N. 8 – 2009
– Tradizione-Romana
Università di Bari
Considerazioni sulla Tabula
Bantina (Osca)*
Sommario: 1. Il
contesto. – 2. – Il testo. – 3. La traduzione latina. – 4. La datazione.
– 5. Le magistrature.
– 6. Proposte.
La Tabula Bantina è considerata
il secondo più corposo e significativo documento scoperto sulla lingua osca.
È giunto a noi in tre frammenti,
che hanno arricchito quello che si andava scoprendo della lingua degli antichi
popoli italici di età pre-romana.
La loro scoperta si è
aggiunta ai numerosi frammenti epigrafici scoperti e conservati piú o
meno fortunosamente, dalla Sicilia a Venezia.
Di essi vorrei citare, per una
visione di assieme, i più rilevanti:
- Le Tavole iguvine, considerate «il
monumento principale della lingua e della civiltà degli Umbri»[1],
vendute il 25 agosto del 1456 ai rappresentanti della città di Gubbio e
consistenti in sette tavole di bronzo in caratteri latini ed in caratteri
dichiarati “ignoti”, delle quali due, custodite, secondo quanto
dichiarato nel 1673 dal giureconsulto Antonio Concioli, da 133 anni
nell’Arsenale di Venezia e poi mai più riviste. Probabilmente
furono trovate «in un sotterraneo ornato di mosaici, presso il Teatro
Romano»[2].
Di queste tavole vi furono diverse edizioni; ma solo nel 1723 si ebbe
un’edizione completa, ritenuta definitiva, ad opera di Thoma Dempster,
che la presentò nel suo De Etruria
Regali, scritto a Pisa tra il 1616 ed il 1619, ma pubblicato solo nel 1723.
Esse erano in etrusco e latino ed avevano un contenuto religioso.
-
Un’iscrizione in lingua osca
portata a Messina nel 283 a.C., da mercenari Mamertini reduci da Siracusa, pubblicata
solo nel 1604 a Venezia, nella Istoria
Siciliana di Giuseppe Buonfiglio e ricostruita, nelle parti mancanti, da
copie rinvenute successivamente. L’iscrizione conteneva le parole meddices e mamertino, ma era in greco.
-
Cippo Abellano, che in ben 60 righe conservava nella lingua osca un trattato
intervenuto tra le città di Nola e di Abella. Reso noto nel 1750, era
stato trovato cinque anni prima dal padre Stefano Remondini, il quale lo aveva
riconosciuto in una soglia di una porta dove soffriva «il danno del
calpestío degli uomini non solo ma ancor de’ carri». Spedito
dal Remondini all’abate Passeri a Pesaro fu da questi pubblicato nelle Memorie della Società Colombaria,
nel 1752. Ebbe due successive edizioni ad opera dello scopritore Remondini, nel
1757 e nel 1760 [3].
- 15
ulteriori iscrizioni e le scritte di una trentina di monete, le quali sono
testimoniate nel Saggio sulla lingua
etrusca e su altre antiche d’Italia, pubblicato nel 1789
dall’abate Luigi Lanzi.
- Tabula Veliterna, lamina di bronzo di
solo 4 righe in osco. Da essa
traspare un carattere fondamentale della lingua osca: la sicura indipendenza dell’osco rispetto
agli altri dialetti (lingue?) italici.
- Un
centinaio di brevi iscrizioni, talvolta dipinte in rosso su tufo[4],
trovate a Pompei; esse furono pubblicate nel 1856 dal Fiorelli nei Monumenta epigraphica pompeiana.
-
Varie iscrizioni rinvenute a Capua, di tipo dedicatorio (dette iovilae) o di maledizione, di cui la
piú nota è la cosiddetta maledizione
di Vibia.
-
Iscrizioni fittili in vasi trovati a Nola, Suessula, Saticula, Capua, in lingua
etrusca ricca di elementi oschi o in lingua osca ricca di elementi etruschi.
-
Iscrizioni in bronzo attestanti varietà locali dell’osco:
bronzo
di Rapino, in provincia di Chieti, osco-marrucino;
bronzo
di Antino, osco-marso;
l’iscrizione
vestina di Navelli;
le
iscrizioni peligne.
- Nel
marzo del 1848, nella località orto
della zona di Monte del Cerro, presso Agnone, nel Sannio fu trovato
l’ultimo grande monumento di lingua osca: una tavola di Bronzo, risultata
fondamentale per la conoscenza della religione osca, pubblicata per la prima
volta da G. Henzen.
