N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università di Trieste
L’evoluzione e la cosiddetta
“consolidazione” del diritto imperiale romano da parte
della giurisprudenza: brevi osservazioni
Sunto: Parte
della dottrina pensa che i giuristi di epoca tardo-classica si siano rivolti ad
un lavoro di generalizzazione o “massimazione” delle decisioni
imperiali, con lo scopo di farne una normazione di tipo legislativo, o comunque
autoritativa; e che tale loro lavoro fosse diretto a trasformare una decisione,
presa in caso di singola controversia, in un principio generale.
Di contro noi crediamo, sulla
base dell’esame delle fonti, che i giuristi citassero ed
inserissero i provvedimenti del principe all’interno delle loro
decisioni, trattandole spesso alla stregua di exempla, e con le stesse modalità con cui si servivano dei
responsi di altri giuristi; inoltre sottolineiamo quell’importante
fenomeno di dialettica che, secondo noi, caratterizzò i rapporti tra
giurisprudenza e legislazione imperiale.
La
scienza del diritto, che elabora e rielabora i dati attraverso un proprio
linguaggio, una propria interpretazione e propri schemi, ricercando
l’unità nel molteplice, rimane ancora oggi creativa e vitale a
fianco dei legislatori e dei giudici, in quanto riporta e ricerca la tradizione
come memoria del proprio passato, come ricostruzione di una civiltà
giuridica trascorsa, ma sempre ancor viva, da cui potere trarre gli strumenti
fondamentali per ricostruire l’evoluzione del diritto vigente. Per i
giuristi è ed è sempre stato dunque fondamentale saper cogliere
l’evoluzione del diritto vigente in tutta la sua complessità.
Sappiamo
che sia i giuristi che il legislatore devono tener conto delle regole preesistenti
e interpretarle onde inserire nuovi modelli; ma, mentre il legislatore non deve
giustificare la soluzione che addotta (se non a livello politico), il giurista
deve argomentere, ossia in un certo senso giustificare la propria scelta,
cercando quasi il consenso della società, perché solo in tale
modo egli si garantisce che venga accolta la propria opinione e la propria
soluzione.
Noi
siamo a conoscenza che già Pomponio nel II sec. d.C. a Roma aveva
cercato di tracciare (come è testimoniato a D.1.2.2) una sintesi della scientia iuris in una visione analoga a quella indicata fino a noi
per la nostra epoca, sottolineando che l’origine e lo sviluppo del
diritto risiedeva dapprima nella interpretatio
del Pontefici[1],
poi dei giuristi laici, da cui si era originato e integrato il diritto civile sine scripto[2];
ma possiamo affermare che la giurisprudenza era creativa: cioè i
giuristi mantenevano una interpretazione evolutiva, anche in presenza di una
legge scritta quale era la
codificazione delle XII Tavole[3].
La giurisprudenza diventava scientia
iuris quando ai dati raccolti aggiungeva qualcosa di proprio[4],
anche se ciò consisteva solo in un’attività ordinatrice
condotta attraverso categorie astratte, ma pur sempre creativa perché provvista di una adeguata
logica intrinseca; e in tal modo faceva progredire il diritto, anzi ricercava
il miglior diritto in assoluto, con un continuo recupero di tradizione e
innovazione. I Pontefici si erano
basati essenzialmente sulle fattispecie che dovevano esaminare, e, attraverso
un processo induttivo erano arrivati ad emanare dei responsi, che erano validi
per i casi singoli, ma nel contempo erano modelli esemplari per il futuro.
Così i singoli responsi venivano a creare un patrimonio di esperienze
passate, si può dire di “precedenti”, a cui ci si riferiva
nel confrontare e risolvere nuovi casi, magari evidenziando diversità ed
analogie. Ma non solo; come avevano fatto i Pontefici, che si erano i volti ad
analizzare anche il testo delle XII Tavole, per giungere a soluzioni del tutto
innovative, più tardi
altrettanto fecero i giuristi laici: ammettere allo studio del diritto uomini
nuovi ed interessati alla scienza giuridica aveva comportato un maggior impulso delle
norme giuridiche, che ora venivano plasmate secondo le esigenze della vita
sociale e politica.
Comunque,
continua Pomponio, si ritiene che non si possa parlare di una vera e propria
scienza del diritto prima di Quinto Mucio (II sec. a.C.), il quale viene
ricordato da Pomponio come colui[5]
che ius civile primus constituit
generatim, come colui che per primo aveva individuato, nell’ambito
del materiale giuridico, dei genera,
pur restando egli sempre ancorato alla tradizione e non privilegiando un
sistema basato solo su categorie logiche. Quindi si può aggiungere che
il senso della tradizione e il metodo casistico caratterizzavano altrettanto
l’attività della giurisprudenza preclassica e classica, che vanno
dal II sec.a.C. a tutto il III sec. d.C., in quanto gli stessi giuristi romani
dell’epoca sentivano che il diritto non si doveva desumere dalla norma,
ma proprio dal diritto esistente
(cfr. a tale proposito Paolo a D.50.17.1)[6].
Durante
alcune mie ricerche, esaminando vari passi del Digesto, mi sono resa conto che
la giurisprudenza romana, anche se talvolta all’apparenza in modo meno
rigoroso, ma sempre aderente alla realtà, era attenta al caso concreto,
esaminandone i tratti basilari per trarre, in via del tutto argomentativa, le
conseguenze più idonee.
Da notare, per inciso, che di contro pare
diverso il metodo usato presso la odierna scienza giuridica, in quanto questa,
almeno all’inizio, trae i propri presupposti dalla legge a cui rapporta i
casi concreti. Ma questa diversità iniziale di metodo si mitiga spesso in
quanto nei sistemi giuridici moderni europei o di tipo europeo, nonostante
esistano principi e concetti imposti autoritativamente dal legislatore, la
scienza giuridica finisce poi per
riappropropiarsi anche del caso e del suo contesto.
Tornando
ancora al mondo romano, sappiamo che dopo l’avvento del principato la
giurisprudenza ha ancora una posizione autonoma e svolge con persistenza una
funzione di guida[7];
la novità istituzionale non recide subito lo sviluppo dello ius
controversum in quanto si deve
riconoscere che la giurisprudenza, nonostante i cambiamenti verificatisi,
mantiene con tenacia i suoi metodi, il suo prestigio e la funzione specifica di
orientare con i propri pareri (spesso non uniformi) la iurisdictio e i
processi. Il lavoro dei giuristi (con i loro esiti normativi) ruota sempre
intorno ai casi; e le singole rispettive soluzioni sono concepite come
precedenti che si accolgono e si criticano, da cui ci si può pure
discostare. Più di una sistematica capacità astratta, la
giurisprudenza ha e mostra ancora la capacità, anche se in
contraddizione con schemi già posti, di scoprire nelle cose e nella loro
dinamica interna il concetto di aequitas[8] ; e ciò continua a costituire
la scienza dei giuristi e la base della loro creatività: ciascuna scelta
ed opinione poteva discostarsi dalle altre perché adempiva ad esigenze
razionali[9],
e il diritto non era inteso come modello concluso di principi statuiti, ma come
attività aperta, come tecnica per risolvere i problemi. Quindi ancora
per il I e II sec. d.C.[10]
si può parlare di un’attività autonoma dei giuristi, in
quanto la legislazione[11]
imperiale non ha ancora esteso il suo dominio su tutti i rapporti.
Nel
III sec. invece la figura dell’imperatore comincia a dominare
incontrastata[12]
in ogni campo e meno può scaturire da altre fonti giuridiche, quali la
giurisprudenza, che non ha più la spinta ad andare oltre un orizzonte in
parte consolidato.
