N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università
di Roma “Tor Vergata”
Interpretazione giuridica, tecnica
agraria ed argomentazione lessicale: la seges ex stipula enata di
D.18,1,40,3
I. Introduzione. –
II. Il testo: rifiuto delle ipotesi
interpolazionistiche; accoglimento della proposta di emendazione (<satum>
[actum]) di Mommsen (rinvio). – III. La
ricostruzione della quaestio. – A. La
collocazione palingenetica del passo: il contenuto della lex venditionis.
– B. La tecnicità della locuzione (frumenta)
manu sata. – C. Il problema della
‘spontaneità’ della seges ex stipula enata: il
venditore vorrebbe escluderla dalla compravendita, in quanto direttamente
derivante dai frumenta manu sata, poiché il fondo venduto sarebbe
stato lasciato a maggese dal compratore e quindi quest’ultimo non avrebbe
potuto sostenere che il raccolto fosse frutto del proprio lavoro. –
IV. Il contenuto del responsum. –
A. Il riferimento all’id quod actum est
in relazione alla locuzione non esse actum quod: insostenibilità
di quest’ultima lettura. – B. La
correlativa necessità dell’accoglimento dell’emendazione
mommseniana e l’argomentazione lessicale (fondata sull’ambito
semantico di satum) del responsum. – C. La scelta degli exempla: la reductio ad
absurdum del ragionamento operata attraverso di essi e le ipotesi di un climax
ascendente nella loro successione e del rispetto dello schema retorico della similitudo.
– V. Considerazioni conclusive.
Secondo una, ormai non
recentissima, opinione dottrinaria, si sarebbe potuto ricomprendere, D.18,1,40,3,
oggetto di questo studio, fra «i vari altri testi meritevoli di attenta
considerazione» in rapporto alla presenza, in taluni frammenti del
Digesto, di «(…) due (…) soluzioni, l’una subordinata
rispetto all’altra, in relazione alla possibilità di acquisire o
meno dall’indagine probatoria elementi idonei per superare
l’incertezza suscitata dalla plurivocità della
dichiarazione»[1].
In realtà, l’iter
logico seguito dal giurista sembra incentrato non tanto sulla giustapposizione
di due «soluzioni», delle quali l’una
«subordinata» all’altra, quanto, piuttosto, sulla valutazione
primaria dell’id quod actum est – inteso quale fondamentale
ed unico criterio interpretativo del contenuto negoziale ‑ correlata ad
una «soluzione» non sussidiaria (e, giocoforza,
«subordinata» alla prima) ma complementare ad essa, rappresentata
da un’argomentazione di tipo lessicale. In questo senso, tale ulteriore
assunto – lungi dal contrapporvisi – pare, invece, affiancarsi
(orientandola) all’indagine su quanto in concreto concluso dalle parti,
assommando, ad adiuvandum, al dato dell’interpretazione giuridica
anche quello dell’analisi di un lessema: satum.
A questi profili, poi,
dovrebbe aggiungersi quello della tecnica agraria del maggese che, nella
concretezza della sua applicazione, avrebbe grandemente contribuito alla
nascita della problematica discussa, dando origine ai dubbi – si presume
sollevati dal venditore – circa la spettanza del ‘raccolto’
venuto in essere dopo il periodo di riposo del fondo.
Leggiamo, innanzitutto, il
testo:
D.18,1,40,3 (Paul. 4 epit. Alf. dig.) Fundi
venditor frumenta manu sata receperat: in eo fundo ex stipula seges erat enata:
quaesitum est, an pacto contineretur, respondit maxime referre quid est actum:
ceterum secundum verba non esse [actum] <satum> [,] quod ex stipula
nasceretur, non magis quam si quid ex sacco saccarii cecidisset aut ex eo quod
avibus ex aere cecidisset natum esset.
Dal punto di vista logico-sintattico, il brano non presenta
macroscopiche sconnessioni[2]
quanto, piuttosto, tracce di un intervento (molto probabilmente di un
accorciamento) sul testo tra la prima (fundi – actum) e la
seconda (ceterum ‑ fine) parte di esso che avrebbero potuto
influenzare la corretta trascrizione dei verba del responsum
alfeniano[3],
così come epitomato da Paolo. In particolare, va segnalato
l’ostacolo rappresentato dall’assenza del non (necessario
alla più corretta comprensione del significato) nella locuzione secundum
– esse; tale difficoltà, resa evidente dalla sua mancanza
anche nella Florentina, viene superata dalla presenza di quella
particella negativa in altri manoscritti, come riportato nella critica
textus che, notoriamente, accompagna l’ed. maior del Digesto
di Theodor Mommsen[4].
Più rilevante appare, invece, la proposta (qui accolta), avanzata dallo
stesso Mommsen, di sostituire il secondo actum con satum:
l’emendazione, pur se fondata solo su dati logici e non testuali, merita
di essere accolta[5];
di questo, però, conviene trattare più avanti (infra, III
C).
La critica interpolazionistica, poi, ha (fondamentalmente)
aggredito il passo in due punti dei quali, se il primo potrebbe – in
astratto – anche avallare il sospetto di un rimaneggiamento formale del
testo[6],
il secondo, invece, non sembra assolutamente accoglibile. I riferimenti sono
alle osservazioni che Gerhard Beseler ebbe a fare nel terzo dei suoi contributi
alla critica delle fonti del diritto romano[7]:
in quella sede, in particolare, l’A. tedesco espungeva il tratto maxime
– verba da un lato per la presenza della particella ceterum (da
lui intesa, se avente funzione causale, come sicuro indizio di un intervento
giustinianeo sul testo[8]),
dall’altro, probabilmente, dato che il brano, senza la locuzione cassata,
sembrerebbe di più agevole lettura poiché si accorcerebbe la
distanza tra il respondit e l’oggetto del parere alfeniano (non
esse <satum> [actum]). A questo vantaggio si deve,
però, contrapporre la rinuncia alla
valorizzazione del modello argomentativo di tipo lessicale impiegato dal
giurista (infra, IV B): in altre parole, la cancellazione di quel tratto
renderebbe per lo meno implicito ed ellittico il riferimento agli esempi del saccarius
e degli aves che, al contrario, trovano il loro fondamento e la loro
giustificazione proprio nel tipo di ragionamento contenuto nella parte del
brano che, invece, si vorrebbe sopprimere (infra, IV C).
L’altra emendazione di Beseler che, come detto sopra,
sembra doversi respingere con maggiore sicurezza, è relativa alla
eliminazione del termine manu nella locuzione frumenta manu sata;
al contrario del giurista tedesco che, interpretandolo come una glossa, lo
ritiene responsabile di rovinare l’effetto («verdirbt die
Pointe») del ragionamento alfeniano, si può osservare come la
locuzione manu sata trovi un impiego tecnico sia negli autori latini
occupatisi di agricoltura in maniera particolare, sia anche in altri contesti
non direttamente riconducibili a tematiche agricole, conservando però la
sua valenza tecnica ben precisa (infra, III B); al di là,
però, di quegli impieghi, il medesimo sintagma è presente
nuovamente nello stesso titolo in cui è inserito il nostro frammento:
esso ricorre, infatti, anche in D.18,1,80 pr. (Lab. 5 post. Iav. epit.)
Cum manu sata in venditione fundi
excipiuntur (…). Quanto, poi, alla presunta anticipazione del responsum
di Alfeno, causata dalla presenza stessa del termine manu, si
tenterà di spiegare come, proprio l’esplicita previsione
dell’esclusione dalla vendita del fondo dei frumenta manu sata,
rappresenti, invece, il fondamento (verrebbe da dire, testuale) della pretesa
del venditore del fondo di far rientrare in essi anche il raccolto
‘derivante’.
