N.
9 – 2010 – Contributi
Contributo ad un dizionario di storia costituzionale*
Università Roma Tre
Sommario: 1. Considerazioni generali
sul parlamentarismo dalle origini agli attuali sistemi democratici. –
2. La genesi
storica del parlamento italiano. – 3. Posizione e ruolo istituzionale del parlamento
nella Costituzione repubblicana italiana. – 4. Principi generali di organizzazione e regole di
funzionamento delle istituzioni parlamentari. – 5. Il policentrismo
parlamentare: composizione e struttura interna delle Camere. – 6. Le
funzioni del parlamento. – 7. L’evoluzione
delle istituzioni parlamentari nella crisi istituzionale italiana. Il futuro
della democrazia parlamentare.
Benché
la storia del parlamentarismo moderno sia intimamente legata alla nascita ed
allo sviluppo della forma di stato nazionale, non sono mancate in epoca
premoderna esperienze ed istituzioni politiche che possono essere annoverate
come antecedenti storici delle moderne istituzioni parlamentari.
Ferma
restando la diversità di contesto storico, politico e sociale sottesa al
diverso grado di sviluppo della forma di stato, è possibile registrare
l’esistenza di elementi di continuità tra le esperienze
parlamentari sorte in epoca (soprattutto) feudale rispetto a quelle
sviluppatesi in epoca moderna e ciò pur a fronte di un panorama
estremamente diversificato, sotto un profilo sia organizzativo sia funzionale,
delle singole esperienze parlamentari.
L’indagine
risulta vieppiù complicata dalla diversa evoluzione dei singoli
ordinamenti nazionali, posto che in alcuni (come in quello inglese)
l’istituzione parlamentare è frutto della lenta ma progressiva
evoluzione delle primordiali esperienze di epoca feudale, mentre in altri
ordinamenti (come quello francese), le forme della rappresentanza parlamentare
si sono imposte a seguito di violente rotture e radicali rivolgimenti dei
precedenti assetti storico-istituzionali.
Ciò
nondimeno assonanze e corrispondenze tra le esperienze feudali, moderne e
contemporanee del parlamentarismo non sono impossibili da individuare,
ponendosi le istituzioni parlamentari, comunque configurate, come momento,
più o meno significativo, nel processo di direzione politica e di
coordinamento delle componenti costitutive dell’ordinamento di
riferimento ovvero, ancora, come è stato osservato, per essere «i
canali mediante i quali la società si proietta verso il potere»[1].
Pur con
la cautela imposta dalla irriducibile diversità dei contesti storici e
geografici c’è chi ha individuato talune costanti, sia funzionali
sia strutturali, nel concreto operare del parlamentarismo: la natura
irriducibilmente collegiale e non occasionale (se non permanente)
dell’assemblea, il metodo della discussione e della deliberazione
collegiale, la pubblicità delle attività, la collocazione
intermedia tra i vertici del potere e le articolazioni periferiche dello stesso
ovvero della società civile, la progressiva specializzazione
della funzione normativa sono i principali elementi di continuità ed
invarianza che connotano le diverse esperienze parlamentari[2].
Già
a partire dagli ordinamenti feudali, congenitamente policentrici ed autonomi,
fu avvertita da parte dell’autorità sovrana, infatti,
l’esigenza di momenti e luoghi di coordinamento e di controllo delle
attività poste in essere dalle singole realtà periferiche (sia
feudali sia cittadine).
Proprio
in tale ottica in larga parte del continente europeo, tra il XII ed il XIV
secolo, presero avvio istituzioni variamente composte e denominate con lo scopo
di affiancare, consigliare, assistere il sovrano nell’esercizio di talune
delle sue prerogative; già a partire dall’epoca feudale, infatti,
il termine «parlamento»[3]
designerà forme di assemblea, più o meno di impronta locale,
allargate ai feudatari ed agli ecclesiastici nelle quali venivano ratificate le
decisioni (di natura prevalentemente giudiziaria) assunte dal monarca; dette
assemblee restavano, dunque, prive di reali poteri di decisione e di
rappresentanza.
In
tali primordiali forme di parlamento troveranno espressione le istanze di
unificazione e centralizzazione del potere del sovrano le quali, tuttavia,
saranno destinate a confrontarsi con le crescenti aspirazioni di partecipazione
al potere regio e di limitazione dello stesso da parte dalle medesime assemblee
parlamentari[4].
E’ intorno al XIII secolo, del resto, che proprio nell’ordinamento
feudale inglese incomincerà a farsi strada il principio (no taxation
without representation)[5]
della necessaria deliberazione dei rappresentanti delle città e delle
contee su questioni riguardanti l’imposizione tributaria; detto principio
costituirà, come noto, la forma embrionale del principio di
legalità che tanta fortuna avrà nel periodo liberale.
Con la
nascita degli stati assoluti si assisterà, non a caso, ad un momento di
crisi di vitalità delle esperienze parlamentari destinate a soccombere
di fronte ai processi di consolidamento, in senso accentrato ed assolutistico,
del potere sovrano. Dallo scontro con le nuove istanze assolutistiche solo il
parlamento Inglese riuscirà, al termine di una laboriosa e cruenta
vicenda storica, a consolidare le proprie prerogative nei confronti del potere
regio; a partire dalla gloriosa rivoluzione del 1688, infatti, il parlamento
inglese riuscirà ad affermare in maniera irreversibile la propria
supremazia nei confronti della Corona.
Si
deve proprio all’esperienza storica inglese, peraltro, il delinearsi
delle prime istanze rappresentative assunte quali connotati costitutivi del
moderno parlamentarismo le quali saranno destinate a segnare profondamente le
sorti del costituzionalismo tanto da potersi ben affermare che «il
costituzionalismo moderno deve tanta parte di sé alla storia inglese»[6].
In
seguito alla rivoluzione americana ed a quella francese, nel XIX secolo si
affermerà il parlamentarismo nel significato moderno del termine quale,
poi, è trapassato nelle esperienze costituzionalistiche del presente
momento storico, finendo per assumere tra i propri connotati costitutivi le
funzioni rappresentativa, legislativa e di controllo sul potere esecutivo. Del
resto è lo stesso Kelsen a ricordare che la lotta «contro
l’autocrazia è essenzialmente una lotta in favore
dell’istituto parlamentare»[7].
Con il
crollo dei regimi assolutistici, dunque, il parlamento finirà per
perdere i suoi connotati corporativi e privatistici delle origini feudali per
diventare, in seguito ad una lenta metamorfosi storica, la sede privilegiata
della rappresentanza politica[8]
e, dunque, luogo istituzionale di fondazione e legittimazione del potere
legislativo dei moderni ordinamenti costituzionalistici.
Particolarmente
evidenti e significativi risultano essere, peraltro, i legami del
parlamentarismo con la teoria e la prassi del costituzionalismo, tanto da poter
considerare il diritto parlamentare come avanguardia del diritto
costituzionale; la progressiva ed incessante limitazione dei poteri
del sovrano, la progressiva acquisizione di spazi di decisione politica, a
favore dei ceti borghesi emergenti, sui diritti di libertà e sul diritto
di proprietà si realizzeranno, infatti, proprio grazie
all’affermazione delle istituzioni parlamentari[9].
L’ulteriore
e definitiva trasformazione verrà impressa alla concezione classica del
parlamentarismo con la nascita dei partiti di massa, l’allargamento del
suffragio elettorale e la trasformazione in senso pienamente democratico degli
ordinamenti liberali di stampo ottocentesco.
Le
dottrine dello stato e della sovranità non potranno non tener conto
della evoluzione delle istituzioni parlamentari e della loro ambivalente natura
rivelandosi, ad un tempo, organi dello Stato ma anche espressione della
società civile, mediante le procedure elettorali della rappresentanza
politica; anche da qui la suggestiva metafora hegeliana del parlamento quale
porticato tra lo stato e la società civile[10].
Proprio
attraverso il parlamento, dunque, il principio della rappresentanza politica si
proietterà con forza negli ordinamenti democratico-costituzionali sino
ad imporsi quale fonte di legittimazione non più del solo potere
legislativo ma dello stesso patto costituzionale.
Il
parlamento finirà, in altri termini, per assumere un ruolo strategico
come luogo non solo di legittimazione e rappresentanza politica ma anche di
esercizio della sovranità.
Nella
fase matura degli ordinamenti rappresentativi, infatti, larghissima parte degli
esecutivi finiranno per trarre legittimazione - secondo modalità
più o meno dirette che corrispondono al diverso articolarsi delle forme
di governo nei singoli ordinamenti costituzionali – dal sistema della
rappresentanza politica democraticamente fondata.
Tuttavia
il ruolo più o meno incisivo delle istituzioni parlamentari nei diversi
ordinamenti varia a seconda di una serie di fattori di tipo istituzionale,
politico e culturale.
Meritano,
in particolare, di essere evidenziati taluni svolgimenti storico-politici che
segneranno fortemente l’evoluzione della teoria e della pratica della
rappresentanza parlamentare e delle forme di esercizio del potere negli
ordinamenti democratico-pluralistici della seconda metà del XX secolo.
L’involuzione
plebiscitaria e populistica delle prime esperienze democratico-parlamentari
europee preparò il terreno, infatti, dapprima all’affermazione di
regimi autoritari e totalitari e, successivamente, al secondo conflitto
bellico; detti eventi finiranno per essere gravidi di conseguenze sui
successivi ordinamenti costituzionali.
Gli
ordinamenti democratico-parlamentari del secondo dopoguerra, infatti, non
potranno non tener conto delle sopravvenute e sovraordinate istanze di
legalità costituzionale (di frequente presidiate da procedure di
controllo di costituzionalità affidate ad organi ad hoc
istituiti) le quali finiranno per ricondurre lo stesso circuito della
rappresentanza ed il complessivo sistema di produzione normativa entro un
quadro predefinito di regole e di valori costituzionali, indisponibili e non
revocabili dalle contingenti maggioranze parlamentari, nei quali, peraltro, il
corpo elettorale manterrà rilevanti poteri d’intervento attraverso
gli istituti di democrazia diretta (procedure referendarie ed iniziative
legislative popolari).
I
profondi e complessi mutamenti intervenuti in seno alla società civile,
il conseguente implementarsi del pluralismo sociale ed istituzionale degli
ordinamenti finiranno per trasformare l’idea stessa della rappresentanza
politica e delle istituzioni parlamentari; queste in maniera sempre più
chiara, saranno chiamate a confrontarsi con altri soggetti (pubblici e privati)
detentori di potere politico, economico e sociale i quali pretenderanno, a
vario titolo, di condizionare le scelte politiche generali.
Da
qui, in particolare, l’emergere in tutte le democrazie industriali di
varie forme e modelli di negoziazione e concertazione tra i soggetti della
rappresentanza parlamentare e quelli della rappresentanza degli interessi
(delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavori ma non
solo) che segneranno uno degli aspetti di maggiore discontinuità nel
funzionamento delle istituzioni parlamentari contemporanee rispetto alla
nascita del parlamentarismo moderno.
Sotto
altro profilo costituisce un dato acquisito alla riflessione sia
costituzionalistica sia politologica il fatto che il sistema elettorale e la
concreta strutturazione del sistema politico-partitico rappresentano varianti
decisive che condizionano non solo la configurazione della forma di governo ma
il più complessivo rendimento funzionale delle istituzioni
democratico-parlamentari nei moderni ordinamenti pluralistici[11].
A
conferma del ruolo strategico dei partiti politici nelle democrazie
parlamentari sia sufficiente considerare come attorno ad essi, nonostante la
crisi della partecipazione politica che investe larga parte dei sistemi
democratici[12],
in maniera pressoché esclusiva si snoda la competizione politica e si
realizza la selezione del ceto politico dirigente.
Nonostante
crisi ricorrenti, critiche provenienti da orientamenti politici e culturali
diversi[13]
ed evoluzioni anche profonde, la storia del costituzionalismo democratico
permane indissolubilmente legata alle sorti del parlamentarismo; risulta
incontestabile, infatti, che democrazia e rappresentanza parlamentare si
trovino in un rapporto di mutua implicazione tanto che, ancora oggi, resta
difficile pensare l’una senza presupporre l’altra.
Non
meno difficile risulta immaginare un ordinamento di tipo democratico il quale
non contempli e non assegni un ruolo di primo piano ad assemblee che, al di la
della specifica denominazione, adempiano ad una funzione di rappresentanza
politica all’interno della più complessiva comunità
politica di riferimento; ciò vale non solo per gli ordinamenti statuali
ma anche per gli ordinamenti sovranazionali ed internazionali che nell’esperienza
storica contemporanea dimostrano la funzione essenziale di corpi politici di
natura rappresentativa[14].
Non
pare, dunque, ancora superata ovvero inattuale la risoluta affermazione
kelseniana stando alla quale «la condanna del parlamentarismo è la
condanna della democrazia»[15].
Un
intricato gioco di elementi di continuità e discontinuità
caratterizza l’evoluzione storica della vicenda parlamentare italiana, a
partire dall’esperienza preunitaria passando dalla unificazione nazionale
sino a giungere all’attuale assetto costituzionale repubblicano, tanto
che sulla prevalenza degli uni ovvero degli altri i giudizi degli storici delle
istituzioni e dei costituzionalisti registrano divergenze non trascurabili[16].
Tralasciando
le più remote ed incerte esperienze parlamentari del periodo feudale,
nella penisola italica le prime assemblee parlamentari, nel senso moderno del
termine, presero avvio sul finire del XVIII secolo con il diffondersi degli
ideali della Rivoluzione francese.
L’affermarsi
dei principi e degli ideali rivoluzionari, infatti, contribuì alla
nascita di diverse esperienze municipali e repubblicane; dopo la costituzione
di assemblee costituenti nelle città di Modena, Reggio, Bologna e
Ferrara, il 27 dicembre 1796 ebbe a riunirsi il secondo congresso Cispadano il
quale rappresentò la prima assemblea elettiva nazionale nel corso della
quale fu stabilito di affidare il potere legislativo a due camere denominate il
consiglio dei sessanta e dei trenta.