L’analisi comparata dei
reperti mi pare obbligata per cogliere alcuni profili della lingua e della
realtà delle popolazioni (forse di origine sabella) che dettero vita
agli insediamenti ed alla cultura degli Osci.
Emerge da essi
l’affresco di una società variegata, con sfaccettature multiple e
differenziate, nella quale ebbero accenti particolari le esperienze dei Lucani. È nella cornice cultura
delineata da queste scoperte che va inserita anche la Tabula Bantina. La quale ha un indubbio e considerevole risalto e
rivela accentuata originalità.
In questa sede vorrei proporre
alcune suggestioni, suscitate in me da un primo esame della Tabula.
Parto da alcuni dati noti.
Rinvenuta nel 1790 nel
territorio di Oppido Lucano, sul monte Montrone, tra i resti di
un’antichissima tomba, fu inserita nel 1795 dal Gaetano Marini negli Atti dei fratelli arvali.
Le circostanze del suo
presumibile viaggio da Bantia ad Oppido
sono oscure: pare che il reperto dovette essere trafugato non certo per il suo
valore storico-documentale, bensì per il prezzo del metallo, finendo,
come tale, per arricchire una tomba di qualche abbiente defunto della vicina
Oppido.
Il ritrovamento componeva tre
distinti frammenti piú corposi e qualche altro pezzettino, che solo in
seguito fu attribuito alla Tabula.
La sua pubblicazione
suscitò l’interesse degli studiosi fin dal primo momento, tanto da
spingere il Museo archeologico di Napoli ad acquistarla, pare per 400 scudi.
Due dei frammenti furono
pubblicati da F. Avellino, nella Dissertatio
isagogica (p. 38). Uno di questi due frammenti si trova ancora oggi nel
Museo Nazionale di Napoli (provenendo dall’omonimo Museo borbonico, dove
era stato conservato, a differenza dell’altro offerto all’Accademia
Ercolanense e mai consegnato).
Nel 1967 Adamesteanu e Torelli
scoprirono e pubblicarono un ulteriore frammento.
Da ultimo il Torelli ha posto
in relazione con la Tabula un frammento
scoperto in tempi più recenti, da lui pubblicato e commentato[5].
In conclusione, abbiamo solo
pochi squarci dell’antico e più ampio provvedimento affisso in Bantia, la cui ricostruzione è
affidata a testi per lo piú brevissimi, i quali hanno dato vita a
congetture piú o meno persuasive ed a molteplici questioni. unanimemente
comunque si evidenzia l’importanza dei reperti.
Da essi si è spesso
partiti per cercare di approfondire la conoscenza della organizzazione e del
modello politco-amministrativo delle comunità Osche, presenti nel
territorio di Bantia, delle lingue
italiche, dei rapporti di Roma con le città dell’Italia ed in
particolare con gli insediamenti dei Lucani.
Vorrei qui rivisitare in breve
sintesi alcuni tratti ed alcuni interrogativi che, ancora oggi, accompagnano
l’antichità e la civiltà osca, con riferimento specifico
alla comunità di Bantia. Il
periodo di riferimento è quello della Tabula, dal cui contenuto mi pare opportuno prendere le mossa.
Il contenuto
dei bronzi pervenutici è riferito a due provvedimenti distinti:
a.
uno squarcio verosimilmente (ma al riguardo non vi è
certezza assoluta) concernente un punto dello statuto di Bantia;
a.
una lex romana sul cui contenuto si discute,
potendosi adattare a quello di un provvedimento giudiziario oppure ad una legge
agraria.
Il testo è reso in osco
ed in latino, costituendo una base fondamentale per la conoscenza
dell’osco, attraverso la traduzione latina.
Il documento ha contribuito da
subito al superamento delle teorie che consideravano le lingue italiche tutte
derivate o dal latino o dall’etrusco. Ha, infatti, reso chiaro che le
lingue italiche erano «costituite da due gruppi principali, l’umbro
e l’osco, separati da una area detta sabellica ... All’interno
dell’osco, grande lingua di cultura nell’Italia meridionale, sono
sorte inoltre piccole differenze dialettali», che la Tabula Bantina ed altre epigrafi, aiutano a scoprire, rivelando
anche l’influenza dell’alfabeto etrusco, come, ad esempio,
l’uso di í come suono intermedio fra la e o la i.