Verso
la fine del III sec. d.C. a Roma cambia l’assetto
politico-costituzionale, e inizia con Diocleziano il dominato, cioè una
struttura più autocratica, dove non si può certamente ritrovare
la stessa libera attività creativa dei giuristi, che ora non possono
sempre valersi della autorevolezza e della bontà delle proprie opinioni,
volte alla ricerca del bonum et aequum.
Il nuovo regime si arroga la produzione di diritto nuovo attraverso leggi con
cui il monarca intende governare quel vasto impero. In tale clima di decadenza
culturale e di autocrazia si nota il passaggio ad un ordinamento di tipo legale
e poi codicistico, che ha inciso sulla scienza giuridica dell’epoca. Ed è
per questo forse che, dopo quattro secoli di attività creativa della
giurisprudenza, non possiamo più identificare singole figure di
giuristi, di cui restino testimonianze originali, anche se si riconosce che i
giuristi severiani e postseveriani scrissero con intensità e costanza
per almeno ancora un secolo.
Il
giurista ora più raramente fornisce nuove regole (pur se derivate da una
base essenzialmente consuetudinaria) del criterio normativo riflesso dal caso
particolare. Il riferimento alle opere dei giuristi di epoca precedente e
soprattutto alle costituzioni dell’imperatore si è andato a poco a
poco sostituendo alla funzione creativa della scientia iuris, che pare ricevere in alcuni casi le norme dall’alto,
anche se spesso solo per interpretarle in via estensiva o in via restrittiva[13],
sottoposta come essa era sia all’autorità dell’imperatore
che alla autorevolezza dei giuristi veteres.
Si è detto, da un lato, che la
forma letteraria dei giuristi ora diventa spesso un commento o un epitome di
autori, che essi avevano in mente di prendere a riferimento; si è detto[14]
dall’altro che nell’evoluzione del diritto imperiale romano i
giuristi al servizio del principe[15]
hanno avuto un ruolo determinante in quanto la attività normativa
imperiale è stata oggetto da parte loro di un lavoro di razionalizzazione, ossia di
“consolidazione”, intesa come sistematizzazione creativa delle
norme imperiali da parte dei giuristi stessi.
Parte
della dottrina[16],
studiando a fondo e con notevoli risultati positivi i problemi circa la
tradizione della attività normativa del principe da parte delle
giurisprudenza, ha usato il termine “massimazione” a tale proposito[17].
Però, qualsiasi sia il significato che si voglia attribuire a questo
termine, resta il fatto che sembrerebbe in tal modo riconoscersi una
concettualizzazione che implichi un
problema unico per il tempo che va da Adriano a Giustiniano[18],
riferibile sempre all’ambito interpretativo giurisprudenziale e alla sua
continua creativa divulgazione delle norme imperiali. La tesi non ci pare
comunque sostenibile in quanto sappiamo che il mondo del diritto è
condizionato da contingenze socio-politiche e pertanto non si può
ipotizzare una soluzione unica[19]
per tutto il periodo del Principato[20].
Ad ogni modo per tale dottrina la cosa si evincerebbe da come tali giuristi
menzionano le costituzioni del principe, facendo di esse una
“massimazione”, spezzando cioè l’intimo nesso tra la
parte contingente e il principio, attribuendo alla decisione di casi pratici il
valore di norma[21];
o addirittura, secondo altra parte della dottrina[22],
creando una vera e propria codificazione, fatto questo che annuncerebbe le due
prime codificazioni private e poi quelle ufficiali del V-VI secolo. Secondo
quest’ultima opinione infatti sarebbe espressione di ciò la realizzazione
del codice Gregoriano ed Ermogeniano verso la fine del III sec. d.C., ove sono
raccolte costituzioni emanate per risolvere casi concreti (rescripta); attività che diventa a carattere ufficiale con
la promulgazione nel 438 d.C. del Codice Teodosiano, ove sono invece sistemate
costituzioni a carattere generale. Questa tendenza alla codificazione e alla
astrattezza culminerà nel VI secolo con la compilazione giustinianea[23];
e, a partire da questa, l’operatore del diritto (quale il giudice e
l’avvocato) godrà di
grande autonomia nel reperire, nel nuovo contesto di un diritto legale
codicistico, e in quell’insieme di fonti diverse, le disposizioni
effettivamente vigenti, adattandole poi nell’ambito
dell’applicazione.
Alla
normazione imperiale[24]
e alla giurisprudenza[25]
è affidata quindi la fase conclusiva del diritto romano e la riduzione
ad unità di quei vari complessi giuridici, di cui constava il diritto
classico; ma non sarei dell’avviso che si possa comunque fare una
discussione unitaria per tutti i secoli del Principato e per tutti gli ambiti in cui si sono
esplicitati i provvedimenti normativi imperiali, utilizzando ogni fonte di
cognizione senza la necessaria distinzione. Pertanto mi limito a fare qui solo
qualche osservazione su tale problematica nell’ultimo periodo del Principato.
E’ vero che già a partire
dai Severi c’è una relazione tra il sistema di governo, dove i
giuristi rappresentano un’elite del potere e la scientia iuris, di cui essi sono eminenti rappresentanti, che ci fa
comprendere la modalità di recezione del diritto imperiale nella
letteratura giurisprudenziale: le decisioni del principe vengono trasmesse
spesso in modo sistematico da coloro che sono i suoi più vicini
collaboratori, i quali considerano la legislazione imperiale come fonte di
diritto, riferimento spesso necessario per discutere della pertinenza di una
regola. I giuristi utilizzano le decisioni imperiali o riproducendole o solo
citandole, e spesso inoltre essi le staccano dalla fattispecie che le ha
originate, ma ciononostante non mi sembra che essi le erigano a decisioni
generali, dando alle risoluzioni dei casi singoli il valore di norma generale
ed astratta. In poche parole non pare si possa fare propria la tesi che parla
di funzione creativa e di attività essenziale da parte dei giuristi sulla efficacia stessa
degli interventi imperiali e sulla
loro sistemazione entro l’ordinamento, accanto allo ius civile e allo ius
honorarium; e ciò anche se i rescritti (e questi sembrano proprio
essere la parte prevalente delle costituzioni in tale periodo), pervenutici
attraverso i codici e gli scritti dei giuristi sono molto diversi dagli
originari, di cui spesso, ma non sempre, costituiscono un sunto ridotto,
talvolta espresso con lo scopo di
stabilire la volontà normativa del principe e l’applicazione a
casi analoghi.
Non
sono d’accordo con chi afferma[26]
che sin dal III secolo vengono dai giuristi compiute opere dirette a
raccogliere ed ordinare le massime giuridiche tratte dalle disposizioni
imperiali: tutto ciò anche se è vero che le opere giridiche ora
trattano di differenti aspetti del diritto e del potere pubblico, come le
monografie pervenuteci de iure fisci,
de re militari, de officio o quelle riportanti le varie cognizioni imperiali; ed
anche se la legislazione imperiale è diffusamente recepita e trattata
anche in commentarii di grandi testi classici quali i commenti ad Sabinum e ad Edictum, dove le regole tradizionali spesso sono messe a
confronto con le decisioni imperiali. Mi pare infatti certo che i giuristi, pur
facendo riferimento alle costituzioni imperiali[27],
non le trattino come l’unica fonte di diritto, né come unico punto
fermo per discutere della attinenza di una regola. Un esame più
approfondito di come i giuristi classici inseriscono le costituzioni imperiali
nel sistema delle fonti e in particolare in quelle di diritto privato, ci
può far capire se i giuristi le hanno considerate come diritto separato,
alternativo allo ius civile e allo ius honorarium. A tale proposito
concordo con altra parte della dottrina[28],
quando afferma che bisogna indagare l’atteggiamento dei giuristi di
fronte alle costituzioni imperiali, che si manifestano in forma casistica,
quali i rescripta, le epistulae e i decreta[29],
e che appaiono già numerose a partire da Adriano fino ai Severi; le
altre costituzioni invece, quali gli edicta
e i mandata, sono perlomeno per
qualche tempo espressione di una attività magistratuale[30].
