N. 9 – 2010 – Contributi
Un magistrato tra fascismo e diritto: Michele Delle Donne
Università
di Bari
Sommario: 1. Premessa.
– 2. Ricordi personali. – 3. L’attività di
giureconsulto.
Spesso come studioso tendo ad
isolarmi nell’astratto dei concetti ed a non tener conto delle
circostanze che segnano la ‘vita’ dell’operatore del diritto.
Mi è capitato di
recente di avere per le mani una breve autobiografia di un magistrato (Michele
Delle Donne)[1],
che ebbe ad operare sotto il fascismo e a cavallo tra la seconda guerra
mondiale e la pace che, con annesse presenze di truppe di occupazioni, ne
seguì.
Della lettura mi colpì la particolare certezza nel ‘diritto’ e nella sua capacità di imporsi anche a dispetto delle circostanze storiche sfavorevoli. Ne scorsi subito l’influenza del pensiero e della Weltanschauung dello Scialoja e mi incuriosii, rilevando, dalla seguente lettura, come quelle idee dessero forza e conferissero al giurista-magistrato un’ammirevole spirito d’indipendenza.
Scoprii anche quanto peso
potessero avere le vicende (rectius
le grandi contrarietà) personali nella formazione del giurista del primo
secolo XX, soprattutto con riguardo alla difficoltà di accesso ai libri.
Ho redatto uno schizzo
dell’uomo, che mi sembra anche un pannello di una particolare epoca della
cultura giuridica italiana e mi è parso opportuno condividerlo con
altri, segnalando la biografia del Delle Donne come un esempio di quella fiducia doctrinae, della quale Pomponio
parlava a proposito di Labeone e in generale della iurisprudentia, e che, come orgogliosamente l’autore
sottolineava nel sottotitolo, lo portarono da
pastorello della Lucania a Primo presidente della Corte di Appello di Roma e
Senatore del Regno.
La lettura rivela una
personalità variegata, ricca di sfaccettature e valori che si prestano
ad essere analizzati da angolature molteplici ed intriganti per chi la voglia
cogliere nel fluire del suo tempo e della sua terra d’origine.
Vi sono schizzi di una terra,
della civiltà contadina degli inizi del novecento e, soprattutto (per me
estremamente interessante) della cultura, del modo di essere e della tempra
degli uomini di quel periodo. Inoltre alcune critiche, come quelle al nuovo
processo civile, i cui rilievi sono di grande attualità e potrebbero
essere scritti oggi[2].
Le suggestioni che
scaturiscono dalla lettura di quelle pagine sono molte ed invitano il lettore a
ripercorrere una parte significativa della storia d’Italia, dalla Grande
Guerra alla seconda guerra mondiale ed alla formazione della Repubblica italiana.
Ogni tappa della vita e del
percorso formativo e di attività nella magistratura di quello che
divenne senatore del Regno è
spunto per collegamenti su fatti e personaggi che hanno dato sostanza alla
realtà dell’Italia.
In questa sede vorrei
soffermarmi su un profilo, che mi pare preminente nell’opera e nella
visione di Michele Delle Donne: quello del giurista.
Ma prima consentitemi di fare
un brevissimo cenno ai ricordi personali del Delle Donne, perché hanno
evocato in me immagini ed episodi della mia fanciullezza.
La descrizione delle
abitazioni e dei costumi del tempo, soprattutto riguardo alle donne che
andavano ad attingere acqua portando i barili sulla testa, posti sopra una
sorta di ciambella di stoffa, corrisponde a un ricordo che mi ha accompagnato
quotidianamente nella mia fanciullezza.
Così come l’immagine
di lui fanciullo che pascolava due pecore ha rievocato i tanti miei compagni di
gioco che andavano in giro nelle campagne dell’agro lucano (di Banzi) con
una o due o tre pecore o capre, unendo al lavoro un gioco continuo, spesso
intrecciato da racconti di vicende e fatti del paese; ad essi io mi
accompagnavo quasi per l’intera giornata.
Non mi soffermo oltre su tanti
aspetti, come quello della gerarchia negli istituti di istruzione, dove i
ragazzi erano affidati ad un prefetto,
ancora esistente al tempo in cui io ero seminarista a Potenza.
Non mi dilungo, per non cedere
a rievocazioni forse nostalgiche, certamente profonde ed indelebili.
Solo attingo dalla mia memoria
qualcosa concernente Francesco Saverio Nitti.
Su di lui il Delle Donne ci ha
lasciato una bella pagina e una fulgida immagine, di uomo ricco di
umanità e generosità. Fu il Nitti a consentirgli di laurearsi,
concedendogli la somma di £. 250 necessaria perché potesse
accedere all’esame di laurea.
Esso si chiuse con un atto di amore filiale e dedizione alla famiglia,
la cui levatura da sola mette a nudo la tempra sia del Nitti sia del Delle
Donne. Nitti offre a Delle Donne la possibilità di lavorare presso di
lui, con la garanzia di una veloce e sicura carriera universitaria; Delle Donne
rifiuta con queste parole «La ringrazio: accetterei con entusiasmo la Sua
generosa offerta se fossi solo; ma la mia famiglia ha bisogno del mio aiuto,
che io non potrei darle se mi dedicassi alla preparazione per la carriera
universitaria». Nitti non si adombra e anzi gli dice «Avete
ragione»[3].
Ho voluto richiamare, tra i
tanti che meriterebbero di essere menzionati, l’incontro con Nitti per un
altro motivo, esclusivamente famigliare e personale.
Nel 1945 Nitti aveva fondata
l’Unione Democratica Nazionale
nelle cui liste si candidò, l’anno dopo, all’Assemblea Costituente. Nel 1948
capeggiò una nuova formazione, il Blocco
nazionale, con la quale intendeva percorrere una terza via tra i due blocchi allora esistenti: quello democratico e
quello socialcomunista. In quelle occasioni venne a Banzi e con meraviglia di
molti chiese di mia nonna (da lui affettuosamente chiamata Emilietta) e
andò a trovarla. In seguito mia nonna mi raccontava di avere passato
l’infanzia assieme a Nitti, il cui padre si recava a Banzi per attendere
alla ripartizione del bosco collettivo del Comune, e che insieme ne avevano
combinate di tutti i colori, arrivando a cavalcare asini e ... porci.
L’episodio l’ho voluto ricordare perché è emblematico
di quanto libera e legata alla ‘terra’ (oggi si direbbe
all’ambiente) fosse la formazione dei fanciulli. Forse vanno cercate
lì gli embrioni dell’indipendenza e assoluta originalità di
quello che diventò presidente del Consiglio, esule ribelle ed
antifascista, professore.
Ma chiedendo scusa per questa
sorta di mia ‘licenza’, vorrei tornare a quella che mi pare la
costante più significativa dell’opera di Delle Donne: il suo
sentirsi giurista, uomo che poneva il
diritto alla base di ogni sua scelta, come fondamento della civiltà,
giuridica e non.
Sul punto non vi sono dubbi o
sbavature. Sempre egli dimostra di ricorrere al diritto e di sentirsi uomo del
diritto. Citerò alcuni episodi illuminanti.
Prima voglio pormi un
interrogativo: quale era l’idea di diritto che egli aveva presente?
Come trasparirà da
alcuni momenti e da alcune decisioni era ben lungi da lui qualsiasi
relativizzazione del diritto.
Intrecciandosi con
l’assunto di Max Weber, della ‘avalutità della
scienza’, era diffusa tra i grandi giuristi del tempo la convinzione che
il diritto avesse una sua autonomia scientifica, la quale prescindeva dalla
politica e, per molti versi, dalla stessa storia. Essa derivava dal fatto che,
anche se espressione di uno Stato, il diritto, che all’epoca si
incardinò prevalentemente nei Codici,
fosse portatore di principi tratti dalla natura
delle cose e perciò carichi di una loro assolutezza. Soprattutto il diritto civile era visto come un
insieme coerente ed astratto di regole, le quali davano luogo ad un sistema organico.
Contro l’esclusione dei
giuristi operata dal Montesquieu, con la dottrina della separazione dei poteri e giustificata da Tocqueville a causa della
loro eccessiva corrività con i potenti e dinanzi all’affermazione
dell’onnipotenza della legge,
frutto della rivoluzione francese, si era fatta strada la dottrina di un
diritto valevole di per sé, non dipendente dal capriccio dei
legislatori.
Era vivo anche in Italia
l’insegnamento di Bernard Windscheid, secondo il quale il civilista
avrebbe dovuto tendere a costruire una scienza formale, pura e non
contaminabile o compromettibile dalle circostanze della concreta realtà
(etica, sociale ed economica) del tempo contingente. Partivano da queste radici
giusnaturalistiche i maggiori
civilisti italiani, i quali dettero vita alla pandettistica italiana. Essi affermarono che la migliore
razionalità si era avverata nel diritto
romano (ed in particolare nelle pandette
di Giustiniano e nel Corpus iuris civilis):
perciò i maggiori civilisti erano anche i maggiori romanisti: tra essi grande
spicco ebbe Vittorio Scialoja – traduttore del Sistema di Windscheid[4],
il quale dovette avere grande influenza nella formazione del Delle Donne come,
in generale, dei giuristi del tempo[5].
Ne è testimonianza
l’assunzione delle tesi dello Scialoja – espressa in uno dei primi
scritti di diritto romano
(perché si era convinti che il diritto romano fosse ‘il
diritto’ e valesse per ogni circostanza e materia!) - in una delle prime
discussioni affrontate in Cassazione (dove era arrivato nel 1928), in forma così
convinta e calorosa che lo Scialoja se ne emozionò.