La Tabula consente di evidenziare l’importanza dei mutamenti
dovuti all’influenza (successiva) del latino: infatti, un’altra
tappa nell’evoluzione dell’osco parlato derivò
dall’accostamento con l’alfabeto latino. Il latino, poiché
era piú recente (III sec. a. C.) rispetto all’etrusco, distingueva
le lettere sorde dalle sonore e la lettera o
dalla u, prestandosi meglio
dell’alfabeto etrusco a riprodurre i suoni dell’osco. La Tabula Bantina consente di scoprire le
tracce di questi passaggi e di siffatti avvicendamenti.
Attraverso la traduzione in
latino consente inoltre di risalire alle radici dei termini e verificare quanto
il contatto con l’alfabeto latino aveva contribuito alla
translitterazione delle parole osche in termini latini.
Proprio rispetto alla
traduzione latina occorre nutrire maggiore cautela per evitare di attribuire al
linguaggio ed al costume osco istituti e situazioni in realtà
proprî dell’esperienza romana.
Bisogna invero avere presente
che la traduzione dei nomi osci con quelli latini non sempre doveva portare ad
identità di contenuti e poteva anche attribuire un significato generico
a parole che prima ne avevano uno preciso; ciò per consentire
l’inserimento di figure che stavano sostituendo le precedenti,
originarie.
Faccio un esempio, che spero
possa chiarire il mio pensiero.
Mi soffermo sulle menzioni e
sulle denominazioni concernente le magistrature.
La somma magistratura locale
degli Osci era quella del meddix (meddis), capo della città-stato.
Il termine era denso di
significato ed esprimeva il tipo di organizzazione politica. È stato
notato come presso gli italici, cosí come nella maggior parte delle popolazioni
indoeuropee (eccezion fatta per i latini e gli irlandesi) non vi era piú
traccia della parola rex: essa era
stata sostituita da altri termini, che spesso conservavano il riferimento al popolo, espresso dalla radice tut. Cosí presso i Goti il capo
si chiamava thiudans e presso gli Osci il meddix veniva indicato come meddís
túvitiks (meddis tuticus),
cioè capo in nome e per il popolo; di modo che «Il capo dello
stato, qualunque nome avesse, legava il suo simbolo se non la sua
autorità al popolo, sia presso i Germani, sia presso gli Italici»[6].
Ma vi era di più. Meddix era
composta da medos¸ che
significava ‘diritto’ e dik, che si può tradurre con
‘dichiara’ o ‘rende manifesto’. Il Meddix perciò era colui che rendeva manifesto il diritto,
cioè esercitava la giustizia.
Era il magistrato giudice-arbitro, che svolgeva un ruolo di mediazione tra i
cittadini, aiutandoli a seguire la strada della pacificazione, assicurata
dall’applicazione del diritto. La sua posizione non era tanto di
sovrapposizione o di comando, ma piuttosto di aiuto, offerto al perseguimento
della convivenza pacifica, e certamente aveva poco del carattere militare e di
comando caratterizzante le somme magistrature romane.
Venendo alla Tabula Bantina, vediamo che essa
contiene ancora la menzione del meddix
ma, secondo dottrina autorevole e diffusa[7],
in accezioni depotenziate e sfumate, nelle quali non avrebbe piú un
significato preciso ed assumerebbe quello generico di
‘magistratura’. Si ritiene, di conseguenza, che le menzioni del meddix in tutto il frammento pervenutoci
della Tabula non indicherebbe una
particolare magistratura, ma si riferirebbe genericamente a qualsiasi
magistrato.
Che questa opinione sia
condivisibile oserei dubitare.
Al rigo 8 si trova la dizione pis pocapit post exac comono hafie[i]st
meddis dat castrid che viene tradotto, sia pure variamente, sempre tuttavia
come riferimento ad un qualsiasi magistrato che intendesse convocare i comizi.
Gli interpreti contemporanei si basano per la lettura nel senso indicato anche
sulla versione latina, fornita nel retro della tabula, la quale traduceva il punto con quicumque posthac comitia habebit magistratus; perciò sono
state proposte letture del seguente tenore: «qualsiasi magistrato in
qualsiasi momento raduni il comizio» oppure «chiunque, dopo questa
legge, voglia tenere comizi...». Ne consegue che secondo le
interpretazioni correnti meddis nella
tabula bantina non starebbe piú ad indicare il supremo magistrato,
ma sarebbe un termine generico che si riferiva a qualsiasi magistrato e,
quindi, avrebbe avuto soltanto il significato di magistratura, in conformità con i concetti e la terminologia
romana, senza riferimento specifico ad una particolare magistratura,
ritenendosi peraltro che «la carica di meddix a Bantia non
esisteva»[8].