In
seguito alla fusione delle repubbliche Cispadana e Cisalpina avvenuta nel
luglio 1797, Napoleone impose una nuova costituzione la quale prevedeva un
parlamento strutturato in due camere denominate una Gran Consiglio e
l’altra Consiglio dei seniori, composte rispettivamente da 160 e 80
membri designati dallo stesso Napoleone.
Nel
periodo napoleonico vennero costituite assemblee ed istituzioni parlamentari in
tutta la penisola e si fece timidamente strada anche il tentativo di impostare
su basi democratiche e repubblicane i nascenti ordinamenti politici; si
trattò, tuttavia, di esperimenti velleitari ed effimeri, dovendo questi
confrontarsi, dapprima, con la soggiogante tutela napoleonica e, in seguito,
con la involuzione autoritaria d’oltralpe.
In
tale contesto storico particolare attenzione merita la, pur breve, esperienza
parlamentare che prese corpo in Sicilia (1812-1813) la quale, sottraendosi al
dominante modello rivoluzionario francese, risultava ispirata alla tradizione
costituzionale anglosassone con un parlamento a struttura bicamerale, composto
da una “camera de’ Signori” di nomina regia ed una
“de’ Comuni” eletta a suffragio ristretto.
La
restaurazione assolutistica che s’impose in tutta Europa non tardò
a soffocare le aspirazioni liberali e costituzionali che si erano diffuse nella
penisola italiana nel ventennio successivo alla rivoluzione francese e con esse
le fragili istituzioni rappresentative che pure erano sorte.
Gli
esperimenti di tipo parlamentare dei primi anni del XIX secolo rappresentarono,
ad ogni modo, l’affermazione dell’istituzione parlamentare quale
congegno istituzionale confacente ad una limitazione dell’assolutismo
monarchico; nonostante la varietà delle soluzioni tecniche (mono e
bicamerali) e delle ideologie politiche ad esse sottese (democratica,
monarchica, liberale e federalista) la creazione di un potere parlamentare
riuscì ad imporsi, infatti, quale emblema di un rinnovato sistema
politico-istituzionale, capace di garantire maggiore libertà e
partecipazione popolare nelle vicende pubbliche.
Tre
furono i modelli, tutti di ascendenza monarchica e di impostazione liberale
moderata, che ispirarono le esperienze parlamentari nella penisola italiana:
quello di tradizione inglese, fatto proprio anche dalla costituzione siciliana
del 1812-13, che eserciterà una forte influenza sul successivo
parlamento subalpino; quello più democratico ad impianto monocamerale
rappresentato dalla costituzione di Cadice del 1812 ed, infine, quello
più conservatore costituito dalla Charte concessa nel 1814 da re
Luigi XVIII ai francesi.
In
seguito alla restaurazione assolutistica in Europa occorrerà attendere i
moti rivoluzionari del 1848 per assistere ad un rifiorire degli istituti
parlamentari in tutti gli stati della penisola, talvolta con connotazioni
accentuatamente democratiche, come accadde, ad esempio, in Toscana.
In
tale quadro si distingue la soluzione rappresentata dall’assemblea
costituente della II repubblica romana del 1849 la quale subì fortemente
gli influssi dell’insegnamento mazziniano, sottraendosi all’influenza
di segno moderato che connotava gli altri modelli monarchico-costituzionali.
Nel
1848, tra alterne vicende politiche e militari, si giunse con la concessione
dello Statuto albertino alla creazione del parlamento Subalpino il quale si
ritrovò al centro di un significativo moto unitario e di aggregazione
politica dei singoli stati preunitari che preluderanno alla successiva e rapida
opera di riunificazione nazionale, costituendo al contempo punto di arrivo e di
partenza del moto liberale[17].
Lo
Statuto albertino, dunque, realizzerà una profonda modifica della forma
di stato e di governo sino ad allora vigenti nel regno di Sardegna, avviando
l’esperienza monarchico-costituzionale la quale si protrarrà per
circa un secolo sino all’instaurazione della attuale Repubblica.
Il
dilagare dei moti liberali in tutta Europa, la forte tensione politica e
sociale interna unitamente al timore del violento rovesciamento del regime
monarchico, favorito da rivendicazioni di segno costituente e
democratico-radicali, spinsero re Carlo Alberto, prima, ad annunciare l’8
febbraio 1848 e, poi, a concedere «con lealtà di re ed affetto di
padre» il 4 marzo 1848 la carta fondamentale del regno sabaudo che
assunse il nome di Statuto albertino[18].
Ne
derivò l’istituzione di un sistema bicamerale fondato su una
Camera elettiva (camera dei deputati) ed un Senato composto da membri nominati
a vita dal re oltre al riconoscimento di alcune significative libertà
individuali di matrice liberale tra le quali quella personale (art. 26), di domicilio
(art. 27), di stampa (art. 28), di proprietà (art. 29) e di riunione
(art. 32).
Sotto
un profilo storico-politico lo Statuto albertino sanciva un patto tra la
dinastia sabauda e le classi dirigenti liberali volto alla creazione di un
unitario ordinamento di impronta liberale in linea con le tendenze in atto nel
resto dell’Europa continentale.
Sotto
un profilo istituzionale lo Statuto tradiva un evidente legame con la
costituzione belga e quelle francesi del 1814 e del 1830 [19]
con le quali condivideva diversi aspetti; al pari di queste ultime, infatti,
anche lo Statuto del 1848 era una carta costituzionale concessa dal sovrano le
cui prerogative rimanevano, in buona sostanza, impregiudicate; esso prevedeva,
inoltre, un sistema parlamentare bicamerale, con il Senato composto da un
numero non limitato di membri tutti di nomina regia (capace di compensare
ovvero di bilanciare il potere della camera rappresentativa) e fondato su un
suffragio elettorale selettivamente censitario[20].
L’opzione
bicamerale, in particolare, si rivelava particolarmente adatta al compromesso
di cui lo statuto albertino era eloquente espressione rappresentando questo, a
ben vedere, la traduzione pratica di quelle teorie del governo misto, care alla
dottrina statutaria del tempo, che propugnavano lo schema dualista
corona-parlamento quale «riflesso istituzionale della alleanza politica
tra monarchia e classi borghesi che caratterizza le rivoluzioni liberali
dell’800 europeo»[21].
Con
l’annessione della Lombardia e degli altri territori dell’Emilia e
della Toscana, ratificati per mezzo di appositi plebisciti, il regno di
Sardegna allargherà progressivamente i propri confini, sbarrando la
strada a soluzioni costituzionali di diverso tenore, propugnate dai democratici
e dai repubblicani i quali miravano ad un allargamento della base
rappresentativa del nascente Stato italiano. Attraverso la progressiva
annessione al regno sabaudo dei diversi stati preunitari, il sistema statutario
e parlamentare subalpino, infatti, verranno estesi a tutta la nazione
attraverso una serie di pronunciamenti plebiscitari i quali impediranno, di
fatto, l’apertura di una questione costituente, fortemente osteggiata
dalla monarchia sabauda e dalla generalità del ceto nobiliare e
conservatore.
Da
qui, o meglio anche da qui, i limiti di un’operazione di unificazione
politica e nazionale, realizzata con il trapianto su tutta la penisola del
sistema istituzionale subalpino; e tuttavia, ormai, accanto al Re figurava un
nuovo soggetto istituzionale (parzialmente) rappresentativo che, pur tra limiti
ed incertezze, segnerà l’avvio di una nuova stagione politica;
valorizzando il ruolo politico-rappresentativo della Camera elettiva
(espressione ormai del ceto borghese emergente) l’ordinamento
costituzionale finirà con il tempo per assumere connotazioni sempre
più marcatamente parlamentari, ben oltre la lettera delle disposizioni
statutarie.
La
seduta del nuovo parlamento, del quale facevano ormai parte anche i
rappresentanti della Lombardia liberata e dell’Italia Centrale, s’inaugurava
a Torino il 2 aprile 1860 con un discorso del re Vittorio Emanuele II il quale
poteva salutare l’Italia «non più campo aperto alle
ambizioni degli stranieri ma l’Italia degli Italiani».
La
definitiva riunificazione nazionale verrà realizzata grazie alle imprese
garibaldine nel sud della penisola ed alla capitolazione del regno borbonico.
Fu
così che il parlamento subalpino all’atto della proclamazione del
Regno d’Italia nel marzo 1861 diventerà il parlamento nazionale.
Tanto
il parlamento subalpino quanto quello del neocostituito regno d’Italia
così come, più in generale, lo Statuto albertino del 1848 non
possono, dunque, vantare precedenti storici significativi rinvenendo il proprio
modello di riferimento, secondo alcuni, nel modello parlamentare inglese
così come trapiantato in Europa attraverso l’esperienza francese[22],
secondo altri, nella combinazione delle costituzioni francesi del 1814 e del
1830 ed in quella belga del 1831 [23].
A ben
vedere il regime costituzionale previsto nello statuto albertino, non era di
tipo parlamentare[24];
al centro del sistema, infatti, figurava il monarca che governava attraverso i
suoi ministri i quali non derivavano i loro poteri da un atto di fiducia
proveniente dal parlamento. Il re partecipava all’attività non
solo amministrativa ma anche legislativa, svolgendo un ruolo importante sia in
politica estera sia in quella interna, soprattutto per mezzo del Senato il
quale, integralmente composto da membri di nomina regia e vitalizia, era stato
significativamente definito da Vittorio Emanuele II «il corpo nel quale
si radunano le primarie virtù e capacità del regno»[25].
Fin
dal periodo cavouriano, come anticipato, il potere della Camera elettiva era
andato accrescendosi a discapito tanto del Senato di nomina regia quanto dei
poteri della stessa Corona[26].
Pur all’insegna di ricorrenti conflitti tra Camera dei deputati, singoli
governi e casa regnante, caratterizzati da un’altissima
instabilità governativa e da massicci fenomeni di trasformismo
parlamentare, si assisterà progressivamente all’affermazione, in
via consuetudinaria, dell’istituto della fiducia parlamentare nei
confronti del governo, in maniera tale che l’originaria struttura
costituzionale si evolverà verso il riconoscimento di un nuovo centro di
direzione politica, rappresentato dal raccordo istituzionale governo-parlamento[27];
rispetto ad esso la monarchia non vantava alcun decisivo potere di scelta,
inducendo storici come Galasso ad affermare che «la parte del sovrano nel
quadro delle istituzioni finì […] col rimanere in un’ombra
discreta»[28].
Ad una
più attenta analisi del dato storico ed istituzionale, tuttavia, non
mancano ricostruzioni più problematiche del funzionamento della forma di
governo statutaria la quale avrebbe vissuto fasi così alterne da non
poter a rigore essere classificata né di tipo monista né di tipo
dualista[29].
Il
carattere problematicamente parlamentare della forma di governo
dell’epoca sono ben riassunte nella ricostruzione teorica elaborata da
Vittorio Emanuele Orlando che, da un lato, riteneva del tutto fisiologica e
conforme allo statuto, la pratica della fiducia parlamentare al governo,
mentre, dall’altro, sottolineava la persistenza delle prerogative regie
nell’investitura del governo, non dovendo il monarca limitarsi alla funzione
notarile di sanzionare le scelte parlamentari ma dovendo valutare se queste
risultassero adeguate agli interessi della nazione. Tale impostazione rendeva
ben chiaro l’intento di tenersi equidistante rispetto ai due eccessi
dell’assolutismo regio, da un lato, e dello scivolamento verso
impostazioni democratico-radicali, dall’altro[30].
Sono,
del resto, ben noti i tentativi politici di marginalizzazione del ruolo del
parlamento e di contestuale rivalutazione delle prerogative regie statutarie
propugnate dai ceti più conservatori, compendiati nel famoso richiamo torniamo
allo Statuto di Sidney Sonnino[31].
Dalla
travagliata nascita in via consuetudinaria del rapporto fiduciario che lega le
sorti del Governo al parlamento deriverà, dunque, non solo il
ridimensionamento delle prerogative politiche del monarca ma anche il
rafforzamento del principio rappresentativo con la contestuale esaltazione del
ruolo della camera elettiva.
L’evoluzione
in senso parlamentare della forma di governo avverrà grazie al
progressivo allargamento del suffragio elettorale, avvenuto con le riforme del
1882 e del 1912-1913, ed alla nascita dei partiti popolari e di massa i quali
muteranno profondamente il sistema politico-parlamentare, conferendo ad esso un
carattere più largamente rappresentativo e democratico.
La
crisi economico-sociale della fine del XIX secolo, la sostanziale
estraneità delle masse alla vita politica nazionale, la perdurante
debolezza delle istituzioni rappresentative, la tragedia del primo conflitto
bellico mondiale, prima, le difficoltà del dopoguerra, poi,
nonché l’incapacità della classe dirigente liberale di
realizzare un’autentica modernizzazione del paese determineranno la
progressiva dissoluzione del sistema liberale e la diffusione di un clima
antidemocratico ed anti-parlamentare.
I
tumulti di piazza e la repressione violenta degli scioperi che
caratterizzeranno il passaggio dal XIX al XX secolo, invero, furono
accompagnati da tentativi di restaurazione autoritaria i quali minacciarono
seriamente l’oscuramento della Camera dei deputati.
Fu
così che la riluttanza mostrata dalle classi dirigenti ad offrire
sbocchi politici ed istituzionali di tipo democratico alle tensioni ed ai
conflitti in seno al vecchio ordinamento liberale aprirà la strada ad
una involuzione autoritaria e liberticida destinata a durare per oltre un
ventennio.
Le
istituzioni statali uscite dal Risorgimento, infatti, risulteranno ben presto
inadeguate a sostenere le tensioni liberate dal subitaneo processo di crescita
della società e ad opporsi a tentativi di resistenza oligarchica e
localistica, prima e di involuzione autoritaria, poi, tanto da aver indotto a
sostenere che «la storia del parlamento prefascista è a lungo una
storia della impossibile istituzionalizzazione degli organi della rappresentanza
politica. Il parlamento deve strenuamente combattere verso l’alto, contro
le prerogative della Corona che a lungo esercita un controllo personale sui
governi [...] e verso il basso, contro le confuse tendenze localistiche che
vanificano ogni sforzo proteso alla saldatura di domande particolari e
obiettivi generali di modernizzazione del paese»[32].