D’altra parte il Delle
Donne doveva essersi ‘predisposto’ al nuovo diritto già attraverso lo studio del Sistema di diritto civile di Emanuele
Gianturco, che egli dichiara di aver posto a base dei suoi studi nella
Facoltà partenopea (34), nella quale si tentava di costruire il sistema del diritto tout court (per
inciso, ricordo che Gianturco, assieme a Scialoja, L. e N. Coviello, G. Stolfi,
rappresenta uno dei capifila della famosissima Scuola Napoletana di diritto
civile).
In altre parole, il Delle
Donne assorbì appieno la visione rinnovatrice, secondo la quale il
diritto era autonomo e si autoreferenziava, poiché era in grado di
affermare certezze rigorose (come quelle della matematica o della geometria) ed
armoniose, la cui forza risiedeva nella razionalità della natura e
potevano valere in qualsiasi regime ed in ogni tempo. Non a caso Delle Donne
nota, a proposito delle udienze della Cassazione, «Avevo
l’impressione di trovarmi nello svolgimento di un rito sacro...».
D’altra parte, la stessa creazione della Corte di Cassazione, deputata a
pronunciarsi soltanto sulla questione di diritto, poggia sulla convinzione
dell’esistenza di un diritto o di principi del diritto, non provenienti
dal caso ma applicabili al caso: cioè è conseguenza della
convinzione della possibilità di elaborare principi generali ed
astratti.
Della radicata fiducia nel
diritto, inteso nella sua valenza generale ed astratta, vi sono molte tracce
nell’operato del Delle Donne; ne cito alcune.
Nello stesso 1929 Vittorio
Scialoja lo volle quale pubblico
ministero presso il Consiglio
Superiore Forense, da lui presieduto. I motivi di quella scelta dettata con l’esclusione di qualsiasi
avvicendamento, possiamo intuirli e dovettero risiedere nel rigore logico
del metodo argomentativo del Delle Donne e, sicuramente,
nell’essenzialità dell’esposizione, depurata di ogni orpello
saccente e prolisso, così come, durante l’uditorato presso il
Tribunale di Roma (37 s.) il conterraneo Fagella aveva insegnato al discente
Delle Donne ed era nella tecnica del grande Scialoja, il quale amava «ragionare chiaro, ma
conciso» e perciò, quando scriveva, soleva «essere assai
breve, taluno dice anche troppo breve».
Subito andarono in discussione
i provvedimenti da prendere contro gli ex deputati aventiniani, radiati
dall’albo perché invisi al Fascismo.
Il Delle Donne ricorda la sua requisitoria nei confronti dell’onorevole
avvocato Umberto Tupini. Con sottile logica sostenne che i fatti addebitati
erano stati commessi quando non vi erano ancora le leggi fasciste, che si
pretendeva avesse violato, e che successivamente non avevano potuto compiere
nessun atto, ma solo esprimere opinioni, per le quali non erano perseguibili.
La sua tesi fu accolta all’unanimità e Tupini fu riammesso
all’esercizio della professione[6].
L’episodio dimostra
quanto al tempo, grazie anche all’insegnamento di Scialoja, si avesse
‘fede’ nel diritto e lo si ritenesse avulso dalla contingenza
storica, ma dipendente da rigore logico-argomentativo.
Nel quadro descritto vi
è prova della convinzione d’indipendenza del giurista dal potere
politico: sembra di rileggere una pagina della storia del diritto romano, dove
l’imperatore Adriano, risponde ai giuristi che gli chiedevano l’autorizzazione
a professare la loro attività, dicendo che essa non poteva derivare da
un’autorizzazione, perché era la conseguenza della
scientificità del giurista e del diritto (fiducia sui sono le parole del rescritto imperiale[7]).
Nello stesso contesto si
inserisce un ‘gustoso’ episodio.
Il Guardasigilli Alfredo Rocco
procedette alla promozione al III grado della Cassazione di alcuni magistrati.
Tra essi non vi era Delle Donne. Per vie indipendenti e non
dall’interessato, la notizia pervenne a Scialoja. Questi chiese udienza
al Ministro con il quale si congratulò per le recenti nomine e in
particolare per quella del Delle Donne, che per capacità certamente
doveva essere tra i promossi. Il Ministro provvide subito a promuovere il Delle
Donne, perché disse all’interessato che lo andò a
ringraziare «... conversando con i più illustri esponenti del
Foro, so su chi far cadere la mia scelta»: quindi la scelta non dipendeva
dalle convinzioni personali, dall’appartenenza politica o da altro che
non fosse la scientia iuris.
Ciò perché era convincimento corrente che il rigore giuridico
avesse forza autonoma ed andasse rispettato[8].
Derivava da ciò anche
l’accettazione di tesi contrarie alle proprie.
Il Delle Donne riferisce
alcuni significativi casi.
Nel 1925 il Delle Donne era
stato inviato a Trieste; di lì, dopo molte sue insistenze, venne
trasferito alla Corte di Appello di Torino. In una causa tra un privato ed
un’opera pia era relatore il consigliere De Antoni, che svolse la sua
tesi. Delle Donne, quale consigliere a latere, intervenne argomentando in
maniera diversa dal De Antoni. Rinviata la decisione al giorno seguente Delle
Donne fu, preliminarmente, avvicinato dal De Antoni, il quale gli disse
«Mi hai fatto passare una notte insonne: hai ragione, ho trovato esatta
la tua tesi».
Appena nominato in Cassazione,
nel 1928, su un caso espose dettagliatamente un parere contrario a quello del
consigliere Giulio Venzi, il quale era solito studiare ogni caso in maniera
approfondita e scriversi il parere su un pezzo di carta. Dopo che Delle Donne
finì di esporre le sue ragioni, in Camera di consiglio, il Venzi
mostrò il foglio con il suo differente parere, ma aggiunse «era di
avviso contrario al tuo, mi hai convinto: sono con te».
Due circostanze esaltarono la
visione del diritto, come scienza autonoma
ed autosufficiente, avuta dal Delle Donne.
Nel Regio Decreto del 30
gennaio 1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario. (pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 28 del 4 febbraio 1941) all’art. 9 si era richiesto
che i magistrati dovessero prestare giuramento con la seguente formula: giuro di essere fedele al Re Imperatore, di
osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere
coscienziosamente i miei doveri di magistrato.
Delle Donne, al pari degli
altri magistrati del tempo, prima aveva rifiutato poi si era sottoposto a
questo giuramento, perché convinto che non implicasse adesione al regime
fascista, bensì comportasse soltanto lealtà verso lo Stato, il
suo Statuto e le sue leggi, che egli era chiamato ad applicare, in ossequio alla
dottrina della separazione dei poteri[9].
Ma quando nel 1944 con nuovo
decreto ministeriale, pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica di
Salò il 20 marzo, la formula del giuramento fu modificata in questi
termini: giuro di servire lealmente la
Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi e di
adempiere coscientemente i miei doveri di magistrato per il bene e per la
grandezza della Patria ed il Guardasigilli, Pisenti, richiese a tutti i
magistrati di giurare nuovamente secondo la nuova formula, pena la decadenza
dall’ufficio[10],
Delle Donne, in qualità della Corte di Appello di Roma, si oppose con
una lettera indirizzata al Ministro. Argomento principale da lui addotto era
che il nuovo giuramento avrebbe fatto entrare i magistrati «nelle file di
uno dei due partiti in lotta civile, contro la missione stessa e le prerogative
universalmente riconosciute alla Magistratura». Il giuramento non venne più
richiesto: il Delle Donne si era appellato all’autonomia del diritto ed
alla sua ‘neutralità’[11];
la sua tesi venne accolta[12].
Dopo l’occupazione di
Roma, il Governo Militare Alleato il 14 giugno 1944 pretese di dare
disposizioni riguardo all’amministrazione della Giustizia e di stabilire
a quali criteri uniformare le sentenze.
In tal senso fu inviata
circostanziata documentazione al Presidente della Corte di Appello di Roma,
Delle Donne.
Di fronte ad essa ed
all’interrogativo su come intitolare le sentenze, se cioè
«In nome della legge» o «In nome del Popolo Italiano»,
il Delle Donne prese posizione rivendicando l’autonomia del diritto ed in
particolare di quello interno di ciascuno Stato, negando la competenza degli
occupanti e chiedendo, come ottenne, che le sentenze venissero emanate
«Nel nome del Re d’Italia».
Leggiamo il suo circostanziato
e palpitante racconto: «Io volli affrontare in pieno il problema del
funzionamento della Giustizia che fu trattato nel mio Ufficio presso la Corte
di Appello, il 20 giugno 1944, fra me ed i più elevati rappresentanti
Ufficiali del Comando degli Alleati.
Ad essi, con l'aiuto
dell'interprete, esposi brevemente, ma con piena convinzione, il mio punto di
vista, e cioè: Gli Alleati, Potenze belligeranti, hanno con i loro
eserciti occupato parte del territorio dello Stato italiano, ossia di una
Potenza nemica. Tale situazione è regolata dal diritto internazionale ed
in particolare dal Regolamento adottato all'Aia nel 1907 sulle leggi e gli usi
della guerra. Secondo tale Accordo o Trattato, avente tuttora vigore,
l'occupazione bellica deve considerarsi come fatto provvisorio:
“Un territorio è considerato come occupato quando è posto di
fatto sotto l'Autorità dell'esercito nemico (art. 42)”. Da
ciò deriva che l'occupante non ha potere di sovranità; ad
esso incombono il dovere di mantenere l'ordine nel territorio occupato, e
quello di rispettare le leggi in vigore, lasciando libere nelle loro funzioni
le autorità amministrative e giudiziarie, salva la revoca per giusti
motivi, cioè assoluta necessità della guerra (cit. Reg.