La ricostruzione della
fattispecie, che dà origine alla quaestio, può essere
articolata su tre livelli: palingenetico (per l’analisi del contesto
originale nel quale essa era inserita); agronomico (con l’attenzione al
profilo della tecnica di coltivazione del fondo); lessicale (attraverso la
verifica del rilievo dei verba impiegati nella lex venditionis).
La prima ‘sezione’
del libro quarto dei Digesta alfeniani, pervenutici attraverso la
‘serie’ Paulus epitomarum Alfeni digestorum, è
rubricata da Lenel ‘De legibus mancipi aut venditionis’ e
l’intero fr. 40, con l’aggiunta di D.50,16,205, viene a costituire
il n.62 nella Palingenesi[9].
In effetti, l’argomento
comune a tutto L.62 è individuabile nella problematica derivante
dall’interpretazione di leges dictae nel quadro della
compravendita di un fondo agricolo[10]:
mentre, però, nel pr. e nei primi due paragrafi, l’esatta
definizione del contenuto della lex si riflette in elementi
‘strutturali’ del fondo (la sua estensione: pr. e §2;
l’inerenza di una servitus: §1), nel nostro § 3, nel
§ 4 ed in D.50,16,205[11]
essa si ripercuote sulla quantità/qualità dei frutti, mentre nei
§§ 5 e 6 investe il tema delle accessioni. È intuitivo
osservare come tutti questi aspetti lascino trasparire la concretezza ed i
valori in gioco propri di un contesto rurale, nel quale era di fondamentale
importanza bilanciare gli interessi contrapposti fra venditore e compratore e,
in particolare, per ciò che riguarda direttamente il paragrafo qui
analizzato, l’attenzione rivolta ad evitare che il prodotto dell’attività
lavorativa del venditore (i frutti) siano rivolti a vantaggio del compratore,
perché a lui trasferiti insieme al fondo.
La volontà, poi, di
riservarsi i frutti del fondo – che, nel nostro caso, vengono ristretti
al frumentum, o meglio, al plurale, ai frumenta[12]
‑ è giustificata dalla vendita del fondo stesso prima della
raccolta o, nella fattispecie, prima della mietitura: con l’apposizione
di quella lex[13] il venditore si garantisce
l’acquisizione del frumento che egli stesso ha seminato, manu sata,
con il parallelo effetto di escludere i prodotti del fondo che non possano
essere ricondotti a quella origine[14].
La locuzione manu sata (con le forme flesse del
participio) è usata in senso tecnico sia nella letteratura
‘specialistica’ (attinente cioè a temi collegati con
l’agricoltura, sia pure in senso assai largo) sia in contesti più
‘neutri’.
Alle ricorrenze del primo tipo, vanno sicuramente ascritti un
passo di Varrone ed uno di Columella. Nel primo, l’erudito reatino, nel
corso di una articolata descrizione delle modalità di costruzione e di
collocazione di un ornithotrophion, suggerisce di porre
all’esterno di un colonnato circolare, che gli avrebbe fatto da cornice
… silva manu sata grandibus
arboribus [tecta], ut infima perluceat, tota saepta maceriis
altis (De re rust., III,5,12); nelle intenzioni di Varrone, dunque,
la particolare luce che avrebbe dovuto diffondersi nell’ambiente, sarebbe
stata il risultato della concorrenza di due fattori: gli alti muri da un lato e
il bosco formato da grandi alberi piantati intenzionalmente, cioè con
una preordinata – come si direbbe oggi – architettura
paesaggistica, al fine di rendere più suggestivo l’intero ambiente
di quello che, solo in modo approssimativo, potrebbe essere avvicinato ad un
padiglione per l’uccelleria[15].
Assai più rilevante, vista la funzione di summa divisio
che assume all’interno dell’opera, è un passo di
Columella nel quale le piante vengono distinte a seconda che siano coltivate
dall’uomo o nascano spontaneamente: Earum species diversae et
multiformes sunt, quippe varii generis, sicut auctor idem refert: «nullis
hominum cogentibus ipsae sponte sua veniunt» multae etiam nostra manu satae procedunt (De re rust.
III,1). In questo esempio, la centralità della locuzione, negli intenti
dello scrittore del primo secolo, appare in tutta la sua chiarezza, tanto che
da essa trae origine la scelta di concentrare l’attenzione solo sulle
piante coltivate[16].
In posizione, verrebbe da dire intermedia tra i due gruppi, vi
sono due testimonianze di Plinio il vecchio delle quali, la prima più
significativa della seconda: … et quia manu satarum receptarumque in domos fulmine sola non icitur (Hist.
nat. XV, 134, in riferimento all’alloro, del quale si giustifica la
natura sacra ad Apollo proprio per essere – unico fra i vegetali piantati
dall’uomo – risparmiato dal fulmine); sunt auctores et Delphicam
platanum Agamemnonis manu sata (ibidem,
XVI, 238).
Al secondo gruppo appartengono un passo di Cesare[17]:
castellis enim xxiv effectis xv milia passum <in> circuitu
amplexus hoc spatio pabulabatur; multaque erant intra eum locum manu sata, quibus iumenta pasceret (Bell.
civ. III, 44,3 dove è messa in evidenza la tattica di Pompeo che si
preoccupava di fortificare dei terreni destinati al pascolo nei quali erano
ricompresi anche numerosi campi, presumibilmente già coltivati dagli
abitanti della zona, che egli invece aveva assegnato all’alimentazione
dei suoi iumenta) e uno di Tacito: … nam cuncta sponte edita
aut manu sata, sive herba tenus aut
flore seu solitam in speciem adlevere, atra et inania velut in cinerem
vanescunt (Hist. V, 7,2 con la descrizione degli effetti della
maledizione divina sulle città di Sodoma e Gomorra, perdurante pur dopo
la loro distruzione, che faceva sì che le piante – spontanee o
coltivate – nate sul loro territorio, una volta sviluppate, si
svuotassero divenendo nere e si dissolvessero in cenere).
In posizione autonoma rispetto a questi ultimi esempi, si colloca
un passo di Siculo Flacco che, nella tecnicità del discorso in cui
è inserito, consente di valutare la pregnanza della locuzione manu
sata anche sotto il profilo dell’ars gromatica: vepres si
finem facient, videndum quales, et <an> tantum modo in extremis finibus
sint, quoniam per neglegentiam colentium et in mediis agris solent esse vepres;
et [ut] an manu satae sint. nam etsi
regio quaedam virgulta non habeat, quae tutelam vineis aut hortis praestent,
adferuntur ex peregrinis regionibus et seruntur (De cond. agr.
La.147,12-17 = Th.111, 12-17 dove l’attenzione dell’agrimensore
è concentrata sulla valutazione dell’effettivo valore probatorio
dei roveti presenti sui terreni, da intendersi o meno quale segno di confine
che li separi dai terreni confinanti. In questo senso, l’agrimensore
biasima coloro che, negligentemente, lasciano che tali roveti crescano anche
nel bel mezzo dei campi, creando così equivoci sull’estensione di
quelli; ulteriore aspetto che deve essere valutato – prosegue il
gromatico – è l’intenzionalità della presenza di tali
vepres: se cioè essi siano nati spontaneamente o se siano stati
piantati (manu satae) appositamente, magari – qualora non siano
rinvenibili in zona – anche importandoli ex peregrinis regionibus;
in quest’ultimo caso, la loro valenza di segni di confini sarà
difficilmente controvertibile, poiché la volontarietà della loro
coltivazione e, soprattutto, della loro collocazione in una precisa posizione,
caratterizzerebbero senz’altro la loro specifica funzione.