Nel
frattempo, con le riforma regolamentari approvate nel corso del biennio
1920-1922 alla Camera verranno istituite le commissioni permanenti sancendo,
altresì, l’obbligo per ciascun deputato di farne parte. Fu in
virtù di questa riforma che verrà sancito il riconoscimento
fattuale della rilevanza costituzionale dei partiti politici; si
assisterà, dunque, non solo alla nascita dei gruppi parlamentari ed al
complesso sistema di relazioni tra gruppi parlamentari e partiti politici ma
anche alla trasformazione del tradizionale governo di gabinetto in governo di
partito; tutti eventi che saranno destinati ad esercitare una notevolissima
influenza anche sul futuro sistema democratico parlamentare, pur permanendo nei
confronti dei partiti politici di massa un atteggiamento di radicata
insofferenza ed ostilità da parte della cultura e della politica
liberale del tempo; come è stato, infatti, osservato «il vero
anello mancante, per una evoluzione delle istituzioni lungo i binari di un
moderno parlamentarismo, era il sistema dei partiti»[33].
Terminato
il primo conflitto mondiale ed immediatamente dopo la marcia su Roma si
affermerà e progressivamente consoliderà il regime fascista il quale,
nel giro di pochi anni, condurrà alla completa fascistizzazione
delle istituzioni e della società civile, relegando le istituzioni
parlamentari ad un ruolo sempre più marginale.
Le
tensioni ingenerate dall’incontro tra la tradizione liberale ed i principi
democratici, in un contesto fortemente insofferente ad un ordinato sistema di
innovazione politica e sociale, finì, dunque, per creare quel clima
anti-parlamentare e di degenerazione antidemocratica che favorì la
crescita di suggestioni populistiche ed autoritarie ormai in atto.
Con la
legge 18 novembre 1923 n. 2444 fu approvata la riforma della legge elettorale
(c.d. legge Acerbo) la quale prevedeva un unico collegio nazionale e
l’assegnazione dei due terzi dei seggi alla lista che avesse ottenuto il
maggior numero di voti nonché la ripartizione con criteri proporzionali
dei seggi restanti.
Ma il
momento di svolta e di non ritorno nella involuzione in senso autoritario del
regime fascista prenderà avvio nel 1925, prima, con il discorso tenuto
da Mussolini alla Camera il 3 gennaio[34]
e, successivamente, con alcuni provvedimenti legislativi[35]
(le cd. leggi fascistissime),
asseritamente adottati a difesa dello Stato, con i quali, cancellando la
libertà di stampa e di associazione, si spegneranno tutte le speranze di
restaurazione della legalità statutaria.
Dopo
aver provveduto con la legge 31 gennaio 1926, n. 100 al rafforzamento dei
poteri normativi del governo e, in particolare, del suo capo, il regime
fascista pose mano ad una nuova ed incisiva limitazione dei diritti civili e
politici con la legge 25 novembre 1926 n. 2008 per giungere, in seguito, con
due successive leggi nel 1928 e nel 1929 alla costituzionalizzazione del Gran
Consiglio del fascismo il quale così, da mero organo di partito, finì
per trasformarsi in organo dello Stato.
Sulla
scorta, in particolare, dell’art. 12 della legge 9 dicembre 1928, n. 2693
si trasformò, secondo alcuni[36],
il regime costituzionale statutario da flessibile in semirigido essendo
necessario il parere del Gran consiglio «su tutte la questioni aventi
carattere costituzionale».
La
legge 19 gennaio 1939 n. 129 sancirà la definitiva soppressione della
Camera dei deputati la quale fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle
corporazioni; difettando questa di ogni connotazione rappresentativa si era
ormai realizzato non solo l’esautoramento del parlamento ma anche
l’eliminazione di ogni connotato liberale e rappresentativo nella nuova
compagine statale; i membri Camera dei fasci e delle corporazioni, infatti, erano
tutti nominati tra i dirigenti del partito fascista e gli appartenenti al
sistema delle corporazioni e decadevano automaticamente dalla carica venendo
meno il titolo sulla base del quale erano stati nominati; si trattava di un
organo del tutto privo di autonomia politica, con funzioni meramente consultive
e sottomesso alla volontà politica e normativa del governo; sia la
determinazione dell’ordine del giorno sia la distribuzione del lavoro tra
la camera e le commissioni, come pure le modalità di espressione del
voto venivano decise ed imposte dal Governo.
Il
radicale ripudio del metodo elettivo era, peraltro, reso manifesto anche a
livello locale dove i sindaci eletti dal popolo vennero sostituiti dai
podestà di nomina governativa[37].
Per
tale via, dunque, si realizzò il definitivo annullamento di ogni potere
parlamentare ed elettivo spazzando così via quanto di liberale,
democratico e rappresentativo esprimevano le deboli istituzioni dei primi anni
del Novecento.
In
pochi anni, dunque, Mussolini riuscì a realizzare quei propositi
autoritari e liberticidi che lo avevano portato pochi anni prima, il 16
novembre del 1922, in occasione del suo primo discorso parlamentare come
presidente del consiglio ad affermare: «potevo fare di quest'aula sorda e
grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un
Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo
tempo, voluto».
Dette
trasformazioni del regime parlamentare, peraltro, avvennero in aperta
violazione delle norme statutarie le quali, in quanto flessibili (cioè
modificabili con il ricorso all’ordinario procedimento legislativo) non
erano state in grado di opporre alcuna resistenza ai mutamenti istituzionali
portati avanti dalla dittatura fascista.
La
fugace vita della Camera dei fasci e delle corporazioni si consumò tra
il 23 marzo 1939 e la prima metà del 1943 in un periodo storico
tormentato dalle vicende belliche; si provvederà al suo scioglimento con
regio decreto del 2 agosto 1943 n. 705, ponendo così fine ad un ventennio
di oscuramento delle istituzioni parlamentari e ripristinando gli istituti e le
procedure di tipo liberal-democratico.
Con il
Patto di Salerno del 12 aprile 1944 e la tregua istituzionale che ne
conseguì, fu emanato il decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944
n. 151 in base al quale fu stabilita la convocazione di un’assemblea
costituente eletta a suffragio universale alla quale sarebbe stato assegnato il
duplice compito di provvedere alla stesura della nuova costituzione e di
scegliere la forma istituzionale del nuovo Stato[38].
Nel
frattempo un timido e confuso ripristino delle istituzioni rappresentative
avverrà ad opera del d.l. lgt. 5 aprile 1945, n. 146 che istituì
la Consulta nazionale, composta da rappresentanti indicati dai maggiori partiti
politici ed ex parlamentari antifascisti nominati dal governo, alla quale
verrà attribuito il compito di valutazione dei problemi generali della
politica nazionale e di esprimere pareri sui provvedimenti legislativi di
iniziativa governativa[39].
Data
la delicatezza della scelta nonché le forti e trasversali divisioni
esistenti all’interno dei partiti politici, con successivo decreto
legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98 si stabilì di
rimettere direttamente al popolo, tramite apposito referendum, la scelta sulla
forma repubblicana o monarchica delle nascenti istituzioni democratiche.
Dopo
la vittoria repubblicana nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 con il
decreto legislativo n. 48 del 24 giugno 1946 venne disposta la cessazione delle
funzioni del Senato vitalizio ma fu solo con la legge costituzionale n. 3 del
14 novembre 1947 che l'Assemblea costituente dichiarò definitivamente
sciolto il Senato del Regno.
Con
l’avvento della Repubblica e della Costituzione del 1948 verrà
inaugurato un nuovo sistema di rappresentanza democratico e parlamentare,
incentrato su un bicameralismo paritario il quale garantirà
un’inedita stagione di libertà e progresso civile.
Tralasciando
la disputa teorica sulla continuità storica, strutturale e funzionale
delle istituzioni parlamentari italiane dal 1848 ad oggi, resta incontroversa
la posizione del tutto nuova che la Costituzione repubblicana assegna al
parlamento[40];
quest’ultimo assume, infatti, un ruolo essenziale ed insostituibile nel
complessivo assetto statale repubblicano, sconosciuto nel precedente regime
statutario e conseguenza diretta dell’affermazione del principio di
sovranità popolare sancito dall’art. 1 Cost.[41]
Il
carattere democratico-rappresentativo della forma di stato repubblicana ha
finito per assegnare al parlamento una posizione di primo piano, proprio in
ragione del fatto che tra gli organi costituzionali esso è quello che
può vantare la più diretta ed immediata derivazione dalla
sovranità popolare[42].
L’attribuzione
dell’esercizio della funzione legislativa alle Camere (art. 70 Cost.) ed
il grande numero di riserve di legge previste dalla Costituzione concorrono nel
delineare la peculiare posizione istituzionale del parlamento il quale, stando
almeno al disegno costituzionale originario[43],
si vede attribuito una posizione di sicura preminenza nel complessivo quadro
dei pubblici poteri specie in riferimento alla attività di produzione
normativa.
Il parlamento
repubblicano, infatti, vanta una indiscussa centralità nella complessiva
organizzazione statale, situandosi in un punto di crocevia rispetto al resto
degli organi costituzionali[44].
Da
esso dipende non solo il carattere democratico e rappresentativo
dell’intero ordinamento costituzionale ma anche la composizione, in larga
misura, degli altri organi costituzionali; dal parlamento, infatti, dipendono
la formazione del governo, l’elezione e lo stato di messa in accusa del
Presidente della Repubblica, la designazione, in via diretta, di un terzo dei
giudici costituzionali e di un terzo dei membri del Consiglio Superiore della
Magistratura.
L’importanza
rivestita dalla istituzione parlamentare trova eloquente conferma anche da un
punto di vista sistematico e quantitativo; la Costituzione, infatti, si occupa
del parlamento prima che degli altri organi costituzionali, riservando ad esso
l’intero Titolo I della parte seconda della Costituzione, costituito da
una nutrita sequenza di disposizioni costituzionali (artt. 55-82) che non trova
riscontro per nessuno degli altri organi costituzionali.
Dubbi,
in verità, sono stati avanzati in ordine alla affermata
centralità parlamentare in ragione della natura rigida della carta
costituzionale, dell’esistenza di un sistema di sindacato di costituzionalità
affidato alla Corte costituzionale nonché di talune importanti
prerogative affidate al Presidente della Repubblica (soprattutto il potere di
rinvio e promulgazione delle leggi) capaci, a vario titolo, di limitare e condizionare
l’esercizio dei poteri parlamentari[45].
Nonostante
alcune recenti revisioni costituzionali ed i mutamenti registrati nel concreto
funzionamento della forma di governo, l’originaria connotazione
democratico-rappresentativa di tipo parlamentare del complessivo ordinamento
costituzionale pare resistere ad ogni tentativo di oscuramento e svalutazione;
la stessa Corte costituzionale, infatti, vietando agli statuti regionali di
appropriarsi del termine parlamento per definire i rispettivi consigli regionali,
ha solennemente ribadito che «solo il parlamento è sede della
rappresentanza politica nazionale la quale imprime alle sue funzioni una
caratterizzazione tipica ed infungibile»[46].
Certo
è che per oltre un quarantennio di storia repubblicana la formula della
cd centralità parlamentare ha avuto particolare fortuna nel delineare le
caratteristiche essenziali di funzionamento del sistema politico-costituzionale
nel quale il parlamento ha rappresentato non solo la sede di reciproco
riconoscimento e legittimazione delle diverse forze politiche esistenti ma
anche organo dell’intera comunità statale (non, dunque, del solo
Stato-soggetto[47])
nell’ambito del quale si radicava la effettiva determinazione
dell’indirizzo politico, restando il ruolo del governo alquanto in ombra.
A ben
vedere la centralità parlamentare più che a ragioni di carattere
costituzionale e formale s’impose per ragioni di tipo prettamente
politico; essa era formula congeniale non solo alla connotazione partitica e
pattizia[48]
della Costituzione repubblicana ma anche alla natura bloccata della
democrazia italiana; in altri termini essa rappresentò una naturale
tendenza istituzionale imposta per ovviare alla anomalia democratica derivante
dalla impossibilità di alternanza al governo, impedita dall’operare
della conventio ad excludendum nei confronti del P.C.I.[49].
L’inaccessibilità alle sedi di governo per un partito politico che
riscuoteva oltre un terzo dei consensi elettorali, veniva compensata dal
coinvolgimento di questo nella determinazione di larghissima parte delle scelte
legislative, dando luogo attraverso pratiche di tipo consociativo, tipiche
delle democrazie non competitive, all’esaltazione del parlamento (vero
cuore pulsante dell’intera macchina statale e luogo di confronto e
dialogo di forze politiche contrapposte) ed al sostanziale oscuramento
dell’esecutivo il quale finiva, in buona misura, per trasformarsi da
organo di indirizzo politico in organo di mediazione inter ed intra-partitico,
finendo assai spesso per registrare scelte ed equilibri politici che
avvenivano, non tanto nelle sedi parlamentari quanto, all’interno del
sistema partitico[50].
Stando
ad una autorevole e condivisa impostazione dottrinaria, tre sono i principi
fondamentali che informano l’organizzazione parlamentare: il principio
bicamerale, quello di continuità e quello di autonomia.
Si
tratta di tre principi organizzativi di diversa connotazione i quali trovano
fondamento in specifiche disposizioni costituzionali che sovrintendono alla
organizzazione delle istituzioni parlamentari ma che concorrono,
altresì, a connotare l’aspetto funzionale delle stesse.
In
ordine al principio bicamerale, come premesso, al pari della generalità
degli altri ordinamenti democratico-rappresentativi, anche il parlamento
italiano presenta una struttura duale; esso risulta, infatti, costituito dalla
Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica.