1907, art. 43).
Da una parte l'intervento
disposto dagli Alleati nell'Amministrazione della Giustizia eccederebbe i
limiti dei poteri riconosciuti e segnati da quel Trattato, dall'altra i
Magistrati italiani devono esercitare le loro funzioni secondo le leggi del
nostro Stato ed in nome del loro legittimo Sovrano»[13].
Ecco che ancora una volta la scientia iuris prevaleva sulla
situazione di fatto e sui rapporti di forza.
Riprova della fiducia nel
diritto e nella neutralità di esso e di chi, come il magistrato, era
chiamato ad applicarlo, si ha nella conclusione dei processi intentati contro
il Delle Donne.
Essi si chiusero con la sua
assoluzione, motivata proprio dalla constatazione che egli era stato al
servizio del diritto e non del regime e che il primo non poteva identificarsi
in una congiuntura o aggregazione storica.
Accusato da avvocati anonimi
fu invitato a dimettersi, dal Ministro Tupini, il quale gli esprimeva il
proprio rammarico per la richiesta che si vedeva costretto a fargli. Il Delle
Donne si rifiutò, perché volle affermare il principio che
«il diritto dovesse prevalere alla politica». Dunque, è
ancora la certezza sulla valenza universale e sulla neutralità del
diritto ad ispirare questa importantissima presa di posizione.
La vicenda, sia detto per
inciso, si concluse con un compromesso: Delle Donne alla fine accettò di
tornare alla Cassazione. Ma la sua era stata un’ulteriore affermazione
della forza del diritto, considerato a sé stante e non intrecciato con
la politica e le contingenze storiche.
Osservo, per inciso, che il
Delle Donne difendeva una prerogativa dei magistrati, interpreti e servitori
della sola legge, il cui mandato fu voluto a
vita (per la prima volta), in Inghilterra, proprio per consentire loro di
resistere al potere del Sovrano e di interpretare le istanze generali ed eterne
del diritto.
Non vorrei, a questo punto,
avere ingenerato l’equivoco che il Delle Donne fosse fautore di soluzioni
astratte e avulse dal concreto. In realtà egli ebbe i piedi ben piantati
per terra e si ispirò a realismo.
Ne
è prova il suo intervento riguardo al nuovo Codice di procedura civile.
A Trieste aveva potuto
costatare l’efficacia del Codice asburgico. Lì vi era
l’oralità e l’immediatezza delle sentenze, pronunciate a
fine udienza o, al massimo, entro la settimana.
Di fronte alla proposta del
nuovo codice del 1942, voluto da Grandi e da Mussolini, il Delle Donne fu
l’unico presidente di Corte di Appello ad esprime parere contrario e ad
articolarlo attraverso comunicazioni del 18 marzo e del 5 luglio 1943, che egli
trascrive integralmente nel suo dattiloscritto: «Applicazione del c.p.c.
Roma, 18 marzo 1943: Eccellenza Il Ministro di Grazia e Giustizia – Roma.
L’attuazione della nuova
procedura ha confermato in pieno le previsioni che ebbi già
l’onore di manifestare, ponendo in maggiore evidenza da una parte la
bontà del principio fondamentale sul potere del giudice,
dall’altra la gravità dell’insufficienza del personale, alla
quale si è aggiunta quella dei locali giudiziari. La buona
volontà degli Avvocati e Procuratori e l’abnegazione dei
Magistrati e dei Cancellieri non hanno dato i frutti che se ne potevano
attendere ed in particolare il corso della giustizia civile non ha acquistato
la celerità che era nel desiderio di tutti, a causa di mezzi che sono
apparsi inadeguati alla struttura del nuovo rito.
La mia personale esperienza mi
suggerirebbe alcune osservazioni sul sistema, quale è stato attuato, e
specialmente sul principio dell’oralità in rapporto
all’istituto del giudice istruttore, mentre in altre legislazioni
l’oralità e l’immediatezza sono in funzione
dell’attività collegiale; ma, nell’attuale momento, credo
necessario bandire ogni discussione per indicare unicamente quali sono gli
inconvenienti riscontrati nella pratica ed in qual modo si possa ovviare ad essi,
senza procedere ad alcuna riforma della legge.
La mia cura, rivolta a tale
scopo, mi aveva indotto fin dal gennaio u.s. a richiedere ai Sigg. Presidenti
di Sezione della Corte, che ho l’altissimo onore di presiedere, le loro
osservazioni sullo svolgimento del processo civile. Le relazioni, che trasmetto
integralmente, contengono rilievi ed opinioni, quasi tutti relativi a singole
questioni, sulle quali mi riservo di emettere istruzioni per
l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione
del diritto. - Da parte mia ritengo più opportuno un esame da un punto
di vista generale, che, salvando i principî basilari della procedura, ne
metta in rilievo i più gravi inconvenienti, al fine di escogitare
provvedimenti interni che agevolino l’opera della Magistratura,
già superiore ad ogni encomio.
Chi frequenta le aule
giudiziarie, nelle quali si svolgono procedimenti civili, rimane colpito da due
fatti: le udienze istruttorie, che occupano interamente l’attività
dei giudici, ai quali rimane ben poco tempo per l’estensione delle sentenze,
hanno luogo in ambienti dove, per necessità, convengono
contemporaneamente più giudici, con il relativo concorso di molti
avvocati e di parti, in una commistione che non conferisce prestigio e
dignità alla funzione giudiziaria e rende vano il precetto
dell’art. 84 disp. di att. e trans., perchè il concorso dei
partecipanti alle diverse istruttorie, nello stesso ambiente, non ne consente
il segreto. Il contatto del giudice con le parti avviene senza la
serenità e la riservatezza che costituiscono i più elementari
coefficienti per l’autorità del giudice e l’efficacia
dell’opera sua, specialmente nella fase conciliativa. A ciò si
aggiunge la mancanza, nella maggior parte dei casi, del cancelliere, con la
conseguenza della redazione dei verbali da parte degli avvocati. Questo stato
di cose, sostanzialmente e formalmente, nuoce all’altissima funzione del
giudice e rende in gran parte frustraneo l’intento della legge di una
collaborazione effettiva, dignitosa e solenne fra il giudice e le parti.
L’altro fatto, sempre di
ordine generale, consiste nelle remore del giudizio e nella durata eccessiva
anche dei procedimenti più semplici e più urgenti, che ritengo
dover ascrivere al numero eccessivo delle cause affidate a ciascun istruttore,
almeno negli uffici giudiziari più importanti, ed all’ordine da
seguire nella trattazione delle cause, secondo l’anzianità della
iscrizione al ruolo. Ciò è di tutta evidenza, ove si consideri
che, ad es. nel Tribunale di Roma sono in corso circa 12 mila procedimenti
civili ed ogni giudice ha in media oltre 200 processi in istruttoria ed in
questa Corte, dato il numero dei procedimenti che ascende a 1600, ogni
consigliere deve istruire circa 70 cause. Soltanto un miracolo di sacrificio
eroico può permettere lo svolgimento della Giustizia civile in modo da
eliminare gli effetti più gravi di una stasi che potrebbe divenire
cronica.
Sebbene non sappia concepire,
nelle attuali condizioni, un rimedio che elimini la conseguenza dei due fatti,
mi permetto accennare, senza alcuna pretesa, ad alcuni aspetti
dell’attuazione del C.P.C.
La legge e le necessità
attuali, se richiedono operosità, sagacia e profonda consapevolezza del
proprio dovere a tutti i Giudici, richiedono a maggio ragione tali
qualità a chi presiede i Collegi o le sezioni dei Collegi. Ed è
sull’attività di costoro che si deve fare il massimo affidamento,
non soltanto per la direzione del servizio ma ancora per l’esecuzione
degli atti procedurali.
La facoltà data
dall’art. 173 C.P.C. al presidente di procedere egli stesso all’istruttoria
dovrebbe essere considerata quale un dovere, normale e costante. Egli che, per
la designazione del giudice, deve compiere un esame sommario della citazione
degli atti, in seguito alla costituzione delle parti, per affidare la causa ai
componenti del Collegio, secondo le loro attitudini, è meglio di ogni
altro in grado di decidere se una causa abbia bisogno o meno di istruzione
probatoria, o se debba dichiararsi estinto il processo o se possa utilmente
tentarsi la conciliazione. A proposito di tale compito, che ritengo molto
difficile, mi consta che in qualche caso si esageri nell’imporre alle
parti una conciliazione non voluta ed altra volta il giudice,
nell’intento di raggiungere l’accordo, non usa la prudenza di
tenere celata la propria opinione sull’esito del giudizio. Il presidente
può esercitare la funzione conciliativa con maggiore autorità del
giudice, salva la sostituzione di cui all’art. 174 C.P.C. ove questa si
rendesse indispensabile.
L’uso della
facoltà indicata, che si è detta anche dovere, può essere
facilitato dall’opera del Cancelliere, il quale, presentando i fascicoli
degli atti al presidente riferisce se sia mancata la costituzione delle parti,
o se la costituzione sia regolare, per un’immediata dichiarazione di
estinzione o per l’adempimento degli atti indicati nell’articolo
182 C.P.C.
Queste considerazioni valgono
più segnatamente per il giudizio di appello, nel quale soltanto in via
eccezionale e per gravi motivi si può chiedere l’ammissione di
nuove prove e di nuovi documenti (art. 345 C.P.C.) e l’istruttore, per il
rispetto dovuto alla sentenza appellata finchè non sia stata riformata,
non ha il potere di ammettere né mezzi di istruzione proposti al primo
giudice e da lui rifiutati, né nuovi mezzi. Le funzioni
dell’istruttore, nell’udienza precollegiale, hanno carattere
ordinativo e preparatorio più che inquisitorio, e possono agevolmente e
nella massima parte essere adempiute dai presidenti.