Si
è rilevato[31]
che i giuristi citavano ed inserivano le decisioni imperiali casistiche
all’interno delle loro decisioni trattandole alla stregua di precedenti
vincolanti, di exempla, e con le
stesse modalità con cui si servivano dei responsi di altri giuristi[32],
e utilizzavano frasi quali “est
huius rei exemplum capere ex rescripto divi Pii” (D. 36.1.11.2); “exemplum decretorum principalium” (D.50.5.1.1); “ad exemplum istam rem pertinere” (D.34.1.3).
Infine
questo atteggiamento della giurisprudenza
è ben messo in rilievo da Ulpiano a D.1.4.1.2[33],
il quale vi afferma che, pur essendo il provvedimento imperiale lex, per le costituzioni personali,
cioè casistiche, non vale il principio che esse si possono trarre ad exemplum e pertanto esse operano solo
come precedente.[34]Anche
secondo me i rescritti e le altre costituzioni originate da casi particolari vengono
quindi inserite spesso nel discorso giuridico allo stesso livello delle altre
opinioni espresse dai giuristi, costituendo una opinione tra le altre (pure se
accompagnate dalla specifica auctoritas
del principe). Rescripta, epistulae e decreta non sono mai stati configurati, nella prassi e nella
dottrina, come provvedimenti innovativi con la stessa portata delle leggi
repubblicane od augustee o dei senatocnsulti (quali si erano venuti sviluppando
nel corso del II secolo d.C.). Tali provvedimenti, in effetti, nella coscienza
del principe e dei giuristi sono provvedimenti intrepretativi, in cui l’interpretatio ha una forte carica
evolutiva, ma la dialettica tra giuristi e imperatore si svolge e si compone
tutto all’interno di strutture tendenzialmente omogenee, e fino a tutto
il Principato l’attività normativa imperiale e la giurisprudenza
si sviluppano in piena collaborazione, come evidenzia parte della dottrina[35].
Bisogna ancora aggiungere che le occasioni offerte dalle singole controversie
sottoposte alla cognizione dell’imperatore, sono state sfruttate spesso
anche per introdurre principi nuovi, che, entrando nel circolo della
discussione giurisprudenziale, venivano a collocarsi nel più ampio
contesto offerto da quest’ultima; tutto ciò anche se, a partire da
Adriano, si afferma una maggiore
influenza dei rescritti, delle epistole e dei decreti come strumenti importanti
della politica imperiale, che spesso influiranno sia sullo ius controversum che sul piano dello ius honorarium. Ciononostante
la decisione imperiale è una ratio
decidendi, che va inserita nella costruzione della giurisprudenza con lo
stesso valore di un responso dei giuristi (cfr. a tale proposito Gai.1.5, per
il quale le costituzioni imperiali hanno lo stesso valore vincolante dei
responsi concordi dei giuristi); le regulae
iuris tratte dalle costituzioni imperiali
hanno la stessa struttura della regulae iuris giurisprudenziali, cioè
non possono essere applicate ai casi simili se sono in contrasto con
l’ordinamento giuridico, come sottolinea bene Giuliano a D.1.3.15[36].
Solo in un periodo successivo
all’inizio del Principato si deve essere affermata comunque la tendenza,
compiutamente espressa in Gai1.5[37]
e in Ulpiano a D.1.4.1[38],
a considerare le costituzioni munite di forza di legge (anche se Gaio afferma
che non si è mai dubitato), come ben sottolinea la opinione dominante[39].
A
parte della dottrina[40],
l’abbiamo già rilevato, sembra a tale proposito che i giuristi si
siano rivolti ad un lavoro di generalizzazione o “massimazione”
delle decisioni imperiali, con lo scopo di farne una normazione di tipo
legislativo o comunque autoritativa: tale lavoro era diretto a trasformare una
decisione, presa in caso di singola controversia, in un principio generale. Noi non ci sentiamo assolutamente di seguire tale
opinione, anzi siamo proprio di diverso avviso. Dal nostro punto di vista ci
sentiamo piuttosto, sulla base dell’esame delle fonti, di sottolineare
l’ importante aspetto di quel fenomeno di dialettica, che prevalse tra
giurisprudenza e legislazione imperiale, in quanto è certo che la
legislazione imperiale si richiamava
molto spesso ai pareri giurisprudenziali; il che può portare
anche alla conclusione che la cancelleria imperiale si muovesse in buona parte
nell’orbita segnata dalla giurisprudenza[41].
Abbiamo infatti una serie di passi che mostrano e comprovano come gli
imperatori, segnatamente nell’emanazione dei loro rescritti, si siano
ispirati ai principi ed agli insegnamenti elaborati dagli esponenti della scientia iuris.
Alcuni
passi meritano una particolare considerazione e un particolare interesse, ai
fini della presente indagine, per constatare il continuo dialogo proficuo tra
giurisprudenza e imperatore, ma ce ne sarebbero molti altri, che tralascio.
Il
primo è un passo di Ulpiano (D. 42.4.7.16) che andrebbe collegato a I.
2.20.4 e a D. 31.67.8; leggiamolo a
Dig. 42.4.7.16 Ulp. 59 ad
ed. Item videamus, si quis
adversus in rem actionem latitet, an bona eius possideri venumque dari possint.
extat Neratii sententia existimantis bona esse vendenda: et hoc rescripto
Hadriani continetur, quo iure utimur.
Il
giurista prospetta qui il caso di latitanza[42]
in un’ipotesi di actio in rem, e si chiede se i beni del latitante
possano essere posseduti o venduti: egli risolve il problema riportando e
confermando la sentenza che a questo proposito aveva pronunciato Nerazio.
Ulpiano rileva, secondo la sentenza positiva di Nerazio, che si doveva
procedere alla vendita dei beni del latitante adversus in rem actionem, e sottolinea che analoga soluzione
era contenuta in un rescritto di Adriano.
Leggiamo
anche le Istituzioni, di cui a
I.2.20.4 Non solum autem testatoris vel heredis res, sed et
aliena legari potest: ita ut heres cogatur redimere eam et praestare vel, si
non potest redimere, aestimationem eius dare. sed si talis res sit, cuius non
est commercium, nec aestimatio eius debetur, sicuti si campum Martium vel
basilicam vel templa vel quae publico usui destinata sunt, legaverit: nam
nullius momenti legatum est. quod autem diximus, alienam rem posse legari, ita
intellegendum est, si defunctus sciebat alienam rem esse, non et si ignorabat;
forsitan enim si scisset alienam non legasset: et ita divus Pius rescripsit. et
verius est ipsum qui agit, id est legatarium, probare oportere, scisse alienam
rem legare defunctum, non heredem probare oportere, ignorasse alienam, quia
semper necessitas probandi incumbit illi qui agit.
In
tale passo è ricordato un rescritto di A.Pio, il quale limita la
validità del legato di cosa di un terzo al solo caso che il testatore
sapesse che la cosa era altrui. Tale limitazione non è stata peraltro
introdotta per la prima volta (come sembrerebbe dalle Istituzioni)
dall’imperatore A.Pio, perché in realtà questi si doveva
essere ispirato ad una sentenza di Nerazio Prisco, come attesta Papiniano a
Dig. 31.67.8 Pap. 19 quaest. Si rem tuam, quam existimabam meam, te herede instituto
Titio legem, non est Neratii Prisci sententiae nec constitutioni locus, qua
cavetur non cogendum praestare legatum heredem: nam succursum est heredibus, ne
cogerentur redimere, quod testator suum existimans reliquit: sunt enim magis in
legandis suis rebus quam in alienis comparandis et onerandis heredibus
faciliores voluntates: quod in hac specie non evenit, cum dominium rei sit apud
heredem.