La conclusione che si può, dunque, raggiungere dalla
lettura delle fonti sopra indicate, consiste nella conferma della sostanziale
tecnicità della locuzione manu sata, indicante la necessaria attività umana nella semina o
nella messa a dimora delle piante coltivate[18].
Ammessa, dunque, la
genuinità della locuzione manu sata nel passo in esame, si rivela
più agevole individuare le ragioni pratiche della divergenza fra le
parti, che avrebbero dato origine al dubbio alla base della quaestio
sottoposta al giurista; in concreto, l’opposizione tra venditore e
compratore del fondo risiede tutto nella maggiore o minore estensione con la
quale interpretare proprio quella locuzione contenuta nella lex venditionis.
L’occasione del contrasto è data da un fatto, tutto sommato
marginale e difficilmente prevedibile nel suo aspetto quantitativo, costituito
dalla nascita ‘spontanea’ di una certa quantità di grano (seges)
originata dai chicchi caduti nel corso dell’ultima mietitura[19]
che, nella descrizione del fatto offerta dal brano, viene intesa come
‘direttamente’ derivante dalle spighe già coltivate e
raccolte; a fronte di questa ‘imprevista’ (almeno al momento della
conclusione del contratto di compravendita) evenienza, la posizione delle parti
è diametralmente opposta: alla volontà del venditore di farla
rientrare nella lex (e quindi di riservarsi) anche questo
‘raccolto’, corrisponde l’intento contrario del compratore di
vederselo, invece, attribuito[20].
Prima di passare, però,
all’analisi della soluzione della quaestio, conviene soffermarsi
sulle ragioni che il venditore poteva accampare a sostegno della sua pretesa
che, altrimenti (certo influenzati dalla soluzione presentata e con chiaro
effetto retroattivo su di esse) sembrerebbero, prima facie, assolutamente infondate.
Elemento di centrale
importanza per valutare il fondamento di tali pretese è
l’influenza che il sistema del maggese,
assai presumibilmente nella variante “a due campi”, avrebbe potuto
esercitare sull’intera vicenda[21].
L’alternanza biennale maggese-cereali «(…) condizione
essenziale non solo per la piena reintegrazione della fertilità del
suolo, ma anche per il massimo rendimento nella trasformazione accumulata nelle
essenze coltivate in energia chimica, utilizzabile dall’uomo sotto forma
di alimenti «ricchi» come le carni, i grassi, il latte»[22]
avrebbe imposto al compratore di far riposare il fondo; egli, dunque, non avrebbe dovuto coltivarlo per il primo anno
agrario nel quale sarebbe stato proprietario ma, invece, riservarlo al
pascolo, attendendo che le biade ivi nate spontaneamente fossero giunte a
maturazione.
Il compratore, rispettando il
maggese, non coltiva il fondo comperato che, però, al termine
dell’annata, produce una messe di grano (seges) la quale,
nell’ottica del venditore, sarebbe derivata direttamente dalla stipula[23]
del frumento da lui seminato (manu sata) l’anno precedente: quella
derivazione appare, poi, ex latere venditoris, tanto più
evidente, quanto maggiormente egli considera ingiustificata
l’appropriazione della seges da parte del compratore. Chiarendo il
concetto: se l’effetto che il venditore vuole realizzare, attraverso
l’apposizione di quella lex, consiste nella volontà di
impedire che, oltre al fondo, vada al compratore anche il raccolto (tutto il raccolto, anche quello solo meramente
eventuale[24]),
perché egli vuole trasferire solo la res e non anche i frutti del
suo labor[25],
considererà la seges ex stipula enata come (inaspettato/meramente
eventuale) risultato della sua attività
lavorativa dell’anno precedente[26]
e si chiederà il motivo per cui, di quel provento, dovrà giovarsi
il compratore che è rimasto inerte e che quindi non potrebbe
assolutamente reclamarne la proprietà come se, al contrario ‑
avendo coltivato il fondo anziché averlo lasciato a maggese –
quest’ultimo sostenesse di non poter distinguere tra la seges ex
stipula enata e quella seges nata a seguito della sua coltivazione
di quell’anno.
Delineati così i
presupposti della quaestio, è ora possibile da un lato
giustificare il dubbio del richiedente se la seges ex stipula enata fosse
o meno compresa nel pactum che riservava al venditore i frumenta manu
sata e, dall’altro, dar conto del responsum alfeniano.
Il giurista pone come
fondamentale (maxime referre) criterio di valutazione l’id quod
actum est[27];
segue (ceterum – fine), poi, un discorso che sembrerebbe voler
orientare nell’individuazione del contenuto dell’id quod actum
est attraverso una serie di esempi costruiti sulla deductio ad absurdum[28].
La definizione di ciò che,
al tempo di Alfeno, si dovesse intendere per actum, nonché il
rapporto tra il concetto di actum alfeniano e quello labeoniano di
D.50,16,19 sono, evidentemente, temi troppo ampi e complessi per essere
trattati in questa sede e, d’altra parte, almeno un recentissimo lavoro,
che già nel titolo segnala l’argomento, è espressamente
dedicato all’«Ermittlung des Parteiwillens im klassischen
römischen Zivilprozeß»[29].
Nel più ristretto ambito di questa ricerca, dunque, l’attenzione
sarà concentrata sul significato da attribuire alla locuzione quid
actum est del responso alfeniano che, nella lettura del frammento qui
proposta, sarebbe presente un’unica volta, visto l’accoglimento
dell’emendazione mommseniana <satum> [actum].
La correlazione tra pactum
della quaestio e actum del responsum è stata messa
in luce da chi ha messo in evidenza come «(…) il richiamo
all’actum investa l’area di ciò che tra due soggetti viene concordato e manifestato in modo formale».
Così, fra i due ‘livelli di lettura’ dell’actum –
quello, individuato, appunto, dal rinvio «(…)
all’esteriorizzazione del medesimo, secondo quando sottolineato dalla
precisazione ‘secundum verba’, contenuta nella
soluzione» e quello, invece, rappresentato da «(…) una
prospettiva interpretativa (…) [che] risulta riferirsi genericamente e
letteralmente a ‘ciò che è stato fatto, concluso tra le
parti’» ‑ Alfeno sarebbe rimasto fermo sulla prima delle due
accezioni, perché ancora legato al formalismo negoziale dello ius
civile, tutto orientato verso modalità di conclusione dei negozi
‘sive verbis sive re’, secondo la notissima tripartizione
labeoniana. A riprova, poi, di questa interpretazione, si adduce che
«(…) la volontà è
qui inequivoca e, dunque, l’interpretazione letterale ‘secundum
verba’, appare soddisfacente, in quanto essa rispecchia, con un certo
margine di certezza, la volontà sottostante»[30],
di modo che – respingendo l’emendazione sopra ricordata – si
pone un rigido collegamento tra la risposta del giurista (quid est actum)
e la ‘spiegazione esemplificativa’ successiva introdotta da ceterum.
