiretto
finiscono con l’osteggiarne l’azione o ridurne i mezzi.
La consigliera Ezia Maccora
consente in parte con l’analisi fatta da Antonio Patrono, sottolineando
le difficoltà attuative della riforma laddove le procure mancano di
uomini e di mezzi. In particolar modo rimarca però il valore fondante
della formazione del magistrato, quale principale attore del rinnovamento in
atto.
La coordinatrice Letizia Vacca chiude la Tavola Rotonda
auspicando un futuro interlocutorio tra le diverse anime e poteri dello Stato,
poiché è solo da una loro sinergia che può nascere un
autentico e funzionale rinnovamento della giurisdizione, nonché una
compiuta realizzazione dell’ideale di giustizia.
L’incontro di
chiude nel pomeriggio del 23 luglio 2010 con la terza Tavola Rotonda,
“Magistratura e giustizia nella percezione collettiva”, coordinata
dal professor Eligio Resta, professore di Filosofia e Sociologia del
Diritto presso l’Università degli Studi di Roma Tre.
Il coordinatore,
professor Eligio Resta, apre
sottolineando il valore di una convergenza operativa tra
l’Università e la magistratura, poiché in tale incontro
risiedono pure le due anime del diritto: il suo profilo teorico e la sua
traduzione operativa nella prassi. In merito ai rapporti giustizia-Informazione
e giustizia-Politica, il relatore sottolinea come questa sia una temperie
storica in cui si assiste a una «compensazione in sede stampa delle
contrazioni della democrazia». L’informazione costituirebbe dunque
un momento della rappresentazione democratica, l’espressione di una
«tribunalizzazione della Storia» e
dell’idea di giustizia come di un «teatro pubblico». Il
rischio insito in tale lettura è tuttavia quello che si sovrappongano i
piani della legalità e del consenso, tra i quali, in un ordinamento autenticamente
democratico, non deve sussistere alcun rapporto («la legalità non
ha bisogno del consenso, poiché poggia su di
un’aggiudicazione»).
Interviene poi Lionello Mancini, giornalista de Il Sole 24 ore. Il relatore pone in
evidenza alcuni dei nodi problematici del rapporto tra informazione e
giustizia:
· la
giustizia non viene più percepita, né rappresentata come un
servizio al cittadino.
· Vi
è una scarsa sensibilità per i profili economici della
giurisdizione e i costi reali della giustizia.
· La
delegittimazione della magistratura è in buona misura legata alla
sovraesposizione mediatica di alcuni magistrati.
Prende poi la parola Liana Milella,
giornalista de La Repubblica, con un
intervento che mira a individuare le radici del conflitto tra magistratura e
politica nell’avvento al potere di Silvio Berlusconi. La relatrice
individua nel millenovecentonovantaquattro una linea spartiacque oltre la quale
la tensione fisiologica tra i poteri dello Stato si è tradotta in una
contrapposizione agonale. Liana Milella
sottolinea nei fatti come vi sia nell’azione di governo uno specifico
interesse a impostare la dialettica istituzionale nel senso di uno scontro
senza condizioni. La sovraesposizione di tale profilo, d’altra parte, va
tutta a discapito di una seria indagine sui costi e sulle perdite della giustizia.
Interviene di seguito Dino Martirano,
de Il Corriere della Sera, il quale
minimizza i termini con cui si è parlato del conflitto dei poteri,
sottolineando come vi sia alla base soprattutto un problema culturale italiano,
un progressivo imbarbarimento e involgarimento tanto della dialettica politica
che della comunicazione.
Prende poi la parola Luca Palamara,
Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, che si trova in parte
a concordare con l’analisi di Liana Milella, in
parte con l’opinione espressa da Dino Martirano.
Per il relatore è essenziale che si superi una lettura autoreferenziale
della giustizia e che la magistratura torni a dare di sé al cittadino
un’immagine funzionale. Non ritiene tuttavia che il berlusconismo
– e la conseguente reazione allo stesso – sia stato determinante
nel riassetto organizzativo della giurisdizione.
Il coordinatore Eligio Resta interviene e rimarca
l’esigenza di una convergenza operativa dei poteri, perché
dall’alto e dal basso si cooperi a un rinnovamento istituzionale che
muova prima di tutto da un criterio meritocratico. Al contempo sottolinea le
responsabilità dei media, troppo spesso interessati ai profili del
conflitto e troppo poco ai temi davvero rilevanti della giustizia.
Lionello Mancini dissente con Luca Palamara sul fronte del berlusconismo,
sottolineando come lo stesso riassetto organizzativo delle procure possa essere
inteso alla stregua di una sua ricaduta – la risalenza
dei problemi non elimina il fatto che per affrontarli si sia dovuta attendere una
situazione di vera e propria emergenza democratica.
Liana Milella cita
Ezia Maccora, ma ricorda
pure l’estrema difficoltà di far approdare sui quotidiani di
regolare diffusione notizie che analizzino gli aspetti più tecnici della
giurisdizione. La relatrice rimarca pure la pesante ricaduta del berlusconismo non solo sul lessico della politica, ma
soprattutto sul metro espressivo dei media.
Dino Martirano
imputa alla magistratura una certa chiusura apparente nei confronti degli
organi di stampa. Gli risponde in ultima battuta Luca Palamara evidenziando come, in una
società moderna, pluralista e caratterizzata da una presenza diffusa dei
mezzi di comunicazione, la sfida da raccogliere sia proprio quella di regolare
i rapporti di scambio tra l’Ordine e i media. Solo fissando regole
deontologiche che disciplino l’esposizione mediatica dei magistrati si
potrà pensare a una lettura davvero trasparente della giurisdizione.
Università Roma Tre