Qui il
giurista esclude l’applicazione dell’una e dell’altra
nell’ipotesi di legato di cosa appartenente all’erede, che il
testatore reputava propria.
Altro
passo è a D.42.8.10.1, dove Ulpiano si esprime in questi termini
Dig.42.8.10.1 Ulp. 73 ad ed.
Ita demum revocatur, quod fraudandorum
creditorum causa factum est, si eventum fraus habuit, scilicet si hi
creditores, quorum fraudandorum causa fecit, bona ipsius vendiderunt. ceterum
si illos dimisit, quorum fraudandorum causa fecit, et alios sortitus est, si
quidem simpliciter dimissis prioribus, quos fraudare voluit, alios postea
sortitus est, cessat revocatio: si autem horum pecunia, quos fraudare noluit,
priores dimisit, quos fraudare voluit, Marcellus dicit revocationi locum fore.
secundum hanc distinctionem et ab imperatore Severo et Antonino rescriptum est eoque iure utimur[43].
In un rescritto di Severo e Caracalla è
applicata la distinzione di Marcello in base alla quale, mentre non si fa luogo
alla revocatoria qualora la soddisfazione dei creditori frodati sia
indipendente dai debiti successivamente contratti con altri, essa deve
concedersi se tali nuovi debiti furono contratti per soddisfare quei creditori,
in frode ai quali il debitore aveva agito precedentemente.
Esaminiamo ancora un passo di cui a
Dig. 35.1.7pr. Ulp. 18 ad Sab. Mucianae cautionis utilitas consistit in condicionibus, quae in
non faciendo sunt conceptae, ut puta " si in capitolium non
ascenderit" " si Stichum non manumiserit" et in similibus: et
ita Aristoni et Neratio et Iuliano visum est: quae sententia et constitutione
divi Pii comprobata est. nec solum in legatis placuit, verum in hereditatibus
quoque idem remedium admissum est.
In
tale passo appare evidente che l’opinione espressa da Aristone, Nerazio e
Giuliano (relativa al fatto che la cautio
Muciana si applica in rapporto ai legati ove sia apposta una condizione quae in non faciendo est concepta)
riscuote l’approvazione di Antonino Pio.
Relativamente
ai delicati rapporti tra normativa imperiale e interpretatio giurisprudenziale pensiamo sia da cogliere quindi la
intima connessione[44]
tra le due fonti di creazione del diritto durante tutto il Principato[45].
Inoltre gli imperatori non si richiamano solo all’opinione di un
determinato giurista, ma in modo generico all’insegnamento
giurisprudenziale e in tale senso
pare di nuovo provata l’influenza della giurisprudenza sulla
legislazione imperiale, in quanto proprio la cancelleria utilizza di frequente
l’insegnamento dei giuristi classici, anche se non siamo inclini a
pensare, come parte della dottrina fa, che l’influenza della
giurisprudenza sia dovuta
all’intervento diretto di questo o di quel giurista solamente in funzione della carica ricoperta
nell’ambito della cancelleria imperiale[46].
I richiami ai giuristi coprono tutto l’arco di tempo che va da Traiano ad
Alessandro Severo e c’è un atteggiamento ed un orientamento
costante ed uniforme impresso dalla cancelleria imperiale alla loro opera.
Se
ci si chiede in quale modo fossero valutate le varie correnti
scientifiche nell’estrarre i principi per la decisione delle fattispecie
concrete (in quanto i giuristi, facendo parte del consilium, a partire
quindi da Adriano, erano tenuti a prestare la loro competenza e la loro scienza
non solo in sede giurisdizionale, ma anche nella preparazione dei rescritti)
non sempre siamo in grado di dare una risposta adeguata.
Ma
spesso invece, l’abbiamo già notato altrove[47],
gli imperatori si rendono interpreti di ragioni di equità contro il
rigore dello ius civile (cfr., a
titolo di esempio D.4.1.7pr.; Vat. Frag 245; D.34.1.13.1 e C.6.37.1)[48];
o procedono oltre le posizioni raggiunte dalla giurisprudenza (cfr., a titolo
di esempio, a tale proposito D.26.5.12.1 e D. 27.10.1.1)[49],
fornendo soluzioni più adeguate alla nuova situazione giuridica; oppure
si pongono essi stessi come elementi innovativi rispetto alla concezione
dominante. Ma, se per osservanza di nuove esigenze più rispondenti alla
mutata situazione giuridica, sono indotti a non applicare i principi vigenti,
quando lo fanno, essi non
infrangono mai sul piano teorico la validità di tali principi, operando non
diversamente da quanto aveva fatto il pretore. In tal modo dimostrano ancora di
riconoscere e tenere in gran conto la tradizione e i principi, in quanto, in
forza del potere normativo che spettava loro, avrebbero di contro potuto invece
imporre autoritativamente ogni nuovo principio.
Nonostante
in tempi recenti si sia prestata sufficiente attenzione all’ampia
documentazione degli scritti imperiali offerta attraverso la citazione testuale
o i riferimenti a costituzioni imperiali da parte della giurisprudenza,
purtuttavia sono rimasti insoluti vari problemi circa la utilizzazione che di
tale costituzioni si faceva nelle opere giurisprudenziali. Sappiamo che i
giuristi adrianei non tenevano in
gran considerazione la normativa imperiale in quanto la sua menzione avveniva
eccezionalmente; all’epoca degli Antonini, verso l’inizio, i
giuristi erano ancora restii ad utilizzare le costituzioni imperiali e ad
elaborare i principi da queste introdotti, in quanto dapprima sono rare le citazioni;
poi in quest’epoca, e più ancora sotto i Severi, essi vi hanno
dato maggior rilievo, il che denota l’importanza che esse venivano
assumendo. Papiniano, Ulpiano, Marciano e Paolo moltiplicano nelle loro opere le
citazioni delle costituzioni imperiali, sempre traendo da esse criteri validi
per la costruzione scientifica di vari principi, in continua collaborazione tra
di loro.
Da
questa presupposto sono discesi ulteriori problemi relativi alla conoscenza che
i giuristi hanno dimostrato nei confronti della normativa imperiale[50]. Ovvero ci si è chiesti quale
genere di conoscenza i giuristi avessero del testo esatto delle costituzioni.
E’ assodato che i riferimenti nelle opere dei giuristi riguardano tutti i
tipi di costituzioni imperiali, ma c’è una netta predominanza nel
riportare, da parte della giurisprudenza, i rescritti imperiali; ciò in
quanto l’attività normativa imperiale si esplicava precipuamente
atttraverso una lenta elaborazione di principi imposti dalle domande e dalle sollecitazioni
rivolte da organi statuali o da privati su singole fattispecie di cui, meno i
decreti, e più i rescritti, erano la manifestazione tipica.
Più
volte si è rilevato che
spesso la giurisprudenza conosceva e discuteva le costituzioni imperiali per
sentito dire[51];
e spesso gli interpreti manifestavano anche qualche esitazione sulla reale
esistenza della norma. Ciò si può far risalire in molti casi al
fatto che essi traevano le citazioni delle costituzioni più antiche
dalle opere dei giuristi anteriori, e pertanto riassumevano in forma concisa la
disposizione imperiale.