A questa ricostruzione, alla
quale vanno pure riconosciuti i meriti di mantenere (con l’eccezione
dell’accoglimento del non della Vulgata) integro il testo
della Florentina e di offrire una chiave di lettura storicamente
apprezzabile, va però – fra l’altro – mosso il rilevo
della sconnessione logico argomentativa presente tra la locuzione ceterum
secundum verba non esse actum, quod ex stipula nasceretur e gli esempi
successivi introdotti da ceterum
Ad appiattire, infatti,
secondo la ricostruzione precedente, entrambi gli actum (quid est
actum e non esse actum) su un significato ‘tipico’ e
formale ‑ in stretta relazione dunque con i verba scritti[31]/pronunciati
nella lex venditionis – si finirebbe, concretamente, per interpretare
la ‘motivazione’ del responsum come un accessorio superfluo
rispetto a quanto già enunciato con il sintetico rinvio al quod esse
actum. Chiarendo quanto appena detto: in questa accezione (magari
estremizzando un po’, ma traendo anche tutte le conseguenze da quella
premessa) l’intera parte finale del responsum sarebbe già
contenuta in nuce nell’id quod actum est iniziale e si
ridurrebbe solo all’esibizione di «schlagend-einprägsame
Vergleiche» e «beispielhafte Argumente» che avrebbero fatto impressione
sui lettori o sugli uditori del giurista[32]:
infatti, se quod actum est finisse per equivalere, in sostanza, a quod
dictum est, la quaestio non avrebbe addirittura più ragion
d’essere, poiché ciò che non sarebbe espressamente previsto
dai verba del pactum non potrebbe neppure essere preso in
considerazione ed a nulla varrebbero le argomentazioni proponibili,
benché in astratto e solo in via presuntiva, dal venditore (v. supra,
III C).
Miglior esito non sembrerebbe
dare neppure una interpretazione della locuzione ceterum secundum verba non
esse actum sulla base del secondo ‘livello di lettura’ prima
indicato: cioè traducendo questo actum con ‘concluso in
concreto’. Qui, per ragioni inverse a quelle sopra enunciate, stonerebbe
il richiamo ai verba: essi, infatti, limiterebbero fortemente lo spazio
interpretativo (al limite, riducendolo a zero) che, invece, dovrebbe tenere in
considerazione il complessivo comportamento tenuto dalle parti nel corso
dell’intera vicenda negoziale.
Al di là di queste
considerazioni, va poi notato come non sia del tutto piana l’attribuzione
della funzione di soggetto grammaticale, della frase oggettiva (esse actum),
alla locuzione quod ex stipula nasceretur e come, conseguentemente, non sia agevole la traduzione di entrambi gli actum
in maniera coerente con il significato di ‘concluso in concreto’[33].
A fronte di queste
difficoltà sintattiche ed interpretative, la proposta di emendazione di
Mommsen si rivela efficace su entrambi i versanti e permette altresì di
ipotizzare un ulteriore esito del responsum alfeniano.
Tra coloro che respingono nettamente l’emendazione qui,
invece, accolta, va innanzitutto ricordato David Daube che la rifiuta
perché, con essa, il pactum avrebbe «(…) explained
wheter or not this crop was sown
– very queer»[34].
La debolezza di quella argomentazione è evidenziata dai termini in spaziato:
il riferimento al satum (non esse [actum] <satum>)
non va inteso in senso particolare, cioè in relazione solo a quel raccolto, oggetto della lex
venditionis, ma in senso generale, in riferimento a qualsiasi raccolto per il
quale sia stata prevista la clausola (frumenta) manu sata; come
si dirà tra un momento, l’argomentazione alfeniana ceterum –
fine, non deve essere letta in contrapposizione al responsum maxime referre
quid est actum, ma in maniera complementare ad esso, quasi, in un certo
senso, per orientare l’interpretazione di un criterio ermeneutico
(l’actum, appunto) dai molteplici risvolti.
La sostituzione di actum
con satum[35]
è, come si è già accennato (supra II e nt. 5),
dettata da motivi logici e non da ineludibili esigenze grammaticali o da
varianti nei codici; nonostante questo carattere di
‘arbitrarietà’, la scelta, tuttavia, si rivela felice e
consente di avanzare una diversa chiave di lettura della
‘motivazione’ del responsum.
Il dato di partenza è
il parallelismo esistente tra il manu sata della lex venditionis ed
il satum della ‘motivazione’; questo implica che il responsum
sia completo di per sé:
Alfeno, in altre parole, ritiene che il metro di valutazione sia comunque
l’id quod actum est: ciò che le parti hanno in concreto
concluso che, non necessariamente,
può coincidere con i verba pronunciati; a credere
diversamente, si è appena sopra notato (IV A), l’intera questione
perderebbe di interesse e, cosa più rilevante, tutta la seconda parte (ceterum
– fine) del paragrafo non avrebbe più ragion d’essere o, al
limite, potrebbe essere semplicemente considerata come una glossa esplicativa
aggiunta ex post; ma così, invero, non sembra.
Il satum finisce quasi
per ‘circoscrivere’ l’actum: a fronte della
necessità di fondare l’interpretazione del contenuto della lex
venditionis sul concreto comportamento delle parti, il giurista
avanzerebbe, quale complementare
criterio ermeneutico, quello della argomentazione lessicale di carattere generale (e, quindi, non limitato alla quaestio
discussa) facente leva sullo sforzo interpretativo volto alla definizione del satum
(manu sata) presente nei verba della lex venditionis[36].
Questo non vuol dire, però, tornare alla lettura che finisce per
schiacciare l’actum sui verba: il riferimento al satum
– confermato dai calzanti esempi che seguono (infra, IV C) –
è compiuto in via supplementare, ad adiuvandum, verrebbe da dire.
Ed in questo senso va letto anche il ceterum: come una spia che attesta
come il contenuto del responsum non muti, ma venga solo precisato.
Quanto al significato da attribuire all’avverbio ceterum, il VIR. ad h.v.,
inserisce la nostra ricorrenza tra quelle del quinto gruppo, che riunifica
sotto la comune definizione fere = utique, nam. Tale accezione, accolta
dalla dottrina meno recente[37],
conferirebbe alla seconda parte del frammento un valore causale che, invece, ‑
almeno per quanto fin qui detto – dovrebbe essere escluso. Sembra,
piuttosto, condivisibile la lettura che interpreta quella particella come
«im übrigen; ansosten»[38]
che si concilia, oltretutto, perfettamente con il valore di argomentazione
lessicale qui attribuito al periodo introdotto da ceterum.
Per stabilire, dunque, se la seges
ex stipula enata sia o no ricompresa nei frumenta manu sata, va osservato
ciò che le parti hanno concluso in concreto ed a questo va aggiunto il
dato dell’interpretazione dei verba che (seppure in linea
puramente astratta) potrebbe anche non coincidere con il primo[39].
L’argomentazione
linguistica è, dunque, di centrale rilevanza nel quadro complessivo del responsum
alfeniano e l’unitarietà della sua enunciazione consiglia di
elidere la virgola che, sia nell’edizione cd. maior che nella
Mo-Kr., precede la locuzione quod ex stipula nasceretur; si ritiene,
infatti, che se si leggesse di seguito ceterum secundum verba non esse satum
quod ex stipula nasceretur, rell. (e non ceterum secundum verba non esse
satum, quod ex stipula nasceretur, rell.) il collegamento tra il definiendum
(quod ex stipula nasceretur) ed il definitum (satum)
sarebbe, di certo, più stringente poiché, data per indiscussa
l’estensione semantica del termine satum, si tratterebbe –
sia pure per absurdum e, comunque, nel quadro dell’interpretazione
dell’id quod actum est – di verificare se quod ex stipula
nasceretur vi rientri o meno.
I due esempi, addotti per
negare la riconducibilità della seges ex stipula enata ai frumenta
manu sata, pur presentando, fra di loro, una struttura logica
parallela, sembrano tuttavia ordinati in una sorta di ‘gerarchia’,
fondata sul grado di lontanza della fattispecie in essi descritta rispetto a
quella oggetto di comparazione.