Questa conclusione si ritiene
avvalorata da un brano del de verborum
significatu di Festo, il quale contiene la seguente glossa a meddix:
Festi L. 110. 19, Meddix apud Oscos magistratus est. Ennius (Ann. 298) “Summus ibi
capitur meddix, occiditur alter”.
Che ciò sia decisivo mi
lascia incerto.
Credo, invero, che si debba
approfondire il senso ed il valore della glossa de quo. Essa appartiene alle glosse della prima parte
dell’opera, nella quale il grammatico soleva indicare le fonti delle sue
glosse. Per meddix Festo dichiarava
di attingere le sue nozioni dagli Annales
di Quinto Ennio. In base a quel che sappiamo della tecnica compositiva di
Festo, possiamo ritenere che egli dovesse attingere le sue informazioni non
direttamente da un esemplare di Ennio, bensí dall’opera di Verrio
Flacco, che costituí l’archetipo di riferimento di base anche per
la citazione delle fonti[9],
potendo, quindi, avere subíto una prima mediazione proprio nel passaggio
da Ennio a Verrio. Nasce da questa eventualità l’indicazione ad
essere particolarmente cauti ed a tentare di rintracciare il dettato
originario, in una spiegazione che avveniva quando si era compiuta la quasi
totale assimilazione degli Osci alla cultura latina o, quanto meno, quando i
Romani avevano necessità di descrivere le istituzioni osche in termini
comprensibili ai loro contemporanei: il che li spingeva a
‘romanizzare’ concetti in origine estranei alla cultura latina. Perciò certamente resta l’importanza della glossa
festina-verriana, la quale, per via della citazione, risaliva comunque ad una
fonte quanto meno degli inizi del secolo II, cioè di un’età
nella quale la romanizzazione dei Lucani non doveva essere ancora completata, e
proveniva da un autore che conosceva l’osco[10],
ma essa va letta tentando di scoprire conservi traccia della pregressa
accezione osca.
Rileggendo il dettato di Festo
alla luce di queste considerazioni forse possiamo comprendere un differente
significato, rispetto a quello comunemente attribuitogli. Mi pare, infatti, che
sia Festo sia la sua fonte non lascino affatto intendere un uso generico del
termine meddix. Festo diceva che il meddix era per gli Osci un magistrato,
ma assolutamente non mi pare asserire anche che ogni magistrato fosse indicato
con quel termine e che, quindi, l’etimo non si dovesse riferire ad una
carica specifica; tanto più che la fonte enniana fa riferimento ad un
evento preciso (la cattura di uno dei due meddix
e l’uccisione dell’altro) e concerne proprio la magistratura
suprema[11].
Credo che la letture del testo
di Festo possa essere, pertanto, integrata con quanto si riscontra in numerose
epigrafi, nelle quali il meddiss (meddix) si trova menzionato con riguardo
al magistrato supremo, tanto da legittimare l’opinione che la parola meddix, da sola, fosse senz’altro indicativa del sommo magistrato[12]
e trovasse riscontro in Roma nelle menzioni del praetor maximus[13].
Di fronte a questi dati,
univoci nell’indicazione di uno specifico magistrato attraverso il
termine meddix, è possibile
che solo l’uso nella Tabula Bantina
avesse perso ogni connotazione propria e fosse riferito ad un significato
generico di ‘magistrato’, senza indicazione di quale fosse?
Mi pare che si possa quanto
meno dubitare della correttezza di siffatta conclusione e che vi siano elementi
per domandarsi se in realtà le cose non stiano diversamente.
La convinzione della
genericità di significato del termine meddix si basa anche sulla convinzione che il testo latino sia
stato scritto prima di quello osco, di modo che quest’ultimo sarebbe solo
la traduzione di quello latino. Però tale convinzione mi sembra
anch’essa basata su un elemento a mio avviso non decisivo, cioè
sulla circostanza che nel frammento trovato da Adamesteanu vi è un foro
che parte dalla facciata in osco e termina, dall’altra parte, dove
finisce per rendere illeggibile il testo corrispondente al buco. Partendo da
questo fatto si è dato per certo che il testo osco, il quale appare ben
disposto intorno al buco, sia stato scritto dopo quello latino.