Non
pare inverosimile che, altrettanto spesso, i giuristi richiamassero rescritti o
altre costituzioni imperiali, ma che essi conoscessero solo l’ultimo
provvedimento in cui erano evocati i precedenti. E talvolta accadeva
addirittura che il giurista non accennasse a costituzioni relative
all’argomento da lui trattato, ed emanate nello stesso periodo o in epoca
immediatamente precedente in cui scriveva (cfr. a titolo di esempio D. 23.2.57a)[52],
dimostrando anche, senza fare illazioni a carattere generale, che non sempre i
giuristi erano aggiornati sulla attività normativa imperiale.
Ma,
come è testimoniato dalle fonti, pur avendo spesso i giuristi una
conoscenza vaga e imprecisa delle costituzioni imperiali, non raramente essi
riferivano nei loro passi, che riportano rescritti e decreti, il caso che li aveva originati (cfr. a
titolo di esempio D31.64; D.36.1.52; D.40.4.47pr.; D.37.14.23.1; D.19.2.9.4 e
D.19.2.19.9)[53],
in quanto molto probabilmente essi conoscevano, specie nel caso di rescritti e
decreti, le preces e i libelli, che il richiedente faceva
pervenire alla cancelleria imperiale, dai cui archivi essi attingevano.
In
altri casi, confrontando ad esempio una collezione pregiustinianea con lo
stesso passo inserito nel Digesto, si scoprono dei casi di vera e propria
alterazione del testo che riferiva il provvedimento (cfr. per tutti a tale proposito Coll.
11.7.1-2 e D. 47.14.1pr.)[54]
Altre
volte un rescritto (in questo caso uno di Settimio Severo) è riportato
nel Codice (a C.8.50 (51)1) ed è anche largamente commentato dai
giuristi severiani tra cui Ulpiano ( in ben tre passi di cui a D. 38.16.1.1; D.
38.17.13; D. 49.15.9); e Marciano (a D. 49.15.25). Forse è sato tante
volte riportato e commentato per la eccezionalità della norma del tutto
innovativa (che era in contrasto con la regola classica, per cui il prigioniero
non era considerato padre del figlio avuto in cattività dalla moglie
prigioniera assieme a lui), ed i giuristi si sforzavano manifestamente per conciliarla
con le concezioni giuridiche dominanti.
Spesso
poi è dato vedere come la giurisprudenza generalizzava i principi posti
dalla attività imperiale (cfr. a titolo di esempio D. 32.39pr. in cui
Scevola, di fronte al quesito postogli se certe espressioni usate in un
testamento fossero da ritenersi fedecommesso, e, pur escludendo su un piano di
logica giuridica tale natura, conclude tuttavia in via equitativa con il
riconoscergliela, argomentando per analogia da un rescritto di Marco Aurelio)[55].
Tirando
le fila del nostro discorso, non si può negare che nei giuristi
dell’ultima età classica l’atteggiamento complessivo nei
confronti della normativa imperiale sia mutato, in quanto si riferiscono i
rescritti e i decreti ad indicare lo ius
di cui constano con l’espressione et “hoc iure utimur”; il che dimostra che è usato un nuovo
modo di rapportarsi con la produzione imperiale[56].
Quando Gaio (Gai. 1.2-7) e Pomponio[57]
(D. 1.2.2.12) ne parlano, pur mettendo tutte le fonti sullo stesso piano e pur
sforzandosi di ricondurre tutte le fonti alla unità normativa della lex (“legis vicem optinet” in Gaio e “pro lege servetur” in Pomponio) sembra che vadano nella
stessa direzione di considerare il nuovo modo della produzione imperiale come
sistema autonomo.
Noi
abbiamo avuto occasione di constatare, dal confronto diretto dei testi, sino a
che punto i giuristi, o forse i compilatori dei codici, hanno sunteggiato il
testo originario, riportando le brevi frasi concernenti le disposizioni dei
provvedimenti[58],
ma ciononostante, da come i giuristi citano le costituzioni imperiali, a me e
ad altri pare[59] che non si possa desumere l’idea
di un sistema di diritto imperiale considerato già autonomo nel periodo
di cui ci siamo interessati[60].
Le
raccolte di costituzioni imperiali fatte all’epoca, per divulgare
materiale giuridico di provenienza imperiale, quali i libri XX constitutionum di Papirio Giusto, i libri decretorum di Paolo, gli apokrimata
di Settimio Severo e i libri excusationum
di Modestino, presentano il carattere comune di citare le costituzioni senza
riportarne il testo autentico, ma
si dimostrano tuttavia opere utili e utilizzate per reperire
proficuamente i testi normativi, con un senso soprattutto pratico. In tutto il
periodo classico il ruolo di divulgare le costituzioni imperili a fini pratici
o scientifici era stato svolto dai giuristi (in quanto facilmente accedevano
agli archivi imperiali, e ne usavano nella pratica forense), che ne erano stati
attenti raccoglitori. Spesso, l’abbiamo visto, non dovevano avere il testo
originale e si limitavano quindi a ricavare necessariamente la massima,
procedendo in questi casi con criteri e metodi del tutto personali, alcuni
riassumendo il contenuto delle costituzioni, altri richiamandone le parole
testuali. E la diversità stessa del modo con cui si effettuavano le
riproduzioni conferma anche la diversità dell’uso delle
costituzioni da parte dei giuristi. Nella generalità dei casi si
recitavano in giudizio brani di costituzioni o di responsi giurisprudenziali,
che magari si riferivano ai provvedimenti imperiali, onde il giudice ne
valutasse e tenesse conto in qualità di autentico precedente: ma in
realtà tutto il processo classico dell’ordo e della cognitio si
basa ancora sulla autorevole testimonianza dei testimoni, e non sulla documentazione
(cfr. D.1.2.2.49). E ciò forse spiega perché nei testi giuridici
molte costituzioni fossero riassunte, accorciate e spesso riunite[61],
in quanto lo scopo del giurista era soprattutto pratico e non certo
codificatorio; faceva fede la sua parola ed inoltre soddisfaceva alla esigenza
di conoscere sommariamente il contenuto positivo o negativo della risposta
imperiale. Proprio per questo non si può seguire parte della dottrina[62]
quando afferma che nelle opere di Giusto Papirio (libri XX constitutionum),
di Paolo (libri decretorum) e di
Modestino (libri excusationum) si
realizza per la prima volta il sistema unitario del diritto imperiale, in
quanto neppure da queste tre opere appare una funzione ed una prospettiva
codificatoria, almeno nel senso in cui si parla di Codici[63]
qualche decennio dopo la stesura delle opere stesse di Paolo e Modestino.
Concludendo,
nell’opera di riduzione dei testi originari hanno senza dubbio concorso
mani diverse e in tempi diversi, senza che si possa ipotizzare una identica
sorte per tutte le costituzioni. Non è dato sapere quanto si possa
attribuire alla attività delle cancellerie imperiali, a meno poi che
tale attività sia stata esplicata; o quanto piuttosto derivi dagli
autori delle prime raccolte o addirittura dai compilatori giustinianei, che
hanno soppresso probabilmente molte indicazioni. Comunque un posto a sé
pare vada attribuito ai giuristi classici, che non avevano né
l’intento, né il dovere di reprodurre fedelmente le redazioni
primitive ed effettivamente non le hanno conservate. A loro interessava la
sostanza dei rescritti e degli altri provvedimenti; e questa sostanza è
stata riportata con enunciati personali per coordinarli ad altri principi
giuridici e trarne spunto per ulteriori elaborazioni. La preoccupazione poi di
mantenere la forma autentica dei provvedimenti imperiali è maggiormente
estranea ai giuristi postclassici o bizantini, che deliberatamente volevano
offrire prontuari e parafrasi. Tale attività andrà tenuta
comunque distinta da quella di coloro, che avevano in mente di raccogliere tali
costituzioni nei codici e che, pur aderendo alle necessità di una
compilazione, tenderanno sempre a conservare le leggi imperiali e a non farne
oggetto di elaborazione, seppure attenti ad una continua attività di aggiornamento.