In altre parole, i due esempi
(del saccarius e degli aves) sembrano scelti sì per loro
comune valore emblematico di situazioni assolutamente non riconducibili al
concetto di satum, eppure la loro successione non appare occasionale, di
modo che, al limite, ne sia possibile anche l’inversione. La tensione
retorica del discorso di Alfeno emerge, in questo caso, al di là di ogni
dubbio: attraverso il ricorso alla reductio ad absurdum il giurista
tenta di escludere dall’ambito semantico di satum ciò che
‘cada’ (accidentalmente) e non quello che –
nell’implicita opposizione ad esso – venga gettato volontariamente
nell’atto della semina; tanto più, poi, questo ragionamento
risulta rafforzato, quanto più si rifletta sulla ‘concreta’
possibilità – ipotizzata nei due esempi – da un lato che il
seme ‘cada’ e dall’altro che riesca a germinare. Ecco, allora, spiegata la ragione della
precedenza dell’esempio del saccarius rispetto a quello degli aves:
nella comune lontananza dal satum, la probabilità che possa
nascere spontaneamente la seges da chicchi che siano caduti dai sacchi
appositamente approntati allo scopo di trasportarli appare – se non altro
dal punto di vista del rapporto statistico basato sulla quantità di
grano che, presumibilmente, da essi sarebbe potuto cadere – molto
maggiore di quella che sarebbe potuta cadere e, al limite, germinare ex eo
quod avibus ex aere cecidisset[40];
di qui, il rilievo di quella sorta di climax ascendente nella successione
dei due exempla.
Al di là, però, di questi profili
‘interni’, non sembra azzardato ipotizzare un’assonanza
‘esterna’ sulla seconda parte del responsum alfeniano: nella
specie, la struttura argomentativa potrebbe presentare delle corrispondenze col
modello ciceroniano della similitudo, così come esemplificato nel
§ 15 dei Topica[41].
Si riporta qui sotto il testo della seconda fonte non per sostenere una diretta
derivazione del Gedenkengang alfeniano da essa, quanto per non omettere una
suggestiva comparazione:
Cic., Top. 15. A
similitudine hoc modo: Si aedes eae corruerunt vitiumve faciunt, quarum usus
fructus legatus est, heres restituere non debet {I} nec reficere, non magis quam {II}
servum restituere, si {III} is, cuius usus fructus legatus
esset, deperisset.
(…) ceterum secundum verba
non {I} esse [actum] <satum> quod ex stipula nasceretur, non magis quam {II}
si {III} quid ex sacco saccarii cecidisset aut ex eo quod avibus ex aere
cecidisset natum esset.
I punti di congiunzione tra i due testi sono indicati dai numeri
romani: il primo riguarda la negazione, che in Cicerone accompagna la condotta
dell’erede ed in Alfeno quella del predicato satum (primo elemento
della comparazione); segue, poi, la locuzione non magis quam con la
quale si introduce la comparazione a similitudo tra i due elementi, con
una chiara sfumatura negativa; chiude, infine, entrambe le frasi, la locuzione
introdotta dal si, attraverso cui si propone il secondo elemento di
paragone, costruito sulla base di un periodo ipotetico della
possibilità.
Al termine di questa indagine,
si può concludere che il responsum alfeniano presenti la
soluzione concreta ad un dubbio altrettanto concreto avanzato dalle parti,
derivante dal conflitto sull’appartenenza del raccolto nato
‘spontaneamente’, dopo che il fondo era stato lasciato a maggese
per un anno. La quaestio non è frutto di un’interpretazione
capziosa del venditore, quanto piuttosto il portato
dell’‘anomalia’ della situazione di fatto, confrontata col
contenuto tipico di una lex venditionis che, almeno nelle intenzioni del
venditore proponente, avrebbe dovuto svolgere la funzione di massima tutela dei
propri interessi: questi, infatti, attraverso l’impiego della locuzione
tecnica (frumenta) manu sata inserita nella clausola
contrattuale, avrebbe inteso escludere dalla vendita del fondo anche il
raccolto da lui coltivato, in modo da separare nettamente il risultato della
produzione (i frutti) dal ‘sostrato produttivo’ (il fondo stesso).
L’aggancio
all’immediatezza del rapporto negoziale fra le parti, colto
nell’essenzialità della dialettica fra venditore e compratore
sottesa alla quaestio, permette al giurista di superare la
rigidità del richiamo ai verba della lex venditionis attraverso
il rinvio al parametro valutativo dell’id quod actum est.
Alfeno, inoltre, aggiunge a
quel criterio interpretativo – orientandone, al contempo, la
‘valenza ermeneutica’ – una sottile argomentazione
linguistica, tendente a circoscriverne l’ambito operativo, attraverso
il richiamo all’estensione semantica del lessema satum, al fine di
escludere la riconducibilità a quest’ultimo della seges ex
stipula enata; tale risultato è ottenuto dal giurista attraverso il
suggestivo impiego di una reductio ad absurdum per mezzo di due felici exempla,
ordinati secondo un climax ascendente, peraltro, nel più generale
contesto – si ipotizza – del rispetto dello schema retorico della similitudo.
[1] G. Gandolfi, Criteri sussidiari e fine
primario dell’ermeneutica negoziale, in Studi in onore di Gaetano
Scherillo. I, Milano, 1972, 30.
[2]
L’osservazione di D. Daube,
Sown by Hand, in University of Ceylon Law Review, 1 (1958), 1-8
(= Collected Studies in Roman Law, II, Frankfurt am Main, 1991, 745-756,
dal quale citerò, 748) che evidenzia l’uso dell’indicativo (quid
est actum) al posto del più corretto – secondo l’A. ‑
congiuntivo (quid actum sit) viene per un verso attenuata dallo stesso
A. (che ne individua le cause in un lieve slittamento «minor slip»
lessicale dovuto alla tradizione manoscritta), per altro si rivela ininfluente
sul piano sintattico, in relazione alla costruzione della frase. Se, infatti,
la frase introdotta dal respondit è di tipo oggettivo (con
accusativo ed infinito) il soggetto di essa dovrebbe essere il verbo referre
e, di conseguenza, non si dovrebbe leggere né est né sit ma quid
actum esse (o, meglio, fuisse, visto il momento passato
dell’attività negoziale delle parti rispetto al responsum
del giurista); va da sé, comunque, che
l’‘irregolarità’ sintattica della frase non ne inficia
assolutamente la genuinità del significato. Per quella particolare
caratteristica, che si avrà modo di notare anche nel seguito di questa
ricerca, del lavoro di Daube consistente nell’«(…) attenzione
al momento ermeneutico, ai termini e alla loro semantica (…) [alla] non
sottovalutazione (…) della lettera, dalla quale occorre sempre prendere
le mosse, mostrandone però la plurivocità e reintegrandola nello
spirito (…)» v. G. Crifò,
Rc. a (a cura di D. Cohen e D. Simon) D. Daube, Collected Studies in Roman
Law cit, in SDHI. 58 (1992), 513.
[3] Non si
affrontano in questa sede gli spinosi problemi della considerazione dei Digesta
di Alfeno come una ‘semplice’ raccolta dei pareri di Servio da un
lato né quello della tradizione dei Digesta di Alfeno nella
epitome ‘paolina’ dall’altro; più limitatamente, ci si limita a
rinviare, per la bibliografia sul punto, a H.-J. Roth, Alfeni Digesta. Eine spätrepublikanische Juristenschrift, Berlin, 1999, in part. 20 ss. Va, peraltro, segnalato
(per il primo punto) che questo A., respingendo il criterio
dell’attribuzione all’uno piuttosto che all’altro giurista
sulla base del mero rilievo formale respond i/t, segua il criterio di
ritenere Alfeno autore di tutti i passi da lui esaminati «(...) mangels
anderer Anhalspunke (...) ohne freilich Servius als möglichen Autor des
Responsum auszuschließen» (p. 25) mentre (per il secondo punto)
ritenga che «was die Tätigkeit beider Epitomatoren [sc. quello della
‘serie’ digestorum a Paulo epitomatorum e quello della Paulus
epitomarum digestorum] angeht, wird allgemein die Ansicht vetreten,
daß zumindest der paulinische Auszug Zusätze des epitomirenden
Juristen enthalte, die mit dem alfenischen
Text zu einer Einheit verschmolzen seien» (p. 22, lo spaziato
è mio). Sostanzialmente adesivo
anche D. Liebs, Rc. a H.-J.
