N. 9
– 2010 – Contributi
Buona amministrazione e sussidiarietà
Università
di Sassari
Sommario: 1. Premessa.
– 2. Le diverse declinazioni della
sussidiarietà. – 3. Buona
amministrazione (in senso soggettivo e oggettivo), principio costituzionale di
buon andamento, sussidiarietà. – 4. I
diversi contenuti del diritto alla buona amministrazione. In particolare: il
diritto a una decisione “equa” quale possibile punto di innesto
della (logica della) sussidiarietà sulla buona amministrazione.
– 5. Buona amministrazione e
sussidiarietà: il “diritto” alla corretta allocazione delle
competenze decisionali. – 6. Buona
amministrazione e sussidiarietà: il “diritto” alla corretta
conformazione dei processi decisionali.
Indagare il nesso tra buona amministrazione e
sussidiarietà[1]
è compito – a quanto consta – in gran parte inedito e
rischioso, per una molteplicità di ragioni.
La prima difficoltà, di carattere generale, risiede nella
necessità di dover mettere in relazione una nozione aperta e in costante
evoluzione (la buona amministrazione), una nozione che forse proprio nella sua
indeterminatezza trova il suo punto di forza[2],
e che oscilla tra la sua valenza di principio e la sua declinazione in termini
di diritto (fondamentale), e che ha (o sembra avere) una portata (parzialmente)
diversa in ambito europeo e nell’ordinamento italiano, da un lato, con
altra nozione fluida e indeterminata (la sussidiarietà), una nozione
«che non ha un significato definito, ma è suscettibile di assumere
i più diversi significati nei diversi contesti in cui essa è
chiamata ad operare»[3],
dall’altro; una nozione, quest’ultima, che si è inoltre
affermata nell’ordinamento italiano secondo un percorso inverso rispetto
a quello che ne ha caratterizzato l’affermazione nell’ordinamento
comunitario. Mentre nell’esperienza europea la positivizzazione della
sussidiarietà ha riguardato direttamente le competenze normative e solo
indirettamente pare coinvolgere il livello amministrativo[4],
nell’ordinamento italiano la prospettiva appare rovesciata: espressamente
formulata in riferimento all’amministrazione, essa tende a proiettarsi
anche sull’assetto delle fonti.
Il rischio più immediato, in cui è facile incorrere
- nel tentativo di mettere in relazione due nozioni dal significato così
ampio e sfuggente (alla ricerca, tra le stesse, di momenti di collegamento
dotati di una qualche apprezzabile giuridica rilevanza)- è pertanto
quello di operare una riduzione eccessiva della estensione del significato
delle nozioni stesse. Fondare, in altri termini, la riflessione su
“luoghi comuni”[5]
della materia in esame, impostando così una analisi che avrebbe un
destino logico segnato in partenza proprio dalla eccessiva semplificazione (se
non addirittura “banalizzazione”) dei concetti operata in via
preliminare.
A titolo meramente esemplificativo dei rischi di eccessiva
semplificazione appena menzionati appare utile prendere le mosse da una breve
notazione in tema di sussidiarietà.
Un principio originariamente di natura etico-politica (avente
pertanto una forte carica assiologica), poi oggetto di giuridicizzazione, e
presente dapprima nel diritto tedesco, poi transitato verso il diritto
comunitario e dell’Unione e quindi ripreso da numerosi ordinamenti nazionali,
secondo un fenomeno (che è stato definito) di
“irraggiamento”[6].
Un principio che, per giunta, parrebbe riguardare vicende non agevolmente
comparabili in ambito comunitario e nell’ordinamento interno: mentre in
ambito comunitario il principio di sussidiarietà attiene in primo luogo
alla messa in opera delle competenze europee (e non già alla
ripartizione delle competenze tra livello nazionale e livello comunitario), e
sembra riguardare solo l’attività legislativa della
Comunità e dell’Unione; nel diritto interno (italiano: per lo meno
stando alla lettera del testo costituzionale), invece, esso incide (art. 118,
commi 1 e 4, art. 120 della Costituzione) «sulla dislocazione o
sull’esercizio della funzione amministrativa o comunque sullo svolgimento
di attività di carattere amministrativo»[7].
Mentre è assente ogni menzione espressa del principio stesso nella
disciplina costituzionale dell’attività normativa contemplata
nell’art. 117.
Ma appena si approfondisce l’analisi emerge un gioco di
sottili falsificazioni e vicendevoli avvicinamenti.
Da un lato, sul piano comunitario, emerge «la vocazione del
principio ad affermarsi anche quale principio del diritto amministrativo
(europeo): se si considera che nell’ordinamento comunitario l'attività di preparazione delle leggi è
considerata come sottoposta al diritto amministrativo (basti pensare, ad
esempio, che una parte sostanziale dell'attività delle agenzie
comunitarie ha come conseguenza l'adozione di nuove direttive o regolamenti o
la revisione di quelli esistenti), ecco che l’esigenza di rispetto dei
principi del diritto amministrativo (tra cui quelli di trasparenza, di
partecipazione) non può non applicarsi anche a questa attività
(amministrativa) prelegislativa, così come ad essa si applica il
principio di proporzionalità e di
sussidiarietà»[8].
Dall’altro lato, sul piano
interno, emerge la vocazione del principio ad atteggiarsi anche quale criterio
regolativo della allocazione del potere normativo: criterio che (non si limita
pertanto a porre un vincolo di contenuti alla produzione legislativa, ma) vale
ad individuare anche la fonte (legge statale o regionale) volta per volta
competente ad allocare la funzione amministrativa al livello adeguato. Il principio di sussidiarietà viene così ad
incidere, stando alla ricostruzione offertane dalla giurisprudenza
costituzionale italiana (a partire dalla fondamentale sentenza n. 303/2003),
anche sull’esercizio della funzione legislativa, di modo che il riparto
della funzione legislativa, costruito dal testo costituzionale in modo apparentemente
rigido, acquista un elemento di elasticità.