Vero è che la direzione
di una sezione del tribunale o della Corte di Appello implica
un’attività di controllo ed una responsabilità quasi sempre
grave; ma ciò non impedisce anzi agevola la partecipazione alla fase
preparatoria, rendendo agile il procedimento e sollecita la decisione.
Con la sostituzione, alla
quale si è fatto cenno, si opererebbe in realtà la distribuzione
delle cause fra i giudici o i consiglieri, essendosi già dal presidente
esaurita la fase preparatoria.
Si noti che già alcuni
atti sono di competenza del Presidente e sono nella pratica numerosi, quali il
provvedimento della concessione, revoca o sospensione dell’esecuzione
provvisoria prima della nomina dell’istruttore o dell’unione di
appelli proposti separatamente contro la medesima sentenza.
In realtà la
sostituzione, qualora il Presidente non intendesse curare anche la relazione
della causa, avrebbe lo stesso effetto della nomina del relatore, con una
semplificazione degli atti e del procedimento.
In linea di
opportunità, ed a parte ogni questione di principio, non sembra utile
costringere il Presidente a fissare senz’altro l’udienza di
comparizione davanti all’istruttore in una causa già matura a
decisione, a due o più mesi di distanza dalla designazione, a causa
dello stato del ruolo dell’istruttore, ed obbligare le parti a mere
formalità dilatorie delle udienze per il richiamo alle conclusioni prese
ed il rinvio alla udienza del Collegio, mentre dopo la fase compiuta dal
Presidente, al relatore non rimarrebbe che fissare immediatamente
l’udienza collegiale.
Con tale rimedio di ordine
pratico si può ovviare alla censura mossa da un autorevole commentatore
del cod. di rito (D’Onofrio - Commento - Vol. 1 pag. 313) il quale
ritiene che l’istruttoria precedente all’udienza collegiale
“rende singolarmente pesante il diritto di appello e molto dubbiosi sulla
giustizia tecnica del sistema che ha preteso di applicare alle due fasi lo
stesso istituto fondamentale dell’istruttore, senza tenere
sufficientemente presente la radicale diversa situazione determinata dalla
presenza di una decisione di merito già intervenuta”.
Per evitare ritardi nella
trattazione della causa, dato che l’istanza per la designazione del
giudice istruttore, avanti i Tribunali (art. 172) può essere presentata
con separato ricorso nel termine di 30 giorni dalla scadenza del termine per la
costituzione del convenuto, si potrebbe rivolgere invito ai Sindacati
perchè gli avvocati inseriscano sempre nella citazione o nella comparsa
di risposta l’istanza di designazione.
Per quanto finora il principio
dell’oralità sia stato proclamato nel suo giusto rigore teorico,
la pratica, sarebbe vano dissimularlo, ha temperato il principio che, nella sua
profonda innovazione, non appaga il senso di garanzia che i difensori e le
parti ripongono nella esposizione scritta delle loro ragioni di fatto e di
diritto.
Lo scritto è ancora
oggi considerato come il fattore indispensabile di precisione e di giustizia
completa ed obbiettiva, e devo aggiungere che, per quanto è a mia
conoscenza, raramente il giudice si vale del cap. art. 116 C.P.C. perchè
il contegno delle parti si presta quasi sempre a dubbie e pericolose
interpretazioni.
Per una necessità che
direi spirituale, più forte di ogni esigenza procedurale, l’art.
183 C.P.C. viene interpretato in modo che la facoltà del giudice di
autorizzare le parti a presentare memorie possa normalmente esercitarsi, tanto
che la richiesta di discussione delle cause all’udienza del collegio
è limitata, riferendosi gli avvocati alle loro conclusioni ed alle
memorie scritte. Non saprei ritenere illegale il largo uso di tale facoltà,
perchè questo è rimesso alle discrezionalità del giudice,
il quale non può prescindere dalle circostanze tutte, non esclusa quella
della impossibilità di ricordare i particolari di un così gran
numero di cause affidate a ciascun giudice per l’istruttoria.
La pratica, che io pienamente
approvo, si è costituita nel senso che le ordinanze siano ampiamente ed
esaurientemente motivate, per evitare che in seguito siano soggette a
modificazioni o revoche per mancata conoscenza di tutte le ragioni che le hanno
determinate. E’ grave, ad esempio, che l’ordinanza la quale ammette
un giuramento decisorio sia poi revocata ed è grave e poco confacente
alla serietà della giustizia sia il motivare incompletamente sia il
distruggere ciò che è stato il risultato di lungo studio e
profonda meditazione. Il Collegio, per giungere ad un’ordinanza
istruttoria, deve il più delle volte affrontare problemi delicatissimi
di diritto e non è nel nostro costume giudiziario sorvolare sui problemi
risolti o sul procedimento logico seguito, unicamente perchè il giudizio
è sboccato in una ordinanza. Devo per verità dichiarare che
finora non è mai avvenuta alcuna revoca di ordinanza emessa dal
Collegio, perchè la richiesta, o la volontà di revoca si è
infranta contro l’esauriente motivazione, non dissimile da quella che il
Collegio espone per la decisione che ha carattere di sentenza.
Sulle oscurità e le
lacune della legge si osserva che esse, per quanto concerne il giudizio di
appello, si sono rivelate a tutt’oggi in numero piuttosto limitato.
L’appellante sovente
aspetta la udienza di trattazione per costituirsi; tale fatto e la produzione
di documenti nuovi, la quale a rigore dovrebbe essere consentita solo dal
Collegio a norma del secondo comma dell’art. 345, provocano spesso la
fissazione di una udienza istruttoria. Al solo scopo di ottenere la fissazione
di una nuova udienza istruttoria l’avvocato chiede talvolta che sia
ordinata la comparizione personale delle parti, le quali poi, o non
compariscono, o compariscono per rifiutare qualsiasi proposta conciliativa.
Nel corso di applicazione del
nuovo rito sono sorte le seguenti questioni:
a) - è
l’istruttore o il Collegio che a norma del secondo comma dell’art.
349 può per gravi motivi ammettere i nuovi documenti e i nuovi mezzi di
prova?
Le direttive del Ministero,
contenute nella circolare n. 2690 del 14/4/1942, affermando che non possono
essere ammessi dall’istruttore “i nuovi mezzi istruttori che la
sentenza di primo grado abbia ritenuto superflui”; ma non si sa a quali
mezzi tali direttive si riferiscano, giacchè i mezzi ritenuti superflui
dal giudice di primo grado, non sono nuovi e quelli veramente nuovi non
possono, se sono nuovi, essere stati ritenuti superflui in primo grado.
La distinzione fra mezzi nuovi
e non nuovi è importante, giacchè i mezzi di istruzione proposti
al giudice inferiore e da esso respinti secondo tutti gli autori non possono
essere ammessi dall’istruttore, mentre quelli veramente nuovi secondo
alcuni possono dall’istruttore essere ammessi (Zanzucchi, Il Nuovo Diritto Proc. vol. II, pag.
218) e secondo altri non lo possono (D’Onofrio, Commento, Vol. I, pag. 312) perchè l’art. 350 non
accenna alla potestà dell’istruttore di ammettere nuove prove ed
all’istruttore peraltro è precluso il vaglio del merito della
sentenza appellata, finchè questa non sia stata riformata.
La Corte ritiene esatta questa
seconda soluzione per i motivi addotti dalla dottrina, ma la questione e quindi
anche la possibilità di diverse opinioni, permane.
b) - Permane anche il dubbio
se tutto il ragionamento relativo alle nuove prove valga anche per la
produzione dei nuovi documenti, sull’ammissibilità dei quali
dovrebbe, per le ragioni esposte, provvedere soltanto il Collegio ed invece
provvede talvolta l’istruttore.
c) - L’art. 294 del Cod.
Proc. Civ. che riconosce all’istruttore la facoltà di rimettere in
termine il contumace che si costituisce e di consentirgli lo svolgimento delle
attività istruttorie precluse, può essere considerato
implicitamente richiamato dall’art. 359 ed applicabile quindi anche nel
giudizio di appello?
La questione va risolta nel
senso che il solo Collegio può consentire al contumace che si
costituisce l’esercizio delle attività che gli sarebbero precluse
e ciò per gli stessi motivi sui quali poggia la soluzione della questione
sub a). Comunque, anche su questo punto l’incertezza nuoce
all’uniformità di applicazione della nuova legge processuale.
d) - L’istruttore che
dichiara con ordinanza estinto il processo ad istanza di una delle parti per
inattività dell’altra, può con la stessa ordinanza
condannare l’altra parte delle spese del giudizio?
Su questo punto la legge
presenta una lacuna. Ragioni di opportunità consigliano di adottare la
soluzione affermativa, applicando per analogia, anche se questa sia alquanto
discutibile, il principio sancito nell’ultimo comma dell’art. 306
Cod. Proc. Civ., nel quale si prevede la possibilità di liquidare le
spese del giudizio mediante l’ordinanza dichiarativa
dell’estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio.
Anche in questa materia
occorre che si intervenga per eliminare ogni incertezza.
e) - Se l’istruttore
omette di dichiarare l’improcedibilità per mancata costituzione
dell’appellante alla prima udienza e fissa una nuova udienza può
l’appellante costituirsi in tale udienza?