Roth Alfeni Digesta cit., in ZSS. 116 (2000), 519-525 che pure non
tralascia di rilevare come il recensito «vernachlässigt über
seiner Entdeckung Servius zu sehr» (p.523); molto più critico
– ma per rilievi che qui non interessano direttamente – O. E. Tellegen - Couperus, Rc. a H.-J. Roth Alfeni Digesta cit., in TR.
69 (2001), 382-385; v. anche V. Carro,
Su Alfeno Varo e i suoi «Digesta», in Index 30 (2002),
235-245 che recensisce il lavoro di Roth.
[4] Th. Mommsen,
Digesta Iustiniani Augusti [ed. maior], Berlin, 1868-1870 (rist. Goldbach, 2001), ad h.l.; in senso adesivo C. Appleton, Les négations
intruses ou omises dans le manuscrit des Pandectes florentines. A
propos d’un livre récent, in NRHDFE., 39
(1916), 45 s. che ascrive l’assenza della particella al gruppo delle
«omissions d’origine inconnue»; per l’accoglimento
dell’integrazione, da ultimo, P. Pescani,
Origini delle lezioni della Litera Bononiensis superiori a quelli
della Litera Florentina, in BIDR., 85 (1982), 262 che attribuisce
l’omissione del non all’errore di uno scriba che, non
ricordando per intero la frase dettata, abbia dimenticato di scrivere la
particella; contrario all’accoglimento Daube,
Sown by Hand cit., 748 s. che, preferendo la lettura della
Florentina, giustifica il contrasto che si verrebbe a creare tra le
locuzioni secundum verba esse actum e non magis quam con l’effetto
di un notevole accorciamento subito dal passo. In particolare, l’A.
immagina che sia caduta completamente una ‘seconda’ parte del
paragrafo (tra la prima – coincidente con l’attuale – e la
‘terza’ ceterum – fine) nella quale si sarebbe
riportato testualmente («quoted») il contenuto del pactum
tra venditore e compratore circa la spettanza del frumento nato dal fondo nel
senso di «‘any corn produced on the estate this
season’». Va però, rilevato che, sebbene questa
interpretazione faccia venir meno la necessità di emendare il testo
latino e, quindi, consenta di manterlo immune anche da ulteriori (a nostro
avviso, necessarie) integrazioni, presenta però il grave svantaggio di
dover espungere (se non formalmente, quantomeno sostanzialmente) il dato relativo
ai frumenta manu sata; ad accogliere, infatti, l’ipotesi di Daube,
si finirebbe per privare di qualsiasi valore quell’indicazione: se dai
(presunti) verba del pactum è specificata la riserva assoluta («any
corn») di proprietà del frumento a favore del venditore, a prescindere completamente dalle sue
modalità di coltivazione, è giocoforza ritenerli in insanabile
contraddizione con la limitazione ai manu sata dei frumenta
riservati al venditore. La possibilità, in conclusione, di
evitare l’inserimento della negazione appare preclusa: benchè,
infatti, non si possa non concordare con Daube circa la deteriorità dei
manoscritti che contengono il non rispetto alla Florentina, non
è tuttavia possibile prescindere dal «good sense» (ammesso
dallo stesso A.) fornito dai primi.
[5] Sembra
opportuno notare come nell’ed. maior la proposta sia seguita da un
punto interrogativo, interpunzione che, invece, viene meno nella Mo. –
Kr. I Basilici, in questo caso, non aiutano perché, come è noto,
l’intero libro diciannovesimo, sedes materiae della compravendita,
è restitutus. D’altra parte, le restitutiones del
nostro frammento differiscono nell’ed. Heimbach ed in quella Scheltema.
Se la prima (Heimb. II, 264 = Bas. 19,1,38) affidandosi al parallelo passo
Tipucito, rende il testo dei Basilici: Kai# peri@ tou^, eèa#n pwlw^n
aègro#n uépexe@lw eèmautw^j ta# spare@nta, poi^a
perie@cesqai dokei^. (Si fundum vendens manu sata recepi, quaenam eo contineatur)
la seconda, invece, rinuncia a ricostruire l’intero frammento e, sulla
scorta della Synopsis, restituisce solo Bas. 19,1,40 = Sch. A.III. 919
che qui non rileva assolutamente. Da ultima, U. Babusiaux, Id quod actum est, München, 2006, 193,
non accoglie l’emendazione di Mommsen, ma è costretta a tradurre
in maniera differente i due actum: mentre il primo corrisponderebbe al
tedesco «vereinbaren», il secondo, invece, dovrebbe rendersi con
«meinen» (v. anche infra IV A e nt. 32); la necessità
di un cambiamento così repentino (nonché rilevante) di senso tra
i due termini, solleva però riserve quantomeno equivalenti a quelle che
l’accoglimento dell’emendazione provoca nell’A. In una simile
difficoltà, pare, si fosse già imbattuto G. Negri, Diritto minerario romano,
Milano, 1985, 50, nt.129 che, facendo leva sulla pur condivisibile
«funzione pratica della lex venditionis», proponeva di tradurre la locuzione secundum
verba non esse actum con «secondo il significato funzionale delle parole» (lo spaziato
è dell’A.); fino a che punto, però, quella traduzione non sconfini
in una libera interpretazione, non è facile dire.
[6] B. Biscotti, Dal pacere ai pacta
conventa, Milano, 2002, 364 nega al brano «(…) quella limpidezza
stilistica (…) propria di Alfeno». L’A., d’altra parte,
nella sua ricostruzione del testo (364), riporta il non della locuzione secundum
– actum, mentre respinge l’integrazione di Mommsen [actum]
<satum>. Quanto alla prima delle due scelte, però, non si
può omettere di osservare come la stessa A., in maniera forse non
perfettamente coerente, da un lato ritenga (336, nt.61) non «(…)
corretta l’introduzione della negazione non prima di esse actum
(‘ceterum secundum verba non esse actum, quod ex stipula
nasceretur, non magis quam si quid ….’)» ma
dall’altro proponga di tradurre in italiano: «d’altra parte
secondo le parole non è stato
ricompreso ciò che fosse nato dalla stoppia, più che se qualcosa …»
(lo spaziato è mio), quando – almeno dal punto di vista
linguistico ‑ lessicale – inverte la negazione, apponendola, in
italiano, là dove, invece, vorrebbe eliderla nel latino e, in maniera
inversa, omettendola nella traduzione quando, al contrario, essa è
presente nel testo originario; da ultima, v. U. Babusiaux, Id quod actum est, München, 2006, 193
[7] G. Beseler,
Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen. III,
Tübingen, 1913, 13; osservazioni, poi, ribadite in Id., Unklassische Wörter, in ZSS. 56
(1936), 36; da ultimo F. Horak, Rationes
decidendi, Aalen, 1969, 265, 12 giudicava «unnötig» la soppressione
della locuzione avanzata da Beseler; con funzione riepilogativa dei presunti emblemata
Triboniani rinvenibili nel testo, F. Sturm,
Il pactum e le sue molteplici applicazioni, in Contractus e pactum.
Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza
tardo-repubblicana. Atti Copanello 1988, Napoli, 1990, 168, nt.69.
[8] In
questo senso, ancora D. Daube, Slightly
different, in IURA 12 (1961), 81-116 (= Collected Studies
cit., II, 1025-1056 dal quale citerò) che ritiene tale particella
indizio della comune abitudine dei compilatori di mascherare
l’«excision» da loro operata sul testo (1037).