Ecco, pertanto, che il principio di
sussidiarietà, sul piano comunitario, estende il suo campo
d’azione anche, quanto meno, all’attività amministrativa
“pre-legislativa”; sul piano interno estende la sua
operatività anche – si consenta il gioco di parole – alla
attività legislativa “pre-amministrativa” (ossia di
allocazione e disciplina della funzione amministrativa).
L’obiettivo che mi pongo riguardo al tema in esame (buona
amministrazione e sussidiarietà), è peraltro quello, limitato, di
tentare di intercettare alcuni dei possibili nessi (finora rimasti in ombra)
tra buona amministrazione e sussidiarietà; alcuni momenti di
collegamento astrattamente idonei ad arricchire di contenuti e possibili
sviluppi il “diritto alla buona amministrazione”.
Portare alla luce tali nessi vuol dire anche tratteggiare le
coordinate di un possibile percorso di ricerca, che è in gran parte, ad
oggi, inesplorato.
Condurrò il ragionamento prevalentemente dalla prospettiva
dell’esperienza giuridica italiana, in modo da offrire, seppur da tale
visuale in tesi parziale, alcuni spunti per la riflessione comune.
Nell’esperienza italiana, peraltro, appaiono già poste alcune
delle premesse necessarie per tentare un fecondo innesto della
sussidiarietà sulla buona amministrazione, capace di arricchire di
possibili contenuti (non solo la buona amministrazione in senso oggettivo, ma)
anche il diritto alla buona amministrazione.
Anzi: il tentativo che mi sembra possibile fare è proprio
quello di far leva sullo scarto che esiste tra (contenuti già
riconosciuti del) “principio” di buona amministrazione e
“diritto” alla buona amministrazione; in modo da ritagliare e
travasare alcuni aspetti della buona amministrazione come principio (e in
particolare della buona amministrazione in senso oggettivo) nell’orbita
del diritto alla buona amministrazione.
Una ulteriore notazione di carattere preliminare: farò
riferimento alla c.d. sussidiarietà verticale, non anche alla
sussidiarietà orizzontale. Il ragionamento che farò, peraltro,
è in parte estensibile ed adattabile anche a quest’ultima.
Nel preparare il campo all’innesto della (logica della)
sussidiarietà sul tema della buona amministrazione è bene
prendere le mosse dalla constatazione della distanza (apparentemente
incolmabile) che, prima facie, sembra
sussistere tra le due nozioni.
La buona amministrazione mostra un contenuto eminentemente
“procedurale”, attiene soprattutto al rapporto tra amministrazione
e amministrato nel farsi della decisione.
Essa, soprattutto se considerata “in senso
soggettivo” (quale oggetto del diritto fondamentale), rimanda infatti in
prima battuta a un fascio di pretese (siano esse o meno qualificabili
–nell’ordinamento italiano- in termini di veri e propri diritti
soggettivi in senso tecnico) spendibili innanzitutto nel procedimento (ovvero
relative agli obblighi di giustificazione delle decisioni, assunte
all’esito del procedimento stesso): basti richiamare, nell’ambito
dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali, il diritto
riconosciuto a ogni individuo a che le questioni che lo riguardano siano
trattate in modo equo e imparziale, ed entro un termine ragionevole (c. 1); il
diritto di essere ascoltato prima che venga adottato un provvedimento
individuale che gli rechi pregiudizio; il diritto di accedere al fascicolo che
lo riguarda; il diritto di conoscere i motivi della decisione (c. 2).
In senso comprensivo e riassuntivo il diritto ad una buona
amministrazione, pertanto, sembra avere quale proprio essenziale referente la
correttezza procedurale o, se si preferisce, “comportamentale”
dell’attività amministrativa. Essa sembra cioè codificare
una serie di “diritti di garanzia comportamentale”, soprattutto di
ordine procedurale, per lo più già presenti in ambito comunitario
e nei vari ordinamenti degli Stati membri.
Per quanto attiene all’Italia – che sul piano del
diritto interno già offre da tempo protezione ad analoghe pretese
(peraltro già ritenute veri e propri “diritti” dalla
dottrina fin dalla metà degli anni novanta)[9]
- è utile sottolineare come dopo la Carta di Nizza parte della dottrina
abbia cominciato ad utilizzare la formula del “diritto alla buona
amministrazione” (in parte impropriamente, ma senz’altro in modo
efficace, secondo un fenomeno di irraggiamento culturale) per raccogliere tutte
quelle pretese (di diritto interno) aventi ad oggetto interessi ad un comportamento
procedimentale corretto
dell’amministrazione (ora facendo leva sulla clausola generale di buona
fede, ora sulla teorica dei doveri od obblighi di protezione, e sulla contigua
teorica civilistica del rapporto obbligatorio senza obbligo primario di
prestazione, ovvero prospettando la possibilità di un rapporto
procedimentale complesso, nell’ambito del quale, insieme e a fianco della
coppia potere-interesse legittimo, ospitare anche rapporti di diritto/obbligo,
aventi ad oggetto la pretesa dell’amministrato -parte del rapporto
procedimentale- all’adempimento di obblighi ad oggetto procedimentale da
parte dell’amministrazione, diritti e d obblighi questi di cui si
sottolinea, da parte di alcuni autori, la natura strumentale)[10].
