N.
9 – 2010 – Contributi
La relazione del reggente la Reale Cancelleria, il conte Filippo
Domenico Beraudo di Pralormo, sul governo del Regno di Sardegna (1731)
Università di Sassari
Sommario: 1. La Sardegna vista da Torino.
– 2. Filippo
Domenico Beraudo di Pralormo: un profilo biografico. – 3. La questione dell'introduzione della lingua italiana.
– 4. Progetto di convocazione delle Corti
generali. – 5. Il contenzioso ecclesiastico.
–
6. Il tribunale supremo della Reale Udienza e la situazione
della criminalità. – 7. Succinte indicazioni sulle questioni
economiche.
Il 3
maggio 1731 il reggente la Reale Cancelleria, conte Filippo Domenico Beraudo di
Pralormo, informava Carlo Francesco Ferrero, marchese d'Ormea, segretario di Stato
per gli Affari interni, di aver inviato al nuovo sovrano, Carlo Emanuele III,
un ampio memoriale «sovra lo stato» del Regno di Sardegna,
richiestogli l'anno precedente da Vittorio Amedeo II[1].
La carica di reggente, dopo quella viceregia, era la più importante del
Regno: già dal periodo spagnolo presiedeva il tribunale supremo della
Reale Udienza ed era il «consultore nato» del viceré. Non
del tutto a torto Antonio Marongiu l'aveva definito come il «primo
ministro del governo viceregio»[2].
Già
dall'inizio del dominio sabaudo si era affermata la prassi di elaborare estese
e dettagliate relazioni volte ad offrire un quadro “veridico”, e
talvolta disincantato, delle condizioni dell'isola. Emblematica è in
questo senso l'anonima ed ampia Veridica Rellazione (probabilmente del
1720) nella quale venivano affrontati i problemi ancora irrisolti relativi al
«governo politico secolare», alla situazione militare, al
contenzioso ecclesiastico, al soppresso tribunale dell'Inquisizione, alle
entrate demaniali, allo «stato attuale della Real Hazienda», alle
«rendite certe», ai mezzi che si sarebbero potuti praticare per
«accrescere il Regio Patrimonio anche con evidente benefficio del
Pubblico»[3].
La funzione delle relazioni era quella di rendere edotta la Segreteria di Stato
sulle condizioni della Sardegna, ma anche quella di fornire al monarca e ai
suoi più stretti collaboratori, in una logica tipica dello Stato
assoluto, tutti gli elementi necessari per l’elaborazione di una linea
politica sul governo del Regno che trovava concreta attuazione nella stesura
delle “istruzioni” al viceré (una pratica già
affermatasi nei secoli XVI-XVII), tese ad esplicitare e sintetizzare le direttive
sovrane.
Nel 1720,
al momento dell'atto di cessione della Sardegna, il ministero torinese aveva
raccolto nei propri archivi una gran massa di informazioni di natura storica,
politica ed economica, su quella lontana e quasi sconosciuta isola
mediterranea. La contraddittoria esperienza del governo della Sicilia aveva
spinto la Corona ad assumere una linea estremamente cauta per evitare di
commettere quei fatali errori che erano stati pagati duramente con la latente
ostilità della nobiltà e dei ceti privilegiati ed infine con la
perdita del Regno a causa della spedizione e dell'invasione spagnola del 1717[4].
All'indomani
della presa di possesso, il primo viceré piemontese, il barone Filippo
Guglielmo Pallavicino di Saint Rémy, aveva inviato a Torino diverse
relazioni con dettagliati ragguagli sull'intero complesso della vita civile,
istituzionale ed economica della Sardegna. In esse venivano ampiamente
descritte le divisioni interne alla nobiltà tra filoasburgici e
filoborbonici, le pesanti conseguenze della guerra di successione, la
povertà delle risorse economiche, la debolezza del commercio, la grave
situazione della vita ecclesiastica, a causa di un mancato accordo con la Santa
Sede a proposito del patronato regio, il contrabbando e la dilagante criminalità
nelle campagne, lo strapotere feudale nei villaggi, le lentezze e le
disfunzioni della macchina amministrativa e giudiziaria, l'incombente
eredità della dominazione spagnola con la sua salda influenza culturale
e linguistica[5].
La Segreteria di Stato agli Interni, che sovrintendeva agli affari politici del
Regno, governava da lontano la Sardegna proprio grazie alle informazioni, ai
dati statistici, ai suggerimenti e alle proposte fornite dal viceré,
dall'intendente generale, dai magistrati e dai funzionari nei loro memoriali,
pareri e relazioni[6].
La Relazione
del reggente, tuttavia, si differenzia notevolmente da quelle dei suoi
predecessori, in particolare per il taglio eminentemente istituzionale, attento
ad evidenziare i problemi più complessi e pressanti: dall'introduzione
dell'italiano come lingua di Stato all'atteggiamento dei sudditi nei confronti
del dominio sabaudo, dalla necessità o meno di convocare il Parlamento
generale alla drammatica emergenza criminale, dal complesso confronto con la
Chiesa sui problemi giurisdizionali alla spinosa questione dell'amministrazione
della giustizia, dalle prerogative della Reale Udienza alle disfunzioni della
legislazione patria, fino ad alcuni brevi cenni all'economia sarda e ai mezzi
per potenziarla. Scrivendo al ministro, Beraudo metteva le mani avanti sulle
«molte imperfezioni delle quali» il memoriale
«abbondava». Confidava inoltre che, a proposito dei giudici civili
e criminali della Reale Udienza, aveva stimato di non «dipingere il
carattere di cischeduno d'essi, come cosa molto scabrosa» e, per evitare
giudizi affrettati, aveva deciso di «poner sott gl'occhi» della
Segreteria di Stato torinese «il complesso di questo Magistrato che
veramente è tale, quale l'ho rappresentato particolarizando solamente
ciò che è degno di special lode».
Si
rendeva conto, però, delle «infinite debolezze» del suo
lavoro, domandando quindi al ministro «compatimento per le aggionte e
correzioni, che si vedon in gran numero, mentre m'è mancato tempo
– sottolineava – [...] per ridurla al netto, a segno che non me ne
rimane, se non un primo abozzo totalmente informe e fuori d'uso; quindi
bisognoso di tante et altre maggiori indulgenze»[7].
Nonostante l'atteggiamento prudente e persino cortigiano, la Relazione del conte di Pralormo ci offre
un quadro vivo e realistico dei problemi istituzionali del Regno che rivelano
uno spirito acuto e distaccato. Si tratta, infatti, di uno dei più
interessanti documenti del governo piemontese dei primi anni trenta del
Settecento in Sardegna.
Filippo Domenico Beraudo di Pralormo era nato a Torino il 17
febbraio 1678. Apparteneva a una nobile famiglia piemontese originaria di
Barcellonetta, nella contea di Nizza[8].
Lo scoppio della guerra con la Francia aveva costretto la famiglia a lasciare
Torino e a trasferirsi dapprima a Mondovì, nell’agosto del 1690 e,
successivamente, nel giugno del 1691, ad Asti. Nel 1693, rientrato nella
capitale, si era iscritto al Collegio reale dei gesuiti, sorto da poco
più di una decina d’anni per iniziativa della reggente Maria
Giovanna Battista di Savoia Nemours. Aveva intrapreso lo studio della
giurisprudenza e nel 1696 era stato ammesso a sostenere l'esame di laurea. Nel
1699 aveva svolto la pratica forense presso lo studio dell’avvocato
Spirito Giuseppe Riccardi, futuro presidente del Supremo Consiglio di Sardegna,
dove aveva iniziato la carriera di avvocato patrocinante. Il padre, vedendo i
progressi che faceva nello studio delle leggi, il 21 maggio di quello stesso
anno, aveva acquistato la carica di senatore camerlengo con la facoltà
di disporre dell'ufficio entro quattro anni, in modo che questi potesse
prenderne possesso in qualità di coadiutore. Era l’inizio di una
prestigiosa carriera. Nel 1703 era diventato senatore effettivo. Soltanto pochi
giorni dopo era entrato nel Consiglio municipale della città di Torino
in qualità di decurione di prima classe e, alla fine di quello stesso
anno, era stato nominato conservatore del Monte di San Giovanni (il monte di
pietà gestito dal Consiglio civico della capitale), carica che avrebbe
ricoperto per ben tredici volte[9].
Nel gennaio del 1704 aveva ricevuto da Vittorio Amedeo II
l’incarico di «conservatore generale degli ebrei», ufficio
che ricoprì fino al 1723, quando con la promulgazione delle Costituzioni
di Sua Maestà, furono abolite tutte le giurisdizioni delegate[10].
In maggio era stato scelto come consultore del Sant’Uffizio. Dopo la
cessione fatta dall'imperatore Giuseppe I al duca Vittorio Amedeo delle
province di Alessandria, Lomellina, Valle di Sesia e del Ducato di Monferrato,
nel marzo del 1707 si era trasferito, in veste di plenipotenziario, nella Valle
di Sesia[11].
Era ritornato a Torino in ottobre ed era stato incaricato di inventariare i
documenti conservati presso l'archivio del Palazzo Vescovile di Ivrea e, in
seguito, anche quelli dell'archivio Camerale di Casale. Nel 1714 Vittorio
Amedeo II aveva abolito la figura del senatore camerlengo, decisione che aveva
costretto Beraudo a lasciare la più redditizia Camera dei conti per
rientrare in Senato[12].
Il 2
giugno 1723 era divenuto giudice e conservatore generale delle gabelle, con uno
stipendio pari a quello già percepito come senatore[13].
Nel 1730 aveva ricevuto l’incarico di giudice aggiunto nel Consiglio
della Sacra Religione dei SS. Maurizio e Lazzaro. Fu in quell’anno che
firmò le patenti di reggente la Reale Cancelleria del Regno di Sardegna[14].