Meno
consueto, invece, risulta essere il carattere paritario o perfetto della
struttura bicamerale; in altri ordinamenti democratici, infatti, il
bicameralismo trova spiegazione in differenziazioni di tipo strutturale e/o
funzionale; negli ordinamenti di impronta federale, in particolare, alla
seconda camera è assegnato il ruolo di rappresentanza, secondo
differenti modalità e criteri, delle realtà territoriali federate
mentre la camera politica è espressione del corpo elettorale nazionale.
Nell’ordinamento
costituzionale italiano, eccettuate talune differenze organizzative e
strutturali, le due assemblee parlamentari hanno la medesima durata e le stesse
prerogative, sono entrambe elette a suffragio diretto ed universale mediante
voto personale, uguale, libero e segreto (art. 48 Cost.), svolgono le medesime
funzioni, hanno identici poteri; possono, dunque, vantare una pari
dignità istituzionale[51].
Le
differenze tra le due Camere riguardano, in primo luogo, il numero dei
componenti che sono fissati rispettivamente dall’art. 56 e 57 Cost. in
630 per la Camera dei deputati (inclusi i 12 eletti nella circoscrizione
estero) ed in 315 per il Senato della Repubblica (inclusi i 6 eletti nella
circoscrizione estero); ai senatori elettivi devono poi aggiungersi cinque
senatori di nomina presidenziale (art. 59 Cost.) oltre agli ex Presidenti della
Repubblica[52].
Altra
significativa differenza riguarda i requisiti di elettorato attivo e passivo;
mentre per la Camera dei deputati possono votare gli elettori maggiorenni ed
è composta da cittadini che abbiano raggiunto il venticinquesimo anno di
età, possono votare per il Senato gli elettori che abbiano compiuto i
venticinque anni e possono essere eletti senatori gli elettori che abbiano
compiuto i quaranta anni[53].
L’art.
57 Cost., infine, prevede che il Senato sia eletto su base regionale mentre
un’analoga previsione non figura per la Camera dei deputati[54].
Eccezione
al principio bicamerale è rappresentata dalle funzioni esercitate dal parlamento
in seduta comune[55];
si tratta di funzioni generalmente di carattere elettivo ed accusatorio,
tassativamente previste nella carta costituzionale così come chiaramente
dispone l’art. 55 Cost. Le Camere provvedono congiuntamente
all’elezione del Presidente della Repubblica (cfr. art. 83, primo comma,
Cost.) ed alla raccolta del suo giuramento di fedeltà alla Repubblica e
di osservanza della Costituzione (art. 91 Cost.), alla elezione di un terzo dei
componenti del C.s.m. (art. 104, quarto comma, Cost.) ed, infine, di un terzo
dei giudici costituzionali (art. 135 Cost. primo comma, Cost.).
Le
motivazioni che portarono i costituenti ad accogliere la soluzione bicamerale
sono da rinvenirsi nella scelta di introdurre meccanismi non solo di
perfettibilità tecnica nella redazione dei testi normativi ma
soprattutto di ponderazione, di garanzia e di equilibrio nei processi di
decisione parlamentare onde ovviare ad ipotetiche forme di assolutismo
parlamentare ed assicurare, per tale via, il più solido presidio delle
libertà costituzionali.
Non
avendo, infatti, avuto seguito né la soluzione monocamerale né le
varie ipotesi di differenziazione nella composizione delle due camere (in base
a criteri tipo professionale, corporativo o territoriale[56])
si è imposto il bicameralismo paritario quale congegno istituzionale che
assegna alla seconda camera un ruolo di raffreddamento «al fine di
una migliore ponderazione, politica e tecnica, delle esigenze da soddisfare
mediante l’esercizio della funzione legislativa»[57].
Al
peculiare bicameralismo della Costituzione repubblicana, che ne costituisce uno
dei nodi irrisolti, è stata, da più parti, imputata larga parte
dei ritardi e della inefficienza del sistema parlamentare; il tentativo di
superare la natura perfetta del bicameralismo, non a caso, è stato al
centro di numerose proposte (e, più di recente, anche di delibere
parlamentari) di riforma costituzionale le quali, ad oggi, non hanno prodotto
alcun risultato concreto.
Il
principio di continuità implica che non vi siano lacune o vuoti
temporali nella rappresentanza parlamentare; da qui la natura permanente delle Camere
le quali possono riunirsi senza limitazioni o fratture temporali; a presidio
della continuità dell’attività parlamentare soccorre
l’istituto della prorogatio; in particolare è l’art.
61, secondo comma, Cost. a prevedere che «finché non siano riunite
le nuove camere sono prorogati i poteri delle vecchie».
Distinta
dalla prorogatio è la proroga delle Camere la quale,
espressamente disciplinata dall’art. 60, secondo comma, Cost., viene
subordinata alla previa dichiarazione, mediante legge parlamentare, dello stato
di guerra[58].
La
convocazione del parlamento avviene di diritto il primo giorno non festivo di
febbraio e di ottobre (art. 62, primo comma, Cost.) mentre l’iniziativa
della convocazione straordinaria compete ai rispettivi Presidenti
nonché, in base a quanto previsto dall’art. 62, comma secondo,
Cost., al Presidente della Repubblica e ad un terzo dei componenti di ciascuna
camera.
Il
potere di scioglimento è, invece, attribuito al Presidente della
Repubblica, seppure nel rispetto di precisi oneri procedimentali[59],
ed è considerata una misura di stabilizzazione e razionalizzazione della
forma di governo parlamentare, volta ad evitare le degenerazioni del
parlamentarismo ed a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione
di Governo, così come previsto dall’ordine del giorno Perassi[60].
Per
restare alla predetta ricostruzione da ultimo, ma non certo per ultimo, si pone
il principio di autonomia il quale permea non solo strutturalmente ma anche
funzionalmente le istituzioni parlamentari; l’autonoma organizzazione e
gestione dei lavori parlamentari, infatti, rappresenta condizione e garanzia
per il libero ed incondizionato svolgimento delle diverse funzioni
parlamentari; intorno all’autonomia parlamentare, del resto, - come
insegna la travagliata vicenda storica del parlamento inglese - si gioca la
definizione stessa del ruolo costituzionale del parlamento.
L’autonomia
parlamentare si articola in diverse specie di prerogative e guarentigie, alcune
delle quali garantiscono l’istituzione parlamentare in quanto tale ed il
libero svolgimento dei lavori parlamentari (le varie forme di autonomia
normativa organizzativa, contabile e giurisdizionale nonché la
immunità della sede e le norme penali che puniscono le aggressioni al
prestigio ed alla funzionalità del parlamento[61]),
altre tutelano le sfere di libertà dei singoli membri del parlamento (cd
immunità parlamentari).
L’art.
64 Cost. prevede che ciascuna camera deliberi, a maggioranza assoluta, il
proprio regolamento al quale è affidata la disciplina di dettaglio sia
dell’organizzazione interna sia delle modalità di esercizio delle
diverse funzioni parlamentari[62].
Nel
sistema delle fonti del diritto i regolamenti parlamentari, peraltro, occupano
una posizione affatto peculiare, trattandosi di fonti-atto a competenza
riservata ed esclusiva[63];
dalla circostanza che i regolamenti parlamentari provvedono alla attuazione
diretta delle disposizioni costituzionali, affidata in via esclusiva ad un
organo costituzionale che gode di una peculiare indipendenza guarentigiata,
deriva la conseguenza della loro insindacabilità da parte del giudice di
costituzionalità; essi, infatti, non possono essere oggetto del
controllo di costituzionalità e neppure parametro nel giudizio di
legittimità costituzionale ex art. 134, comma primo, Cost.[64]
Oltre
che dalle varie forme di autonomia parlamentare, il libero ed incondizionato
esercizio delle funzioni parlamentari trova un’insurrogabile forma di
garanzia nelle immunità parlamentari previste dall’art. 68 Cost.;
si tratta di speciali prerogative personali che, in quanto poste a tutela non
dei singoli parlamentari ma della funzione e del ruolo da questi ultimi
ricoperti, sono irrinunciabili ed indisponibili. Esse si compendiano in due
distinte forme di garanzia; la prima che prende il nome di irresponsabilità
(ovvero insindacabilità) comporta l’esenzione da ogni forma di
responsabilità giuridica (civile, amministrativa, penale) per le
opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio della funzione
parlamentare; la seconda immunità, invece, mira a garantire la
inviolabilità della persona (cd. immunità dagli arresti) e delle
altre libertà costituzionali (di domicilio, comunicazione e
corrispondenza) del parlamentare attraverso la previsione del necessario
pronunciamento autorizzatorio del provvedimento limitativo della libertà
del parlamentare da parte della Camera di appartenenza (cd. autorizzazione agli
arresti).
Dalla
natura sostanziale della insindacabilità e meramente processuale della
inviolabilità deriva anche il carattere assoluto della prima e relativo
della seconda; solo la insindacabilità, infatti, permane oltre la
scadenza del mandato parlamentare mentre la inviolabilità cessa con il
cessare dell’esercizio delle funzioni parlamentari.
Storicamente
dette prerogative sono state conquistate per affermare la piena libertà
dei membri del parlamento rispetto a persecuzioni, interferenze, abusi ed altre
forme di condizionamento poste in essere da altri poteri (segnatamente il
governo e la corona); al momento attuale esse hanno assunto un significato
più comprensivo, provvedendo a tutelare le istituzioni rappresentative
anche da ingerenze provenienti da altri poteri costituzionali (segnatamente il
potere giudiziario) ed integrando per tale via, come è stato osservato,
quel sistema di checks and balances che connota tutta l’esperienza
del costituzionalismo contemporaneo[65].
Giova
in proposito ricordare come il sistema delle immunità parlamentari sia
al centro, da quasi un ventennio (quanto meno a partire dalla vicenda di
Tangentopoli), di un intenso ed aspro contenzioso istituzionale tra potere
politico-parlamentare e magistratura il quale ha sovente richiesto
l’intervento della Corte costituzionale[66].
Il
principio di non interferenza ma anche di uguaglianza nell’accesso e
nello svolgimento al mandato parlamentare è, in misura non trascurabile,
assicurato dall’indennità che spetta ai parlamentari e che viene
stabilita dalla legge (cfr. art. 69 Cost.); essa vale a segnare una netta
discontinuità rispetto ai principi censitari e classisti che connotavano
la rappresentanza parlamentare sotto il regime statutario (cfr. art. 50 dello
statuto albertino) che negava ogni sorta di retribuzione ed indennità ai
parlamentari.
Sotto
altro ma connesso profilo l’autonomia e le garanzia di libertà del
singolo parlamentare viene dalla Costituzione assicurata anche nei confronti
del gruppo parlamentare di appartenenza, dell’elettorato e dei partiti
politici per tramite del divieto di mandato imperativo previsto dall’art.
67 Cost. il quale sancendo che «ogni membro del parlamento rappresenta la
nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» codifica un
principio classico della rappresentanza politica in virtù del quale il
singolo parlamentare eletto, appunto, deve farsi carico di rappresentare gli
interessi generali della nazione non già (solo) di quelli particolari
dei propri elettori e del proprio collegio di provenienza[67].
Al di
là delle degenerazioni che la prassi parlamentare ha conosciuto, ed
ancora oggi conosce, giova ricordare come l’istituto del divieto del
mandato imperativo nasce dall’esigenza di garantire la rappresentanza
nazionale anche tramite il superamento dei «vincoli particolari in
funzione dell’unità politica»[68];
l’inesistenza di vincoli di mandato, del resto, è insita
«nella stessa natura dell’istituzione parlamentare la quale si
fonda sul valore centrale della discussione per raggiungere soluzioni conformi
all’interesse generale»[69].
Il
complesso sistema di autonomia delle camere si completa con il riconoscimento a
ciascuna di esse del potere di giudicare i titoli di ammissione dei propri
componenti ovvero circa l’esistenza di cause di ineleggibilità ed
incompatibilità (cfr. art. 66 Cost.)[70].
Il
fine comune ed ultimo delle prerogative e delle diverse specie di autonomia di
cui godono le istituzioni parlamentari va individuato, dunque, nella esigenza
di protezione dai condizionamenti e dalle ingerenze, in ipotesi, provenienti
non solo dagli altri organi costituzionali ma anche dai partiti politici e
dallo stesso corpo elettorale.
Tra i
principi informatori delle istituzioni parlamentari non può essere
tralasciato quello di pubblicità e trasparenza delle loro
attività.
La
vita del parlamentarismo contemporaneo, infatti, risulta sorretta ed alimentata
proprio dagli insurrogabili momenti di pubblico confronto e discussione tra le
diverse forze politiche rappresentate che preludono al momento deliberativo;
tutto ciò verrebbe del tutto oscurato dalla mancanza di procedure
pubbliche e trasparenti.
A
dimostrazione di ciò l’art. 64, secondo comma, Cost. prevede che,
in via generale, le sedute delle Camere siano pubbliche mentre un complesso
sistema di pubblicità, sia in assemblea sia in commissione, assicura la
conoscibilità all’esterno di larga parte
dell’attività parlamentare[71].
Ragioni
essenziali di confronto dialettico e di apertura del processo democratico
impongono, infatti, la piena pubblicità nell’esercizio delle
diverse funzioni parlamentari; ciò al fine di assicurare non solo il
pieno dispiegamento delle dinamiche conoscitive e comunicative tra i rappresentati
ed i rappresentanti ma anche al fine di un corretto funzionamento del circuito
sovranità popolare-indirizzo politico- responsabilità politica
che è tratto costitutivo di tutte le moderne ed avanzate democrazie
competitive.
Per
quanto riguarda le regole di funzionamento trova applicazione il principio
maggioritario; in assemblea ed in commissione vengono assunte le deliberazioni
che riscuotono maggioranza semplice dei consensi, fatta eccezione per i casi
espressamente previsti nella Costituzione nelle quali trovano applicazione la
regola della maggioranza assoluta ovvero di più elevate maggioranze
qualificate.
Improcrastinabili
esigenze di maggiore funzionalità e trasparenza dei lavori parlamentari
hanno condotto al superamento del voto segreto; si deve, più in
dettaglio, alla riforma regolamentare del 1988 la generalizzazione del voto
palese nelle deliberazioni parlamentari e l’introduzione di misure
anti-ostruzionistiche sul contingentamento dei tempi degli interventi e sulla
votazione degli emendamenti[72].