Una questione analoga si
faceva sotto l’impero del vecchio rito in tema di rigetto
dell’appello senza esame. La soluzione affermativa di essa, coi motivi
sui quali poggiava, induce a risolvere affermativamente anche la nuova
questione.
f) - A dubbi ha dato luogo
l’assenza delle parti, verificatasi nel corso del processo.
E’ avvenuto più
volte che una delle parti, costituitasi in termine, non sia comparsa
nell’udienza istruttoria di rimessione delle parti all’udienza
Collegiale (art. 190 C.P.C.).
L’art. 190 sopra citato
non contiene una sanzione per la mancata formulazione delle conclusioni
nell’udienza in esso prevista e perciò si ritiene che, se la
suddetta parte provvide a prendere le sue conclusioni nella fase iniziale della
lite, esse devono essere prese in considerazione dal Collegio.
Tali conclusioni devono essere
prese in esame anche se la parte assente nell’udienza di cui
all’art. 190, si presenti all’udienza di discussione, ma si intende
che essa non può modificare le sue iniziali conclusioni.
Talvolta per contro è
avvenuto che la parte, avendo fissate le sue conclusioni nell’udienza
istruttoria di cui all’art. 190, non sia comparsa all’udienza
collegiale. Si è ritenuto che nonostante tale assenza si dovesse tenere
conto delle suddette conclusioni.
h) - Per la dichiarazione di
improcedibilità dell’appello nei casi previsti dall’art. 348
C.P.C. è necessaria l’istanza di parte?
Alcuni rispondono
affermativamente in base all’art. 99 C.P.C., ma tale opinione non sembra
accettabile, perchè i provvedimenti necessari a far cessare il processo
per inattività delle parti, ricorrente in tutte le tre ipotesi previste
nell’art. 348, oltre che nei casi di cui agli artt. 307 e 309, devono
essere indipendenti, come si arguisce da questi due ultimi articoli dalla richiesta
di parte.
i) - Quali sono gli atti che
l’appellante deve inserire nel suo fascicolo, da presentare a norma
dell’art. 348 n. 2?
Si dice che l’appellante
debba per lo meno presentare, oltre alla sentenza appellata, gli atti necessari
per la sua costituzione, i quali sono quelli di cui all’art. 165
(citazione, procura e documenti offerti in comunicazione) e che per esibizione
di tali atti l’istruttore non abbia la facoltà di concedere, a
norma dell’art. 348 n. 2 una dilazione, anche perchè se non
deposita gli atti di cui all’art. 165 l’appellante non può
costituirsi e la mancata costituzione è di per sé causa di
improcedibilità dell’appello.
Tale opinione sembra esatta,
ma la questione è controversa.
1) - E’ ammissibile,
secondo il nuovo rito, l’intervento del terzo processo per ordine del
giudice?
L’art. 344 del nuovo
codice di rito, a differenza dell’art. 491 del codice abrogato, non
prevede tale intervento, che perciò non può essere ritenuto
ammissibile.
Il senso del dovere che il
giudice italiano ha sempre avuto in altissimo grado e la devozione alla Patria
particolarmente profonda in questo periodo danno affidamento che, nonostante le
grandi difficoltà dovute a molteplici cause, il funzionamento della
Giustizia non subirà né soste né deficienze né
deviazioni»[14].
Subito dopo Delle Donne
tornava a più riprese su questo nodo della Giustizia italiana e, senza
esitazione, sostenne l’inapplicabilità di siffatta procedura,
chiedendone la radicale modifica, perché «Il diritto, anche nel
ramo della procedura è proporzionale, e deve contemperare
l’interesse dell’organizzazione politica con quelli dei
cittadini» ed era necessario lasciare «ai privati quel margine di
libertà che è sufficiente per la tutela dei diritti operanti
nella sfera della volontà privata»[15].
Egli sosteneva con forza che: «modestamente ritengo che il sistema
seguito non ha raggiunto lo scopo di garantire nella forma più sicura e
sollecita la difesa del diritto e debba essere senz’altro abbandonato.
Sopra ogni dibattito
dottrinale sta il principio e l’esigenza della realtà giudiziaria,
dovendo la procedura essere preordinata ed attuata per la migliore difesa del
diritto sostanziale. La procedura cioè è da considerarsi quale
mezzo che non deve intralciare o ritardare la dichiarazione e l’esecuzione
del diritto, ma agevolarne l’esercizio.
Posto questo punto
fondamentale del problema procedurale, occorre discendere all’esame del
metodo più adatto, non seguendo teorie e schemi astratti, ma adottando
le norme alle reali condizioni del nostro Paese, alla tradizione, al costume
giudiziario, alla nostra indole, al grado di litigiosità del popolo, al
numero ed alle condizioni dei Giudici, alla mentalità di essi e degli
avvocati, alle condizioni sociali ed ai rapporti fra lo Stato ed il
cittadino»[16].
In realtà il nuovo
codice si basava sul decisivo continuo
potere di intervento del giudice nel processo civile.
Ciò costituiva un
rovesciamento della posizione di quanti ritenevano che si dovesse lasciare alle
parti lo svolgimento della procedura e vedevano il giudice solo come terzo, garante e testimone dei fatti
processuali e della regolarità del rito, nonché arbitro per la
corretta applicazione del diritto (attraverso la sentenza).
Al riguardo occorre un breve excursus, che consenta di capire
l’importanza della questione e per
ricordare i termini e i contorni della querelle
che accompagnò (ed è ancora attuale!...) il nuovo codice di
procedura civile.
Studiosi eminenti mettevano in
evidenza il fatto che i componenti del collegio giudicante arrivavano
all’emanazione della sentenza senza una conoscenza diretta
dell’andamento del processo e della sua istruzione. Essi dovevano
giudicare soltanto sulla scorta delle ‘carte’ accumulatesi durante
lo svolgimento della procedura; essi venivano investiti della questione solo
attraverso la lettura dei verbali e degli atti scritti dalle parti (le
‘difese’). Chi aveva seguito la causa, cioè il giudice
istruttore, quasi mai era anche il decidente.
Tutti i punti e tutte le
questioni sollevati dalle parti, riguardo all’andamento del procedimento
ed alle prove, venivano definiti dal Collegio attraverso una sentenza interlocutoria contro la quale
era possibile proporre appello, causando dilatazione eccessiva dei tempi della
decisione della lite.
Tutto ciò pareva
inammissibile. Soprattutto quanti stavano perseguendo il nuovo diritto, basato
su un ideale di perfezione (come era nelle aspirazioni di coloro –ed
erano tanti - che si ispiravano alla pandettistica
tedesca del Windscheid), insorsero. Primo fra tutti un allievo dello Scialoja,
il Chiovenda. Questi in più riprese propose l’ideale di un
processo civile perfetto ed idealizzato secondo le concezioni dirigistiche (che all’epoca si
incentravano sull’intervento dello Stato, attraverso i suoi Tribunali) e
sostenne l’indilazionabilità di una riforma radicale, la quale
doveva essere assata sul principio dell’oralità e sugli altri
principi ad essa collegati: l’immediatezza, la concentrazione,
l'immutabilità del giudice e, da ultimo, la non appellabilità
delle decisioni interlocutorie. Il giudice doveva essere posto al centro dello
svolgimento del processo e divenire guida e vigile controllore di esso,
contribuendo anche all’acquisizione del materiale probatorio.
Il Chiovenda portò
avanti le sue tesi nella Commissione per
il dopo-guerra (fatta istituire nel 1918 dallo Scialoja e composta da 600
membri, ai quali furono aggiunti altri 600 esperti, allo scopo di
“studiare e proporre provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di
guerra allo stato di pace”), alla quale egli partecipò, con grande
autorevolezza: sin dal 1920, fu predisposto il profilo del nuovo codice del
1940. Il progetto, predisposto dai più grandi processualisti (Piero
Calamandrei, che stese la Relazione al Re,
Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti), fu sposato dal nuovo Guardasigilli
Dino Grandi e dal Duce.
Si ricorda che lo stesso
Mussolini, chiosando la richiesta di un magistrato, annotò a mano: «Ha ragione. Il giudice
non dirige ma è diretto».
La conseguenza fu
l’emarginazione delle parti, perché quasi tutti i poteri di
gestione del processo furono demandati al giudice e in particolare al
giudice-istruttore.
Le aspettative non trovarono
riscontro nei risultati.
Si scoprì che il nuovo
codice eludeva una delle aspirazioni prioritarie: invece di snellire, allungava
i processi. Sul punto proprio le obiezioni del Delle Donne, come dirò,
sono illuminanti, mettendo a nudo la lentezza e la farroginosità
nascenti dalla nuova procedura, causa di difficoltà sia per i giudici
sia per gli avvocati.
Questi ultimi, subito dopo la
caduta del regime fascista, dopo il 25 Luglio del 1943, presero posizione
contro il nuovo codice e ne chiesero l’abrogazione, auspicando persino il
ritorno al codice del 1865. La loro protesta, andò avanti per diversi
anni, ma non ottenne l’appoggio del Consiglio Nazionale Forense,
presieduto da Piero Calamandrei, che aveva contribuito alla stesura del Codice
e, come si è detto, aveva scritto la Relazione al Re.
Le proteste non ebbero esito e
alla fine il Codice non venne abrogato.
Come emerge dal confronto
delle date il Delle Donne fu il primo autorevole oppositore del nuovo codice e
anticipò l’avversità manifestata dagli avvocati, ma solo
dopo la caduta del Duce (nel luglio del 1943), la quale si fondava in
più punti e soprattutto nella denuncia del pericolo di defatiganti
lungaggini e dilatazioni dei tempi del processo sulle considerazioni svolte dal
Delle Donne.