Concluso il mandato nell’isola, il 12 marzo 1734, venne destinato dal
sovrano a ricoprire la carica di consigliere nel Consiglio Supremo della
Religione dei SS. Maurizio e Lazzaro e di auditore generale del medesimo
ordine. Il 19 giugno di quello stesso anno prestò giuramento e prese
possesso delle nuove cariche. Il 26 giugno ricevette anche le patenti di
presidente capo del Consolato di Torino.
Nell'agosto
del 1739 il marchese d'Ormea gli propose, per disposizione di Carlo Emanuele
III, la prima presidenza del Senato di Savoia ma, per evitare un nuovo
allontanamento dalla famiglia, rifiutò. Il 10 febbraio 1741 fu decorato
con l'onorificenza di cavaliere di Gran Croce e Gran Cancelliere dell'Ordine
Mauriziano[15].
Il 12 giugno 1744 fu investito della carica di primo presidente della Camera
dei Conti, di presidente del Consiglio delle Finanze, di giudice generale delle
Poste, di soprintendente al governo dell'Opera di San Paolo e di consuperiore
maggiore della Congregazione di Superga. Il 7 maggio 1749 divenne presidente
del Consiglio Supremo di Sardegna[16].
Morì a Torino il 27 aprile 1753, all’età di settantacinque
anni.
Fin
dall'inizio del governo sabaudo si era affermata una visione ottimistica della
possibilità di introdurre in tempi rapidi in Sardegna l'italiano come
lingua di Stato, in sostituzione del castigliano: «Je crois –
scriveva il 22 luglio 1720 il barone di Saint Rémy – qu' il ne
seras pas mal aisé d'introduire la langue italienne dans ce Pais. Tout le monde la parle, et ils disent eux mêmes qu'
ils souhaiteraient que leur enfants trouvassent des maîtres italiens pour
leurs études»[17]. Tuttavia, nonostante il governo torinese avesse scelto di
adeguarsi all'antico cerimoniale spagnolo, facendo pronunciare in castigliano,
in occasione dell'atto di cessione del Regno dalla Spagna al Piemonte e della
presa di possesso dell'isola, il giuramento viceregio, il deputato degli
Stamenti, marchese di Villaclara, recatosi alla corte «per certificare il
re della obbedienza e devozione de' regnicoli», avrebbe recitato un'
«arringa detta in lingua italiana»[18].
Vittorio
Amedeo II era seriamente preoccupato che le iniziative del viceré a
proposito di un'introduzione forzata della lingua italiana potessero
compromettere una situazione politica tanto delicata per la nuova dinastia
dominante. Un brusco rimprovero da Torino richiamava Saint Rémy alle sue
responsabilità: «s'è altresì da noi osservato il
riflesso, che fate ad un capo delle vostre istruzioni d'introdurre per mezzo
delle scuole pubbliche l'uso della lingua italiana; sopra del che vi replichiamo
– scriveva il sovrano – di non fare alcune parti per introdurla nel
modo suddetto, essendo per altro assai naturale che debba introdursi
insensibilmente da se stessa per la maggiore necessità che s'avrà
di servirsi della medesima in questo nuovo dominio»[19].
In sostanza il re pensava che fosse preferibile attendere che l'inerzia e il
corso del tempo potessero agevolare la penetrazione dell'italiano nella
società sarda: l'ipotesi di un'affrettata e radicale trasformazione
linguistica lo trovava apertamente contrario. Nelle istruzioni al viceré
abate Alessandro Doria del Maro del 4 agosto 1723 avrebbe ribadito la sua
posizione, ordinando: «non farete alcuna parte perché s'introduca
la lingua italiana invece della spagnuola»[20].
D'altra parte Vittorio Amedeo II sperava di poter avanzare al congresso di
Cambrai (1724) la richiesta di cedere la lontana e isolata Sardegna in cambio
di una più appetibile estensione territoriale sulla Terraferma.
Ciò spiegherebbe l'intenzione di mantenere lo status quo e di non
irritare i regnicoli con una politica oggettivamente controproducente: aveva,
infatti, ordinato a Saint Rémy di non dare «alcun segno di
disprezzo dei costumi naturali e delle usanze dei Sardi»[21].
Dal
1725, sfumata definitivamente l'ipotesi di uno scambio dell'isola, il governo
sabaudo si trovò ad affrontare numerosi ed irrisolti problemi. La stessa
scelta di non voler mutare nulla e di continuare a mantenere lo spagnolo come
lingua ufficiale si sarebbe ben presto mostrata difficoltosa. Non era concretamente
possibile, infatti, far coesistere una struttura politica e amministrativa,
formata in gran parte da funzionari piemontesi che pensavano e parlavano in
italiano, con un complesso di tradizioni e norme scritte in lingua castigliana.
Il viceré Saint Rémy, durante il suo secondo incarico, fu
costretto, nel maggio del 1724, a far rimandare la partenza di due nuovi
magistrati subalpini, giacché essi non conoscevano né lo spagnolo
né la legislazione sarda: il loro arrivo appariva del tutto inutile.
Questi inconvenienti spinsero il sovrano a cambiare parere: «a riflesso
principalmente delle necessarie mutazioni che ci occorre di fare dei ufficiali
di giustizia – scriveva al viceré il 19 maggio 1726 – quando
i soggetti che da noi vengono destinati a subentrare al loro impiego non
essendo pratici delle leggi e pragmatiche, né coadiuvati dal linguaggio
del Regno, non sono in stato di opporsi, pendente l'indispensabile noviziato
che loro conviene di farne, ai pregiudicii che abbiamo motivo di temere non
solo all'amministrazione della giustizia, ma anche alla nostra
giurisdizione»[22].
Fu per questi motivi che Vittorio Amedeo II chiese al viceré di
studiare, assieme al gesuita Antonio Falletti, un organico piano per
l'introduzione dell'italiano[23].
Il padre
Falletti, in Sardegna dal 1721 come visitatore della Compagnia di Gesù,
si mise al lavoro e, nella primavera del 1726, preparò una lucida Memoria
dei mezzi che si propongono per introdurre l'uso della lingua italiana in
questo Regno. La Memoria era preceduta da una lettera a Saint
Rémy (5 maggio 1726), nella quale il gesuita spiegava gli orientamenti
del suo lavoro[24].
Egli riteneva, non a torto, che la sostituzione dell'italiano allo spagnolo
doveva essere attuata esclusivamente al livello della cultura scritta,
dell'istruzione, degli atti ufficiali e delle leggi: «ed il viceré
comincierà pure a decretare le suppliche in italiano quando Sua
Maestà così lo ordini e con questo si crede – riteneva
– che si potrà introdurre con facilità la lingua italiana, ed
abolire la lingua spagnuola, e non la sarda ch'è la naturale in questo
Regno».
Sintetizzando
si può affermare che i punti essenziali del piano erano: 1) far stampare
in Sardegna «dizionari dove vi sia la lingua spagnuola e italiana»,
grammatiche italiane e «la Summa Rolandini» (cioè la Summa
artis notariae di Rolandino Passeggeri, nota comunemente come la Rolandina,
tradotta in italiano col titolo Summa Rolandina dell'arte del notariato
volgarizzata et in molti luoghi ordinata et ampliata, e stampata a Torino
da Gristoforo Bellone nel 1580)[25]
che conteneva «gl'esemplari e formole con cui si devono fare
gl'instromenti italiani»; 2) far venire dall'Italia predicatori e padri
gesuiti disposti ad insegnare l'italiano ai confratelli più giovani, in
modo da preparare un numero sufficiente di nuovi maestri; 3) ordinare ai
magistrati della Reale Udienza e della Reale Governazione del Capo di Sassari
di «votare e parlare in italiano, come pure fare le sentenze e decreti a'
memoriali et altre provvisioni in lingua italiana come altresì alli
ministri patrimoniali»; 4) aumentare il numero dei notai che
«debbano essere esaminati in italiano da uno o due de' tre ministri
piemontesi»[26].
In una
prima fase l’uso del sardo, considerato «punto di partenza per una
progressiva acquisizione dell’italiano», doveva – come
sosteneva il gesuita – essere largamente favorito anche in ambiti, come
quello ecclesiastico, che per tradizione erano culturalmente più legati
alla Spagna[27].
Il 13 giugno 1726 Saint Rémy scriveva a Torino, comunicando di aver
discusso il progetto con Falletti, manifestando a questo proposito prudenza e
perplessità. A suo avviso il problema più urgente era quello di
preparare i maestri per insegnare il nuovo idioma ai fanciulli nelle
città e nei villaggi. Il viceré temeva, infatti, che una decisa e
affrettata imposizione della lingua italiana avrebbe potuto creare una reazione
di rigetto nella società sarda e, in particolare, nel clero, ancora
legato alle «costumanze spagnuole»[28].
Il re ribadiva a tal riguardo che non era intenzione del governo di Torino
«abolire in codesto Regno l'uso della lingua sarda, ma bensì di
fare che sia insensibilmente introdotta l'italiana in luogo della
spagnuola»[29].
Significativa in questo senso sarebbe stata la pubblicazione in sardo e in italiano
del discorso pronunciato dall’arcivescovo di Cagliari, il piemontese
Giovanni Giuseppe Falletti di Castagnole, «prima bogue de su Istamentu ecclesiasticu de su Reynu de Sardiña»,
in occasione del giuramento di fedeltà a Carlo Emanuele III[30].