Sotto
il profilo organizzativo va precisato che ciascuna camera è un organo
complesso il quale conosce un’articolata strutturazione in diversi organi
interni, titolari di funzioni e competenze previste e disciplinate in dettaglio
nei rispettivi regolamenti parlamentari (si tratta del cd policentrismo
parlamentare)[73].
Una
volta rinnovata la loro composizione, le Camere sono chiamate ad eleggere i
rispettivi Presidenti ed uffici di presidenza, secondo procedure elettorali e
quorum, diversamente disciplinati nel regolamento del Senato ed in quello della
Camera dei deputati.
Ai
presidenti di assemblea competono poteri di rappresentanza, di direzione e
coordinamento dei lavori parlamentari dell’aula, di mantenimento
dell’ordine in seno alla stessa nonché di governo delle strutture
e degli apparati di servizio e di funzionamento, secondo quanto previsto nei
regolamenti.
Nell’espletare
una siffatta pluralità di compiti i presidenti delle Camere sono
coadiuvati ed assistiti dall’ufficio di presidenza che risulta composto
dai vicepresidenti, dai parlamentari questori e dai segretari.
Particolarmente
delicato è il ruolo politico ed istituzionale dei presidenti del Senato
e della Camera i quali, proprio in ragione dell’alto rango istituzionale
rivestito, si vedono dalla Costituzione attribuiti rispettivamente il compito
di supplenza del Presidente della Repubblica in caso di impedimento di
quest’ultimo e di Presidenza del parlamento in seduta comune;
l’art. 88, primo comma, Cost. prevede, peraltro, che gli stessi siano
obbligatoriamente consultati in caso di scioglimento delle Camere[74].
Talune
leggi statali, poi, hanno assegnato ai Presidenti della Camere delicati compiti
di nomina di componenti di talune Autorità amministrative indipendenti.
Immediatamente
dopo l’insediamento delle Camere ciascun membro ha l’obbligo di
indicare il gruppo parlamentare al quale lo stesso intende aderire; i
regolamenti parlamentari, infatti, prevedono la necessaria appartenenza dei
parlamentari ad un gruppo, quale naturale risvolto del fatto che in tutte le
democrazie pluraliste i protagonisti della scena politica sono proprio i
partiti politici. Il gruppo misto è destinato a raccogliere quei parlamentari
che vengono espulsi dal gruppo di appartenenza, che se ne distaccano, che non
intendono aderire a nessuno dei gruppi esistenti ovvero che non sono
numericamente sufficienti a dar vita ad un gruppo autonomo.
I
gruppi parlamentari sono, dunque, le proiezioni dei partiti politici
all’interno delle assemblee parlamentari, ai quali restano legati da
vincoli ideali ed organizzativi pur essendo dagli stessi formalmente autonomi,
e contribuiscono sia alla strutturazione degli organi interni delle assemblee sia
all’ordinato svolgimento della programmazione dei lavori parlamentari;
spetta ai gruppi parlamentari, infatti, la designazione dei propri
rappresentanti in seno alle commissioni permanenti ed agli altri organi interni
delle assemblee.
Il
compito della programmazione e scansione dei lavori parlamentari è
affidato alla conferenza dei capigruppo, organo composto dai presidenti dei
gruppi parlamentari, presieduto dal presidente dell’assemblea, al quale
partecipa anche un componente del governo con il compito di rappresentare le
esigenze e le istanze governative di più diretta incidenza nella sfera
parlamentare[75].
L’attività
parlamentare si svolge, tuttavia, non solo nell’assemblea ma forse
soprattutto nelle commissioni parlamentari le quali sono articolazioni interne
delle Camere, distinte in base a criteri di competenza materiale, composte in
base all’art. 72, terzo comma, Cost. in modo da rispettare la proporzione
dei gruppi parlamentari[76].
Le
commissioni parlamentari permanenti rappresentano il vero centro propulsore
delle Camere, larga parte dell’attività parlamentare muovendo
proprio da esse i primi passi; grazie ad esse viene assicurata, infatti, non
solo la continuità della funzione parlamentare e la sua maggiore
aderenza ai tempi della politica ma anche quella specializzazione del lavoro
parlamentare richiesta dalla complessità delle moderne società di
massa; la divisione del lavoro parlamentare secondo commissioni distinte per
materia, infatti, è una delle caratteristiche peculiari del
parlamentarismo del XX secolo che vale a distinguerlo dall’esperienza
invalsa nei parlamenti feudali e moderni la quale, viceversa, si risolveva
essenzialmente nell’attività di assemblea.
Il
lavoro parlamentare riguardante sia la funzione legislativa sia
l’attività di indirizzo e controllo si divide, con modalità
e procedure differenti, tra commissione ed assemblea; in particolare il ruolo
delle commissioni parlamentari nell’ambito dell’attività
legislativa può essere diversa (referente, redigente o deliberante) a
seconda del tipo di procedimento legislativo che si intende seguire, potendo
esso essere di tipo meramente istruttorio ovvero di tipo deliberativo (come nel
procedimento legislativo decentrato) nel quale l’iter legis inizia
e si conclude in seno alla commissione parlamentare con totale esclusione
dell’assemblea[77].
Quest’ultimo procedimento, in particolare, pur animato da apprezzabili intenti di maggiore funzionalità ed efficienza, mette a dura prova il principio democratico rappresentativo che dovrebbe invariabilmente connotare il concreto esercizio della funzione legislativa; l’art. 72 Cost., invero, circonda di particolari cautele costituzionali detto procedimento legislativo decentrato; vi sono, infatti, casi nei quali non è possibile ricorrere ad esso (sono i casi di cd riserva di assemblea) e su iniziativa delle minoranze parlamentari ovvero del Governo esso è reversibile (cd remissione in aula del progetto) nel procedimento ordinario.
Vi
sono, poi, altri organi interni di natura permanente denominati giunte parlamentari
le quali sono titolari di compiti di natura tecnica e non politica; ciò
spiega il motivo per cui esse risultano composte su indicazione non già
dei gruppi parlamentari ma dietro designazione del Presidente
dell’assemblea; seppure con qualche differenza di denominazione e di
disciplina tra i due rami del parlamento le giunte parlamentari (due al Senato
e tre alla Camera) si occupano delle questioni interpretative e delle proposte
di modifica dei regolamenti parlamentari (giunta per il regolamento), delle
deliberazioni riguardanti le immunità parlamentari (giunta per le
autorizzazioni) nonché dei titoli di ammissione dei parlamentari, della
eventuale esistenza di cause di ineleggibilità e/o
incompatibilità nonché della regolarità delle operazioni
elettorali (giunta delle elezioni).
Accanto
alle commissioni parlamentari permanenti si pongono quelle temporanee,
monocamerali o bicamerali, istituite, a seconda dei casi, con delibere
parlamentari o con atti legislativi per l’assolvimento di specifici compiti
in genere attinenti alla sfera del controllo e dell’indirizzo politico
(esempi sono rappresentati dal comitato parlamentare per la sicurezza della
Repubblica[78]
e sicurezza, dalla commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi
radiotelevisivi).
L’art.
82 Cost. consente, poi, l’istituzione di commissioni di inchiesta (mono o
bicamerali) per disporre inchieste di pubblico interesse; la loro istituzione
viene, in genere, richiesta in occasione di vicende di particolare rilevanza
politica nazionale in relazione alle quali si ritiene necessario, al di
là ed oltre l’accertamento giurisdizionale delle
responsabilità individuali, procedere all’eventuale acclaramento
di responsabilità politiche (per es. commissioni antimafia, sulla loggia
massonica P2, sul rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, sulla strage di
Ustica e, più di recente, sui casi Ilaria Alpi, Telekom Serbia, Mitrokin
etc.).
L’esperienza
più recente dimostra un uso anomalo delle commissioni di inchiesta il
quale da penetrante strumento di ispezione e controllo a disposizione del
parlamento si è spesso trasformato in strumento di lotta politica.
Va da
sé che la concreta composizione ed il funzionamento delle assemblee
parlamentari risulta massimamente condizionato dalle connotazioni, più o
meno pluralistiche, del sistema partitico il quale a sua volta è, in
larghissima misura, condizionato dal sistema elettorale.
La
Costituzione del 1948 affida al legislatore la scelta del sistema elettorale
per la periodica rinnovazione della rappresentanza parlamentare; ciò ha
consentito che nella storia repubblicana si avvicendassero tre diversi tipi di
regime elettorale: dal 1948 al 1992 un sistema proporzionale con collegio
plurinominale; dal 1994 al 2001 un sistema elettorale a turno unico e di tipo misto,
prevalentemente maggioritario (con attribuzione di tre quarti dei seggi con
criterio maggioritario ed il restante quarto con criteri proporzionali);
più di recente nelle elezioni politiche del 2006 e del 2008 è
stato sperimentato un sistema elettorale proporzionale (introdotto dalla legge
n. 270/2005) a turno unico con voto di lista bloccato, con clausole di
sbarramento e premi di maggioranza differenziati per la ripartizione dei seggi
tra le liste e le coalizioni di partito a livello nazionale (per la camera dei
deputati) ed a livello regionale (per il Senato).
Al di
là delle specificità dei singoli sistemi elettorali è dato
registrare, a partire dall’introduzione della legge maggioritaria del
1993, una tendenza bipolare nel sistema politico-parlamentare seppure connotato
dalla perdurante mancanza di coesione ed omogeneità nelle diverse
coalizioni di maggioranza che si sono alternate alla guida del paese
nonché da uno spiccato tasso di conflittualità politica che ha
spesso impedito l’assunzione di scelte condivise e bipartisan.
Risalente
ed assai diversificata è la letteratura sorta intorno alla
individuazione delle funzioni del parlamento; a partire dalla riflessione di
Walter Bagehot sono state enucleate le seguenti cinque funzioni parlamentari:
di investitura del premier, rappresentativa, pedagogica, informativa e
legislativa.
Pur
non mancando altre e diverse classificazioni funzionali[79],
nella dottrina italiana tre sono tradizionalmente le funzioni principali
assegnate al parlamento: quella legislativa, di controllo e di indirizzo
politico.
Controverso
resta l’inquadramento della funzione rappresentativa la quale, avendo
accompagnato e contrassegnato la nascita delle istituzioni parlamentari
più antiche, in alcune ricostruzioni finisce per essere annoverata come
funzione autonoma, in altre come presupposto comune a tutte le singole funzioni
parlamentari.
L’affidamento
delle tre funzioni alle Camere risponde in maniera coerente alla logica che
anima la forma di governo parlamentare la quale connota quei regimi
costituzionali nei quali le assemblee rappresentative sono al centro del
sistema istituzionale e dove, pertanto, il principio della separazione dei
poteri trova applicazioni meno rigide rispetto a quelle accolte nei sistemi
presidenziali, nei quali la distinzione, anche dal punto di vista della
legittimazione politica, tra l’organo titolare della funzione legislativa
e quello titolare del potere esecutivo è assai più netta.
La
titolarità parlamentare della funzione legislativa storicamente trova
spiegazione nella circostanza che nei sistemi democratico-parlamentari la
produzione normativa è, in via generale e prevalente, riservata agli
organi della rappresentanza. L’art. 70 Cost., infatti, attribuisce alle
Camere l’esercizio della funzione legislativa, salvo i casi espressamente
previsti dalla stessa Costituzione, nei quali il potere di normazione primario,
al ricorrere di precisi presupposti, viene riconosciuto (anche) al Governo
(artt. 76 e 77 Cost.).
A
fronte del dato costituzionale (originario) occorre, tuttavia, registrare
talune importanti trasformazioni (alcune in via di mera prassi, altre in
seguito a precise riforme costituzionali e legislative) nel sistema di
produzione normativa che hanno progressivamente eroso il monopolio legislativo
del parlamento.
Nel
corso della vicenda repubblicana le Camere hanno assistito (ed in taluni casi
concorso) alla dislocazione del potere normativo in capo ad altri soggetti
istituzionali sia sopranazionali sia subnazionali.
In
primo luogo il sempre più pervasivo processo di integrazione comunitaria
ha comportato lo spostamento delle scelte normative in ampi settori
dell’ordinamento a favore delle istituzioni comunitarie; in secondo luogo
l’accentuata farraginosità e lentezza del procedimento legislativo
ha comportato una valorizzazione e talvolta un abuso dei poteri normativi del
governo (prima mediante il ricorso alla decretazione d’urgenza, poi,
mediante il massiccio ricorso a procedimenti di delegazione legislativa per la riforma
di interi settori dell’ordinamento[80]
e, più di recente, anche mediante l’uso di ordinanze governative
di necessità ed urgenza); in terzo luogo il ricorso a politiche di
delegificazione ha comportato il naturale restringimento dell’area di
intervento della legge parlamentare a favore di interventi normativi secondari
del governo ma anche di altri soggetti titolari di potestà normativa
(tra tutti, in particolare, le autorità amministrative indipendenti[81]);
in quarto luogo va ricordato come, soprattutto in una certa fase storica
collocabile nei primi anni novanta, uno spiccato attivismo referendario ha
finito per affidare numerose scelte politico-legislative al di fuori delle sedi
parlamentari[82].
Da
ultimo, ma non certo per ultimo, la riforma del Titolo V della Costituzione
ridisegnando i rapporti tra Stato-Regioni ed autonomie locali ha segnato il
definitivo tramonto (di quello che restava) del primato legislativo del
parlamento riconoscendo, in particolare, in virtù dell’inversione
del criterio di riparto delle competenze legislative operato dal vigente art.
117 Cost., alle regioni la potestà legislativa generale e residuale in
tutti gli ambiti materiali non affidati espressamente alla competenza
legislativa dello Stato[83].
Tale
ultima modifica costituzionale realizzata con la legge costituzionale n. 3 del
2001, seppure significativamente attenuata da una giurisprudenza costituzionale
di segno continuista, è stata di così grande rilievo sistemico da
imporre una riconsiderazione del principio espresso dall’art. 70 Cost.
sulla attribuzione della funzione legislativa allo Stato.