L’argomento non mi convince, perché non mi pare provato che il
foro venisse praticato prima della scrittura, mentre mi sembra plausibile che,
una volta redatti i testi dal lapicida, il quale spesso non ne comprendeva il
significato ma si limitava a riprodurlo come se fosse un’immagine, qualcun
altro abbia proceduto a praticare il buco, utile per l’affissione. Questi
avendo deciso di far apparire ben leggibile la parte osca si potrebbe essere
preoccupato di scegliere un punto nel quale il testo osco non venisse
danneggiato, senza badare troppo alla parte posteriore, dove vi era il testo
latino.
A questa osservazione aggiungo
che la redazione latina, anche se anteriore, non necessariamente doveva
costituire la redazione piú antica del documento, ben potendo avere
presente un archetipo osco del quale forniva la traduzione[14].
Inoltre mi chiedo: che senso
avrebbe avuto dire qualsiasi magistrato
... raduni il comizio? Il diritto di convocare il comizio (per di
piú, nel nostro caso, allo scopo di irrogare la pena di morte) non
poteva spettare ad un qualsiasi
magistrato, bensí solo al sommo magistrato: per l’appunto al meddix.
Mi sembra più
plausibile che stesura del testo osco, la quale parlava della convocazione dei
comizi da parte del meddix, comporti
una differente (rispetto a quella usualmente proposta) lettura del passo,
poiché esso, verosimilmente, doveva dire: dopo ciò quando il meddis convoca il comizio (o chiunque meddis convoca il comizio)[15],
contenendo, quindi, un preciso richiamo al magistrato (supremo) che aveva tale
potere e non una generica indicazione di magistrato.
In conclusione, mi pare che la
tavola riferisse ai capi della comunità, abilitati a convocare il
comizio, l’obbligo (ivi espresso) di giurare che avrebbero agito
nell’interesse del popolo, recuperando, in tal modo una dimensione partecipativa
e collettiva dell’esercizio del potere.
Nel rigo 8 si occupava del
giudizio capitale. Ancora una volta dobbiamo chiederci quale magistrato avesse
il potere di attivare il giudizio capitale se non il sommo magistrato?
D’altra parte le
funzioni del meddis erano sempre
ricondotte al rapporto con il popolo e con il comizio, con prescrizioni
limitative, nel caso di applicazione di una condanna capitale o pecuniaria e
con imposizione ai magistrati di tassativi limiti temporali: la piú
stringente di esse concerneva l’obbligo di far precedere la richiesta di
condanna da quattro o al massimo cinque riunioni
preliminari non deliberative (paragonabili alle contiones), e di non richiedere la sentenza prima che fossero
trascorsi 30 giorni.
Argomento contrario a quanto
da me ipotizzato potrebbe ritenersi la circostanza che nella parte terminale
del frammento, indicando le temporizzazioni da rispettare per l’accesso
alle magistrature (che in Roma costituivano il cursus honorum), non si menzionava il meddis. Questo, invero, è stato considerato una conferma del
mancato rinvio del termine meddix alla
somma magistratura, la quale (si sostiene) in Bantia sarebbe stata la censura.
Anche siffatta conclusione mi
lascia perplesso. La traduzione romana della Tabula, sul punto, parlava di praetor,
che per i Romani doveva corrispondere perfettamente alle funzioni del meddix, il quale significava (come si
è detto) qui ius dicit e, di
conseguenza, trovava (all’epoca) nel termine praetor la piú comprensibile traduzione. Se si tiene
presente che anche agli inizi di Roma il supremo magistrato potrebbe essere
stato il praetor maximus[16],
mi pare verosimile che nel tradurre meddix
si potesse usare il termine praetor,
anche se riferito al magistrato supremo. E non mi pare che a ciò osti il
fatto che la censura è indicata come magistratura di rango superiore,
tanto che ad essa si poteva accedere dopo essere stato pretore (e prima ancora
questore). Invero, anche in Roma la censura era la magistratura piú
elevata[17],
ma non escludeva l’esistenza del consolato, come somma magistratura.
Pertanto l’elevatezza della censura non induce necessariamente a credere
che in Bantia fosse essa la
magistratura suprema. In proposito occorre forse proporre una riflessione articolata
e alquanto diversa dall’usuale. La questione si intreccia con quella
della datazione della Tabula Bantina.
Di recente, contro
l’opinione dominante che vorrebbe datarla ad epoca successiva all’attribuzione
della cittadinanza romana, attraverso la creazione del municipium, il Torelli ha rivisitato la tesi secondo la quale la Tabula Bantina dovrebbe essere
retrodatata ‘alla fase premunicipale’, in epoca antecedente alle
guerre sociali[18].