Il piano
non era, però, così facile da attuarsi e rimase sostanzialmente
sulla carta. La grammatica italiana stampata a Cagliari nel 1728 da Pietro
Borro rimase invenduta nei magazzini della tipografia a causa dell'eccessiva
prudenza governativa. Ancora nel 1731 il viceré marchese di Cortanze
doveva riferire alla corte che i padri Chiesa, Acquarone e Vittorio Amedeo,
giunti a Cagliari, non avevano ricevuto nessuna richiesta di insegnare
l’italiano. E nonostante il conte di Pralormo riferisse di un certo
afflusso di cagliaritani alle lezioni di dottrina cristiana in italiano del
padre Amedeo Giraldi delle Scuole Pie, oltre che una buona partecipazione alle
prediche dei padri Vassallo e Chiesa, la strada da percorrere per la
sostituzione del castigliano era ancora lunga. Riflettendo sulla
difficoltà di imporre l'italiano nella burocrazia, nei tribunali e nelle
scuole, Beraudo sottolineava al sovrano che «quando s'è proposto
di far insegnare [...] la grammatica in lingua italiana, s'è scoperta
una tal qual resistenza o almeno una pubblica disapprovazione allegandone per
fondamento un timore [...] che più non si intenderebbero li documenti
pubblici, li titoli ereditari delle famiglie se non con l'aiutto di persone
estranee»[31].
Pochi
anni dopo, nella sua relazione sul governo della Sardegna, il viceré
marchese di Rivarolo si sarebbe soffermato ampiamente sulla questione
linguistica, riproponendo sostanzialmente la linea suggerita dal reggente al
governo di Torino: «l'introduzione della lingua italiana và
aumentando e si rende vi è più universale in questa città
di Cagliari, avendo io fatto intendere sin da principio alli Gesuiti ed
Escoloppi, che sono quelli che tengono le scuole pubbliche, di dover usarla in
esse, e tutto che dimostrassero molta ripugnanza, si sono poi confirmati a tal
uso. Nel Capo di Sassari – proseguiva il viceré – e massime
in quella città, è più commune, ma altresì
più corrotto l'uso della lingua italiana per il frequente commercio che
hanno con li Genovesi, Napolitani, e Corsi che vi abitano e vi vengono a
commerciare. Ho cominciato a far usare qualche volta la lingua italiana nello
scrivere a varii soggetti e principalmente a prelati sardi, ed anche a far fare
qualche decretti in italiano e si potrebbe continuare a tal uso, ed andando
introducendo non parendo che debba esservi inconveniente nel cerimoniale»[32].
Per l'introduzione dell'italiano in
Sardegna, una delle qualificate riforme dell'azione riformatrice del ministro
Bogino, si sarebbe però dovuto attendere ancora trent'anni: il regio
biglietto del 25 luglio 1760 avrebbe imposto la lingua italiana nelle scuole
del Regno, mentre nei tribunali e nella pubblica amministrazione il castigliano
avrebbe resistito più a lungo[33]. Ancora alla
fine del secolo, come conferma il Manno, nei tribunali sardi gli avvocati e i
magistrati parlavano tra loro in spagnolo[34].
In
un'ottica prettamente assolutistica si colloca la visione che il reggente piemontese
aveva dell'esperienza del Parlamento sardo e della sua natura
contrattualistica. L'ultima riunione parlamentare si era svolta a Cagliari dal
gennaio 1698 al luglio del 1699: si trattava, come giustamente è stato
notato, dell'«autunno degli Stamenti», giacché nei lavori
delle Corti iniziarono a delinearsi quei due partiti, filoasburgico e
filoborbonico, che avrebbero caratterizzato la vita politica sarda dallo
scoppio della Guerra di Successione spagnola sino alla cessione del Regno alla
dinastia sabauda[35].
Sull'atteggiamento
di Vittorio Amedeo II pesava anche questa volta l'esperienza siciliana: il
sovrano aveva vissuto con fastidio le riunioni parlamentari palermitane, che
aveva sprezzantemente considerato come un'occasione buona soltanto per
«consumare sorbetti». Anche dopo la parentesi della dominazione
sabauda, la tradizione parlamentare siciliana sarebbe stata attaccata
dall'assolutismo asburgico e l'opera di Antonino Mongitore, celebrativa
dell'antico costituzionalismo siciliano che trovava nel Parlamento la sua
massima espressione, sarebbe stata messa all'Indice e pubblicamente bruciata
nel 1749 come lesiva delle prerogative regie[36].
In
Sardegna il sovrano, per aggirare le clausole dell'atto di cessione che
imponevano il rispetto dell'ordinamento costituzionale del Regno, fece ricorso
alla prassi adottata da Filippo V nel 1706, secondo la quale, con una procedura
di convocazione abbreviata, la concessione del donativo veniva effettuata
direttamente dalle sole «prime voci» dei tre ordini senza la
convocazione dell'assemblea, le abilitazioni dei deputati, le riunioni dei
singoli Stamenti, la riparazione dei greuges e la proposta in chiave
pattista dei capitoli di corte. Nel 1721 le «prime voci» avevano
perciò approvato, secondo questa nuova prassi, il donativo annuale di
60.000 scudi e avevano avanzato una serie di richieste che, venuto meno il
rapporto contrattualistico tra il re e le Corti, il governo si era riservato di
accettare. Una procedura eccezionale, nata per cause contingenti e transitorie,
si era trasformata così in un procedimento normale che per tutto il
corso del secolo avrebbe sostituito e soppiantato in modo definitivo il rito
ordinario[37].
Nel
1727 Vittorio Amedeo II, sia per ottenere un aumento dell'importo del donativo,
sia per accogliere una richiesta formulata dallo Stamento militare,
manifestò l'intenzione di convocare l'assemblea parlamentare per l'anno
successivo. Tuttavia il disastroso raccolto e la grave carestia del 1727-29
spinsero il sovrano ad accantonare l'idea: in un momento di evidente crisi
economica, una maggiore imposizione fiscale sarebbe stata impopolare presso i
sudditi e soprattutto presso i ceti privilegiati. «Ma siccome
egl'è certo – si legge nelle istruzioni al viceré marchese
di Cortanze del 16 gennaio 1728 – che gli Stamenti non si stancano mai in
occasione della tenuta delle Corti di chiamare nuove grazie e previleggi, ci
riserviamo d'accordar loro su questo particolare, o rifiutare respettivamente
quel tanto che stimeremo esser di maggior nostro servizio, e dovuto alla loro
maggior, o minor deferenza per i nostri desideri»[38].
Nel
1731 l'ipotesi di «congregare le Corti» venne di nuovo presa in
considerazione, ma un memoriale anonimo mise in guardia il governo sul fatto
che il raccolto non era stato così abbondante da rivedere la proposta di
un aumento del donativo, anzi, per tutta una serie di circostanze, si correva
addirittura il rischio di vederne diminuita l'entità[39].
Il timore era quello di un'autoconvocazione degli Stamenti in pregiudizio della
sovranità: nel settembre di quell'anno il marchese d'Ormea si cautelava
avvertendo il nuovo viceré marchese Falletti di Castagnole di stare
«attento che le suddette voci non si radunino per fatti, i quali non
siano di loro cognizione e che non si attribuiscano autorità maggiore di
quella, che per l'addietro hanno avuta»[40].
In
questa linea, nella Relazione inviata
al sovrano, Beraudo rimarcava lucidamente le ragioni che ne sconsigliavano la
convocazione: le gravi condizioni di miseria del Regno, «delle quali non
si doveva dubitare», e la «penuria indicibile di denaro», che
rendevano impossibile qualsiasi ritocco all'importo del donativo. Ponendo al
governo torinese il problema se convenisse o meno riunire «li tre
Stamenti in corpo», cioè procedere alla convocazione delle Corti
generali, o se viceversa non fosse più utile radunare le «tre voci
prime solamente», si mostrava favorevole a quest'ultima soluzione,
soprattutto alla luce delle complesse procedure e formalità
indispensabili per un’adunanza plenaria degli ordini del Regno («vi
vole un gran tempo e le molte formalità che son note»).
D'altra
parte era da oltre un trentennio che il Parlamento non veniva convocato. Vi
sarebbero stati numerosissimi adempimenti formali per rendere valida
l'assemblea, primo fra tutti l'elenco degli abilitati dello Stamento militare,
cioè degli aventi diritto a partecipare ai lavori, giacché il
numero dei nobili era sostanzialmente diverso da quello dell'ultimo decennio
del governo degli Asburgo. Si temeva, inoltre, di ripristinare la prassi
pattista e quindi di dover in qualche modo contrattare con i ceti dirigenti
locali la politica e i provvedimenti legislativi nei confronti della Sardegna.
E proprio a tal proposito il reggente metteva in evidenza «la
molteplicità delle grazie e privilegi che sempre si dimandano in tal
occasione, tanto in generale che in particolare da' titolati e baroni del
Regno, dalle città e dalli ecclesiastici e massime da quelle persone che
si credono posseder qualche credito, mirando ciascheduno piuttosto al proprio
che all'interesse del pubblico e ad ottenere prerogative che per lo più
se non intaccano, almeno offuscano l'autorità regia et sovrana»[41].
Nel
1751 sarebbe stata presa ancora una volta in considerazione l'ipotesi di una
convocazione del Parlamento generale, ma anche in quel caso sarebbero emerse le
perplessità e i riflessi negativi che erano stati fatti propri dal conte
di Pralormo. Il reggente la Reale Cancelleria Francesco Enrici avrebbe espresso
in un parere una serie di riserve sull’effettiva rappresentatività
politica e sociale degli Stamenti, rimarcando il ruolo negativo che avrebbe
potuto assolvere la nobiltà feudale sarda, tesa soltanto alla difesa dei
propri privilegi e della propria giurisdizione: «essendo le Corti
composte de' tre Stamenti [...] niuno vi interviene che proponga o promova gli
interessi, et il pubblico vantaggio delle ville, e del popolo – scriveva
al sovrano il 31 maggio 1751 – . E da ciò ne proviene che niun
vantaggio, per quanti si scorge, hanno mai apportato le Corti all'università
delle ville, e del popolo, ma solamente hanno servito ad accrescere, et
dilatare sempre più li privilegi, le esenzioni, l'autorità e la
giurisdizione di detti baroni, nobili, e cavalieri, con diminuzione
conseguentemente della giurisdizione, et autorità Reale e con gravi
pregiudizi della giustizia»[42].
Al memoriale del reggente si sarebbe aggiunta l'autorevole opinione del
neosegretario della Guerra, il conte Bogino, che avrebbe dato un parere
decisivo nel suggerire al re di non procedere alla convocazione del Parlamento
generale[43].