[2]
Così a D.1.2.2.12 Pomp. l. sing. ench. Ita civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est
proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione
consistit, aut sunt legis actiones, quae formam agendi continent, aut plebi
scitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum, aut est magistratuum
edictum, unde ius honorarium nascitur, aut senatus consultum, quod solum senatu
constituente inducitur sine lege, aut est principalis constitutio, id est ut
quod ipse princeps constituit pro lege servetur.
[3]
Essendo essi gli interpreti di questa legge conservavano ed aggiornavano,
secondo le esigenze del momento, i formulari giudiziari e i riti del diritto
sostanziale (così Pomponio a D.1.2.2.6).
[4] Per
illustrare l’opera creativa della giurisprudenza per l’evoluzione
del diritto basti citare alcuni esempi:
a) la
formula della reivindicatio, originariamente concepita per rivendicare
il dominium, viene utilizzata
con gli opportuni adattamenti anche per le servitutes,
l’ususfructus e l’usus, ed in tal modo vengono riconosciute e
legittimate queste nuove figure.
b)
l’in iure cessio, modo di trasferimento del dominium sulle res
mancipi e nec mancipi, è una creazione della giurisprudenza,
un finto processo nella forma della legis actio sacramenti in rem.
c) la mancipatio,
concepita originariamente come modo di trasferimento del dominium sulle res
mancipi, viene usata per i diritti reali, come modo di costituzione delle
servitù rustiche, per il diritto di famiglia (coemptio), nelle
obbligazioni (fiducia), nelle successioni (mancipatio familiae e testamentum
per aes et libram).
[5] Dig. 1.2.2.41 Pomp. l.sing. enchir. Post hos Quintus Mucius Publii filius
pontifex maximus ius civile primus constituit generatim in libros decem et octo redigendo.
[6] Dig. 50.17.1 Paul. 16 ad Plaut. Regula est, quae rem quae est breviter
enarrat. non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. per
regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut ait Sabinus, quasi causae
coniectio est, quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum.
[7] Ed
allo stesso tempo una funzione di adattamento e di inserimento della normativa
imperiale nel sistema giuridico vigente.
[8]
E’ questo un criterio di giustizia, che suggerisce la creazione di norme
nuove e guida l’applicazione delle norme già esistenti; e il
giudizio relativo appartiene a chi ha l’autorità per creare ed
applicare le norme, formulando soluzioni concrete secondo i metodi del
ragionare giuridico. Tale principio,
nell’applicazione del diritto, vuole indirizzare la norma che
spesso già esiste verso conseguenze giuste; ed i difensori della stessa
equità sono soprattutto il principe ed i giuristi. Essa consiglia il
risultato migliore e per raggiungerlo bisogna studiare e apprestare i mezzi
specifici per ottenerlo e coordinarlo con il diritto già esistente. Cfr.
a tale proposito P.Voci, Ars boni et aequi, Index, 27, 1999, Napoli, pp. 2 ss.
[9] Da
ricordare che anche le tecniche utilizzate dal pretore ed in specie quella
della fictio, era in sostanza una applicazione di norme in via
analogica.
[10]
All’ assunzione al trono di Adriano segue un momento di grande importanza nella
storia del principato, che avrà sviluppo presso gli imperatori
successivi: la concezione universalistica dell’Impero si afferma
attraverso varie riforme, come gli organi della cancelleria imperiale, la
codificazione dell’Editto, l’accentuarsi degli interventi imperiali
in campo giuridico.
[11] Bene osserva G.G.Archi,
Sulla cosidetta “massimazione” delle costituzioni imperiali, SDHI,
LII, 1986, 170 n.17, che sembra doveroso evitare il termine
“legislazione”, usato dai romanisti tra gli anni 30-40, e parlare
piuttosto di potere normativo del Principe.
[12]
Infatti già a partire da Adriano (su cui M. Talamanca, Lineamenti di storia del diritto romano, Milano,1979, 451 ss.),
nell’ambito dello ius controversum e all’interno del
dibattito giurisprudenziale, si inserivano e venivano valorizzati i rescritti
imperiali, anche se non erano ancora considerati alla stregua di vere e proprie
norme legislative.
[13] Molto
spesso la attività interpretativa dei giuristi estende la applicazione
di norme imperiali a casi non previsti: un esempio di interpretatio
estensiva, cioè volta ad intendere la portata di una norma in senso
più ampio, si trova a D.4.1.7.1, dove il giurista Marcello, dopo aver
riportato il testo del rescritto di Antonino Pio, ritiene applicabile il
rimedio in esso contenuto anche per chi sia stato condannato sine culpa sua e
maxime si fraus ab adversario intervenerit.
Altre volte la attività
interpretativa dei giuristi invece ne limita l’efficacia
restringendola al solo caso esaminato. Un esempio di interpretatio restrittiva,
cioè volta ad intendere la portata di una norma in senso più
stretto di quello che la norma faceva pensare si trova invece a D.23.2.65, dove Paolo
riporta il principio espresso in alcuni mandati imperiali, per cui coloro che
rivestivano una carica in provincia, non potevano, in quella stessa provincia
contrarre iustae nuptiae; subito si enuncia una duplice limitazione a
questo principio, una introdotta dagli stessi mandati per coloro che in
patria sua militant, e l’altra introdotta dal giurista, per cui il principio
non solo non ha più valore, post
depositum officium, ma le nozze contratte in precedenza contra mandata,
acquistano da quel momento efficacia, diventando iustae. Sui vari tipi
di interpretazione cfr. M.Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo, 1994, 50.
[14] J.P.Coriat, La codification des lois dans l’antiquité, Consolidation et précodifications du
droit impérial à la fin du Principat, Actes du colloque
de Strasbourg, 2000, 272 ss..
[15]
E’ noto che i giuristi sono per un verso consulenti del principe in
quanto fanno parte del consilium
principis (almeno a partire da
Adriano) e dall’altro sono, in qualità di funzionari della
cancelleria imperiale, produttori materiali e interpreti delle costituzioni
stesse.
[16] E.Volterra, Il problema del testo delle costituzioni imperiali, Atti del II congresso internazionale della
società italiana di storia del diritto, Firenze, 1971, 822 ss. La
sua ampia ricerca è finalizzata a chiarire i rapporti tra
attività normativa imperiale e giurisprudenza per il periodo classico, e
a stabilire, per il periodo postclassico e giustinianeo, quale attività
la cancelleria imperiale abbia svolto nella formazione e nella divulgazione delle leges imperiali.
[17] Da E.Volterra, Il problema del testo cit., 854, ci viene proposto di intendere tale
termine con il significato di determinare e formulare, da parte della
giurisprudenza, la concezione giuridica che era alla base di quelle istruzioni
e decisioni imperiali, per individuarne le innovazioni apportate rispetto al sistema normativo in vigore.
[19] Ci
pare che le osservazioni di Volterra circa lo schema e l’ampiezza delle
costituzioni avrebbero avuto più vigore se, ad esempio, le costituzioni
fossero state distinte in ordine di età e di natura: costituzioni
classiche (di cui soprattutto rescritti) e leggi posctclassiche; costituzioni
casistiche e costituzioni generali etc.
[20] La
tesi del grande studioso,
definitiva per un verso e piena di suggestioni dall’altro, che ha
avuto comunque il grande merito di ricercare in quale modo le singole
costituzioni imperiali siano giunte sino a noi, è stato oggetto di varie
riserve da parte di altra dottrina: cfr. per tutti a tale proposito M.