[11] Forse,
proprio la comunanza di argomento avrebbe potuto far anticipare la collocazione
di D.50,16,205 (Qui fundum vendidit, ‘pomum’ recepit: nuces et
ficos et uvas dumtaxtat duracinas et purpureas et quae eius generis essent,
quas non vini causa haberemus, quas Graeci trwxi@mouv appellarent, recepta
videri) subito dopo il § 4, anziché a chiusura di L.62.
[12] F. De Martino,
Produzione di cerali in Roma nell’età arcaica, in La
Parola del Passato, 34 (1979), 241-253,
[13]
Avvicinabile, quo ad effectum ad una nuncupatio compiuta nella mancipatio
traslativa del fondo, anche se correttamente (ma, forse, in maniera
eccessivamente univoca) è stato messo in rilievo come sia oggi possibile
superare quella limitazione dell’ambito di operatività della
clausola, in virtù della sua riconduzione ad una «(…) lex
privata calata nel contenuto del contratto di vendita in termini di pacisci»,
così R. Cardilli, La
nozione giuridica di fructus, Napoli, 2000, 117 nt.109; in quello stesso
senso già F. Gallo,
Synallagma e conventio nel contratto. I, Torino, 1992, 50 s. che
assimilava la fattispecie ad un «(…) caso rispondente allo schema
operativo apprestato dalla giurisprudenza: a un accordo di vendita (…)
eseguito dal venditore con la mancipatio». Va, però, anche
ricordato un altro significativo frammento alfeniano, sì con altro
oggetto, ma con struttura avvicinabile a quella del passo qui in esame:
D.21,2,45 (L.63, non a caso collocato immediatamente dopo D.18,1,40,3) in cui
la lex venditionis appare quasi sicuramente inserita nel negozio librale
preordinato al trasferimento del fondo; si consenta, in proposito, il rinvio a
M. Vinci, Demonstratio finium e
compravendita, in La compravendita e l’interdipendenza delle
obbligazioni nel diritto romano. II, Padova, 2007, 410-453.
[15] V. la
tavola, con la pianta dell’aviarium della villa varroniana di
Cassino, nella traduzione italiana a cura di A. Traglia, Opere di Marco Terenzio Varrone,
Torino, 1974 (rist.1996), 800.
[16] Tanto
è vero che lo stesso Columella prosegue, subito dopo, sottolineando come
… sed quae non ope humana gignuntur, silvestres ac ferae sui
cui<us>que ingenii poma vel semina gerunt; at quibus labor adhibetur,
magis aptae sunt frugibus … con un evidente collegamento tra (arbores)
manu satae e labor:
la coltivazione, cioè, costa fatica, ma è solo dalla satio
e dal labor che derivano le fruges magis aptae all’alimentazione
umana.
[17] Che
già Daube, Sligthly
different cit., 1038, pur non esaminandolo espressamente, identificava come
la prima ricorrenza dell’«establisched term», anche se
– come è evidente – nel passo non è presente, come
invece vorrebbe l’A., la «reduction of manu sata to sata».
[18]
Concorda, sul punto, anche Biscotti,
Dal pacere cit., 364 s., nt.58, dalla quale, però, si dissente
circa la ricostruzione della causa che dà luogo alla controversia fra le
parti, v., infra, nt.20. Non sembra accoglibile, invece, la lettura di Negri, Diritto minerario cit.,
50 nt. 128 che tradurrebbe manu sata con «già
seminato» anziché con «seminato a mano»; a parte gli
usi tecnici della locuzione, infatti, gli esempi addotti nella parte finale del
paragrafo sono scelti proprio in opposizione all’interpretazione scartata
dall’A.
[19] La
fattispecie è dunque ben distinta da quella della spigolatura alla quale
andrebbe ricondotto, invece, D.50,16,30,1 (Gai. 7 ad ed.) ‘Stipula illecta’ est spicae in messe
deiectae necdum lectae, quas rustici cum vacaverint collingunt; cfr.
A. d’Ors, “Messis
in spicis” (D.19,2,60,5), in SDHI. 58 (1992), 281 che osserva
come «después de la siega, quedan siempre en los surcos espigas
por recoger». Dal punto di vista agronomico, Varrone raccomandava di
prestare attenzione alla spigolatura e di comportarsi diversamente a seconda
del rapporto costo/risultato che il raccolto di essa avrebbe comportato: Messi
facta, spicilegium venire oportet aut domi legere stipulam aut, si sunt spicae
rarae et operae carae, conpasci. Summa enim spectanda, ne in ea re sumptus fructum
superet (De re rust. I, 53).
Sulle svariate tecniche di mietitura e sulla correlativa possibilità che
una parte (più o meno rilevante) del seme cada in terra, finendo per
germinare l’anno successivo alla raccolta, v. J. Kolendo, L’agricoltura nell’Italia romana,
Roma, 1980, 155 ss.
[20] Sulla spettenza dei frutti post venditionem sia
sufficiente ricordare Frag. Vat. 15 Fructus pendentes etsi maturi
fuerunt, si eos venditor post venditionem ante diem solvendi pretii percepit, emptori
restituendos esse convenit, si non aliud inter contrahentes placuit; M. Bussmann, L’obligation de
délivrance du vendeur en droit romain classique (Thèse de
doctorat), Lausanne, 1933, 146 s. che, inoltre, ricomprende
«(…) dans les textes de conventions par lesquelles le vendeur
sé réserve les fruits de chose vendue» anche il nostro
passo di Alfeno.
[21]
Praticamente tutti gli Autori consultati, sebbene con diverse sfumature (e
talora in modo implicito), convergono su questa ricostruzione: dal più
risalente Daube, Sown by Hand cit.,
746 alla più recente Babusiaux,
Id quod actum est cit., 193 con l’eccezione di Biscotti, Dal pacere cit., 365
che, invece, facendo leva sul testo di Varrone sopra (nt.18) riportato, rileva
come «(…) l’ipotesi in questione sarà stata da porre
in relazione con quell’intervallo di
tempo (…) intercorrente tra il
taglio del frumento e la raccolta dello stesso: durante tale periodo le
spighe giacevano sul terreno e, in particolare, se ciò si protraeva per
un certo tempo, non era difficile che i chicchi rimasti a terra fossero tanti
da produrre un nuovo raccolto economicamente apprezzabile». Va, in
contrario, notato che è irrilevante la causa della caduta a terra dei
chicchi di grano in occasione della mietitura, nonché l’intervallo
di tempo tra quest’ultima e la raccolta del grano: al limite, si potrebbe
anche immaginare una tecnica di mietitura con una “mietitrice
gallica” del tipo analizzato da Kolendo,
L’agricoltura cit., 155 ss., nella quale le operazioni di
mietitura e di raccolta finivano praticamente per coincidere temporalmente. Che
i chicchi siano caduti a terra è incontestabile; la questione, però, origina non dalla caduta, ma dalla
germinazione: proprio perché quest’ultima avviene un anno
dopo la prima vi può essere discussione tra venditore e compratore sulla
seges ex stipula enata; di per sé, dunque, ciò che conta è il
‘nuovo’ raccolto nato senza coltivazione da parte del compratore e
non il fatto che le spighe fossero lasciate o meno sul campo. Se si accetta quanto appena sostenuto,
non è necessario arrivare all’ipotesi ‘estremistica’
avanzata da Daube, Sligthly
different cit., 1038 che, nel quadro di una difficilmente sostenibile
interpretazione letterale della locuzione manu sata, riteneva che le
ragioni del venditore fossero fondate sul fatto che «(…) mowing
down of ears in the previous harvest without picking them up might indeed be claimed to be a ‘sowing hand’»
(lo spaziato è mio); come, invece, si è tentato di chiarire, la
prospettiva di quest’ultimo potrebbe essere essenzialmente
‘negativa’: il frumento che non è stato coltivato dal
compratore, andrebbe ricondotto a quello da lui seminato.