Negli
anni venti anche in Sardegna, come era già avvenuto in Sicilia nel
1713-18, il contenzioso tra il Piemonte e la Santa Sede si era ulteriormente
aggravato: il Papato non aveva accettato il trattato di Londra tramite il quale
le potenze della Quadruplice Alleanza (fra cui figuravano le protestanti
Inghilterra ed Olanda) avevano determinato di cedere il Regno a Vittorio Amedeo
II. La Curia romana richiamava ancora l'antica bolla pontificia del 1297 grazie
alla quale aveva potuto infeudare la Sardegna, considerata soggetta alla
sovranità apostolica, a Giacomo II, re d'Aragona, e appellandosi ancora
a questo anacronistico diritto, pretendeva che il re sabaudo chiedesse ed
ottenesse dalla corte di Roma una nuova investitura per l’isola,
considerando anche che tra i suoi antenati figuravano gli Asburgo di Spagna,
per lungo tempo legittimi sovrani del Regno. Il monarca, che non aveva alcuna
intenzione di accettare nuove limitazioni alla propria autorità, aveva
declinato però con forza la sollecitazione papale. L’interesse a
giungere al più presto ad una soluzione del contenzioso ecclesiastico
rimaneva tuttavia alto, sia per ottenere dalla Santa Sede il riconoscimento del
nuovo titolo regio, sia per l'esercizio del diritto di patronato (da anni le
sedi vescovili erano vacanti o governate dai membri dei Capitoli). Le lunghe
trattative, condotte con rara abilità dal marchese d'Ormea, si erano
concluse soltanto nel 1726 con il breve di Benedetto XIII che, riconoscendo la
sovranità dei Savoia sulla Sardegna, aveva concesso a Vittorio Amedeo II
il diritto di patronato sulle chiese sarde e quello di presentazione dei
vescovi per tutte le sedi isolane[44].
Il
Concordato chiuse per breve tempo l’annosa diatriba, risolvendo solo
parzialmente i problemi giurisdizionali che l'avevano animata. L'intesa,
infatti, era stata raggiunta soltanto perché erano state accantonate le
questioni sulle quali non era stato possibile un compromesso fra le parti.
Erano stati lasciati, per esempio, in sospeso i problemi più spinosi,
come il potere delle curie ecclesiastiche e alcune regalie. La tensione rimase
latente fino all’ascesa al soglio pontificio di Clemente XII, il 13
luglio 1730, che da subito manifestò l'intenzione di non riconoscere i
termini dell'accordo al quale, peraltro, si era sempre opposto[45].
Il
conte di Pralormo, giunto nell’isola, dovette così ben presto
intervenire anche in materia di conflitti giurisdizionalistici. Alla vigilia
della partenza, egli aveva appreso dell'esistenza del grosso manoscritto curato
dal conte Guglielmo Beltramo sugli usi ecclesiastici dell'isola (che aveva
portato con sé a Cagliari), del quale aveva ricevuto una copia per
ordine di Vittorio Amedeo II, e sul quale aveva espresso giudizi entusiastici,
giacché aveva trovato in esso argomenti preziosi per il governo
ecclesiastico del Regno[46].
L'attività del reggente si indirizzò subito verso la risoluzione
dei modesti casi che quotidianamente gli si presentarono in materia. Il primo
dei problemi che si trovò a dover fronteggiare fu quello del numero
«eccessivo ed abusivo» dei sudditi che, a diverso titolo,
beneficiavano del privilegio del foro ecclesiastico, retaggio del periodo
spagnolo, gravemente limitativo delle prerogative regie nel campo della
giustizia. Nella Relazione Beraudo
enumerava tutti coloro che a vario titolo erano esenti dalla giurisdizione
regia e da quella baronale: «chierici tonsurati et coniugati», ex
«familiari» dell'Inquisizione, «operari» degli ordini,
«fabricieri» delle confraternite, «oficiali» delle
curie ecclesiastiche che, «nella sostanza»», erano
«puramente secolari» e ciò nonostante non solo profittavano
«de' redditi della Chiesa, senza renderli il minimo servigio», ma
anzi pretendevano anche «d'andare esenti dalla giurisdizione del suo
legitimo e natural sovrano»[47].
Rilevava, però, che negli ultimi tempi era diminuito «il numero di
codesti pretesi esenti» anche per la soppressione, avvenuta nel 1720, del
tribunale dell'Inquisizione di Spagna i cui «familiari» erano stati
«totalmente aboliti». Unica eccezione erano i cosiddetti fabricieri,
cioè coloro che amministravano «li redditi delle
confraternite» e gli obreri degli ordini regolari.
Anche
il viceré era stato invitato dal ministero torinese ad intervenire contro
i tonsurati con tutti i «rimedi politici ed economici» previsti,
obbligandoli, se necessario, a lasciare l'isola[48].
A queste drastiche misure il conte aveva suggerito di aggiungerne altre
più blande, ma forse non meno efficaci, cioè imporre ai chierici
di indossare l'abito talare e non ammettere alla tonsura chi non avesse preso
nel contempo gli ordini minori e, possibilmente, anche quelli maggiori. Il suo
orientamento, fortemente favorevole alla «curia secolare», lo aveva
portato spesso a contrapporsi, anche sul piano dottrinale, a diversi
ecclesiastici sardi. Appare significativa, a questo riguardo, la polemica con
l'arcivescovo di Cagliari, il piemontese Giovanni Giuseppe Falletti di Barolo e
di Castagnole, il quale teorizzava il rifiuto «del braccio regio per
l'esecuzione reale o personale contro i laici», salvo poi farsi
convincere del contrario dalle stringenti argomentazioni del reggente, che in
ordine all'esecuzione delle sanzioni aveva idee ferme e precise[49].
I grandi
problemi e le serrate polemiche che avevano animato il dibattito giuridico
intorno al Concordato sembravano così rimanere sullo sfondo. I fugaci
riferimenti di Beraudo al contenzioso con Roma, presenti nel suo Diario di Sardegna, dimostrano, tuttavia,
come anche una magistratura periferica come quella del governo viceregio
cagliaritano seguisse con attenzione le alterne vicende che avrebbero portato
Clemente XII al decreto concistoriale del 6 agosto 1731, col quale si sarebbero
congelati gli accordi raggiunti in ordine ai feudi ecclesiastici piemontesi, in
particolare quelli di Cortanze, Cisterna, Montafia e Cortanzone
nell’Astigiano[50].
Nella Relazione preferì, tuttavia, soffermarsi su alcuni casi
concreti ed emblematici dell'eccessivo ricorso alla giustizia ecclesiastica.
Fra questi, ad esempio, la vicenda del genovese domiciliato a Cagliari,
Giò Bernardo Peyrano, che il 2 novembre 1730 aveva commesso un omicidio
«qualificato e proditorio», uccidendo un tal Masserano e
rifugiandosi poi in chiesa per beneficiare dell'«immunità
locale». Il reo, con il «solito spediente del petita et non obtenta licentia»,
era stato comunque arrestato e trasferito nelle «carceri laicali».
La curia ecclesiastica si era opposta all'intervento regio, sostenendo che
l'«inquisito» avrebbe dovuto «goder dell'immunità
suddetta». La Reale Udienza, invece, aveva proseguito per la sua strada,
condannando a morte il Peyrano che, il 23 aprile 1731, era stato
«pubblicamente esecutato».
La
vertenza giurisdizionalistica con la Santa Sede si trascinò irrisolta
per un trentennio e si concluse soltanto negli anni 1759-61, quando il conte
Bogino ottenne da Clemente XIII la condanna dei chierici coniugati e la
limitazione delle immunità locali[51].
Con
l'estensione alla Sardegna del decreto di Nueva Planta, l’11
gennaio 1718, la carica di reggente la Reale Cancelleria aveva perso molte
delle importanti competenze di natura politica e di consultore del
viceré negli affari di governo che gli erano state peculiari durante il
governo degli Asburgo e il suo ruolo era andato di fatto restringendosi a
quello di presidente del supremo tribunale[52].
Non a caso Beraudo aveva tracciato una dettagliata e circostanziata descrizione
della Reale Udienza, della quale spiegava alla Segreteria di Stato il
funzionamento e le attribuzioni, soffermandosi in particolare sulle
capacità dei magistrati e segnalando quelli, il dottor Pietro Meloni,
nella Sala civile, e don Francesco Cadello, in quella criminale, che si
distinguevano per «dottrina e scienza legale». Tutti i giudici
erano «assidui nell'intervenire alle sessioni giornaliere, nell'accudire
alli verbali e spedizione delle cedole» e puntuali nella conoscenza della
normativa allora vigente, costituita dalle «prammatiche, constituzioni
del Regno, capitoli di corte, lettere reali et in difetto d'esse le leggi
communi, le decisioni praticate in questo Regno o in quello d'Aragona et
Principato di Catalogna [...] che si conformavano alli stessi stili, usi e
consuetudini»: un complesso normativo di fatto estraneo alla cultura
giuridica del conte di Pralormo, basata soprattutto sul diritto comune e sul
“diritto patrio” del Piemonte, in particolare le Costituzioni
del 1727.