A questo stadio del ragionamento ciò che preme evidenziare
è, però, un aspetto del tutto generale: che il diritto alla buona
amministrazione attiene principalmente alla attività
amministrativa, sia pure colta dal punto di vista del privato che entra in
contatto con l’amministrazione[11].
La sussidiarietà (utilizzando qui la definizione che ne
offre la Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 303/2003, che non impegna
una presa di posizione sul piano dogmatico) è invece, innanzitutto, “criterio di allocazione di funzioni” (al
livello più vicino al cittadino o comunque più adeguato). Attiene
dunque principalmente al profilo della organizzazione
amministrativa.
Sembrerebbe pertanto sussistere una distanza difficilmente
colmabile: sembrerebbero non sussistere influssi diretti tra i due profili e
che, quindi, non vi siano (o non siano positivamente disciplinati) aspetti di
rilevanza giuridica dei momenti di collegamento tra i due concetti.
Si tratta dunque di tentare una operazione concettuale di portata
analoga a quella effettuata con successo dalla dottrina italiana, a partire
dagli anni sessanta del novecento, in relazione ai principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento, che – come è noto – la
disposizione costituzionale, nella sua enunciazione letterale - (art. 97 Cost.,
comma 1: I pubblici uffici sono
organizzati … in modo che siano assicurati il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione) – si
riferisce esclusivamente alla organizzazione
amministrativa, ma che la dottrina ha saputo estendere anche alla
attività amministrativa[12],
sottolineando di questa la «contiguità» o
«continuità» rispetto alla organizzazione e, anzi,
concludendo espressamente che «organizzazione ed attività
sono…due facce della stessa moneta,…due modi di essere…dello
stesso sistema di istituzione e di regolazione di strumenti e di rapporti
idonei a consentire il raggiungimento di determinati fini»[13].
Il richiamo di tale esperienza risulta utile in questa sede per
un altro ordine di ragioni, che passo rapidamente ad esporre.
L’operazione concettuale appena richiamata
rappresentò solo un capitolo di una più generale ri-lettura della
disciplina (e dello statuto) costituzionale dell’amministrazione, nella
direzione del superamento di quella visione autoreferenziale (ed autoritativa)
del fenomeno amministrativo che aveva caratterizzato l’esperienza
precedente e che appariva in qualche modo “cristallizzato” nella
lettera delle poche e scarne norme che la Costituzione italiana dedica
specificamente alla amministrazione pubblica[14].
Il merito della dottrina (costituzionalistica ed
amministrativistica) fu proprio quello di evidenziare, in via preliminare, come
lo statuto costituzionale dell’amministrazione non fosse deducibile solo
dalle (poche) norme ad essa espressamente dedicate, ma dovesse essere ricavato
dall’intera disciplina costituzionale dei compiti assegnati ai pubblici
poteri nonché dai principi fondanti il nostro ordinamento[15].
Sulla base della ispirazione complessiva della carta, pertanto, si posero le
basi per un diverso inquadramento dell’amministrazione, collocata
finalmente in posizione “di servizio” nei confronti del cittadino,
e per la rivisitazione del concetto stesso di interesse pubblico, che fu
finalmente dimensionato in un contesto dominato dalla centralità del
cittadino, rispetto al quale l’amministrazione si trova in posizione di
“missione” e di servente subordinazione. Impostazione, questa, che
è stata poi sviluppata in varie direzioni, recepita ed accolta sul piano
positivo, in modo compiuto soprattutto a partire dalle riforme legislative
degli anni novanta e dopo la riforma costituzionale del titolo V, parte II
della Costituzione, nella quale l’intera architettura istituzionale dei
pubblici poteri è posta in funzione dei diritti, tende – come si
è osservato - «a far combaciare i diritti ai doveri, prima e
seconda parte della Costituzione»[16].
Certo è che, nonostante tutto, come è stato
evidenziato in un recente studio dedicato alla buona amministrazione[17],
con una notazione che mi sento di condividere pienamente, il giurista italiano
– dinanzi all’inserimento tra i diritti fondamentali riconosciuti e
tutelati dall’Unione europea anche di quei diritti che il privato
può vantare nei confronti della pubblica amministrazione e della
relativa azione – resta comunque colpito dalla anteriorità logica
e giuridica così chiaramente riconosciuta all’individuo e ai suoi
diritti rispetto ai pubblici poteri (o se si preferisce: dalla affermazione
inequivocabile della centralità dell’individuo nei confronti della
pubblica amministrazione). Dato questo sufficiente a dimostrare che tracce
della visione tradizionale del fenomeno amministrativo, ancorché da
tempo superata, sia sul piano della ricostruzione teorica sia sul piano della
disciplina giuridica, sono rintracciabili nella precomprensione degli
interpreti, nella giurisprudenza (ad es. in tema di partecipazione e
procedimenti vincolati) sia nella formulazione di varie disposizioni
legislative, ancorché recenti.
La mia opinione sul punto: di tali residui e condizionamenti
è bene essere consapevoli, non però fino al punto di rinnegare il
percorso evolutivo compito, in quanto non è possibile né
auspicabile saltare con un balzo fuori della tradizione in cui si è
collocati.
Ma torniamo al punto lasciato aperto: la sussidiarietà
sembra attinente alla disciplina della organizzazione amministrativa; la buona
amministrazione, invece, all’attività amministrativa, sia pure
colta dalla visuale del privato che entra in rapporto con
l’amministrazione.
Si tratta, dunque, di tentare una operazione concettuale analoga
a quella, più generale, sopra ricordata e di cogliere, pertanto, nella
buona amministrazione e nella sussidiarietà due diversi angoli di
visuale sul fenomeno amministrativo, colto nel suo continuo adeguamento
funzionale rispetto agli scopi assegnati o, se si preferisce, nella sua
missione di servizio rispetto alla garanzia dei diritti fondamentali e sociali
del cittadino, ora posti al centro della scena.