Per
quanto riguarda segnatamente la funzione di indirizzo politico non è
revocabile in dubbio che la Costituzione repubblicana del 1948 con
l’instaurazione della forma di governo parlamentare abbia assegnato al
parlamento (rectius alla maggioranza parlamentare) il compito di
scegliere e decidere della sorte dei governi; l’art. 94 Cost., in
particolare, prevede che «il governo deve avere la fiducia delle
camere».
L’elaborazione
e l’attuazione dell’indirizzo politico, infatti, si situa nel
raccordo parlamento-governo (rectius maggioranza parlamentare-governo)
nell’ambito del quale è il primo ad accordare ed a mantenere al
secondo il proprio sostegno fiduciario.
La
natura parlamentare della forma di governo sta ad indicare che la nascita e la
morte dei governi dipendono rispettivamente dalla costituzione e dalla revoca
del rapporto fiduciario di derivazione parlamentare che si verificano
rispettivamente mediante l’approvazione di mozioni di fiducia[84]
e sfiducia. Soccorrono, poi, una serie di strumenti parlamentari (ordini del
giorno, mozioni, risoluzioni) con i quali la maggioranza parlamentare è
posta nelle condizioni di indirizzare, impegnare e vincolare l’azione di
governo al raggiungimento di determinate finalità politiche e
legislative[85].
La
funzione di controllo politico costituisce un naturale pendant della
funzione di indirizzo; la Costituzione ed i regolamenti parlamentari, infatti,
prevedono una serie di altri strumenti ed atti (interrogazioni, interpellanze,
commissioni di inchiesta, mozione di sfiducia) a disposizione delle Camere per
verificare l’adesione e la conformità dell’azione del
governo alle direttive impartite dal parlamento.
Non
prive di ambiguità sono le definizioni della funzione (e dei correlativi
strumenti parlamentari) di indirizzo e di controllo tanto che spesso queste
vengono incluse in un’unica funzione denominata, appunto, di
indirizzo-controllo[86];
a rendere difficile la distinzione contribuisce la contiguità e
complementarietà concettuale dei due termini (non vi è controllo
senza un previo indirizzo così non vi è vero indirizzo senza un
successivo controllo) ma anche il fatto le procedure parlamentari consentono
l’uso polivalente di una medesima procedura parlamentare.
Ancor
più in generale va detto come lo stesso esercizio della funzione
legislativa possa assolvere (ed in molti casi assolve di fatto[87])
ad una funzione di indirizzo e controllo parlamentare. Dalla irriducibile
politicità che pervade il funzionamento e le scelte operative delle
assemblee parlamentari deriva quella che è stata definita la polivalenza
ovvero la multifunzionalità dei procedimenti funzioni
parlamentari[88].
Sfuggono
alla precedente classificazione funzionale, infine, le funzioni elettive ed
accusatorie, previste dagli artt. 83, 90, 93, 104 e 135 Cost., affidate, come
già illustrato, al parlamento in seduta comune.
Per
completezza va aggiunto come siano state individuate anche altre funzioni
distinte dalla tripartizione suindicata; merita, in particolare, di essere
menzionata la funzione di garanzia di democraticità del sistema
«non essendo neppure concepibile e mai essendosi data l’esperienza
di un regime che osservi certe libertà senza una sede o direttamente
popolare od eletta di esercizio delle funzioni legislative»[89].
La
crisi della democrazia parlamentare, a ben vedere, ha radici assai profonde che
trascendono largamente i confini nazionali; le difficoltà e le
incertezze che invariabilmente caratterizzano le democrazie contemporanee
finiscono, del resto, per riflettersi immediatamente sulle sedi parlamentari,
proprio in ragione della loro funzione rappresentativa, più che sugli
altri organi costituzionali.
La
crisi della sovranità degli stati-nazione, della stessa funzione
regolativa del diritto e, per alcuni versi, della stessa idea di democrazia e
della politica[91],
accentuati ed aggravati dai processi di deterritorializzazione e
globalizzazione[92],
non potevano, infatti, non ripercuotersi sulle istituzioni parlamentari[93].
La
nota dominante nelle diverse democrazie rappresentative europee pare essere
l’indebolimento delle assemblee parlamentari e ciò con riferimento
sia all’esercizio della funzione legislativa sia ai poteri di controllo
dell’esecutivo; da qui i paventati rischi di quella «funesta
combinazione di dittatura della elezione e apatia degli elettori» in
virtù della quale «l’esecutivo si sottrae al popolo e ai
suoi rappresentanti eletti e il popolo perde l’interesse per entrambi,
deputati e governanti»[94].
La
crescente complessità delle democrazie avanzate, infatti, trova sempre
meno risposte esaurienti e soluzioni efficaci nelle istituzioni parlamentari e
ciò sia per i criteri tutti politici con cui risultano formate, sia per
la macchinosità e lentezza delle loro procedure di funzionamento. Del
resto l’arretramento della politica ed il processo di neutralizzazione
mai, come nel momento attuale, si sono manifestati così nitidamente.
Inevitabile, allora, domandarsi se la natura democratica degli ordinamenti
contemporanei è ancora garantita o meno dalla presenza di istituzioni
parlamentari; benché i teorici della democrazia non mettano apertamente
in discussione il ruolo del parlamento, resta il fatto che il declino dei
parlamenti è aspetto centrale e ricorrente della più generale
crisi della democrazia.
Anche
nell’Italia repubblicana le istituzioni parlamentari, più degli
altri poteri dello stato, sono state interessate dalle ragioni di crisi,
più o meno congiunturali, che hanno attraversato la democrazia italiana
secondo un intricato processo di causa-effetto.
Il
parlamento repubblicano, infatti, ha risentito di diversi motivi di crisi,
alcuni dei quali endogeni al sistema costituzionale italiano, altri derivanti
da più generali processi storici in atto[95].
In
oltre sessanta anni di storia repubblicana, notevole è stata la
trasformazione delle singole funzioni così come del più
complessivo ruolo esercitato dalle istituzioni parlamentari, facendo
registrare, sotto diversi profili, un sensibile discostamento dal modello
costituzionale ed un’evidente perdita di centralità.
Più
in dettaglio le trasformazioni che il parlamento italiano ha subito hanno
riguardato sia la funzione di indirizzo politico e di preposizione governativa
sia l’esercizio della funzione legislativa, intrecciandosi spesso con i
mutamenti che hanno investito due fattori che, in ogni ordinamento democratico,
condizionano massimamente le vicende e le dinamiche della rappresentanza
politica: il sistema elettorale ed i mutamenti dell’assetto partitico.
Sarà
bene soffermarsi, seppure brevemente, sulle trasformazioni che hanno
interessato tanto la forma di governo parlamentare quanto l’esercizio
della funzione legislativa.
In
ordine al primo aspetto, come precedentemente ricordato, l’istituzione
parlamentare ha vissuto momenti di incontrastato protagonismo nella scena
istituzionale nel corso delle prime legislature della Repubblica, quando forte
ed incontrastata era la centralità parlamentare; l’ambito
parlamentare ha rappresentato, infatti, il luogo di reciproco riconoscimento ed
incontro di forze politiche caratterizzate da forti contrapposizioni ideologiche
alle quali faceva sfondo la divisione degli stati in blocchi antagonisti
imposta dalla guerra fredda.
L’accentuato
pluralismo partitico, favorito nei primi quarantacinque anni della Repubblica
dal sistema elettorale proporzionale, ha comportato la creazione di governi di
coalizione, caratterizzati da una forte instabilità governativa e
ministeriale, pur nella continuità delle formule politiche, che ha
caratterizzato larga parte della vita parlamentare nazionale.
Il
passaggio ad un sistema elettorale prevalentemente maggioritario avvenuto in un
momento di particolare delegittimazione della classe politica governante, con
il sostegno decisivo della spinta riformatrice referendaria, ha avuto il merito
di assecondare una trasformazione in senso bipolare del sistema politico e di
sbloccare il sistema democratico, inaugurando l’alternanza di coalizioni
contrapposte al governo del paese.
Il
cambiamento di formula elettorale, tuttavia, non pare aver inciso sulla
caratterizzazione spiccatamente pluripartitica del sistema politico e sulla
perdurante difficile governabilità del sistema; in altri termini il
passaggio ad una democrazia maggioritaria non pare aver inciso
significativamente sulla efficienza, stabilità e coerenza
dell’azione di governo e delle scelte legislative.
Il
ritorno ad un sistema elettorale di tipo proporzionale pur non avendo, sino al
momento attuale, rimesso in discussione l’assetto bipolare del sistema
politico-istituzionale, ha dato luogo nella XV legislatura ad una coalizione di
governo assai debole e scarsamente coesa che ha portato allo scioglimento
anticipato della legislatura; ancor più di recente la XVI legislatura
risulta contrassegnata da divisioni all’interno della coalizione
parlamentare di maggioranza che compromettono la efficacia e stabilità
dell’azione di governo.
Per
restare al tema della forma di governo, nelle ultime quattro legislature, come
tendenza di lungo periodo, va rilevato il progressivo spostamento di
centralità istituzionale dal parlamento al governo anche grazie alla
precostituzione di coalizioni elettorali la cui leadership è destinata a
diventare automaticamente premiership; se alla precostituzione delle
maggioranze parlamentari e del premier si aggiunge la spiccata
personalizzazione[96]
(la quale, spesso, scade in spettacolarizzazione) della vita politica
nazionale, risulta evidente come la crisi costitutiva dei meccanismi di
funzionamento della forma di governo parlamentare ha finito per assestare un
duro colpo al complessivo ruolo del parlamento nel sistema costituzionale.
In
ordine, poi, all’esercizio della funzione legislativa la moltiplicazione
e pluralizzazione dei centri di produzione normativa, in sede nazionale e
sovranazionale, ha progressivamente contribuito alla erosione del potere
decisionale delle assemblee parlamentari le quali hanno assistito alla
progressiva perdita di centralità nei processi di produzione ed
attuazione normativa.
La
perdita di qualità della produzione legislativa, l’ipertrofia del
complessivo sistema normativo, più in generale, la cd crisi della legge,
chiaramente correlata al predetto cattivo funzionamento della forma di governo,
ha comportato un duplice risvolto negativo per la credibilità e
funzionalità delle sedi parlamentari: da un lato l’aggravarsi di
una crisi di legittimazione e dall’altro l’individuazione di rimedi
ed accorgimenti normativi di diversa ispirazione (delegificazione,
deregolazione, implementazione dei poteri normativi del governo, delle
autonomie territoriali e delle autorità amministrative indipendenti,
negoziazione legislativa) i quali hanno progressivamente situato il parlamento
in una condizione di marginalità se non di vero e proprio oscuramento
istituzionale[97].
Lo
scarso rendimento qualitativo delle principali funzioni parlamentari,
unitamente alle difficoltà di riforma del sistema politico, rischiano di
compromettere la legittimità stessa delle dinamiche della rappresentanza
politica e di alimentare tentazioni populistiche ed antipolitiche che, da
sempre, accompagnano la democrazia rappresentativa.
Del
resto, la diffusa e cronica difficoltà di accesso ai diversi livelli
delle istituzioni rappresentative da parte delle nuove generazioni
(specialmente di sesso femminile) sono la dimostrazione eloquente delle
disfunzioni dei meccanismi della rappresentanza e della disaffezione delle
giovani generazioni verso forme di partecipazione democraticamente attive.
La
sempre maggiore frantumazione e pluralizzazione della società richiede
luoghi di unificazione politica nei quali le specificità degli interessi
sezionali vengano messe da parte se richiesto dalla ricostruzione e cura degli
interessi generali e di più ampio respiro.
A ben
vedere, del resto, proprio l’accentuarsi di un pluralismo disarticolato e
per certi versi esasperato, frutto della dissoluzione dei tradizionali legami
collettivi e delle grandi organizzazioni di massa (non solo partitiche)
nonché delle dinamiche produttive, economiche e sociali, sempre
più mutevoli e competitive, impone inedite sfide alle istituzioni
parlamentari.
La
necessità di selezione, mediazione e coordinamento a fini generali delle
numerosissime e spesso ingovernabili istanze pluralistiche ripropongono,
infatti, con rinnovato vigore, la centralità delle istituzioni
parlamentari come luogo non solo di consolidamento della coesione sociale e
nazionale ma anche di decisione e riforma del sistema; ed allora torna utile
interrogarsi sulla crisi della rappresentanza ma vista dalla prospettiva, se
non inedita certamente meno esplorata, della crisi del rappresentato:
«proprio questa crisi, tuttavia, rafforza - paradossalmente – la
necessità della rappresentanza, poiché, nello sfaldamento del
rappresentato, la sede parlamentare diventa il luogo in cui si tenta, in
qualche modo, di ridurre ad unità i dispersi brandelli di un pluralismo
troppo disarticolato»[98].
Il
rafforzamento delle istanze e dei congegni della rappresentanza parlamentare
(sia nella investitura sia nel controllo dell’attività di governo)
resta soluzione obbligata per evitare una degenerazione oligarchica delle
dinamiche pluraliste e per mantenere il processo politico sempre aperto e
capace di rinnovarsi; da qui l’invocata «centralità della
rappresentanza delle Assemblee elettive […] come momento essenziale
dell’integrazione democratica del pluralismo»[99].
Ne consegue, dunque, la necessità di una nuova centralità
parlamentare quale luogo di regolazione e di sintesi del pluralismo
istituzionale e sociale che connota i processi di governance nelle
democrazie attuali[100];
come è stato bene osservato, infatti, «il parlamento si colloca
dunque all’incrocio del sistema processuale delle rappresentanze
politiche territoriali ed organiche. Ma non è solo un attore processuale
di regolazione formale. E lì per difendere i valori costituzionali
sostanziali, gli interessi diffusi non soggettivizzati, la cultura nazionale
sia contro i processi di omogeneizzazione internazionalistica sia contro i
processi di degenerazione localistica»[101].