Pur
lamentando le lentezze della macchina giudiziaria, il reggente comunicava a
Torino che, nei primi sette mesi della sua presidenza, la Sala civile aveva
espletato 140 cause, «la maggior parte con sentenza definitiva», la
Sala criminale invece soltanto 30, tra cui 5 con una sentenza che prevedeva la
pena capitale: ne erano state eseguite solo 3 «con soddisfazione del
popolo per l'esemplarità del castigo». A proposito delle
«longaggini» e «ritardi» della «spedizione delle
cause civili», osservava poi che l'«inciampo» che si incontrava
per «ultimar li processi e portarli all'esecuzione delle sentenze»
era dato dalla «facilità delle appellazioni». Le cause
definite «non privileggiate» erano discusse in prima istanza nelle
curie inferiori dei villaggi infeudati, per le quali il barone godeva della
«seconda cognizione»; in appello, quindi, si ricorreva nel Capo di
Cagliari e Gallura alla Reale Udienza e nel Capo di Sassari e di Logudoro alla
Reale Governazione; in ultima istanza ci si poteva appellare a Torino al Supremo
Consiglio di Sardegna, con cospicue spese processuali, valutate
complessivamente dal reggente per un importo di circa 400 scudi. La normativa
del Regno e in particolare la Carta de Logu disponevano, inoltre, che le
«cause minime» non fossero «appellabili», considerando
che per cause minime si intendevano quelle non eccedenti il valore di 5 lire
(pari ad 8 lire piemontesi): «perciò si vede – concludeva
– quante poche siano le cause» che non andavano in appello.
Il
conte non poteva, oltre a ciò, non riferire al ministero torinese lo
stato di degrado e di abbandono nel quale erano lasciati i locali del
«luogo dove s'amministrava la giustizia sovrana», cioè la
sede del tribunale della Reale Udienza. Le pareti delle Sale civile e criminale
erano «denudate», con una tappezzeria di damasco decisamente
invecchiata e scolorita, la mobilia «molto usitata», il tappeto di
color cremisi «lacero et antico»: «non c'è alcun
fornello per ripararsi dal freddo in tempo d'inverno, servendosi di un miserabile
bragiere, né vi sono cortine per allontanare il sole, che è molto
bersagliante nella state». Quell’«indecenza» –
osservava – avrebbe meritato «qualche riparo», necessario per
la piena affermazione dinanzi ai sudditi della sovranità regia[53].
Il reggente tracciava, inoltre, un fosco
quadro della realtà dell'ordine pubblico nelle campagne dell'isola, dove
i banditi erano «in considerabile quantità».
Nonostante le prammatiche e i pregoni che «in diversi
tempi» erano stati «promulgati»,
soprattutto dopo che il Regno era «passato sotto
questo felicissimo dominio», non era «stato
possibile di poter intieramente distruggere» le bande
armate, protette dalla nobiltà dei villaggi, che infestavano vaste
regioni della Sardegna. L'area nella quale, secondo Beraudo, vi era il maggior
numero di banditi era il Capo di Sassari e il Logudoro: «il paese
dove si trattengono è così alpestre e impraticabile, oltre che
camminano in truppe ben armate e a cavallo onde – sosteneva – non
pare sperabile di poterle disfare»[54]. Molti fra
coloro i quali erano stati condannati per gravi delitti, in particolare per «grassazione
alla strada», non avevano potuto godere dell'indulto
concesso nel 1730 in occasione dell'ascesa al trono di Carlo Emanuele III, e si
erano di conseguenza ridotti «a far li
malviventi per aver occasione di far le proprie vendette»; altri,
«aborrendo di sottoporsi a coltivare il terreno», avevano
abbracciato «questo miserabil genere di vita, o per propria
inclinazione, o per schivar la fattica e procacciarsi il modo di vivere,
mantenendosi di furti e rapine, rubbando bestiame, et quanto altro gli cada per
le mani». I mezzi per reprimere le quadrillas
criminali si erano rivelati insufficienti e il ricorso al guidatico, cioè
«lo spediente di prometter la liberazione a'
quelli banditi a' quali riuscirà di presentare altro bandito», non aveva
dato i frutti sperati. La situazione era, inoltre, resa più grave dal
fatto che numerosi nobili, residenti nei villaggi non avendo «patrimonio
sufficiente a sostenersi nelle città», si
riducevano a proteggere segretamente i delinquenti, con «dar
gl'avvisi delle spedizioni che si fanno contro d'essi, partecipando poi in
ricompensa dei loro furti e rapine».
L'omertà regnava sovrana: «tutti hanno
la bocca chiusa, nessuno vuol parlare, né si trovano testimoni che vogliano
deponer, parte per timore d'esser danneggiati dai prepotenti, o nella vita o
nelli armenti, et parte per esser coinquinati della stessa pecca».
Nel suo memoriale il conte poneva
l’accento, inoltre, sulla natura eversiva del fenomeno del contrabbando:
dietro le esportazioni clandestine di granaglie, di bestiame rubato, di
formaggi e di pelli con la vicina Corsica, vi era una vera e propria
organizzazione malavitosa in grande stile. I litorali spopolati della Gallura
erano controllati dalle bande criminali che gestivano i traffici illegali in
combutta con i corsi residenti nella parte meridionale dell’isola. Intere
regioni della Sardegna settentrionale, in particolare l'Anglona, erano
così nelle mani di malviventi[55].
Il reggente, pur non avendo ancora chiaro quali provvedimenti si potessero assumere per tentare, se non di eliminare, almeno di contenere i delitti, aveva ben presente la minaccia che la questione criminale costituiva per la tranquillità del Regno e per l'esercizio della sovranità. A questo proposito risulta particolarmente eloquente la denuncia di un atteggiamento troppo prudente dei giudici della Reale Udienza per i quali, a suo dire, le prove contro i presunti colpevoli dovevano essere «più chiare della luce del meriggio», preferendo assolvere un reo che condannare un innocente, poiché risultava «men nocivo alla coscienza il dovere render conto di esuberante compassione che di eccessivo rigore»[56].
Nell'estate
del 1732, Beraudo avrebbe convocato nella propria abitazione i magistrati del
supremo tribunale per valutare insieme la progressiva crescita dei delitti,
individuarne le tipologie e le peculiarità, prendere le opportune
“provvidenze” ed emanare provvedimenti legislativi efficaci. Nel
corso di quella riunione si sarebbero così ipotizzate nuove soluzioni
normative, quali la possibilità di procedere ex abrupto contro il
reo, di nominare dei «deputati» nelle ville incaricati di
amministrare la giustizia, di obbligare i «regidori» baronali a risiedere
tutto l'anno nei villaggi, di esiliare i nobili sospettati di connivenze con i
briganti, di creare un apposito «formulario» contenente
l'istruttoria dei processi criminali da distribuire agli ufficiali di
giustizia. A tutto ciò si sarebbe aggiunta la possibilità di un
ulteriore inasprimento delle pene, condizione essenziale per contrastare
specifiche tipologie di reato, quali il furto e la grassazione..
Il 29 dicembre di quello stesso anno, i progetti elaborati dal reggente e dai
magistrati della Reale Udienza sarebbero stati trasmessi a Torino. Con il
dispaccio del 7 maggio 1733, la corte avrebbe accolto buona parte delle
proposte avanzate. Di lì a qualche anno questo complesso di
provvedimenti avrebbe caratterizzato la successiva, energica politica
repressiva del viceré marchese di Rivarolo che, dal 1736 al 1738,
avrebbe fatto tesoro delle proposte e delle soluzioni adottate dall'ex
reggente, promotore e abile regista di quella nuova normativa criminale e, in
particolare, del Formolario di procedura penale che sarebbe stato
emanato il 12 maggio 1736[57].
L'ultima
parte della Relazione appare
estremamente succinta e addirittura stringata nell'enunciare le questioni
economiche del Regno: lo stesso reggente le considerava come «picciole et
deboli esternazioni», una sorta di sintetico promemoria riguardante
soprattutto le entrate fiscali e le rendite demaniali. L'anno successivo anche
il viceré, marchese di Castagnole, avrebbe proposto al governo torinese
alcune misure per incentivare il commercio sardo, segnalando la ricchezza del
sottosuolo, quella non sfruttata delle foreste e suggerendo di introdurre
nell’isola la lavorazione del legname. Si sarebbe, inoltre, soffermato
sulla scarsa attitudine dei sardi per le attività marinaresche,
conseguenza delle condizioni difficili dei mari e delle coste che da secoli
avevano spinto gli abitanti a rifugiarsi nell'interno[58].
Beraudo
si premuniva di avvertire che un quadro più dettagliato sulla situazione
economica del Regno sarebbe stato tracciato da chi aveva «potuto aver la
visione delle scritture, documenti e memorie» conservate
«nell'Archivio del Patrimonio», e non volendo di conseguenza
«gettar la falce nell'altrui messe» riteneva di dover fissare
soltanto alcuni schematici punti, relativi soprattutto alle entrate della
Corona. Tra queste accennava alla produzione del tabacco (lo
«Stanco» dal castigliano Estanco), favorita soprattutto
durante il governo austriaco che ne aveva esteso il «seminerio» e
incentivato lo stoccaggio e la lavorazione attraverso magazzini e manifatture
che venivano concesse in arrendamento a privati, alle entrate doganali, colpite
duramente dal diffuso contrabbando, ai diritti derivanti dall'esportazione dei
grani (sacas) e dei pellami, al «traffico» dell'olio e degli
agrumi, alla pesca del corallo, da cui traevano utili soprattutto i
«mercanti livornesi, napolitani, siciliani e genovesi»[59].
Una
riflessione particolare riguardava le saline, grazie alle quali si poteva
«cavar il sale ne' luoghi dove si vede più depurato». Il
reggente osservava che si erano realizzati «stradoni» che ne
consentivano il trasporto su «carrette a bovi» e, per sovrintendere
alla sua «estrazione», era stato nominato un
«preposto», un maestro trapanese, che accertava che i carri non
trasportassero «sale sporco». Per favorirne la vendita sarebbe
stato necessario, secondo il conte, «diminuirne il prezzo e ridurlo a
segno che fosse inferiore a quello di Trapani», che era comunque di
qualità superiore. Già da due anni – come osservava –
si era sviluppato, grazie all'iniziativa di un «mercante
livornese», il commercio con la Repubblica di Lucca. E a questo proposito
suggeriva di «far imbarcare il sale che va fuori Regno» nella
spiaggia del Lazzaretto, a poche miglia da Cagliari (oggi il quartiere
Sant'Elia), che «si ritrova vicino alle saline»: in tal modo si
sarebbe evitato di trasportarlo nel porto della città «sopra li
battelli sino al molo», pratica necessaria per «evitar li sfrosi»,
cioè per combattere il contrabbando[60].