Arricchire la riflessione sulla buona amministrazione con il tema
della sussidiarietà si mostra vieppiù opportuno per una ragione
di fondo: la messa in opera della sussidiarietà dà per
presupposto che il fondamento dell’ordinamento costituzionale sia
rappresentato dai diritti in luogo della sovranità, e che attorno ai
diritti e sulla base di essi si ricostruisca e riorganizzi il modello (flessibile)
dei rapporti tra i diversi livelli istituzionali (e più in generale tra
i pubblici poteri). Anche le esigenze unitarie, motore della
sussidiarietà (in senso ascendente), non possono essere altro che
politiche per i diritti e sui diritti: politiche volte a garantirne ora il livello
essenziale di godimento ora l’uniformità di disciplina dei limiti[18].
Detto in altri termini: il fatto stesso che si tenti di
riallacciare in un campo unitario (alcuni profili della) sussidiarietà e
(del) diritto alla buona amministrazione è prova evidente del
superamento ormai consumato di quella visione autoreferenziale e autoritativa
del fenomeno amministrativo poc’anzi ricordata.
In tale direzione (l’innesto della sussidiarietà sul
tema della buona amministrazione) è bene prendere le mosse facendo leva
su un aspetto, che appare contenuto (o presupposto) nel concetto di buona
amministrazione: l’efficienza.
L’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali non richiama
espressamente questo necessario canone dell’attività
amministrativa; esso, tuttavia , sembra già ricompreso nel concetto di
buona amministrazione, quanto meno ove intesa in senso oggettivo, come
interesse del servizio e comunque come risultato obiettivo cui gli uffici
devono tendere[19].
Il riferimento alla efficienza appare pertinente ed utile in
quanto essa è collocata sul “limitare” tra organizzazione ed
attività[20],
e dunque appare astrattamente idonea a cogliere, all’interno della buona
amministrazione, un possibile nesso con la sussidiarietà.
E’ utile ricordare – seppur incidentalmente- le due
concezioni generali di efficienza ravvisabili (a grandi linee) nella dottrina
italiana: la prima - maggiormente influenzata dalle correnti sociologiche che
considerano l’organizzazione in termini meccanici (teorie tayloristiche)-
definisce l’efficienza come l’insieme di quei principi la cui
applicazione determina un assetto
organizzativo ottimale[21]. La seconda concezione vede
l’efficienza, invece, come regola di commisurazione dei mezzi giuridici
ai fini, e si risolve in un principio di «elasticità e puntualità»
dell’attività amministrativa che trova sviluppo da un lato con
riguardo al contenuto dell’attività (dando vita alla
discrezionalità), dall’altro al suo modo di farsi (dando vita
all’attività di autoorganizzazione)[22].
Questa concezione si ispira espressamente alle teorie della razionalità limitata, che definiscono
l’efficienza come idoneità a
raggiungere il risultato perseguito[23].
L’arricchimento di prospettiva offerto dall’aver
richiamato nell’orbita della buona amministrazione, come concetto, il
canone di efficienza, unita alla circostanza che nella efficienza è
immanente un precetto di razionalità (e doverosa razionalizzazione)
dell’amministrazione (intesa sia come attività sia come
organizzazione) spinge verso l’esame, nell’ambito della disciplina
del diritto alla buona amministrazione, dello specifico riferimento al
principio del trattamento “equo” delle proprie questioni.
E’ questo il punto in cui è possibile – a mio
avviso – tentare l’aggancio con la sussidiarietà.
In primo luogo perché la previsione sul trattamento equo,
prima di essere inserita nella Carta dei diritti, non vantava precedenti
giurisprudenziali né appariva in altri cataloghi di diritti nazionali o
internazionali. Pertanto è proprio su tale previsione che possono maggiormente
nascere e alimentarsi «nuove evoluzioni interpretative del concetto
stesso di buona amministrazione»[24].
Si tende peraltro per lo più a collegare il diritto a un
trattamento equo delle proprie questioni al concetto di fairness (parametro di riferimento indispensabile del rapporto tra
pubblica amministrazione e cittadini), ovvero con il divieto generale, posto
dai Trattati, di operare trattamenti discriminatori, con il principio di
uguaglianza e il dovere di imparzialità, ovvero con i principio di
giustizia, del giusto procedimento, di proporzionalità.
E’ stata suggerita anche una distinzione tra equità proporzionale (nel senso
che la decisione può dirsi equa quando è, per così dire,
“misurata” ossia idonea, necessaria ed adeguata rispetto alle
esigenze di cura dell’interesse pubblico assicurando nel contempo il
minimo sacrificio possibile dell’interesse privato) ed equità procedurale, come
qualità della decisione che si è formata secondo un giusto
procedimento.
A mio avviso è possibile allegare al concetto di decisione
“equa” un significato per alcuni aspetti più ampio (affine,
ma non coincidente, con il diritto alla ragionevolezza della procedura di cui
parla più in generale Rosario Ferrara)[25],
un significato che sia idoneo ad essere ricollegato alla sussidiarietà,
sulla base dell’ovvia considerazione che l’amministrazione, come
soggetto produttore di decisioni nell’interesse (non proprio, ma) del
pubblico, è tenuta, in tesi, a comportarsi e decidere in modo
(tendenzialmente) “razionale” (ovviamente: una razionalità
non assoluta, ma limitata, esigibile, “umana”).