Amelotti, Per l’interpretazione della
legislazione privatistica di Diocleziano, Milano, 1960, 32 ss.; O. Vannicchi-Forzieri, La lagislazione imperiale (IV-V sec.) in
tema di divorzio, SDHI, 48,
1989, 291 ss.
Inoltre
si osserva che il termine “massima”, “repertorio di massime”
sono sorti relativamente tardi nella storia del diritto d’Europa: su tale
teoria cfr. G.Gorla, Studi, in Diritto comparato e Diritto comune europeo, Milano 1989 , passim.
[21] In
questo senso mi pare impossibile
parlare di “massimazione” delle costituzioni imperiali da parte
della giurisprudenza classica.
[22] Cfr.
sul punto J.P. Coriat, Le prince législateur , La
technique lègislative des Sévères et les methodes de
création du droit
impérial a la fin du Principat, Rome, 1997, 5993 ss.; U.Vincenti, La tendenza verso la codificazione nella esperienza giuridica romana
dei sec. IV-VI d.C., L’eredità dell’Europa,
Bologna 1997, 29 ss.
[23] G.G.Archi, Sulla cosidetta “massimazione” cit., 165 osserva che non è
comunque possibile mettere sullo stesso piano gli autori dei codici Gregoriano
ed Ermogeniano e i compilatori del Teodosiano e del Giustinianeo, per quanto concerne il metodo seguito
dagli stessi di fronte a un testo imperiale nel momento di inserirlo nelle rispettive
raccolte.
[24]
L’attività normativa imperiale quale fattore di formazione e
svolgimento del diritto in età del Principato bene emerge dal lavoro
palingenetico delle citazioni delle costituzioni imperiali da parte della
giurisprudenza, scritto da G.Gualandi,
Legislazione imperiale e giurisprudenza, 1, Milano, 1963. Egli ha fatto
osservazioni del tutto attendibili e
molte sue ipotesi sono avvalorate dall’esame dei testi. Di contro
egli è stato spesso oggetto di critiche non sempre giuste e centrate.
Cfr. per tutti a tale proposito Theo
Mayer- Maly, ZSS, 81, 1964,
412 ss.
[25] Ampia
è la documentazione della giurisprudenza classica, che spesso cita e
riferisce le costituzioni imperiali dimostrando in tal modo di utilizzarle, di elaborarle, e
pertanto di valutarle. Il Gualandi riferisce che il numero delle costituzioni
citate dai giuristi o da essi riferite è circa 1350, cioè un
terzo di quelle contenute nel codice giustiniano, che ammontano a 4652.
[26] Cfr.
sul punto E.Volterra, Il problema del testo cit., 971 e
975 e J.P.Coriat, La codification
des lois dans l’antiquité cit., 281 e 283.
[27]
Esaminando, a questo riguardo, l’ampia raccolta di passi fatta da G. Gualandi, Legislazione imperiale, mi sono resa conto del divario numerico tra
le citazioni della legislazione imperiale contenute nelle opere dei primi
giuristi classici e quelle contenute nelle opere degli ultimi.
[28] Cfr. N.Palazzolo, La attivita normativa del
principe nelle sistematiche dei giuristi classici, in A.A.V.V., La codificazione dall’ antico al
moderno, Incontri di studio,
Napoli 1998, 264 ss. L’autore dice che era raro che il principe
esprimesse consapevolmente una sua volontà normativa nel periodo
anteriore ad Adriano: sono infatti, secondo l’A. le riforme adrianee
quelle che ci pongono in grado di constatare un preciso disegno in tema di
potere legislativo; ed è da Adriano che si inizia un dialogo tra princeps e giurisprudenza. Infatti nei
giuristi adrianei come Nerazio, Celso Giuliano si incontrano le prime citazioni
di costituzioni imperiali. Cfr. a tale proposito anche e G.Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza cit., 2, 15.
[29] Vari
sono gli esempi di rescritti riportati dai giuristi; cfr per tutti ad es.
un rescritto di Severo di cui
D.12.6.26pr.
Ulp. 26 ad ed. Si non sortem quis, sed usuras indebitas solvit, repetere non
poterit, si sortis debitae solvit: sed si supra legitimum modum solvit, divus
severus rescripsit ( quo iure utimur) repeti
quidem non posse, sed sorti imputandum et, si postea sortem solvit, sortem
quasi indebitam repeti posse. proinde et si ante sors fuerit soluta, usurae
supra legitimum modum solutae quasi sors indebita repetuntur. quid si simul
solverit? poterit dici et tunc repetitionem locum habere.
Altri giuristi riportano le epistole dell
imperatore; cfr. per tutti ad es. Vat. Frag.223. Ulp. De off.
praet. tut. Hi qui muniti sunt aliquo
privilegio, aliquando non dmittuntur ad excusatione, velut si minor sit annis
xxv adfini datus tutor et aliquem usum rerum habeat hereditariarum; quod ius
venit ex epistula divi Hadriani, quam scripsit Claudio Saturnino legato
Belgicae[29].
quae constitutio videtur de his loqui, qui a praetore dati sunt; ego idem esse
accipiendum, si testamento datus sit. In eandem sententiam et divus Pius
Platorio Nepoti scripsit. Destinatario di una epistula di Adriano pare Claudio
Staurnino nella sua qualità di legatus
Belgicae .
Altri
ancora, seppure in numero più modesto, riportano i decreti; cfr per
tutti ad es. D. 30.49pr. Ulp. 23 ad Sab.
Si cui legetur, cum quattuordecim annorum erit, certo iure utimur, ut tunc sit quattuordecim annorum, cum
impleverit: et ita imperatorem decrevisse Marcellus scripsit.
[30] Cfr. a
tale proposito N.Palazzolo, Potere imperiale ed organi giurisdizionali
nel II secolo d.C., L’efficacia processuale dei rescritti imperiali da
Adriano ai Severi, Milano, 1974, 24 ss.; N.Palazzolo,
Processo civile e politica giudiziaria nel Principato, Torino,
1991, 64 ss.; N.Palazzolo,
[31] L. Vacca, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano,
Milano 1976,121 s.; L.Vacca, La giurisprudenza nel sistema delle fonti
del diritto romano, Torino, 1989, 89.
[32] A me
è parso, e l’ho riferito in un mio precedente lavoro, A proposito dei rapporti tra giurisprudenza
classica e legislazione imperiale, in φιλία, Scritti per Gennaro Franciosi, IV, 2881
ss., che la originale applicazione dell’espressione “ et hoc iure utimur”, utilizzata
spesso dai giuristi nei loro scritti anche in riferimento a certe decisioni
imperiali, veniva da essi adoperata in molti testi in cui si riportano a dispute
giurisprudenziali (cfr. ad es. D.40.7.39.4; D.35.1.43pr.; D. 41.1.26pr.;
D.3.3.27.1; D.4.9.1.4 ; D.28.5.19 ; D.37.11.5 pr. ; D. 39.6.8 pr.)
per sottolineare che un principio enunciato da un giurista era prevalso,
diventando ius. Di contro A. De Robertis, Sull’efficacia
normativa delle costituzioni imperiali, Bari 1942, 146, afferma che tale
frase non si è mai riferita ai responsa prudentium. L’affermazione
non può essere accolta in quanto tale opportuna specificazione è
stata usata in molti casi di contrasto dottrinale tra giuristi già a
partire da Giavoleno.
[33] Dig.
1.4.1.2 Ulp. 1 inst. Plane ex his quaedam
sunt personales nec ad exemplum trahuntur: nam quae princeps alicui ob merita
indulsit vel si quam poenam irrogavit vel si cui sine exemplo subvenit,
personam non egreditur.
[34] Cfr.
per tutti M.Talamanca, Lineamenti di storia del diritto romano,
cit. ,421s. ; M. Sargenti, Considerazioni sul potere normativo imperiale, Sodalitas,
6, Napoli 1984, 2640 e T.Spagnolo
Vigorita, Le nuove leggi, in Seminario sugli inizi dell’attività normativa imperiale, Napoli, 1992,
76s.