La Relazione si concludeva con una
fuggevole «menzione» sulla questione delle isole «aggiacenti
alla Sardegna [...] occupate dai Corsi», cioè l'arcipelago della
Maddalena, del quale non si era ancora riusciti «di ritrovare [...] altri
documenti per dedurne proprietà o possesso». In sostanza,
già dai primi anni trenta, il governo piemontese si era posto il
problema di risolvere quella delicata vertenza con la Repubblica di Genova,
relativa al possesso e alla sovranità sulle isole poste tra la Sardegna
e la Corsica, tant'è che nell'estate del 1736 sarebbe stato elaborato un
progetto per la loro occupazione[61].
La vertenza si sarebbe, però, risolta in modo definitivo soltanto nel
1767, quando un corpo di spedizione piemontese avrebbe occupato militarmente l'arcipelago[62].
* Il
presente contributo è frutto di uno stretto rapporto di collaborazione
tra i due autori. Tuttavia i paragrafi 1, 3, 4 sono di Antonello Mattone e i
paragrafi 2, 5, 6 sono di Eloisa Mura. Il paragrafo 7 e la trascrizione sono di
entrambi.
[1] La
relazione e le lettere allegate del reggente la Reale Cancelleria del Regno di
Sardegna, conte Filippo Domenico Beraudo di Pralormo, sono conservate in Archivio di Stato di Torino (d'ora in
poi AST), Sardegna, Politico, Storie e relazioni
della Sardegna, cat. 2, mazzo 4, n. 10, «Relazione del conte Beraudo
di Pralormo reggente la Reale Udienza in Sardegna sovra lo stato di quel Regno.
Con lettera del medesimo al marchese d'Ormea sovra lo stesso soggetto»
(30 aprile 1731) (d'ora in poi Relazione).
Sul marchese d'Ormea, segretario di Stato agli Interni, cfr. R. Gaja, Il marchese d'Ormea,
Bompiani, Milano 1998, 94-125.
[2] Sulle
funzioni del reggente la Reale Cancelleria cfr., oltre il vecchio lavoro di A.
Marongiu, Il reggente la Reale
Cancelleria, primo ministro del governo viceregio (1487-1847), in
«Rivista di storia del diritto italiano», V (1932), 520-535 (ora in
Id., Saggi di storia giuridica
e politica sarda, Cedam, Padova 1975, 185-201), C. Ferrante, Le attribuzioni giudiziarie del governo
viceregio: il reggente la Real Cancelleria e la Reale Udienza (secoli
XVI-XVIII), in Governare un regno. Viceré, apparati burocratici e
società nella Sardegna del Settecento, Atti del Convegno “I
viceré e la Sardegna nel Settecento” (Cagliari 24-26 giugno 2004),
a cura di P. Merlin, Carocci, Roma 2005,
442-463; Ead., Il reggente la Reale Cancelleria del Regnum
Sardiniae da assessor a consultore nato del viceré (secc. XV-XVIII),
in Tra diritto e storia. Studi in onore
di Luigi Berlinguer promossi dalle Università di Siena e di Sassari,
I, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, 1059-1093.
[3] AST, Sardegna,
Politico, Storie e relazioni di Sardegna, mazzo 4, cat. 2, n. 4,
«Veridica Rellazione del Regno di Sardegna e del suo Governo Politico ed
Ecclesiastico» (s.d.). Cfr. A. Mattone,
Assolutismo e tradizione statutaria. Il governo sabaudo e il diritto
consuetudinario del Regno di Sardegna (1720-1827), in «Rivista
storica italiana», CXVI (2004), 930-931.
[4]
Sull'esperienza piemontese in Sicilia cfr.
G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità
d’Italia, in V. D’Alessandro
e G. Giarrizzo, La Sicilia dal
Vespro all’Unità d’Italia, (vol. XVI della Storia
d’Italia, diretta da G. Galasso), Utet, Torino 1989, 377-576. Sempre
utile risulta la consultazione dei documenti raccolti da V.E. Stellardi, Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia nell'isola di Sicilia
dall'anno 1713 al 1719, 3 voll., Tipografia eredi Botta, Torino 1862-66.
[5] Cfr.
A. Mattone, La cessione del Regno
di Sardegna dal trattato di Utrecht alla presa di possesso sabauda (1713-1720),
in «Rivista storica italiana», CIV (1992), 5-89; A. Girgenti, Vittorio Amedeo II e la
cessione della Sardegna: trattative diplomatiche e scelte politiche, in
«Studi storici», XXXV (1994), 677-704; E. Mongiano. "Universae Europae securitas”. I
trattati di cessione della Sardegna a Vittorio Amedeo II di Savoia,
Giappichelli, Torino 1995.
[6] Sul viceré barone di Saint
Rémy cfr. P. Merlin, Il
viceré del bastione. Filippo Guglielmo Pallavicino di Saint Rémy
e il governo della Sardegna (1720-1727), Provincia di Cagliari, Cagliari
2005.
[8] Per le
notizie sul feudo di Pralormo cfr. G. Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale
degli Stati di S.M. re di Sardegna, XV, G. Maspero libraio e Marzorati
tipografi, Torino 1847, ad vocem. Per
le alterne vicende attraverso le quali il feudo giunse ai Beraudo cfr. A. Manno, Il patriziato italiano. Notizie di fatto storiche, genealogiche,
feudali ed araldiche, II,
Civelli, Firenze 1906, 317; V. Spreti,
Enciclopedia storico-nobiliare italiana.
Famiglie nobili e titolate viventi riconosciute dal R. Governo d'Italia.
Compresi: città, comunità, mense vescovili, abbazie, parrocchie
ed enti nobili e titolati riconosciuti, II, Forni, Milano 1929, 42-43; F. Guasco, Dizionario feudale degli antichi Stati sardi e della Lombardia
dall'epoca carolingia ai nostri tempi (774-1909), III, Forni, Pinerolo
1911, 235-236.
[9] Su
Filippo Domenico Beraudo di Pralormo e sui diari compilati da questi negli anni
in cui risiedete in Sardegna, cfr. E. Mura,
Diario di Sardegna del conte Filippo
Domenico Beraudo di Pralormo (1730-1734), AM&D, Cagliari 2009. Cfr.
inoltre Manno, Il patriziato italiano cit., 247-249; C.
Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, II, Roux e Favale, Torino
1881, 483. Presso l'Archivio della famiglia Beraudo di Pralormo è
conservata la biografia di Filippo Domenico redatta dal figlio Vincenzo
Sebastiano, recante il titolo Epoche
principali della vita del conte don Filippo Beraudo di Pralormo mio padre, et
di me Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo (1678-1778), mazzo 11. Le Epoche
sono ora edite in A. Merlotti, Il
silenzio e il servizio. Le «Epoche principali della vita» di
Vincenzo Sebastiano di Pralormo, Zamorani, Torino 2003.
[10]
Sull’esercizio di tale attività da parte del conte di Pralormo
cfr. L. Allegra, Identità
in bilico. Il ghetto ebraico di Torino nel Settecento, Zamorani, Torino
1996, 32. Sulle Costituzioni di Sua
Maestà cfr. in particolare M. Viora,
Le costituzioni piemontesi,
Bocca, Torino 1929 (ristampa Società Reale Mutua Assicurazioni, Torino
1986); F. Micolo, Le Regie
Costituzioni. Il cauto riformismo di una piccola corte, Giuffrè,
Milano 1984; G.S. Pene Vidari, Giudici
e processo nelle raccolte legislative sabaude settecentesche, in Costituzioni
sabaude 1723, Giuffrè, Milano 2002, VII-XL; Id., Studi sulla
codificazione in Piemonte, Giappichelli, Torino 2007.
[11] Di
questa missione costituisce un’importante testimonianza il dettagliato Giornale
compilato da Beraudo, oggi conservato nella Biblioteca Reale di Torino, edito
da L. Peco, Il mutamento di
dominio della Valle de Sesia, con la trascrizione del Giornale del conte
Filippo Domenico Beraudo di Pralormo primo pretore piemontese della valle,
Società valsesiana di cultura, Varallo 1991.
[12] Sulla
Camera dei conti cfr. Dionisotti,
Storia della magistratura cit., I, 101-103, 135-136, 178-179, 217-218,
318-321.
[13] Cfr. ivi, 337; E. Genta, Senato e senatori
di Piemonte nel secolo XVIII, Deputazione subalpina di storia patria,
Torino 1983, 373 (appendice k).
[14] Per la
firma delle patenti e per l'elenco dei reggenti la Reale Cancelleria del Regno
di Sardegna nell'età sabauda cfr. F. Loddo
Canepa, Inventario della Regia Segreteria di Stato e di Guerra del Regno di
Sardegna, Tipografia La Palma, Roma 1934, 318.
[15] Cfr. Manno, Il patriziato italiano cit., 248; Loddo Canepa, Inventario della Regia Segreteria cit.,
317; Dionisotti, Storia della magistratura cit., 337,
397, 455, 483, che si rifà al testo di G. Galli della Loggia, Cariche del Piemonte e Paesi Uniti colla serie cronologica delle
persone che le hanno occupate ed altre notizie di nuda istoria dal fine del
secolo decimo sino al dicembre 1798, con qualche aggiunta relativa anche al
tempo posteriore, Onorato De Rossi stampatore e libraio, Torino 1798, 30,
124, 400.
[16]
Beraudo fu l’unico presidente del Supremo Consiglio di Sardegna a non
essere scelto fra i ranghi del Senato e fu il primo ad avere avuto una diretta
esperienza del governo della Sardegna (né Riccardi né Richelmi,
presidenti dal 1721 al 1744 e dal 1744 al 1749, erano stati sull’isola),
un requisito che Carlo Emanuele III volle anche per i suoi successori: Angelo Francesco
Benso di Pramollo, reggente la Reale Cancelleria di Sardegna dal 1740 al 1744 e
presidente del Supremo Consiglio dal 1754 al 1761, e Paolo Michele Niger
d’Oulx, reggente la Reale Cancelleria di Sardegna dal 1754 al 1761 e
presidente del Supremo Consiglio dal 1761 al 1774. Tale politica fu abbandonata
ai tempi di Vittorio Amedeo III. Cfr. Merlotti,
Il silenzio e il servizio cit., 153.