La vicenda fu, quindi, di
grande rilievo e dimostrò lo spirito d’indipendenza e la
priorità data al ‘diritto’ ed alla sua reale applicazione
dal Delle Donne.
Questo spiega perché
egli si è soffermato in maniera diffusa sull’episodio (che occupa
ben 18 delle 98 pagine, dell’attuale edizione del suo scritto
autobiografico).
Le
obiezioni del Delle Donne si articolavano su più punti.
I principali erano costituiti
dalla mancanza di adeguato personale ausiliario, dall’assenza di norme
semplici che, come in Austria erano necessari a garantire la speditezza del
procedimento, dall’eccessivo assorbimento dei magistrati in
attività istruttorie. Egli denunciava che il carico giudiziario avrebbe
impedito ai giudici, così come agli avvocati, di riservare tempo allo
studio, con la conseguenza di un inevitabile abbassamento della qualità
degli interpreti del diritto. Le condizioni di sovraffollamento dei locali
(dove più giudici dovevano contemporaneamente svolgere le proprie
mansioni) impediva persino la necessaria riservatezza
e serenità. Inoltre la mancanza di cancellieri faceva sì che
i verbali venissero redatti dagli avvocati, con le perplessità che
ciò comportava. Il tutto rendeva impossibile la necessaria
collaborazione fra il giudice e le parti. Il Delle Donne denunciava il pericolo
concreto di “remore del giudizio” e “durata eccessiva anche
dei procedimenti più semplici e più urgenti”, in gran parte
dovute all’eccessivo numero di cause affidate a ciascun magistrato.
Egli poi si soffermava su
alcuni inconvenienti legati alle incombenze dei Presidenti, costretti ad
investirsi, almeno sommariamente, delle cause per potere procedere
all’assegnazione ai magistrati istruttori, con perdita di tempo enorme e
dispendio di energie a discapito dell’approfondimento e della formazione.
Delle Donne prese posizione
sul cardine della riforma, la quale,
secondo le visioni del Chiovenda, si era incentrata sul principio dell’oralità. Egli scrisse che quel
principio, certamente buono in sé e se utilizzato davanti al collegio
giudicante, era inadatto davanti al giudice istruttore. Nella pratica sarebbe
stato fonte di lungaggini e mal si sarebbe conciliato con la prassi dei
Tribunali italiani, dove gli avvocati preferivano, per chiarezza e precisione,
affidarsi alle proprie memorie scritte, creando una duplicità di vie.
Sono rilievi penetranti,
ancora oggi di grande attualità, che dimostrano l’attenzione
acutissima per l’efficace e tempestiva applicazione del diritto ai casi
concreti[17].
Ricordo, per inciso, che con la “novella” del 1950, tra l’altro, si attenuò il principio dell’oralità con la legalizzazione delle memorie scritte.
Vorrei, a questo punto,
riandare a due aspetti della cultura e della formazione del giurista, quali
emergono dalle pagine del Delle Donne.
Il primo: l’estrema
penuria di bibliografia e la difficoltà per procurarsi i testi.
Il secondo: la
particolarità degli studi giuridici con l’individuazione di un
corso per le attività forensi e di notariato. Esso era accompagnato da
una molteplicità di prove di accesso alle professioni, le quali, per la
Magistratura, prevedevano reiterate modifiche.
Nell’ordinamento degli
studi colpisce la presenza di un insegnamento di Enciclopedia giuridica[18]
che aveva la funzione di Einführung
al diritto, la quale, in seguito, fu affidata agli insegnamenti di Istituzioni di diritto romano e di Istituzioni di diritto privato ed in
alcune Facoltà anche all’insegnamento di Filosofia del diritto.
La poliedricità e la vastità
di interessi del Delle Donne è testimoniata dal suo felice passaggio
dalle corti giudicanti alle procure e dai suoi scritti, di politica del diritto[19]:
Le pagine del Delle Donne ci
immettono nel Gotha della scienza giuridica italiana. Bastano i nomi a darne il
quadro: Venzi, Mortara, Barcellona, Mortara, Chiovenda, Calamandrei, De
Ruggiero, Rocco, Vassalli, Orlando.
Su ciascuno di essi e sui
rapporti avuti con il Delle Donne ci si potrebbe soffermare ancora a lungo.
Mi limito a ricordare la
lettera di felicitazioni del Presidente della Vittoria, Vittorio Emanuele
Orlando, e la cena, offerta da colleghi ed amici al Delle Donne, alla Casina
delle rose al Pincio, durante la quale tutti i commensali convennero di
lasciare la parola esclusivamente ad Orlando, che parlò soprattutto di
diritto[20].
Alla fine di queste mie
riflessioni mi è parso utile accendere i riflettori su una pagina del
nostro recente passato, ancora co-presente, che ci dà uno spaccato di
quelli che erano e quello che rappresentarono i giuristi nella transizione tra
guerra, fascismo e dopoguerra.
[1] M. Delle Donne, Il mio racconto – Da pastorello della Lucania a primo presidente
della Corte di Appello di Roma e Senatore del Regno, Genzano di Lucania
2006.
[2] Gran
parte sono anticipatori di critiche radicali che si sono reiterate nel tempo
intorno al processo civile: per tutte ricordo quelle mosse in più
riprese da un grande processualista scomparso di recente, Franco Cipriani, del quale mi limito a
citare il penetrante Il processo civile
nello Stato democratico, E.S.I., Napoli 2006.
[3]
Trascrivo il punto, che si trova alle pagine 33-34, perché ricco di
indicazioni sulle qualità morali e la solidarietà del tempo,
nonché sulla tempra del Nitti e del primato da tutti accordato alla
famiglia: «Non m’ero iscritto all’Università per
l’anno successivo alla licenza liceale né ebbi disponibile la
somma necessaria per l’iscrizione se non nell’ottobre 1897. Avevo
pagato intanto buona parte del vecchio debito e non intendevo interrompere il
pagamento né assumere altro debito. Per economia, mi iscrissi, a mezzo
Peppino Cristalli, alla Facoltà di giurisprudenza di Napoli, Corso di
Notaio e Procuratore, e mi procurai le Istituzioni ed il Sistema di diritto
civile del Gianturco, oltre un volumetto di Enciclopedia giuridica. Per
entrambe le materie ebbi il 27, con la dispensa dalle tasse. Nell’anno
seguente ottenni la stessa votazione e mi iscrissi perciò al terzo Corso
di Laurea e così al quarto, senza alcuna spesa. Nel giugno del quarto anno
il padre di un mio alunno, Senise, mi pregò di portare una sua lettera
al prof. Nitti. Egli mi spiegò che, per la ripartizione dello storico
bosco di Banzi, caro ad Orazio, e la liquidazione dei diritti di usi civici
spettanti ai Bantini (circa 1200) Don Vincenzo Nitti aveva esercitato le
funzioni di Agente Demaniale: il figlio, Francesco Saverio, nella sua dimora in
Banzi, aveva fatto l’onore di tenere a battesimo il figlio del Senise,
che perciò scriveva al compare, rinnovando le espressioni della sua
riconoscenza. Nitti lesse e gradì molto la lettera, nella quale io ero
indicato come maestro del figlio del Senise, e mi chiese lo scopo del mio
viaggio a Napoli. Quando gli dissi che dovevo sostenere gli esami del quarto
anno, mi domandò su quale libro avessi studiato “Scienza delle
Finanze”. Mi ero servito, nella preparazione, di uno di quei sunti che
erano allora in uso e lo dissi francamente. Nitti si levò dal
lunghissimo e ampio tavolo del suo studio, nel quale mi aveva ricevuto, e da un
armadio prese le dispense del suo Corso, da lui approvate, e me le
offrì. Ringraziai più con gli occhi che con le parole. In tre
giorni lessi più volte le dispense, chiare ed in forma volgarizzatrice
della Scienza, affrontai l’esame avanti la Commissione, formata dal
Nitti, che presiedeva, dal prof. Graziani, titolare della Cattedra di Economia
politica e da un libero docente, senza trovare difficoltà nelle
risposte: ottenni un 28. Esauriti gli esami di tutte le materie e presentata la
tesi di laurea, che dovetti preparare in gran fretta, rimasi in attesa della
discussione. Ne chiesi notizia al Segretario dell’Università,
dott. Fontebasso, ed ebbi la sgradita sorpresa di apprendere che non sarei
stato ammesso alla discussione della tesi se non avessi prima pagata la somma
di £. 250, per omesso pagamento della differenza fra le tasse del Corso
di Notaio e Procuratore e quelle del Corso di laurea. Un fulmine a ciel sereno!
Mi aggiravo nei corridoi dell’Università con la tristezza di chi
si trova all’improvviso dinanzi al crollo del suo piano, nell’incapacità
di porvi rimedio, allorchè incontrai Nitti. Egli, vedendomi turbato, mi
domandò che cosa mi fosse accaduto: conosciuta la richiesta di
Fontebasso, mi invitò a seguirlo in Segreteria, dove chiese se non vi fosse
modo di ammettermi alla discussione: egli si offriva a garantire per me il
pagamento della tassa. Il regolamento non ammetteva alcuna deroga. Nitti
scrisse un biglietto e mi incaricò di portarlo a casa sua. Era diretto a
Donna Antonia, la quale mi consegnò la risposta: nella busta erano le
250 lire. Non abbracciai Nitti, per timore reverenziale ma nell’animo mio
si impresse profondo il senso della gratitudine, per un atto così
spontaneo, seguito dal rifiuto della mia offerta di dichiarazione scritta.