Riferimenti parziali a tale profilo sono presenti – e non
può che essere così- in tutte le definizioni già ricordate
di decisione “equa”. Laddove, ad esempio, si fa riferimento al
trattamento equo come trattamento attento e obiettivo del caso, ovvero laddove
ci si riferisce all’obbligo di presa in considerazione di tutti i fatti e
gli interessi rilevanti per la decisione o, se si preferisce, all’obbligo
di adeguata preparazione e valutazione del materiale di ponderazione[26],
ovvero laddove si fa reagire l’equità con la
proporzionalità o, più in generale, si tenta di isolare una
razionalità sostanziale della
decisione (una decisione “buona” perché corretta nella
sostanza) da una razionalità procedurale
della decisione (una decisione “buona” perché assunta
all’esito di un percorso decisionale razionale, ma soprattutto, si
sottolinea, in collegamento con il principio di giustizia e
proporzionalità, attento a non arrecare un sacrificio non necessario
all’amministrato).
Può essere utile anche richiamare la Costituzione
Finlandese[27],
che conosce fin dal 1995 il diritto a una buona amministrazione e mostra grandi
affinità (nella sezione 21) in alcune sue parti, con l’art. 41
della Carta dei diritti: in essa si fa menzione al diritto a ricevere una
decisione “ragionata”.
Lo spunto sulla base del quale intendo proseguire il ragionamento
è il seguente: se il diritto a una decisione equa può
ricomprendere (per lo meno alcuni aspetti de) la pretesa ad una decisione
amministrativa tendenzialmente razionale, è forse possibile isolare due
possibili punti di innesto della sussidiarietà sulla buona amministrazione,
sottolineando:
a) che la decisione dell’amministrazione può
assumersi come razionale, in primo luogo, se è assunta da chi è legittimato a decidere;
b) e, in secondo luogo, se è adottata secondo una
procedura “razionale” perché adeguata rispetto ai termini
del problema amministrativo da risolvere, ai risultati da conseguire, ai
bisogni da soddisfare.
Dal primo punto di vista sembra intercettata maggiormente la
prima delle due concezioni di efficienza poc’anzi richiamate, quella che
mira a un assetto organizzativo ottimale; dal secondo punto di vista sembra
entrare più chiaramente in gioco, invece, la concezione (di stampo
simoniano) della efficienza quale idoneità al risultato.
Riguardo al primo dei due profili (di innesto della
sussidiarietà sulla buona amministrazione, intesa questa come possibile
pretesa ad una decisione “equa” in quanto razionale) è
possibile rilevare che:
si viene a toccare il problema classico della legittimazione del
potere. “Razionale” è la decisione adottata da chi è legittimato a decidere. Se
la sussidiarietà è criterio di allocazione di poteri decisionali,
essa intercetta il problema della legittimazione del potere: “equa”
in quanto razionale, nell’ottica della sussidiarietà, sarà
la decisione (allocata e dunque) adottata al livello più vicino al
cittadino (ovvero più adeguato: sussidiarietà ascendente, per
esigenze di esercizio unitario, etc.).
Emergono così in filigrana i tratti di una pretesa a una
decisione razionale (equa), a una decisione che sia assunta dal livello di
governo legittimato a decidere perché più adeguato (rispetto al
risultato). Si vede, peraltro, che l’innesto della sussidiarietà
sulla buona amministrazione fa acquistare nuova luce anche al problema classico
della legittimazione del potere: l’assetto organizzativo ottimale
è configurato in modo sensibile rispetto ai bisogni da soddisfare, la
legittimazione è derivata rispetto ai diritti, servente rispetto ai
risultati da conseguire per la persona. Iniziano così a chiarirsi i
contorni di una pretesa (generalizzata?) ad una distribuzione adeguata delle
funzioni, che si appunta e individualizza in capo a soggetti determinati nel
momento in cui i poteri sono esercitati in direzione di alcuni soggetti. Da
tale prospettiva emerge che l’innesto della sussidiarietà sul tema
della buona amministrazione può portare un ampliamento (o un chiarimento
dell’ambito) del diritto a una buona amministrazione.
Si pone uno spinoso problema, al quale in questa sede è
possibile solo accennare: il problema della
“giustiziabilità” di
tale diritto.
Il problema della individuazione costituzionalmente corretta del
livello funzionalmente adeguato, come è noto, è stato finora
affrontato dalla prospettiva della sussidiarietà (verticale), e dunque
maggiormente nell’ottica dei rapporti tra i soggetti pubblici titolari
delle competenze sussidiarie, sussidiate o da sussidiare[28].
Ed è noto che «il maggior problema cui la
positivizzazione del principio di sussidiarietà dà vita è,
forse, proprio quello della giustiziabilità», in relazione al
quale la strada da battere – come si è proposto anche in Italia
facendo tesoro della esperienza maturata in ambito comunitario – è
quella di prevedere che l’atto normativo sia adottato sulla base di una
congrua istruttoria e che le risultanze di questa debbano risultare dalla
motivazione dell’atto.
Ebbene: se inquadrato dalla prospettiva del diritto a una buona amministrazione il problema della
giustiziabilità si arricchisce di ulteriori aspetti:
a) se si prende in considerazione tale diritto quale pretesa
generalizzata ad una corretta ed adeguata distribuzione di funzioni, sembra
porsi un insuperabile problema di legittimazione;
b) se, invece, si fa riferimento ad una pretesa che si radica ed
individualizza in capo al soggetto che entra in contatto con
l’amministrazione nel rapporto amministrativo, il problema della tutela
del diritto ad una buona amministrazione, per questo aspetto, confluisce nel
più generale problema della giustiziabilità della
sussidiarietà, sopra evocato. Ne risulta peraltro ulteriormente
complicato, perché al privato sembrerebbe restare la sola
possibilità della eccezione di costituzionalità della legge,
sulla cui base l’amministrazione si dispone a decidere (ovvero decide)
«una questione che lo riguarda» in violazione del suo diritto a una
decisione “equa”.