[22]
Così, E. Sereni, Storia
del paesaggio agrario italiano, Bari, 1984 (prima ed. 1961), 34. Lo stesso
Autore faceva al contempo notare come il sistema dei “due campi”
(diffuso soprattutto in Italia centrale e meridionale) comportasse
l’esclusione dal pascolo sui maggesi e sulle stoppie dei privati, con il
risultato della prevalenza di «(…) un paesaggio a «campi
chiusi», nel quale i confini restano stabilmente segnati»; è
evidente come un simile panorama si attagli perfettamente al § 3 dove
oltretutto, a differenza che nel pr., non si fa questione dell’estensione
del fondo ma, data questa per incontestata fra le parti, la dialettica tra
venditore e compratore è incentrata solo sul profilo della spettanza dei
frutti.
[23]
Termine che già la Glossa (gl. stipula ad h.l.) si preoccupava di
chiarire: quam vulgariter stopolam appellamus; cfr. C. Du Cange, Glossarium mediae et
infimae latinitatis, VI, (rist. Aalen, 1954), ad h.v.
[24] Magari
limitatamente ai frumenta; il passo non dice nulla in proposito, ma si
potrebbe anche immaginare una situazione nella quale il campo non fosse
coltivato interamente a grano ma, per ipotesi, anche in parte ad alberi da
frutto. È evidente che, per questi ultimi, il venditore non avrebbe
potuto invocare la riserva manu sata perché vi sarebbe opposta la
regula della l.80: Cum manu sata in venditione fundi excipiuntur, non
quae in perpetuo sata sunt excipi viderentur, sed quae singulis annis seri
solent, ita ut fructus eorum tollatur: nam aliter interpretantibus vitas et
arbores omnes exceptae videbuntur. Se, però, la exceptio non
può essere estesa agli alberi da frutto, nulla però –
almeno, si ripete, dal punto di vista del venditore – impedirebbe che
essa fosse intesa in senso ‘verticale’ e non
‘orizzontale’: escludendo, cioè, sì gli alberi da
frutto, ma estendendosi ai frutti quae singulis annis seri solent anche
dopo l’anno di coltivazione e di raccolta di essi, secondo il principio
che i ‘secondi’ frutti non rappresenterebbero – in
quell’ottica – una nuova serie ma (tanto più se il fondo non
è stato coltivato per la ‘seconda’ annata) solo una raccolta
‘tardiva’ rispetto alla prima excepta.
[26] Come
correttamente sostenuto da Horak,
Rationes decidendi cit., 265, in polemica con Pringsheim, Id quod actum est cit., 20 il quale,
osservando che ciò che nasce (spontaneamente) dalla stipula non
può definirsi ‘seminato’, sosteneva «(…) so
wundert man sich, daß es auf iqua [= id quod actum est]
ankommen soll, zumal ja nachher nicht hiernach, sondern richtig nach den verba
entscheiden wird»; al contrario, replicava Horak, l’intero problema
sarebbe incentrato proprio sul fatto che «(…) das, was nach der
Erne noch hervorwuchs, doch auch der Saat des Verkäufers
entsproßte».
[27] Nega
la genuinità del riferimento all’id quod actum est ‑
attestandosi su posizioni decisamente interpolazionistiche – L. De Sarlo, Alfeno Varo e i suoi
Digesta, Milano, 1940, 90 che ravvisa nel brano «(…) la riprova
della sovrapposizione dell’indagine, che i bizantini con ogni mezzo
perseguono, della volontà all’interpretazione del negozio, secondo
il senso che le parole usate nel linguaggio comune universalmente hanno».
[28]
Così, esplicitamente, Horak,
Rationes decidendi cit., 265; su quella tecnica argomentativa v.,
inoltre, M. Bretone, Tecniche
e ideologie dei giuristi romani2, Napoli, 1982, 204 s.
[31] Gallo, Synallagma cit, 50 nt. 71
pone, infatti, l’accento sulla documentazione scritta dell’accordo
che, ai fini probatori, sembra voler contrapporre ai testimoni della mancipatio.
[33]
Esemplificativa è la traduzione proposta da Gallo, Synallagma cit., 50 nt. 69 che rinuncia a
tradurre le due ricorrenze con termini uguali: «(…) Il giurista
rispose che occorre soprattutto guardare a
ciò che è stato convenuto; peraltro, secondo le parole
dell’accordo, non si è
considerato ciò che sarebbe nato dalle spighe cadute» (lo
spaziato è mio); seguito alla lettera, ancora di recente, da Babusiaux (supra, nt. 5); poco
differente è la traduzione di Biscotti,
Dal pacere cit., 366 nt. 61 «(…) d’altra parte secondo
le parole non è stato ricompreso ciò
che se fosse nato dalla stoppia, più che …» (lo spaziato
è mio).
[34] Daube, Slightly different cit.,
1037 (lo spaziato è mio); Biscotti,
Dal pacere cit., 366 nt. 61 concorda con l’A. inglese
«(…) dal momento che si creerebbe uno iato logico tra ‘secundum
verba’ e ‘non esse satum, quod ex stipula nasceretur’»;
ad esser sinceri, però, non risulta evidente la presenza di un simile
«iato logico» del quale, fra l’altro, si deve credere che
neppure lo stesso Mommsen si sarebbe avveduto allorché aveva proposto
quell’emendazione.
[35] Va
notato che, nella recente traduzione tedesca dei Digesta, ad opera di O.
Behrends - R. Knütel - B. Kupisch
– H.H. Seiler, Corpus Iuris civilis. Text und Übersetzung.
III, Heidelberg, 1999, 455, si sia accolta l’emendazione mommesiana nel
testo latino e, di conseguenza, si sia tradotto «(…) gehöre dem
Wortlaut nach nicht zur Ausaat (…)».
[36] Bretone, Tecniche e ideologie
cit., 93 mette in rilievo, nel quadro generale della struttura e delle
caratteristiche dei responsa serviani «(…) un altro aspetto,
forse meno appariscente [sc. rispetto alla loro «misura analitica o
sistematica»] ma denso di applicazioni notevolissime: il diverso,
possibile collegarsi della risposta alla domanda, del responsum alla quaestio
(…)»; non sembra quindi azzardato ipotizzare che il brano in esame
possa essere letto come un chiaro esempio del collegamento tra quaestio
e responsum, nel senso sostenuto dall’A., tanto più sulla
base dell’accoglimento dell’emendazione mommseniana.
[39] In
questo senso, esplicitamente, G. Gandolfi,
Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano,
Milano, 1966, 121 s. che concludeva la sua esegesi del passo con
l’affermazione secondo la quale «(…) risulta come l’id
quod actum giuridicamente rilevante possa anche non corrispondere al senso
esteriore dei verba – la cui esclusiva considerazione è
sussidiaria – o alla fattispecie quale ricostruibile alla luce della
funzione economico-sociale del negozio: essendo pertanto il contenuto effettivo
dell’accordo materiale». Va notato, però, che l’A. non
accoglie l’integrazione di Mommsen e quindi la sua ricostruzione presti
il fianco a quelle riserve, di ordine sintattico, sopra ricordate.
[40] In
questo senso (quello della paradossalità dell’exemplum)
poco cambia accogliendo o meno l’emendazione ex ore proposta dalla
Vulgata: il chicco che cade dal becco degli uccelli o, più
genericamente, che precipita dal cielo perché da loro lasciato cadere,
può essere considerato equivalente, quanto alla possibilità di
germinare.