[17] F. Loddo Canepa, Dispacci di Corte,
Ministeriali e Vice-regi, concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici
del Regno di Sardegna (1720-1721), Società nazionale per la storia
del Risorgimento italiano, Roma 1934, 35.
[18] G. Manno, Storia di Sardegna, IV, Andrea Alliana, Torino 1827, 108 (ora a
cura di A. Mattone, Ilisso, Nuoro 1996).
[20] G. Manno, Spicilegio nel Regno di
Vittorio Amedeo II, in Id., Note
sarde e ricordi, Stamperia reale, Torino 1868, 65 (ora a cura di A. Accardo
e G. Ricuperati, Centro di studi filologici sardi / Cuec, Cagliari 2003).
[22] R. Palmarocchi, Sardegna sabauda,
I, Il Regno di Vittorio Amedeo II, Tipografia mercantile Giacomo Doglio,
Cagliari 1936, 96.
[23] Su
Antonio Falletti cfr. B. Signorelli,
Falletti Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, XLIV,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1994, 468-469.
[24]
«Avendo io fatto matura riflessione sopra la proposizione, che che vostra
eccellenza mi ha fatto per parte di sua maestà circa l'essere
esequibile, o no il progetto d'introdurre la lingua italiana, mi do l'onore di
esporre a vostra eccellenza che io non riconosco difficoltà notabile per
parte de' studenti, perché siccome essi nelle scuole apprendono la
lingua castigliana straniera a' Sardi ugualmente che l'italiana, così
con ugual facilità et applicazione si renderebbero capaci di questa,
massime coll'esser informati che col decorso del tempo le scritture pubbliche
dovrebbero correr in lingua italiana»: Loddo
Canepa, Dispacci cit., 13-14.
[25] Cfr. a
questo proposito il saggio di L. Sinisi,
La Summa Rolandina come modello di formulario notarile, in Rolandino
e l'Ars notaria da Bologna all'Europa, a cura di G. Tamba, Giuffrè,
Milano 2002, 183-185; G.S. Pene Vidari,
Osservazioni sui rapporti patrimoniali fra coniugi nel Piemonte del sec.
XVIII, in «Rivista di storia del diritto italiano», LIII-LIV
(1980-81), 45-47, e più in generale I. Birocchi,
La formazione dei diritti patri nell'Europa moderna tra politica dei sovrani
e pensiero giuspolitico, prassi ed insegnamento, in Il diritto patrio
tra diritto comune e codificazione (sec. XVI-XIX), a cura di I. Birocchi e
A. Mattone, Viella, Roma 2006, 63-65.
[27] Cfr.
P. Cozzo, Fra tiara e corona.
Figure dell’alto clero nella Sardegna della prima metà del
Settecento, in Governare un regno cit., 111; e i cenni sull'uso del sardo finalizzato
all'introduzione della la dottrina cristiana nel Settecento, cfr. R. Turtas, Pregare in sardo. Scritti su
Chiesa e Lingua in Sardegna, a cura di G. Lupinu, Cuec, Cagliari 2006,
210-212.
[30] Cfr. Copia
de sa arenga, o discursu, qui hat nadu in italianu su illustrissimu e
reverendissimu señore archipiscanu de Calaris don Iuanne Raulu Constanciu
Falletti, prima bogue de Istamentu ecclesiasticu, militare e reale, congregados
in sa ecclesias primaciale han prestadu su iuramentu de fidelidade a su re don
Carlus Emanuele (que Dios guardet) sende secidu in su soliu reale in nomen de
sa Maiestade sua su excelentissimu Señore marquesi de Cortanze don
Hercules Tomasu Rovero visuerè, logutenente et capitanu generale de su
propriu Reynu, en la Imprenta de Santo Domingo, Caller 1730. Copia del
discorso in lingua italiana si trova in ASC, Antico Archivio Regio, vol.
198, cc. 336-336v.
[31] Relazione, ora qui di seguito.
Sull'attività di padre Giovanni Battista Vassallo, volta a introdurre
«l'uso poco men che ignoto della lingua italiana», cfr. R. Turtas, Pastorale vescovile e suo
strumento linguistico: i vescovi sardi e la parlata locale durante le
dominazioni spagnola e sabauda, in «Rivista di storia della Chiesa in
Italia», XLII (1988), fasc. 1, 19-20.
[32] AST, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 5, «Relazione del marchese di
Rivarolo del suo governo nel Regno di Sardegna» (22 febbraio 1738).
[33] La
definitiva “italianizzazione” dell’isola sarebbe stato uno
dei nodi del riformismo boginiano. Cfr. a tal proposito F. Venturi, Il conte Bogino, il dottor
Cossu e i monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del secolo
XVIII, in «Rivista storica italiana», LXXVI (1964), 474; C. Marazzini, Piemonte e Italia: storia
di un confronto linguistico, Centro Studi piemontesi, Torino 1984; G. Ricuperati, I volti della pubblica
felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Albert
Meynier, Torino 1989, 195-197; I. Loi
Corvetto, La Sardegna plurilingue e la politica dei Savoia,
in Lingua e letteratura per la Sardegna sabauda, a cura di E. Sala De
Felice e I. Loi Corvetto, Carocci, Roma 1999, 45-69. Sull’introduzione
dell’italiano e sulla politica linguistica sabauda cfr. A. Dettori, Italiano e sardo dal
Settecento al Novecento, in La Sardegna («Storia d'Italia. Le
regioni dall'Unità a oggi»), a cura di L. Berlinguer e A. Mattone,
Einaudi, Torino 1998, 1159-1187.
[35] G. Catani, C. Ferrante, L’autunno degli Stamenti.
Costituzionalismo, lotta politica, ricompilazione delle leggi nell’ultima
riunione del Parlamento, in Il Parlamento del viceré Giuseppe de
Solis Valderrábano, conte di Montellano (1698-1699), a cura di C.
Ferrante e G. Catani (“Acta Curiarum Regni Sardiniae”, 23), I,
Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari 2004, 9-126.
[36] Cfr.
A. Mongitore, Parlamenti
generali del Regno di Sicilia dall'anno 1446 al 1748, a cura di D.
Novarese, A. Romano, C. Torrisi, Sicania, Messina 2002 (anastatica
dell'edizione Palermo, 1749). Cfr. in particolare l'introduzione di D. Novarese
e A. Romano, I, XIII-XXXII.
[37] Cfr.
A. Mattone, Istituzioni e riforme nella Sardegna del Settecento, in Dal trono all'albero della libertà.
Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di
Sardegna dall'Antico regime all'età rivoluzionario, Atti del
Convegno Torino, 11-13 settembre 1989, I, Ministero per i Beni culturali e
ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1991, 346-347; G. Olla Repetto, Il primo donativo
concesso dagli Stamenti sardi ai Savoia, in Liber memorialis Antonio Era, Corten, Bruxelles 1963, 103-111.
[38] AST, Sardegna, Politico, cat. 4, mazzo 1, n. 5, «Minuta d'istruzione al
viceré di Sardegna marchese di Cortanze» (16 gennaio 1728).
[39] AST, Sardegna, Politico, cat. 3, mazzo 1, n. 5, «Motivi che ostano alla
congrega per hora de' Stamenti o sia delle Corti di Sardegna» (1731).
[40] L. La Rocca, Istruzioni al marchese
Falletti di Castagnole viceré di Sardegna dal 1731 al 1735, in Studi storici e giuridici dedicati ed
offerti a Federico Ciccaglione, III, Giannotta editore, Catania 1910, 115.
[42] M.A. Benedetto, Nota sulla mancata
convocazione del Parlamento sardo nel secolo XVIII, in Liber memorialis
cit., 158. Cfr. inoltre A. Marongiu,
I Parlamenti sardi. Studio storico, istituzionale e comparativo,
Giuffrè, Milano 1979, 306-317; Mattone,
Istituzioni e riforme cit., 348-349.
[43] G. Quazza, Bogino, Giovanni Battista Lorenzo, in Dizionario biografico degli italiani, XI, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Roma 1969, 186. Cfr anche la lettera del sovrano al viceré del
4 giugno 1751, ispirata chiaramente dal parere boginiano, in D. Carutti, Storia del regno di Carlo
Emanuele III, II, Eredi Botta tipografi, Torino 1859, 336-338.
[44] Sulle
trattative con la Santa Sede condotte dal governo sabaudo cfr. in particolare Mattone, La cessione del Regno cit., 37-46; Symcox, L'età di
Vittorio Amedeo II, in Il Piemonte
sabaudo. Stato e territori in
età moderna, (vol. VIII/I della Storia d'Italia,
diretta da G. Galasso), Utet, Torino 1984, 416-420; A. Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme,
in Storia dei Sardi e della Sardegna, IV, a cura di M. Guidetti, Jaca
Book, Milano 1989, 46-51, e soprattutto G.
De Giudici, Il governo ecclesiastico nella Sardegna sabauda
(1720-1761), Jovene, Napoli 2007, che costituisce oggi il lavoro di
riferimento.