[36]
D.1.3.15 Iul. 27 dig. In his, quae contra rationem iuris
constituta sunt, non possumus sequi regulam iuris.
[37]
Gai.1.5 Constitutio principis est quod
imperator decreto vel edicto vel epistula constituit. Nec
umquam dubitatum est quin id legis vicem optineat, cum ipse imp erator per
legem imperium accipiat.
[38] Dig. 1.4.1pr.Ulp. 1 inst. Quod principi placuit, legis habet vigorem:
utpote cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne
suum imperium et potestatem conferat.
[39] N. Palazzolo, La codificazione dall’antico al moderno cit., 272 s.; J.P.Coriat, La codification des lois dans l’antiquité cit., 272
ss.
[41] A
questo proposito cfr. M. Massei, Le
citazioni della giurisprudenza classica nella legislazione imperiale, in Scritti
in onore di Contardo Ferrini, Milano, 1948, 403 ss.
[42] Cfr.
sul passo I. Buti, Il praetor
e le formalità introduttive
del processo formulare, Camerino, 1984, 287; F. Casavola, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, 183; G. Provera, Il principio del
contraddittorio nel processo civile romano,Torino 1970, 132. Sulla
autenticità della frase “quo iure utimur”, sia pure con un accenno di dubbio, si
pronuncia anche S. Solazzi, Il
concorso dei creditori cit.129 nt. 2.
[43] B. Santalucia, Le note paoline ed
ulpianee alle quaestiones e ai responsa di Papiniano, BIDR, 90, 1965, 112,
ritiene interpolata questa espressione finale.
[44] Messa
più volte in luce da M. Massei,
Le citazioni della giurisprudenza classica cit., 425 n. 3 e da G.Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza cit., 106 ss.
[45] Spesso
dunque abbiamo visto che gli
imperatori nei loro interventi di soluzione ai casi singoli, cioè
nei decreta e nei rescripta, si sono ispirati alla
concezione ed elaborazione giuridiche prospettate da questo o quel giurista:
fra i giuristi dell’età adrianea gli imperatori infatti hanno
richiamato spesso Celso o Giuliano, adottandone le soluzioni; gli Antonini e i
Severi hanno seguito spesso l’opinione di Marcello, Paolo, Ulpiano e
Papiniano.
[46] Cfr. a
tale proposito e in questo senso R. Orestano, Il potere normativo degli imperatori
e le costituzioni imperiali, Contributo
alla teoria delle fonti del diritto nel periodo romano classico, Torino,
1962, 55ss. e M. Massei, Le
citazioni della giurisprudenza classica cit., 420 ss.
[47] M.Gabriella Zoz, Le costituzioni imperiali nella giurisprudenza, Fonti giuridiche e diritto delle persone,
Trieste, 2007, 202 ss.
[48] Nel
primo passo, di cui a D. 4.1.7pr. l’imperatore decide contro la rigida
applicazione del diritto vigente, che condurrebbe a situazioni inique. In Vat. Frag. 245 si può pensare
che la decisione dei Divi Fratres si
riconduca a motivi di equità nel concedere l’excusatio dalla tutela. Cfr. ancora D.34.1.13.1, dove è riportato un
rescritto di A. Pio, che dà la prevalenza alla volontà implicita
della testatrice sui verba testamenti;
decisione che è conservata anche in C.6.37.1.
[49] I Divi Fratres ammettono, secondo D.
26.5.12.1, che al figlio sia affidata la cura del padre furioso, contro
l’insegnamento di Celso e di vari giuristi. Sul punto va letto anche
D.27.10.1.1: dal confronto dei passi si evince che nel primo passo di Ulpiano
è riportato un rescritto di A.Pio indirizzato a Iustino Celere, di cui
Ulpiano tratta anche nel secondo e
fra i due sunti non vi è sostanziale differenza, anche se essi si
integrano a vicenda.
[51] De Francisci, Storia del diritto romano, II,
Milano,1944,394; F.Schulz,
History of Roman Legal Science,
Oxford, 1946, 153.
[52]
E’ un passo in cui Marciano, vissuto dopo Papiniano riferisce un
rescritto dei Divi Fratres, di cui
Papiniano ragionevolmente doveva aver notizia, mentre non ci risulta avesse
fatto cenno nel suo libro de adulteriis.
[53] Sono
testi di cui mi ero occupata in un precedente lavoro, Le costituzioni imperiali nella giurisprudenza cit..
A
D.31.64 Papiniano cita un rescritto di Marco Aurelio e Commodo in tema di
sostituzione pupillare e premette i dati concreti del caso.
A
D.36.1.52 Papiniano riferendo una
sentanza di Adriano, ricorda la fattispecie e i dati dei contendenti.
A D.
40.4.47pr. di Papiniano e sullo stesso caso a D.37.14.23.1 di Trifonino,
vengono riferiti i presupposti di fatto. La stessa costituzione di Adriano
è richiamata in una costituzione di Caracalla di cui a C. 7.4.2.
Nei due
ultimi frammenti, di cui a D. 19.2.9.4 e D. 19.2.19.9, il giurista Ulpiano
premette i dati essenziali riguardanti la questione sottoposta al giudizio di
Severo e Caracalla.
[54] Il
testo di Ulpiano dal “de officio
proconsulis” ci è stato trasmesso attraverso le due fonti. Dal
confronto si può concludere che, mentre nel Digesto il rescritto sulle
pene da abigeato è limitato ad una parte, nella Collatio si discute più ampiamente intorno al rescritto, con
varie osservazioni. Le stesse osservazioni valgono anche dal confronto di D.
1.6.2 di Ulpiano e Collatio 3.3.1-3 e
5-6.
[55] Su
tale passo cfr. la mia Efficacia
normativa delle costituzioni imperiali: alcune forme espressive di consenso
della giurisprudenza, in Studi in
onore di R. Martini, in corso di stampa, Collana P. Rossi, 7.
[56] Sul
modo esercitato dagli ultimi giuristi nel favorire una concezione legale e non
più giursiprudenziale del diritto cfr. A.Schiavone,
Linee di storia del pensiero giuridico
romano, Torino 1998, 249 ss.
[57]
Sull’argomento cfr. M. Campolunghi,
Potere imperiale in Pomponio e Giustiniano, I Roma 1983, 151ss.
[60] Come
vorrebbe E.Volterra, Il problema del testo cit., 827, quando
afferma che i giuristi non solo riducono a regole precise le decisioni
imperiali, dando alla soluzione di casi concreti portata generale, ma li
coordinano al sistema giuridico, contribuendo a far sorgere un vero e proprio
sistema di diritto imperiale.
[62] E.Volterra, L’ouvrage de Papirius
Iustus Constitutionum libri XX, in Scritti
giuridici, 23 e P.De Francisci,
Storia del diritto romano, II, cit., 171.
[63] Mi
riferisco ai due codici Gregoriano ed Ermageniano, elaborati anch’essi da
giuristi, ma che presentano caratteri diversi dalle raccolte fatte in periodo
precedente. Qui i compilatori restano aderenti al testo originario e riportano
alcune frasi delle decisioni imperiali, che costituiscono la parte dispositiva
con crattere astratto di massima giuridica. La svolta era stata data da
Diocleziano, di cui a C. 1.23.3, dove vietava che i rescritti venisseo citati
in giudizio non in forma autentica. Il problema doveva essersi posto con la
morte di Modestino, ancora importante fonte di reperimento di testi normativi,
e pertanto i testi delle costituzioni dovevavano essere d’ora in avanti
trascritti in forma autentica.