La sussidiarietà è congegno dinamico, destinato ad
assumere contenuti volta per volta diversi: si fa qui riferimento, peraltro,
alla dinamica del processo (normativo) di allocazione/distribuzione di funzioni
(dei poteri di decisione: faccio riferimento a questi poteri perché la
buona amministrazione questi prende in considerazione): processo destinato a
decidere chi (quale decisore)
è legittimato a decidere. E’ un processo dinamico che si conclude
in assetti distributivi statici, di competenze e poteri in capo a decisori.
Ma è nel momento dell’esercizio di tali poteri
(delle competenze in atto, dei poteri in azione) che il diritto alla buona
amministrazione - grazie
all’innesto della sussidiarietà, affiancata ad altri criteri che
ne contengano o riequilibrino la logica ad un tempo centrifuga e centripeta di
cui essa è intrisa[29]-
acquista ulteriori contenuti: diritto a (una decisione “equa”
perché) adottata secondo una procedura razionale; una procedura
efficiente in senso simoniano (idonea al conseguimento del risultato per cui la
procedura stessa è messa in opera). Entra qui in gioco l’esigenza
di razionalità del processo decisionale: il problema del come si decide (del come decide in
concreto chi è chiamato a decidere una volta che sia stato valutato
dall’ordinamento, in astratto, un adeguato decisore rispetto a
predeterminate categorie di problemi). In tale prospettiva: diritto a un processo
decisionale funzionale, utile, corretto; perché e in quanto orientato
razionalmente alla decisione (sostanzialmente) corretta.
Il diritto alla buona amministrazione può arricchirsi, da tale prospettiva, di
ulteriori contenuti: emergono così i tratti di una pretesa alla
razionalità (strumentale) della procedura rispetto ai problemi da
risolvere e ai risultati da conseguire, che si alimenta di nuovi contenuti
anche grazie alle polarità proprie della sussidiarietà
(coordinamento-autonomia; integrazione-differenziazione). Si intercetta
così il problema della adeguatezza della disciplina giuridica della
procedura decisionale. In particolare: della attività amministrativa
(procedimentale o operazionale) di determinazione dell’interesse pubblico
concreto.
Detto in altri termini: risolto a monte (e a livello normativo)
il problema del chi decide, si pone,
nel momento dell’uso del potere, di articolare e ritagliare, anche in
concreto, le modalità di esercizio dello stesso in modo che esso (non
sia mera declinazione asettica e asfittica di comandi legali, ma) sia adeguato
a fronteggiare e risolvere la situazione problematica, il caso concreto.
Si apre qui un problema di grande portata, che non può
essere affrontato in questa sede.
Credo sia tuttavia utile avanzare alcune notazioni di massima,
utili a tracciare alcuni possibili percorsi evolutivi.
Mi limiterò, pertanto, a:
-a) dedicare una breve considerazione critica sul concetto di
“amministrazione”, tutto sommato riduttivo, che sembra presupposto
nella nozione di buona amministrazione;
-b) richiamare alcuni recenti approfondimenti offerti dalla
dottrina italiana, utili –a mio avviso- sia ad estendere il concetto sub
a) sia a fornire spunti alla riflessione comune;
-c) lumeggiare, su tali basi, un possibile arricchimento di
significato del diritto alla buona amministrazione.
L’idea di “amministrazione” presupposta nella
formula del diritto a una buona amministrazione è una nozione, tutto
sommato riduttiva, in via di superamento: una idea di amministrazione che non
corrisponde alla realtà (per lo meno alla realtà italiana e
dell’Unione); una idea in cui si raffigura un cittadino che entra in
relazione, per risolvere un problema amministrativo (art. 41; “una
questione”) che lo riguarda, con una sola amministrazione, titolare di un
potere decisionale, nell’ambito di un singolo procedimento
amministrativo.
Il rapporto amministrativo è disegnato, in modo del tutto
tradizionale, come una partita a due tra il cittadino e (una) pubblica
amministrazione.
Sappiamo tutti trattarsi di una ipotesi del tutto residuale, sia
a livello comunitario[30]
sia a livello interno[31]:
nella realtà complessa contemporanea è necessario, di regola, che
una pluralità di poteri, competenze, procedimenti venga attivata ai fini
della soluzione di un unico problema amministrativo (con problemi di competenze
frazionate, anche se relative alla stessa materia, ovvero di competenze
interferenti, concorrenti, intrecciate, sovrapposte). Tale situazione non
può essere liquidata come vicenda patologica, da correggere solo sul
piano normativo, alla ricerca di un assetto perfettamente razionale delle
competenze.
La verità è che «in una società
complessa e in un’organizzazione dei pubblici poteri…
necessariamente articolata su diversi livelli di governo, non è
proponibile un modello di amministrazione imperniata per ambiti di competenze
riservate, e tendenzialmente separate». Questo è un modello
irrazionale, che stride con i principi di buona amministrazione e di buon
andamento.
E’ necessario pertanto perseguire obiettivi di integrazione
e coordinamento dell’amministrazione, coinvolgendo tutti i soggetti
titolari di responsabilità e compiti (ancorché formalmente
separati) nel processo unitario di soddisfazione delle attese dei cittadini. Si
delinea una tendenza, pertanto, più che all’attribuzione in via
esclusiva di compiti, «alla concorrenza di poteri e all’intreccio
di funzioni, ossia al coinvolgimento di più amministrazioni in procedure
complesse, funzionali al conseguimento di risultati unitari»[32].