[45] Cfr. sulle tematiche giurisdizionalistiche G. Della Porta, La politica ecclesiastica di Vittorio Amedeo II, Bellatore Bosco,
Torino 1914, 34-37; C. Sole, Sul giurisdizionalismo di Vittorio Amedeo II,
in «Annali della Facoltà di Scienze Politiche di Cagliari»,
I (1976), 235-243; D. Filia, La Sardegna cristiana. Dal1720 alla pace del
Laterano, III, Carlo Delfino editore, Sassari 1995, 36-40 (I ed. L.I.S,
Sassari 1929); G. Ricuperati, Il
Settecento, in Il Piemonte sabaudo cit., 465-468, 484; Mattone,
Istituzioni e riforme cit., 333-334;
G. Symcox, Vittorio Amedeo II.
L'assolutismo sabaudo (1675-1730), SEI, Torino 1989, 292-293; R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila,
Città Nuova, Roma 1999, 454-460; De
Giudici, Il governo ecclesiastico
cit., 1-63. Un dettagliato quadro sulla tradizione giurisdizionalistica
piemontese è offerto da A. Lupano,
Verso il giurisdizionalismo subalpino. Il De regimine ecclesiae di Francesco
Antonio Chionio nella cultura canonistica torinese del Settecento,
Deputazione subalpina di storia patria, Torino 2001, 1-56.
[46]
«Per ultimo devo render giustizia alla memoria del mio antecessore col
dire che la raccolta per esso compilata d'ordine regio delli usi di questo
Regno circa le materie ecclesiastiche, copia della quale mi fu spedita da
cotesto regio archivio per commando preciso della Maestà del re Vittorio
Amedeo nel procinto della mia partenza a questa volta, moltissimo mi ha giovato
nelli occorsi emergenti, ritrovandosi ivi proposti e ben ponderati moltissimi
de' casi che puonno succeder in queste materie, ed anche decisi con quelli
esemplari che si sono ritrovati». Si tratta di un'organica raccolta degli
usi e delle leggi in materia ecclesiastica, compilata nel 1728 dal conte
Guglielmo Beltramo, allora reggente la Reale Cancelleria. Il manoscritto
è in AST, Paesi, Sardegna, Atti in partenza dalla capitale, Roma, Relazioni reggente
Beltramo, serie k. Sul conte Beltramo cfr. G. De Giudici, La
biblioteca di un magistrato piemontese del Settecento. G.F.E. Beltramo, primo
presidente della Camera dei Conti di Torino, in «Rivista di storia del
diritto italiano», LXVIII (1995), 203-232; Ead., Il governo
ecclesiastico cit., passim.
[48] AST, Paesi, Sardegna, Politico, Viceré, Governatori, Comandanti e
Segreterie di Stato, cat. 4, mazzo 1, fasc. 24, «Copia
dell'istruzione di Sua Maestà al marchese di Castagnole per il carico di
viceré, luogotenente e capitano generale del Regno di Sardegna».
[50] Cfr. ivi, 70-71. Cfr. inoltre G.B. Semeria, Storia del re di Sardegna Carlo Emmanuele il Grande, II, Reale
Tipografia, Torino 1831, 23-26. Un’utile fonte su questa vertenza
è la Relazione istorica delle
vertenze che si trovano pendenti tra la corte di Roma e quella del re di
Sardegna, allorché fu assunto
al pontificato Benedetto XIII di santa e gloriosa memoria, per Gio.
Battista Valetta, Torino 1731.
[52] Cfr. Ferrante, Le attribuzioni
giudiziarie cit., 452. Sul
decreto di Nueva Planta cfr. J.
de Camps i Arboix, El decret de
Nova Planta, Rafael Dalmau, Barcelona 1963, 5-58; V. Ferro, El dret públic
catalá. Les institucions a Catalunya fins al decret de Nova Planta,
Eumo editorial, Vic 1987, 450-460, e sull'estensione alla Sardegna cfr. M.A. Alonso Aguilera, La conquista y
el dominio español de Cerdeña (1717-20), Universidad de
Valladolid, Valladolid 1977, 115-119.
[54] Relazione, ora qui di seguito
nell’ultimo paragrafo. Sulla criminalità sarda nel Settecento cfr.
Mattone, Istituzioni e riforme cit., 365-367; M. Da Passano, La criminalità e il banditismo dal
Settecento alla prima guerra mondiale, in La Sardegna cit., 423-430;
J. Day, Uomini e terre nella
Sardegna coloniale (XII-XVIII secolo), Celid, Torino 1987, 245-290; G. Doneddu, Criminalità e società nella Sardegna del secondo
Settecento, in Criminalità e
società in età moderna, a cura di L. Berlinguer e F. Colao
(La «Leopoldina» n. 12), Giuffrè, Milano 1991, 581-632; M. Brigaglia, Storia e miti del
banditismo sardo, Editoriale La Nuova Sardegna, Sassari 2009, 15-24.
[55] Cfr. a questo proposito C. Sole, Il problema del contrabbando tra la Sardegna e la Corsica: aspetti
economici e implicazioni politico-diplomatiche, in Id., Politica, economia
e società in Sardegna nell’età moderna, Fossataro,
Cagliari 1978, 93-122; A. Asole, Le operazioni di contrabbando nella Gallura
del secolo XVIII, in «Quaderni bolotanesi», XVI (1990),
367-376; S. Pira, La Gallura nel Settecento: una repubblica montanara
tra contrabbando e banditismo, in Studi
e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, II, Cuec, Cagliari 1994, 91-105; G.
Murgia, Il contrabbando tra la Sardegna e la Corsica nel XVIII secolo, in
«Études Corses», (XVI) 1988, n. 30-31, 237-251; Id., Castelsardo: da porto caricatore a terra di contrabbando fra la
Sardegna e la Corsica in età moderna, in Castelsardo. Novecento anni di storia, a cura di A. Mattone e A.
Soddu, Carocci, Roma 2007, 587-613; A. Mattone,
Sardaigne. Les relations entre la Sardaigne et la Corse
(XIV-XVIII siècle), in Dictionnaire
historique de la Corse, sous la direction de A. L. Serpentini, Albiana,
Ajaccio 2006, 894-897. Sulla normativa settecentesca in materia di
contrabbando cfr. A. Argiolas, A.
Mattone, Statuti portuali e normativa sulle esportazioni. Il caso di
Terranova (Olbia) in Sardegna nei secoli XIV-XVIII, in «Rivista di
storia del diritto italiano», LXX (1997), 29-104.
[56] AST, Paesi,
Sardegna, Corrispondenza
proveniente dall’isola, Lettere dei reggenti (1720-54), mazzo
1, lettera al marchese d'Ormea (Cagliari, 12 giugno 1731). Già negli
anni nel 1722-23 il viceré barone di Saint Rémy aveva analizzato
con scrupolo le questioni relative al funzionamento del supremo tribunale del
Regno: cfr. a questo proposito Merlin,
Il viceré del bastione cit., 18-35.
[57] Cfr. Formolario para la
construción de processos criminales por el que se deven arreglar las
curias en virtud del Pregon del Excelentissimo Señor Virrey
marqués de Rivarol de los doze de mayo MDCCXXXVI, en la Imprenta de
los herederos de Honofrio Martin, Caller 1736. Sul rapporto tra
l'iniziativa legislativa di Beraudo e la successiva azione di Rivarolo cfr. Mura, Diario di Sardegna cit., 56-60. Sul governo del Rivarolo cfr. Mattone, Istituzioni e riforme cit.,
365-378; Id., Assolutismo e
tradizione cit., 935-936.
[58] Cfr.
F. Loddo Canepa, Giudizi di alcuni viceré sabaudi sulla
Sardegna attraverso i carteggi ufficiali del Settecento, in «Annali
della Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero dell'Università
di Cagliari», XIX (1952), 5. Il dispaccio che contiene le riflessioni del
Castagnole è in ASC, Regia Segreteria di Stato e di Guerra, serie
I, vol. 279, cc. 98-104v, lettera del marchese di Castagnole a Carlo Emanuele
III (Cagliari, 8 maggio 1732).
[59] Cfr. a
questo proposito A. Pino Branca, La
vita economica della Sardegna sabauda (1720-1773), Principato, Messina
1926, che resta ancora un'opera fondamentale sull'economia sarda nel
Settecento.
[60] Sul
tema delle saline cfr. i lavori di S. Pira,
Il commercio del sale sardo nel Settecento: dal Mediterraneo all'Atlantico
(1700-1760), in Storia del commercio del sale tra Mediterraneo e
Atlantico, a cura di S. Pira, AM&D, Cagliari 1997, 175-206, e in
particolare le 181-183 relative agli anni del reggente Beraudo e al ruolo del
mercante Giacomo Musso; Id., Le
vie del sale e la Sardegna in epoca moderna e Azienda delle saline e
burocrazia statale tra Settecento e Ottocento, entrambi in «Archivio
del movimento operaio, contadino e autonomistico», rispettivamente n.
44-46 (1994), 185-217 e n. 35-37 (1991), 177-209; Id., Il direttore dell'Azienda delle saline di Cagliari
tra XVIII e XIX secolo, in «Annali della Facoltà di Scienze
Politiche dell'Università di Cagliari», XI (1984), 700-715; Id., La pesca e il commercio del
sale sardo nel Settecento tra Mediterraneo e Atlantico, in La pesca nel
Mediterraneo occidentale (secc. XVI-XVIII), a cura di G. Doneddu, M.
Gangemi, Puglia Grafica Sud, Bari 2000, 197-209.
[61] Cfr.
A. Garelli, L'isola della
Maddalena. Documenti ed appunti storici, Tipo-litografia veneziana, Venezia
1907, 13-17, e soprattutto C. Sole,
Genova, Corsica e Sardegna per il possesso dell'arcipelago di La Maddalena
(1720-1767), in Id., Sardegna
e Mediterraneo: saggi di storia moderna, Fossataro, Cagliari 1970, 39-43.
[62] Sulla
vicenda cfr. C. Sole, La
Sardegna sabauda nel Settecento, Chiarella, Sassari 1984, 112-122; Id., Sovranità e
giurisdizione sulle Isole intermedie (1767-1793), in «Archivio
storico sardo», XXVI (1959), 255-479.
Sui problemi più propriamente giuridici cfr. I. Castangia, Sovranità, contiguità
territoriale e isole in una controversia internazionale del XVIII secolo,
Jovene, Napoli 1988, cui si rinvia.