Conseguita la laurea, con voti cento, mi recai da Nitti. Aveva sulle ginocchia
il figlio Vincenzino, di circa tre anni: mi presentò suo Padre e Donna
Antonia. Caduto il discorso sulle varie vie da seguire dopo la laurea, Nitti mi
disse: «Potreste venire qui: vi metterei a disposizione la mia biblioteca
ed in un paio d’anni potreste ottenere la libera docenza, e, in altro
periodo, più o meno breve, la cattedra universitaria». Gli
risposi: “La ringrazio: accetterei con entusiasmo la sua generosa offerta
se fossi solo; ma la mia famiglia ha bisogno del mio aiuto, che io non potrei
darle se mi dedicassi alla preparazione per la carriera universitaria:
prenderò parte al concorso in Magistratura”. “Avete
ragione” mi disse Nitti».
[4]
Ricordo che, secondo il Windscheid «il civilista avrebbe dovuto tendere a
costruire una scienza formale, scienza pura, scienza ordinante né
contaminata né compromessa dalle dimensioni etica sociale
economica»: così P. Grossi,
La cultura del civilista italiano. Un
profilo storico, Milano 2002, 20; cfr. B.
Windscheid, Die Aufgaben der
Rechtswissenschaft, raccolto in Gesammelte
Reden und Abhandlungen, Leipzig 1904, dove è riprodotto il pensiero
espresso nel discorso inaugurale (leipzige
Rektoratsrede) del Rettorato, del 1884.
[5] In
essi si radicava la convinzione dell’esistenza di un abstrakte Zivilrecht, costituente un sistema organico e coerente, nel quale la faceva da padrona una
scienza giuridica agguerritissima.
[6] Sul
punto e sull’affresco delle eccellenze del tempo e dell’ascendente
di Scialoja, v. le stringate notazioni, op.
cit., 43 s.: «La mia linea di discussione piacque a Vittorio
Scialoja, che io vidi emozionato, in una delle prime udienze avanti la 2a
Sezione, presieduta da Pietro Barcellona, quando in una causa di divisione
ereditaria ricordai uno scritto di Lui, giovanissimo, titolare della Cattedra
di diritto romano presso l’Università di Camerino. La Presidenza
affidata a giuristi del valore di Giulio Venzi, Pietro Barcellona, Silvio
Petrone ed altri, e la difesa delle parti sostenuta da Vittorio Scialoja, Ludovica
Mortara, Giuseppe Chiovenda, Vittorio Emanuele Orlando, Piero Calamandrei,
Federico Cammeo, Filippo Vassalli, De Ruggiero, Vincenzo Ianfolla ed altri e
poi anche Alfredo Rocco, incutevano rispetto, destavano ammirazione e
stimolavano allo studio più accurato anche per la dignità ed il
prestigio della Magistratura. Avevo l’impressione di trovarmi nello
svolgimento di un rito sacro, che io seguivo modestamente ma con intima gioia.
Le udienze erano un godimento intellettuale ed una scuola ad alto livello di
sapienza, di nobiltà di pensiero e di squisita colleganza nella ricerca
del vero e del giusto. Non mancavano neppure le arguzie ed i motti di spirito.
Nella discussione di un ricorso, pur riconoscendo l’acume ed il valore
del patrono nel sostenere la sua tesi, dalla quale io dissentivo, ne chiesi il
rigetto. Orlando, rivolto al suo avversario gli disse: “Beh! t’ha
fatto un funerale di prima classe!”. Ricordo un episodio: Giulio Venzi si
presentava all’udienza molto ben preparato e con il proprio parere, su
ogni ricorso, scritto su di un pezzo di carta che teneva in tasca. Nella
discussione di un ricorso io, ad un certo punto, temendo di prolungarmi troppo,
nell’esposizione dei miei argomenti, ne chiesi venia al presidente.
Questi insistette e direi quasi mi obbligò a proseguire, sicchè
io svolsi la mia tesi agevolmente. In Camera di Consiglio Venzi tirò
fuori da una tasca il suo pezzo di carta e mi disse: “Ero di avviso
contrario al tuo; mi hai convinto: sono con te”. Circa due mesi dopo
l’assunzione del mio ufficio il Procuratore Generale, S.E. Appiani, mi
comunicò che dovendo procedere alla Destinazione di un Sostituto, con le
funzioni di Pubblico Ministero presso il Consiglio Superiore Forense, aveva
interpellato il presidente Vittorio Scialoja, e questi, senza alcuna
esitazione, aveva fatto il mio nome, non solo, ma aveva richiesta
l’esclusione di qualsiasi avvicendamento, seguito in precedenza. S.E.
Appiani non mi nascose il suo stupore sia per il giudizio su di me espresso dal
sommo giurista, ma rigoroso critico, sia perchè l’incarico presso
quel Consiglio era considerato come anticamera della promozione, che avveniva a
scelta del Ministro, ma che non poteva ottenersi se non dopo quattro anni di
permanenza nel quarto grado. Dopo quel colloquio fui mandato frequentemente
alle udienze delle Sezioni Unite, destinate solitamente agli Avvocati Generali
o ai Sostituti Anziani. Nel periodo passato alla Procura generale presso la
Cassazione si verificò in me un fenomeno non comune. In un’udienza
delle Sezioni Unite, presieduta da Mariano D’Amelio, sempre sereno ed
instancabile, erano fissate per la discussione ventuno ricorsi: inizio
dell’udienza ore 12. Questa si prolungò, con brevissimi
intervalli, fino alle ore ventuno. Negli ultimi ricorsi, come nei primi, la mia
mente non ebbe un attimo di stanchezza, non solo, ma divenne sempre più
lucida, astratta e leggera, quasi che lo spirito si fosse liberato dalla
materia. La stanchezza mi giunse dopo e passò presto con il riposo. Il
Consiglio Superiore Forense, presieduto da Vittorio Scialoja, era composto da
una schiera di eminenti penalisti, di ogni parte d’Italia; le relazioni
sui precedenti erano modelli di obiettività e di precisione ed i
dibattiti si svolgevano sempre sereni ed elevati. Si presentarono alla discussione
i ricorsi degli ex deputati aventiniani, radiati dall’albo per la loro
attività politica: fra i ricorrenti ricordo l’On.le Umberto
Tupini, che io non conoscevo, non avendolo mai veduto in Cassazione o altrove.
Sostenni l’accoglimento dei ricorsi, perchè sarebbe stata
illegittima una sanzione per l’attività svolta, anteriormente al
fascismo, nell’ambito delle leggi prima vigenti, e perchè mancava
ogni elemento di prova circa l’attività posteriore, non potendosi
colpire le opinioni non seguite da atti contrari alle nuove leggi. Scialoja ed
i Consiglieri furono unanimi nella decisione basata sulla mia tesi: i
ricorrenti esercitarono quindi liberamente la loro professione di
avvocato».
[8] V. op. cit., 46: «Alcuni dei miei
colleghi, vincitori, con me, del concorso del 1928, come Aloisi, Azzariti,
Saltelli, furono subito promossi al 3° grado. Non so come giunse la notizia
a Vittorio Scialoja: Egli si presentò al Ministro di Grazia e Giustizia,
Alfredo Rocco, a Lui legato da sincera amicizia e, stringendogli la mano, si
congratulò vivamente con lui per il decreto emesso con la mia
promozione. Il Ministro cadde dalle nuvole, dichiarò di ignorare se io
avessi compiuto il quadriennio e promise una verifica. Per quella trovata,
spiritosa e geniale, rivelatrice di un gran cuore, non sempre riconosciuto, fui
subito promosso al 3° grado e nominato Procuratore Generale alla Corte di
Appello di Bari. Tutto ciò mi fu riferito dall’avv. Mantica, di
sua iniziativa, essendo egli valente e fedelissimo sostituto di Vittorio
Scialoja».
[9] Op. cit., 46 s.: «Memore del
consiglio paterno, non avevo mai chiesta la tessera fascista: questa non
m’era stata mai sollecitata od offerta. In seguito, e precisamente dopo
la Circolare Rocco, che invitava all’iscrizione, per eliminare
un’apparente differenza tra tesserati e non, considerai che il rifiuto
avrebbe portato logicamente alle dimissioni, che l’iscrizione
all’unico partito non poneva vincoli né ledeva minimamente
l’indipendenza dei Magistrati, che ognuno deve far valere da sé,
né faceva dimenticare il giuramento prestato, e aderii all’invito.
Questo mio concetto animò sempre la mia coscienza».