Una tendenza insita nello stessa sussidiarietà che, non a caso, entra in
gioco dinanzi ad esigenze di “esercizio unitario” (ma aggiungerei
anche contestuale e congiunto) delle funzioni amministrative.
E’ utile portare un esempio: si faccia il caso di un
privato che ha interesse a risolvere un problema di vita quotidiana (aprire una
nuova finestra del suo edifico, costruire una casa), ma che veda la soluzione
del suo problema condizionata dal rilascio di più provvedimenti
amministrativi, di diversa natura e livello, spettanti ad amministrazioni
diverse, in ragione del fatto che il bene da trasformare o costruire è
inserito in un’area sottoposta a una pluralità di vincoli e piani
(urbanistici, paesistici, storico-artistici, naturalistici, idrogeologici
etc.). Ebbene: se si ritiene che non sia ravvisabile una pretesa,
giuridicamente tutelata, ad una procedura (complessa ma) razionale, e dunque ad
una procedura unitaria o quanto meno coordinata; se, in definitiva, riduciamo
il diritto alla buona amministrazione a mero contenitore di pretese spendibili
nei singoli procedimenti (essere sentito in ciascun procedimento, poter
accedere agli atti di ciascun procedimento, etc.) si dovrebbe accettare la
seguente, paradossale, conclusione: il cittadino - pur costretto a rivolgersi a
dieci autorità diverse, a partecipare a dieci procedimenti diversi, ad
attendere dieci provvedimenti diversi, che si rivelino, alla fine, del tutto
contraddittori e, pertanto, inutili nella sostanza perché non coordinati
l’uno con l’altro- non avrebbe di che dolersi[33].
Anzi, il suo diritto ad una buona amministrazione dovrebbe ritenersi
«dieci volte soddisfatto»!
Ciò in quanto tale diritto non sembra contemplare,
attualmente, la pretesa ad una conformazione razionale della intera procedura
decisionale (dell’operazione amministrativa complessa) «che lo
riguarda».
E’ tuttavia a mio avviso possibile ed utile offrire alla
buona amministrazione un aspetto che, pur guardando direttamente
all’aspetto procedurale del rapporto amministrativo, sia tuttavia
sensibile all’aspetto sostanziale della decisione da assumere, al
risultato giuridico dell’assetto di interessi cui la decisione in
formazione tende.
Diritto a una procedura “equa” in quanto razionale,
in tale prospettiva, è da intendersi come diritto a una procedura che
possa ritenersi razionalmente orientata ad una decisione corretta, in quanto
idonea al conseguimento del risultato giuridico (assetto di interessi)
perseguito. Verso un diritto a una amministrazione che mette in opera processi
decisionali complessi (ma) idonei a dare risposte corrette in quanto razionali:
una amministrazione che si rende capace di decidere bene nella sostanza.
In tale direzione utili spunti costruttivi sono offerti dalla
teoria dell’operazione amministrativa[34].
[1]
Relazione tenuta al Convegno su “La
buona amministrazione tra affermazioni di principio e diritti fondamentali” (Gubbio, 19 e 20 ottobre 2007) organizzato dalla Università
degli studi di Perugia e dalla Scuola Eugubina di Pubblica Amministrazione.
[4] Ziller, La sussidiarietà
come principio del diritto amministrativo europeo, in Riv. it. dir.
pubbl. com., 2006, 285 ss.
[7] Cerulli Irelli,
Sussidiarietà (dir. amm.), in Enciclopedia Giuridica
Treccani, agg. XII, Roma, 2004.
[9] Cfr. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo,
Torino, 2005; Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi
e sindacato di legittimità, Milano, 1987 (7); Id., Situazioni giuridiche soggettive
(dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, vol. II dell'aggiornamento, 1998, 966
ss. (8); Zito, Le pretese partecipative del
privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996.
[10] Cfr. Antonelli, Contatto e rapporto nell’agire amministrativo, Padova, 2007
(10); Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere
amministrativo, Torino, 2008.
[11] Ha
osservato Rosario Ferrara (R. Ferrara, L’interesse
pubblico alla buona amministrazione: tra forma e sostanza, in Dir. e
proc. amm., 2010, fasc. 1), peraltro, che la “regola di buona
amministrazione” è qualcosa di più e di diverso rispetto al
tradizionale ruolo di principio attinente al procedimento: essa sarebbe,
infatti, un «valore immanente a tutta l’attività amministrativa,
e anzi all’organizzazione e all’attività amministrativa in
senso stretto, risultando comunque consustanziale all’ordinamento
particolare della pubblica amministrazione di tutti gli Stati europei, ed anzi
vera e propria norma dell’ordinamento generale».
[12] Berti, La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova, 1969; Allegretti, L'imparzialità amministrativa,
Cedam, Padova, 1965; Nigro, Studi
sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione,
Milano, 1966.
[14] Marrama R., I principi regolatori della funzione di organizzazione pubblica, in AA.VV. (a cura di Mazzarolli, L. - Pericu,
G. - Romano, A. - Roversi Monaco, F.A. - Scoca, F.G.), “Diritto
Amministrativo”, Bologna 1998.
[16]
Così Berti, Sussidiarietà
e organizzazione dinamica, in Jus, 2004, 171 ss. Cfr.
altresì Scoca, Condizioni
e limiti alla funzione legislativa nella disciplina della pubblica
amministrazione, Annuario
2004 - Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano,
2005 (18); Sala, Sui caratteri dell’amministrazione
comunale e provinciale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2004, 11 ss.
[17] Zito, Il “diritto ad una buona amministrazione” nella carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’ordinamento interno,
in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2002, 425 ss.