Un
rinnovato processo di rilegittimazione e di rilancio anche funzionale delle
istituzioni parlamentari passa, di certo, attraverso talune mirate e puntuali
modifiche costituzionali, legislative e regolamentari[102]
ma soprattutto attraverso: la modifica della vigente legge elettorale; la
riforma della cultura politica; una maggiore partecipazione politica che
agevoli la profonda riforma dei partiti politici sia al loro interno sia nei
rapporti con la società civile e le istituzioni.
Di
fronte alle sfide poste anche dalle nuove forme di potere economico, culturale
e tecnologico, portato di una società sempre più complessa e globalizzata,
la via parlamentare ai macroprocessi di discussione e decisione politica resta
l’unica soluzione istituzionale democraticamente sostenibile.
* La
presente voce sarà pubblicata nell’opera “Costituzionalismo
e storia” con l’editore Giappichelli, coordinata dai Proff. Carlo
Ghisalberti e Giovanni Bianco.
[1]
Così G. FERRARA, La forma dei Parlamenti, in Storia
d’Italia, Il Parlamento, a cura di L. VIOLANTE, Annali 17,
Torino, 2001, 1166.
[3] Sulla
storia del termine parlamento v. G. RIVOSECCHI, Art. 55, in Commentario
alla Costituzione, a cura di BIFULCO-CELOTTO-OLIVETTI, Torino, 2006, 1100
ss.; A. MARONGIU, voce parlamento
(storia), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 725 ss.
[4] Su
questa ricostruzione storica v. M. COTTA, voce parlamento, in Dizionario
di politica, a cura di BOBBIO-MATTEUCCI-PASQUINO, vol. II, Novara, 2006,
679 ss.; sul ruolo del parlamento nella costruzione dello stato moderno, da ultimo,
v. F. BATTEGAZZORRE, Il parlamento nella formazione del sistema degli stati
europei, Milano, 2007, spec. 11 ss.
[5] Detto
principio, anche definito della tassazione consapevole, in quanto appunto
deliberata ed autorizzata nelle sede parlamentare, rappresenta uno dei
capisaldi attorno i quali verrà configurato (tanto nella rivoluzione
americana quanto in quella francese) il potere impositivo dello stato e che
condurrà alla indipendenza delle colonie americane.
[8] Sulla
rappresentanza politica v. D. NOCILLA - L. CIAURRO, voce Rappresentanza politica, in Enc. dir., XXXVIII, Milano,
1987, 543 ss.
[11] In
proposito resta di grande attualità l’insegnamento di L. ELIA,
voce Governo (forme di), in Enc.
dir., XIX, Milano, 1970, 638; più in generale l’essenziale
funzione di integrazione assicurata dai partiti politici ai cittadini nella
vita dei regimi democratici è stata oggetto delle riflessioni, tra gli
altri, di Kelsen e Leibholz.
[12] Sulla
crisi dei partiti e dello stato di partito v. O. MASSARI, I partiti politici
nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari, 2004; piuttosto che di crisi dei
partiti ritiene che gli stessi abbiano subito una trasformazione avendo finito
di concentrare le proprie energie sul versante elettorale più che su
quello latamente politico A. MASTROPAOLO, Crisi dei partiti o decadimento
della democrazia?, in www.costituzionalismo.it (23.05.2005).
[13]
Ricchissima e risalente è la letteratura sulla critica al
parlamentarismo, proveniente da posizioni sia di destra sia di sinistra; per
uno sguardo sintetico sull’argomento cfr. S. MASTELLONE, Storia della
democrazia in Europa. Dal XVIII al XX secolo, Torino, 2004, 199 ss. e 226 ss.; tra i pensatori italiani si
distinsero nella polemica contro la democrazia parlamentare Vilfredo Pareto e
Roberto Michels; particolarmente raffinata ed approfondita fu in Germania, tra
gli altri, la critica di Carl Schmitt il quale, in particolare,
concentrò la propria vis polemica non solo sui rischi di
dissoluzione dell’identità ed unità politica dello Stato
indotti dalla democrazia pluralista e parlamentare ma anche sulla progressiva
erosione dei caratteri originari del parlamentarismo (pubblicità, discussione,
rappresentatività); sulle tesi di Schmitt v., più di recente, G.
AZZARITI, Critica della democrazia identitaria, Roma-Bari, 2005, 67 ss.;
sul tema si veda, inoltre, T.E. FROSINI, L’antiparlamentarismo ed i
suoi interpreti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[14] Quanto
il processo di rafforzamento della democrazia degli assetti istituzionali
dell’Unione Europea, anche attraverso il consolidamento di forme e
modalità parlamentari di decisione, sia esigenza dibattuta ed avvertita
è messo in evidenza da P. RIDOLA, La parlamentarizzazione degli
assetti istituzionali dell’Unione Europea fra democrazia rappresentativa
e democrazia partecipativa, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[16]
Sostiene la sostanziale continuità storica nonché una relativa
continuità strutturale e funzionale dell’istituzione parlamentare
italiana dal 1848 ad oggi M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce parlamento (funzioni), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981,
758; ritiene prevalenti gli aspetti di discontinuità del sistema
rappresentativo repubblicano rispetto a quello pre-repubblicano S. LABRIOLA, Introduzione,
Il parlamento Repubblicano (1948-1998), Milano, 1999, spec. 24 ss.
[17] G.
GALASSO, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia
d’Italia, Vol. 14, ed. spec., Torino-Milano, 2005, 545.
[18] Per
una più puntuale ricostruzione storica dei momenti che precedettero la
concessione dello statuto v. P. COLOMBO, Storia costituzionale della
monarchia italiana, Roma–Bari, III ed., 2005, 12 ss.; M. FIORAVANTI, Le
dottrine dello stato e della costituzione, cit., 409.
[19] V. A.
CARACCIOLO, Stato e società civile, Torino, 1960, 100 ss.; G.
GALASSO, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, cit., 546; C.
GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia 1848/1948, Roma-Bari,
1986, 30.
[21]
Così G. MORBIDELLI, Lezioni di diritto pubblico comparato.
Costituzioni e costituzionalismo, Bologna, 2000, 67.
[22] In tal
senso M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce parlamento
(funzioni), in Enc. Dir., XXXI,
Milano, 1981, 759; in maniera assai efficace i vantaggi di un modello
parlamentare, moderato e bilanciato, quale era quello inglese che metteva
d’accordo l’istinto di conservazione della monarchia sabauda con le
aspirazioni liberali e borghesi emergenti, sono stati così sintetizzati:
«era intanto sicuramente monarchico […] aveva senza dubbio
favorito, come volevano i movimenti liberali, l’ampliamento del ruolo del
parlamento, ma senza cedere a tentazioni radicali, senza alcuna inclinazione
verso la sovranità del popolo; e infine […] rappresentava
un’antica e nobile tradizione costituzionale che si era sviluppata senza
particolari scosse o lacerazioni, in sostanza rifuggendo
dall’individuazione di una qualche suprema potestas, e soprattutto di un
qualche potere autenticamente costituente» così M. FIORAVANTI, Le
dottrine dello stato e della costituzione, in AA.VV., Storia dello Stato
italiano, cit., 409.
[23] Vedi
P. COLOMBO, Storia costituzionale della monarchia italiana, Roma-Bari,
III ed., 2005, 14 ss. (spec. 20).
[24] Che la
forma di governo statutaria non fosse né immediatamente né
precisamente parlamentare v. C. GHISALBERTI, Storia costituzionale
d’Italia 1848/1948, cit., 49 ss.
[25] La
citazione è mutuata da E. RAGIONIERI, Dall’Unità ad oggi, in Storia d’Italia,
vol. 11, ed. spec. Torino-Milano, 2005, 1681.
[26] Sul
punto v. G. FERRARA, La costituzione. Dal pensiero politico alla norma
giuridica, Milano, 2006, 186 ss.
[27] Sulla
puntuale ricostruzione storica delle alterne vicende dell’evoluzione
della forma di governo statutaria, v. S. MERLINI, Il governo costituzionale,
in AA.VV., Storia dello Stato italiano, a cura di R. ROMANELLI, Roma,
1995, spec. 23 ss.
[29]
L’evoluzione della forma di governo statutario in senso parlamentare
è stata al centro di un intenso dibattito tra gli studiosi di storia e
delle istituzioni nazionali nell’ambito del quale non sono mancate
opinioni dissonanti o almeno concorrenti come quelle di Maranini ed Orlando che
a proposito del regime statutario hanno, infatti, preferito ragionare
rispettivamente di un regime pseudo-parlamentare e di un parlamentarismo
nascosto; non sono mancati, infatti, governi privi di fiducia delle Camere
(governo Menabrea) ovvero governi di fatto imposti dalla volontà della
Corona, in difetto di ogni preventiva consultazione delle forze politiche
rappresentate in parlamento (governi Sonnino e Pelloux) ovvero ancora sostenuti
dalla corona nonostante la contraria volontà del parlamento; più
di recente richiama le suddette posizioni dottrinali M. PROSPERO, La
Politica moderna, Roma, 2002, 294 ss.; sui limiti strutturali del
parlamentarismo duale che impedì il pieno dispiegamento delle
potenzialità della rappresentanza politica a causa di un contesto
istituzionale limitato ed oppressivo insiste G. FERRARA, La
costituzione, cit., 200 ss., spec. 202; che la natura compiutamente
parlamentare della forma di governo statutaria sia all’origine di un
problema insolubile, da ultimo, è sostenuto da P. COLOMBO, Storia
costituzionale della monarchia italiana, cit., 74.
[30] Sulla
impostazione orlandiana si veda V.E. ORLANDO, Diritto pubblico generale,
Milano, 1940, 345 ss.; più in generale v. M. FIORAVANTI, Le dottrine
dello stato e della costituzione, cit., 440 ss.
[31]
Ripercorre con particolare chiarezza le vicende della crisi dello stato
liberale e del regime parlamentare C. GHISALBERTI, Storia costituzionale
d’Italia 1848/1948, cit., 231 ss.
[34] Con il
discorso del 3 gennaio 1925 Mussolini, di fatto, si assunse provocatoriamente
la responsabilità del delitto Matteotti (che tanto discredito e malumore
aveva gettato contro il regime fascista), preannunciando ritorsioni contro i
parlamentari dell’opposizione che avevano organizzato la rivolta dell’Aventino.
[35] Il
riferimento va, in particolare, alla legge 26 novembre 1925, n. 2029 (con la
quale si realizzò la schedatura
dell’associazionismo politico e sindacale operante nel regno e lo
scioglimento di diverse associazioni) e alle leggi 24 dicembre 1925, n. 2300 e
n. 2263 (per mezzo delle quali fu previsto rispettivamente l’obbligo in
capo a tutti i funzionari pubblici del giuramento di fedeltà al regime
fascista, pena l’allontanamento dal servizio, ed il rafforzamento
istituzionale del Presidente del Consiglio all’interno della compagine
governativa che segnerà la definitiva trasformazione del fascismo in
regime personale); su tali svolgimenti istituzionali v. L. PALADIN, voce Fascismo, in Enc. dir., XVI,
Milano, 1967, 887 ss.
[36] Il riferimento
va alle tesi elaborate da Carlo Costamagna e Sergio Panunzio i quali, a fronte
delle scricchiolanti istituzioni dello stato di diritto di origine liberale
reclamavano la necessità ed urgenza della fondazione di un nuovo Stato
organizzato su nuovi principi fondamentali che coincidevano con quelli del
regime fascista; sul punto v. M. FIORAVANTI, Le dottrine dello stato e della
costituzione, cit., 414-415; G. FERRARI, Corso istituzionale di diritto
pubblico, Milano, 1976, 115.
[37] Cfr.
legge 4 febbraio 1926, n. 237 (istituzione del podestà) ed il citato
r.d.l. 3 settembre 1926, n. 1910.
[38] Su
questi passaggi storici cfr. M. MAZZIOTTI DI CELSO, Storia breve delle
istituzioni italiane dal 1900 al 1994, Padova, 2000, 13 ss.
[39]
Sull’attività della Consulta nazionale v. F. BONINI, La
Consulta e l’Assemblea Costituente, in Storia d’Italia, Il
parlamento, Annali 17, Torino, 2001, 193 ss.
[40] Non
mancano, in effetti, aspetti di continuità e tratti comuni tra
l’istituzione parlamentare repubblicana e quella del periodo statutario;
la struttura bicamerale, ad esempio, rappresenta il più chiaro lascito
del precedente regime statutario.
[42] V. M.
MAZZIOTTI DI CELSO, voce Parlamento
(funzioni), cit., 760; in dottrina si è discusso lungamente se il
parlamento, quale strumento della volontà, popolare, potesse essere
considerato organo del popolo ovvero dello Stato apparato; su tali aspetti v.
MAZZIOTTI DI CELSO, cit., 759 ss.
[43]
Occorre, tuttavia, rilevare che la legge costituzionale n. 3 del 2001 nel
riconfigurare la potestà legislativa statale ed i suoi rapporti con
quella regionale ha segnato un rilevante depotenziamento
dell’affermazione di principio di cui all’art. 70 Cost. in base al
quale la funzione legislativa generale e prevalente sia quella statale; ma su
tali aspetti si rinvia alle considerazioni riportate nel successivo pr. 6.
[44] Che le
Camere costituiscano «il fulcro ed il centro motore della vita dello
Stato» è in particolare, affermato da M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce Parlamento (funzioni), cit., 760.
[45] In
argomento v. S. LABRIOLA, Sviluppo e decadenza della tesi della
centralità del Parlamento: dall’unità nazionale ai governi
Craxi, in AA.VV., Storia d’Italia, Il Parlamento, cit.,
385 ss.
[46] In
argomento v. Corte costituzionale sent. n. 106 del 2002; ma in senso del tutto
analogo si vedano anche le sentt. n. 306/2002 e, più di recente, n.
301/2007.