[10]
Trascrivo qui il relativo decreto:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA -
Visto il decreto del Duce 18 gennaio 1944-XXII, che ha prosciolto i dipendenti
delle amministrazioni civili dello Stato dal giuramento di fedeltà
prestato al Re all’atto della loro assunzione in servizio; - Vista la
nuova formula del giuramento adottato per il personale civile delle amministrazioni
pubbliche; - Ritenuta la necessità di modificare, adeguandola alla
mutata formula politica dello stato, anche la formula di giuramento previsto
per i magistrati dall’art. 9 dello ordinamento giudiziario, approvato con
R.D. 30 gennaio 1941, n. 12; - Visto il decreto legislativo del Duce 8 ottobre
1943-XXI, concernente la sfera di competenza ed il funzionamento degli organi
di governo; - Ritenuta la necessità assoluta ed urgente di
provvedere: D E C R E T A Art. 1 La formula del giuramento da
prestarsi dai magistrati a norma dell’art. 9 dell’Ordinamento
giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941-XIX n. 12 è cosi
modificata: “Giuro di servire lealmente la Repubblica Sociale Italiana
nelle sue istituzioni e nelle sue leggi e di adempire coscienziosamente i miei
doveri di magistrato per il bene e per la grandezza della Patria”. Art. 2
I Magistrati in attività di servizio, dovranno entro 40 giorni
dall’entrata in vigore del presente decreto prestare il giuramento
secondo la formula di cui al precedente articolo. Art. 3 Il giuramento
sarà prestato nelle mani del superiore gerarchico diretto. I Capi delle
Corti di Cassazione e di Appello lo presteranno davanti al Ministro per la
giustizia. Del prestato giuramento sarà redatto apposito verbale da
conservarsi nel fascicolo personale del magistrato. Art. 4 Il presente decreto,
da sottoporsi a ratifica del Consiglio dei Ministri, previa registrazione alla
Corte dei Conti, sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
d’Italia, entrando immediatamente in vigore, e, munito del sigillo dello
Stato sarà inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti.
Addì 21 febbraio 1944-XXII Il Ministro Pisenti. Al decreto seguì,
in data 1° aprile 1944, la seguente Circolare del Ministro della Giustizia
Pisenti sulla nuova formula del giuramento: MINISTERO DELLA GIUSTIZIA -
Gabinetto - n. 2209/Br di prot. Posta Civile 309/1, 1 aprile 1944-XXII.
Oggetto: Nuova formula di giuramento. Al Primo Presidente ed al Procuratore
Generale di Stato, della Corte Suprema di Cassazione; ai Primi Presidenti, e ai
Procuratori Generali di Stato presso le Corti di Appello di Ancona in
Tolentino, Brescia, Bologna, Roma, Firenze, Perugia, Torino, Genova, Milano,
L’Aquila, Venezia, Trieste; al Presidente e all’Avvocato Generale
presso la Corte di Appello di Trento: Con decreto ministeriale pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale d’Italia del 20 febbraio u.s., è stata
determinata la nuova formula di giuramento per i magistrati, in sostituzione di
quella di cui all’art. 9 dell’ordinamento giudiziario vigente. In
relazione alle gravi vicende verificatesi dall’8 settembre in poi, per
cui il paese, abbandonato a sé stesso dal Capo dello stato e dal Governo
Regio, ho dovuto cercare in un nuovo assetto politico la via della salvezza, i
magistrati sono chiamati ad impegnare tutte le loro energie in questa impresa
di ricostruzione nazionale. Il giuramento che il nuovo Stato ad essi richiede
non è perciò che la promessa di adempiere con lealtà alle
proprie specifiche funzioni nell’orbita delle leggi e delle istituzioni
della Repubblica Sociale Italiana. Conoscendo l’austera dedizione al
dovere e alla Patria di tutti i magistrati italiani, sono certo che nel
pronunciare la nuova formula, che li inserisce in una nuova fase della storia
politica della Patria, sentiranno profondamente ancora una volta
l’imperativo del dovere verso l’Italia immortale. Il giuramento
sarà presentato dai Capi della Corte Suprema di Cassazione e delle Corti
nelle mie mani, come stabilito dal decreto, in data e in circostanze che
renderò note prossimamente: successivamente i capi dei singoli uffici
giudiziari di Tribunali e Procure presteranno giuramento nelle mani dei loro
rispettivi Capi di Corte e, poi, convocheranno avanti a sé i magistrati
direttamente dipendenti, compresi i primi Pretori ed i Pretori dirigenti dei
Mandamenti, e questi gli altri, in modo che il giuramento di tutti (compresi i
V. Pretori onorari, Giudici Conciliatori e Vice Conciliatori) possa avvenire
entro il 30 aprile. Sarà perciò opportuno che siano fin d’ora
adottate le disposizioni preparatorie. Il giuramento dovrà avvenire
singolarmente in modo che ciascun magistrato legga la formula ad alta voce e la
sottoscriva in presenza del capo; il relativo verbale sarà inviato al
Ministero per l’unione al fascicolo personale. I magistrati in congedo
ordinario o straordinario, in aspettativa o comunque impossibilitati a
trasferirsi nella sede dove dovrebbero giurare presso il Superiore gerarchico,
nonchè i magistrati addetti ad uffici diversi da quelli giudiziari -
salvo istruzioni particolari per quelli addetti al Ministero della Giustizia -
si presenteranno davanti al Capo dello Ufficio giudiziario del luogo dove
risiedono, il quale curerà l’invio del verbale del giuramento al
Ministero (Ufficio del Personale). In casi eccezionali (magistrati che non
siano in grado di trasferirsi dal luogo di residenza per malattia documentata o
per ragioni di servizio militare) autorizzo a richiedere il giuramento per
iscritto, avvertendo che la firma dovrà essere certificata autografa da notaio
o dal podestà del luogo di residenza e, per i militari, dal loro
superiore diretto. Tale autografo sarà alligato al verbale che del
ricevimento di essi sarà redatto dal Superiore gerarchico. Per i casi
non previsti dalle presenti istruzioni i Capi di Corte disporranno per
analogia, secondo il loro saggio criterio, riferendomi direttamente. Dopo il 30
aprile sarà dai Capi di ciascuna corte compilato l’elenco dei
magistrati che non avranno prestato il giuramento, riferendo il motivo.
L’Ufficio Superiore del personale del Ministero compilerà
l’elenco dei Magistrati fuori ruolo che si trovino nelle medesime
condizioni. Sono in corso disposizioni per il giuramento dei funzionari di
cancelleria e segreteria e degli altri dipendenti dell’ordine giudiziario.
“Per copia conforme” Addì, 1° aprile 1944-XXII. Il Capo
del Gabinetto (F.to Verna) Il Ministro (F.to Pisenti).
[11] Scrive
Delle Donne, op. cit., 58 s.: «Alla Circolare, nella mia qualità di
Primo Presidente della Corte di Appello di Roma, risposi con la seguente lettera
del 15 aprile 1944, alla quale aderì Gaetano Cosentino, Procuratore
generale presso la Corte, che firmò insieme a me la copia dattilografata
spedita al Ministro Pisenti. «Sig. Ministro della Giustizia, la circolare
del 1° corr., che ci è stata comunicata dal Capo nucleo di
collegamento, ha prodotto grave turbamento negli ambienti di questa Corte e del
Tribunale locale. I Magistrati alle nostre dipendenze, pur avendo l’animo
straziato dagli avvenimenti luttuosi della Patria e pur essendo moltissimi in gravi
ristrettezze economiche, hanno finora compiuto il loro dovere con
serenità, dignità ed elevatissimo spirito di sacrificio. Essi
ritenevano, e noi con loro, che sarebbero stati lasciati estranei alle
competizioni dei partiti in lotta fra loro, mentre il sacro suolo della nostra
Italia è calpestato interamente da stranieri e questi esercitano con
l’occupazione la sovranità di fatto a tutto il territorio del
nostro Stato. In tali condizioni i magistrati della Corte e del Tribunale di
Roma si sono uniformati alla regola del diritto internazionale ed interno in
attesa del ristabilimento di uno stato di diritto e della liberazione da ogni e
qualsiasi ingerenza di Potenze straniere. Intanto hanno amministrato la
giustizia, sotto l’egida del diritto, nella certezza che la loro
posizione, che è fuori e sopra ogni contesa politica, sarebbe stata
tutelata e rispettata, secondo la tradizione che si è perpetuata,
attraverso tutti i tempi e le più varie situazioni politiche. La
richiesta del giuramento, che implica adesione alla Repubblica Sociale
Italiana, avrebbe per immediato effetto la partecipazione dei magistrati ad un
ordine politico, ancora di fatto, e ci farebbe entrare nelle file di uno dei
due partiti in lotta civile, contro la missione stessa e le prerogative
universalmente riconosciute alla Magistratura. Noi non abbiamo altro desiderio
che quello di vedere al più presto la restaurazione di uno Stato
Italiano, che ci renda liberi in casa nostra; ma finchè la situazione di
fatto non è seguita da quella di diritto, preferiamo proseguire la
nostra opera, come abbiamo fatto finora, attenendoci al diritto quale è
applicabile nelle attuali condizioni e traendo dalla nostra purissima coscienza
la forza di amministrare giustizia per la tutela del diritto dei privati e
più ancora dello Stato, che supera le contingenze e domina la nostra
attività ed i nostri spiriti».
[12] Lo
stesso Delle Donne riporta il
telegramma di risposta del Ministro (59): «telegramma n° 341
indirizzato al Primo Presidente della Corte di Appello di Roma - 78 S.C. X
17012 21 25/4 1045, ai Procuratori
Generali et ai Primi Presidenti Corte Appello Ancona in Tolentino, Bologna,
Firenze, Genova, Torino Milano, Perugia, + + + Roma + + +Venezia, Brescia,
L’Aquila, Trieste. Indipendente da termine fissato da Decreto 21 febbraio
1944 sul giuramento rimanete in attesa mie ulteriori disposizioni Alt. Ministro
Giustizia Pisenti. Pervenuto il 27 aprile 1944 alla Presidenza della Corte di
Appello di Roma». In riferimento al quale annota: «Questo telegramma
fece seguito alla mia lettera 15 aprile di rifiuto del giuramento, che non fu
mai più richiesto».
[19] Egli
pubblicò un Saggio critico sul
diritto pubblico italiano in rapporto alle attuali tendenze economiche,
Torino 1917, ed un lavoro su, Consorzi
amministrativi, che costituì la sua tesi di libera docenza e fu
pubblicata, come parte generale, nel 1919.