[18] Pioggia, I principi come limite
dell'organizzazione degli enti locali, Relazione al convegno di Copanello
(30 giugno-1 luglio 2006) su Principi generali del diritto amministrativo e
autonomie territoriali (21); Carloni, Lo stato differenziato.
Contributo allo studio dei principi di uniformità e differenziazione,
Torino, 2004.
[19] Trimarchi Banfi, Il diritto ad una buona amministrazione, in Trattato di diritto
amministrativo europeo, Parte generale, Tomo I, diretto da Chiti e Greco,
Milano, 2007, 49 ss.
[24] Galetta, Il
diritto ad una buona amministrazione europea come fonte di essenziali garanzie
procedimentali nei confronti della pubblica amministrazione, in
Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005, 819 ss.
[26] Una
accezione “procedurale” del principio di equità è
accolta in Serio, Il principio di buona
amministrazione procedurale, Napoli, 2008.
[27] Il
modello costituzionale finlandese conosce già da tempo il c.d.
«diritto ad una buona amministrazione». Ci si riferisce alla “nuova”
Costituzione di tale Paese, in vigore dal marzo 2000, ma che riproduce in tema
le previsioni già introdotte nel 1995 nella precedente versione del
testo costituzionale. Sono rilevabili grandi affinità, in talune parti,
con il predetto art. 41 della Carta europea. Nel capo dedicato ai diritti
fondamentali, la sezione 21 della Carta fondamentale finlandese così
dispone: «Section 21 - Protection under the law. Everyone
has the right to have his or her case dealt with appropriately and without
undue delay by a legally competent court of law or other authority, as well as
to have a decision pertaining to his or her rights or obligations reviewed by a
court of law or other independent organ for the administration of justice.
Provisions concerning the publicity of proceedings, the right to be heard, the
right to receive a reasoned decision
and the right of appeal, as well as the other guarantees of a fair trial and good
governance shall be laid down by an Act» (trad. Inglese).
[28] Tale
rilievo mostra, peraltro, come la prospettiva in esame sia suscettibile di
sviluppi anche nella prospettiva della sussidiarietà orizzontale.
[30] Torchia, Il governo delle differenze. Il
principio di equivalenza nell'ordinamento europeo, Bologna, 2006.
[31] Comporti, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie,
Milano, 1996; D’Orsogna, Conferenza di servizi e amministrazione
della complessità, Torino, 2002.
[32] Sala, Sui caratteri dell’amministrazione
comunale e provinciale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2004, 11 ss.
[33]
L’esempio è nel testo riferito, per comodità espositiva, a
rapporti di diritto interno, non ricompresi, a rigore, nell’ambito di
diretta operatività del principio comunitario di buona amministrazione.
Lo spunto è tuttavia applicabile anche a tale ambito: cfr. in tal senso
le considerazioni di Alessandra Serio (Serio,
Il principio di buona amministrazione procedurale, Napoli, 2008, 201
ss.), la quale, dopo aver ricordato come in seguito al progressivo
trasferimento di funzioni dagli ordinamenti nazionali a quello europeo sia
stata superata la tradizionale distinzione tra amministrazione diretta ed
indiretta e si sia determinata una notevole complessità tra i diversi
livelli di governo, con la previsione, sempre più frequente, di funzioni
condivise tra Stati membri e comunità, da un lato evidenzia come il
principio di buona amministrazione (come altri principi) abbia seguito il cambiamento
che ha interessato le funzioni, ampliando il suo ambito di applicazione dai
tradizionali settori in cui è nato e si è sviluppato
(concorrenza, aiuti di Stato e antidumping)
ad altre materie, dall’altro sottolinea come «con l’esercizio
congiunto di funzioni, il principio di buona amministrazione abbia in alcuni
casi continuato ad essere considerato come sinonimo del dovere di diligenza, in
altri abbia invece conservato la connotazione procedurale ma abbia sviluppato
un diverso ed ulteriore significato». Nei casi in cui i procedimenti
comunitari presentano il profilo della “composizione” (cfr. della Cananea, I procedimenti amministrativi composti dell’Unione europea,
in Il procedimento amministrativo europeo, Quaderno n. 1, Rivista trimestrale
di diritto pubblico, a cura di Bignami e Cassese, 2004, 307 ss.) «…il principio di buona
amministrazione riveste…una nuova dimensione, rappresentando il
criterio-guida nelle relazioni…tra l’amministrazione europea e le
autorità nazionali, da una parte, e i privati, dall’altra».
Questi soggetti «non sono più solo legati da interessi oppositivi
e pretensivi, ma da profili collaborativi e cooperativi, di cui lo scambio
necessario di informazioni che deve correre tra questi soggetti costituisce un
elemento caratterizzante della stessa funzione» (204, 205). Si consideri,
inoltre, riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 41 della
Carta europea dei Diritti fondamentali, «che l’art.41 si applica
sicuramente agli ambiti di esecuzione diretta, ma anche di esecuzione indiretta
del diritto comunitario, in quanto l’affermazione contraria ingegnerebbe
evidenti possibili discriminazioni e applicazioni differenti da Stato membro a
stato membro. Ma è possibile prevedere anche l’applicazione del
diritto alla buona amministrazione nelle ipotesi di esercizio congiunto delle
funzioni comunitarie, in cui i poteri pubblici comunitari e nazionali
concorrono allo svolgimento dell’attività attraverso un
procedimento sottoposto alla medesima minima disciplina. Il diritto alla buona
amministrazione può così essere anche interpretato come uno standard minimo da rispettare tanto
nell’amministrazione sopranazionale, quanto in quella nazionale di
esecuzione di quella sopranazionale, quanto in quella mista. L’effetto,
indiretto, di ciò, non può che essere una convergenza anche tra i
diritti amministrativi nazionali» (150, 151).