[48] Che il
sistema consociativo sanzionava «non la supremazia dell’assemblea
ma quella dei gruppi parlamentari» è sostenuto da M. MAZZIOTTI DI
CELSO, Relazione generale, in Annuario 2000. Il parlamento, Atti
del XV Convegno annuale della Associazione Italiana dei costituzionalisti,
Padova, 2001, 111; sulla impronta partitica impressa sin dalla nascita al
sistema costituzionale repubblicano v. P. SCOPPOLA, La repubblica dei
partiti, Bologna, 1997, passim; M. MAZZIOTTI DI CELSO, Storia
breve delle istituzioni italiane dal 1900 al 1994, cit., 22 ss.
[49] Il
P.C.I. è stato per lungo tempo il secondo partito politico italiano ma,
pur avendo partecipato in maniera determinante alla lotta antifascista, prima,
ed alla nascita dell’ordinamento democratico costituzionale, poi, per
ragioni soprattutto di politica internazionale si è visto precluso
l’accesso al governo del Paese prima della sue successive trasformazioni
in P.d.s., prima, e D.s., poi.
[51] Detta
parificazione è stata raggiunta anche sotto il profilo temporale; in
seguito all’approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1963,
infatti, la durata della legislatura risulta fissata in cinque anni per
entrambe le Camere mentre, in precedenza, quella del Senato era fissata in sei
anni.
[52]
E’ stato questo considerato riconoscimento del principio aristocratico,
nel senso più generale dell’espressione, nel senso che meriti
insigni diano diritto, anche senza l’investitura popolare, ad influire
sulla direzione dello stato, così M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce parlamento (funzioni), cit., 762-763.
[53] Una
età più elevata per la maturazione dei requisiti di elettorato
attivo e passivo per l’elezione del Senato è considerata
«espressione di quel principio gerontocratico che è stato in ogni
tempo un correttivo della democrazia» così M. MAZZIOTTI DI CELSO,
voce parlamento (funzioni), cit.,
762.
[54] Tale
previsione, come è stato correttamente osservato, non è idonea ad
attribuire al Senato un carattere di rappresentanza territoriale presupponendo
questa la rappresentanza almeno tendenzialmente paritetica di tutte le regioni;
così M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce parlamento
(funzioni), cit., 763.
[55] Sulla
natura giuridica ed, in particolare, sul fatto che il parlamento in seduta
comune sia organo a se stante e non già una procedura straordinaria di
funzionamento delle due Camere v. M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce parlamento (funzioni), cit., 761 ss.
[59]
L’art. 88, primo comma, Cost. prescrive, infatti, che prima di procedere
allo scioglimento il Presidente della Repubblica consulti i presidenti delle
assemblee; sulla natura giuridica del potere di scioglimento v. M. MAZZIOTTI DI
CELSO - G. SALERNO, Manuale di diritto costituzionale, Padova, II ed.,
2003, 341 ss.; più di recente sul potere di scioglimento v. C. DE
FIORES, Brevi considerazioni sul potere di scioglimento, in www.costituzionalismo.it
.
[60]
L’ordine del giorno Perassi fu presentato ed approvato nella Assemblea
Costituente per sottolineare la necessità che la forma di governo
parlamentare fosse accompagnata «dispositivi costituzionali idonei a
tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad
evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
[62] I
regolamenti della Camera e del Senato registrano numerose e significative
divergenze di disciplina (ad esempio in tema di computo degli astenuti, di
modalità di presentazione della mozione di fiducia e di votazione della
questione di fiducia etc.).
[63] Per un
approfondimento delle problematiche relative alla natura giuridica dei
regolamenti parlamentari ed alla posizione da essi occupata nel sistema delle
fonti del diritto si rinvia a S.M. CICCONETTI, Diritto parlamentare,
Torino, 2005, 4 ss.; F. MODUGNO, Appunti dalle lezioni sulle fonti del diritto,
Torino, 2005, 75 ss.
[64] Sul
punto le critiche osservazioni di M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce il parlamento (funzioni), cit., 765 ss.;
sul tema si veda anche F. MODUGNO, Regolamenti parlamentari e autonomia
della funzione delle Camere, in Scritti in onore di Lorenza
Carlassare: il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Vol.
1, Napoli, 2009, 223 ss.
[65] A.
BARBERA, voce parlamento, cit., 482;
d’altro canto è stato opportunamente rilevato che «il
pericolo di procedimenti persecutori nei confronti dei parlamentari, se ha del
tutto perduto i connotati di un tempo non è forse scomparso presso di
noi ed è suscettibile di riapparire sotto spoglie ben diverse, per
effetto della disintegrazione del potere statale e del rafforzarsi delle faide
politiche e sociali» così M. MAZZIOTTI DI CELSO, cit., 771.
[66] Sul
tema ci si limita a rinviare a F. PREZIOSO, Il difficile equilibrio tra
principio di legittimità e principio di legalità, in AA.VV., La
responsabilità politica nell’era del maggioritario e nella crisi
della statualità, a cura di G. AZZARITI, Torino, 2005, 163 ss.; M.
MIDIRI, Prassi e conflitti in tema di insindacabilità parlamentare,
in Dir. Pubbl., 2003, 605 ss.; A. PACE, Immunità politiche e
principi costituzionali, in Dir. Pubbl., 2003; M. LUCIANI, Giurisdizione
e legittimazione nello Stato costituzionale di diritto (ovvero un aspetto
spesso dimenticato del rapporto tra giurisdizione e democrazia), in Pol
dir., n. 3/1998, 365 ss.
[67] Il
divieto di mandato imperativo è una delle caratteristiche che vale a
distinguere la rappresentanza politica dalle altre forme di rappresentanza
giuridica conosciute dal diritto privato e dal diritto pubblico; che la natura
rappresentativa non stia a significare che il parlamento sia mero strumento
delle volontà popolare è comprovato dal fatto che, in taluni
casi, esso deve determinarsi in senso diverso dalla volontà popolare ove
l’interesse della nazione lo esiga; in questi termini M. MAZZIOTTI DI
CELSO, voce parlamento (funzioni),
cit., 759.
[68] Cfr.
G. ZAGREBELSKY, Introduzione, in
AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della
responsabilità politica, a cura di ZANON e BIONDI, Milano, 2001.
[70] Mentre
in alcuni ordinamenti costituzionali (Belgio, Olanda, Usa) la verifica dei
poteri dei parlamentari avviene, come nel sistema italiano, secondo procedure
riservate alle assemblee parlamentari, in altri essa è affidata, in via
diretta o mediata, ad organi esterni al parlamento (tra gli altri Francia,
Germania, Spagna, Portogallo, Svezia).
[71] Da
alcuni anni, peraltro, anche le camere si sono dotati di siti web (www.camera.it
e www.senato.it)
nei quali sono reperibili resoconti ed atti parlamentari oltre ad una
numerosissima serie di informazioni e dati che riguardano la più
complessiva storia e vita delle assemblee parlamentari.
[72] Sul
punto v. S. CURRERI, Il voto segreto nei rapporti tra maggioranza ed opposizione,
in Il parlamento Repubblicano (1948-1998), cit., 129 ss. (spec. 144
ss.).
[73]
Più in dettaglio sull’organizzazione delle camere v. V. DI CIOLO,
voce parlamento (organizzazione), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 820 ss.
[74] Nel
corso del tempo, peraltro, i Presidenti di assemblea hanno visto
progressivamente mutare il loro ruolo istituzionale che, in linea con
l’evoluzione bipolare dell’assetto politico-parlamentare, ha finito
per mettere in ombra le connotazioni funzionali di tipo arbitrale ed imparziale
per privilegiare quelli di vicinanza politica alla maggioranza parlamentare;
sul tema, più di recente, v. F. BILANCIA, L’imparzialità
perduta (a proposito dei Presidenti di assemblea parlamentare), in Studi
in onore di Gianni Ferrara, I, Torino, 2005, 345 ss.
[75] Giova
ricordare come il programma dei lavori non sia più governato dal
principio unanimistico; in caso di disaccordo all’interno della
conferenza dei capigruppo, seppure con varianti di disciplina tra i due rami
del parlamento, infatti, la programmazione viene predisposta dai presidenti di
assemblea (tenuto conto delle indicazioni dei presidenti di gruppo, delle
priorità del governo nonché delle richieste dei gruppi
parlamentari dissenzienti) e votata a maggioranza; sul punto cfr. S.M.
CICCONETTI, Diritto parlamentare, cit., 107 ss.; S. LABRIOLA, Sviluppo
e decadenza della tesi della centralità del Parlamento:
dall’unità nazionale ai governi Craxi, in AA.VV., Storia
d’Italia, Il Parlamento, cit., 412 ss.
[76] Sulla
formazione ed il rinnovo delle commissioni permanenti cfr. artt. 21-22 R. S. ed
artt. 19-22 R. C.
[77] Tale
procedimento che viene riconosciuto in pochi regimi parlamentari trova il suo
antecedente storico nella Camera dei fasci e delle corporazioni nella quale
appunto era prevista la competenza a legiferare delle commissioni in luogo
dell’assemblea, come ricorda M. MAZZIOTTI DI CELSO, voce parlamento, cit., 758; per un
approfondimento delle diverse fasi e procedure del procedimento legislativo v.
S.M. CICCONETTI, Diritto parlamentare, cit., 124 ss.
[79] Altre
classificazioni funzionali ispirate a diversi criteri sono riportate in N.
LUPO, Le funzioni dei parlamenti contemporanei, tra crisi della funzione
legislativa e multifunzionalità dei procedimenti parlamentari,
Relazione presentata nel corso delle giornate di studio sul tema “Le
funzioni dei parlamenti nazionali e regionali in Italia e Spagna, organizzate
dal Centro di ricerca e formazione sul diritto costituzionale comparato,
tenutesi a Siena il 21 e 22 luglio 2000.
[81] Che la
legge istitutiva delle autorità indipendenti di regolazione sia una
scelta non già di rinuncia alla politica bensì di alta forma di
politica parlamentare in quanto sottrae al mutevole gioco di maggioranze e
minoranze di determinati settori di intervento pubblico è sostenuto da
A. MANZELLA, Il parlamento, Bologna, III ed., 2003, 13.
[83] In
proposito v. N. LUPO, Art. 70, in Commentario alla costituzione,
II, 1345 ss.; M. OLIVETTI, Le funzioni legislative regionali, in La
Repubblica delle autonomie, a cura di GROPPI-OLIVETTI, II ed., 2003, 91.
[84]
Ritiene che la concessione della fiducia parlamentare al governo sia al tempo
stesso atto di indirizzo e controllo mentre la sfiducia sia espressione della
sola funzione di controllo M. MAZZIOTTI DI CELSO, cit., 800-801.
[85] Del
tutto diversa dalle mozioni fiduciarie è la questione di fiducia, la
quale (non prevista dalla costituzione ma disciplinata dai soli regolamenti
parlamentari), viene posta dal Governo su di un provvedimento che viene
ritenuto di decisiva importanza ai fini dell’attuazione del programma
politico (approvato al momento dell’insediamento con l’approvazione
della mozione di fiducia) e, dunque, del permanere del rapporto fiduciario; in
caso di votazione contraria il Governo rassegnerà le proprie dimissioni
dando vita ad una crisi. Si tratta di uno strumento che vale a superare
pratiche ostruzionistiche ma anche a rinsaldare la coesione della maggioranza a
fronte di decisioni parlamentari particolarmente controverse; cfr. artt. 161,
quarto comma, R.S. e art. 116 R.C.
[87] Vi
sono ipotesi classiche e tipiche nelle quali il parlamento con legge assolve ad
una funzione di indirizzo ovvero di controllo sul Governo; si pensi alle leggi
di approvazione del bilancio preventivo e consuntivo, alla legge di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, alla legge di
istituzione di una commissione di inchiesta, alla legge di conversione di un
decreto legge o, ancora, alla legge contenente una delega con oggetto, tempi e
finalità particolarmente stringenti.
[88] Le
definizioni riportate nel testo si devono rispettivamente a A. MANZELLA, La
funzione di controllo, Relazione al Convegno Annuale
dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Firenze, 2000 ed a N.
LUPO, Le funzioni dei parlamenti contemporanei, tra crisi della funzione
legislativa e multifunzionalità dei procedimenti parlamentari, cit.
[90]
«Il parlamento italiano, nella vicenda repubblicana, è stato un
grande fattore di unità nazionale e coesione civile» così
L. VIOLANTE, Il parlamento nell’età della globalizzazione,
in Rass. Par., 2003, 53.
[91] Sulla
crisi della politica, più di recente, v. M. REVELLI, La politica
perduta, Torino, 2003, spec. 93 ss.
[93] M.
LUCIANI, La crisi del diritto nazionale, in Storia d’Italia.
Legge, diritto e giustizia, 30, ed. spec. Milano, 2005, 1005 ss.
[94]
Così R. DAHRENDORF, La società riaperta. Dal crollo del muro
alla guerra in Iraq, Roma-Bari, 2005, 320.
[95]
Paventano la riduzione delle istituzioni parlamentari ad una mera funzione
notarile e simbolica nei rispettivi sistemi politici nazionali A.
MASTROPAOLO-L. VERZICHELLI, Il parlamento. Le assemblee legislative nelle
democrazie contemporanee, Roma-Bari, 2006, VII.
[96] In
argomento v. L. ELIA, La presidenzializzazione della politica, discorso
tenuto in occasione del conferimento della laurea honoris causa in scienze
politiche dalla Università di Torino (29 novembre 2005) in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[97] Che la
funzione legislativa statale debba oggi assumere il ruolo di normazione sulla
normazione, nel senso di sovrintendere all’ordinazione e distribuzione
delle diverse competenze nel sistema delle fonti è sostenuto, più
di recente, da F. MODUGNO, La funzione legislativa, oggi, in AA.VV., La
funzione legislativa, oggi, a cura di M. RUOTOLO, Napoli, 2007, 416 ss.
[98]
Così M. LUCIANI, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla
crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della
rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di ZANON e
BIONDI, cit., 116.
[99]
Così G. FILIPPETTA, Pluralismo e centralità rappresentativa
delle assemblee rappresentative, in Giur. Cost., 2003, 4107 e 4110.