L’a. nota “A parte i dati paleografici, di per sé sempre
opinabili, v’è subito da dire che la struttura
politico-amministrativa delle magistrature bantine, censores, praetores, praefecti III viri, tribuni plebis, quaestores,
certamente copiata da quella di Venusia, non ritorna mai in costituzioni
municipali, ma piuttosto in quella di colonie latine appunto, e anteriormente
alla loro trasformazione in municipi. Proprio il caso dei tribuni plebis, ora attestati come magistratura funzionante dalla
nuova epigrafe ce lo dimostra. In un altro studio ho infatti potuto dimostrare
che i pretesi tribuni plebis
municipali sono tribuni plebis di
Roma”. L’ipotesi è suggestiva perché propone un
percorso comparato tra la realtà bantina e quella della vicina colonia di Venusia e serve a fare giustizia delle ricorrenti ipotesi di
origine ‘romana’ delle disposizioni della Tabula bantina: essa non proverrebbe da Roma (o da qualche suo
magistrato), ma sarebbe frutto di un’assimilazione spontanea dello statuto bantino alla Respublica Quiritium, a causa della «forte pressione
economica, sociale, politica e culturale della vicina colonia di Venusia nel
corso del II sec. a.C.», sicché sarebbe «un ordinamento
prescelto “di propria volontà” dalla civitas libera di Bantia»[19].
Aggiungo che la datazione
della Tabula ad un periodo
antecedente alle guerre sociali, aventi lo scopo principale di ottenere la
cittadinanza romana, potrebbe spiegare anche il motivo, invero ancora non
chiaro, della defezione di Venusia,
la quale (caso eccezionale tra le coloniae)
non si schierò con Roma nella guerra sociale. Se si considera la natura
federativa di Bantia, il fatto che
forse tendeva a trasformarsi in ‘città’ dalla realtà
originaria di aggregato di pagi
autonomi (forse trifu –
tribú)[20]
ma confluenti in un popolo (touta)[21],
costituente un’unità piú ampia su base federata e non
necessariamente con riferimento geografico[22],
si è indotti a pensare che la contiguità con Venosa, che era
diventata polo di attrazione e d’immigrazione dai pagi osci di Bantia[23],
doveva essersi concretizzata in una massiccia presenza di osci-bantini in
Venosa, anche in posizioni influenti. Sarebbe comprensibile che la colonia di
Venosa avesse temuto di inimicarsi i numerosi bantini, divenuti troppo
importanti per la sua economia ed il suo assetto, e perciò scelse di non
schierarsi con Roma[24].
Ma questa, per me plausibile, ipotesi si può essere verificata solo se Bantia non avesse ancora conseguita la
cittadinanza romana, alla quale aspirava per gli evidenti vantaggi che le
sarebbero derivati.
Ne consegue il carattere
autonomo delle disposizione della Tabula
Bantina, anche se in qualche misura ispirate o assimilate all’assetto
di Roma e delle sue colonie.
Esse paiono inserite nella
particolare crisi che attraversarono le comunità degli Osci del
‘Sud’, i quali o si aprivano ai nuovi tempi o non erano in grado di
competere con la realtà contemporanea. Tra essi i Bantini sembrano
essere stati tra i piú solleciti ad assimilare e ad assimilarsi con la
prorompente spinta verso la romanizzazione,
tanto che la loro lingua (testimoniata proprio dalla Tabula) mostra una terminologia rinnovata e dette vita a
specificità linguistiche: a bandinismi[25],
spiegabili solo considerando un elevato grado di originalità ed
autonomia della Tabula, inserita nel
processo di rinascita osca tendente ad aggiornarsi ma anche a conservare la
propria identità[26].
Gli aspetti prospettati si
rivelano anche nelle indicazioni delle magistrature, nelle quali mi pare
ravvisabile lo sforzo di rivestire di romanità
organi e strutture che sono specifici della comunità bantina.
Alle osservazioni esposte
riguardo al meddix aggiungo
un’ulteriore osservazione.
Mi sembra singolare il
sintagma (del rigo 11) pr. suae praefucus
che la traslazione latina traduce con praetor
sive praefectus e di lí comunemente accolto nella dottrina
contemporanea.
I motivi di perplessità
che il punto suscita in me sono diversi.
Se davvero praefucus doveva essere il praefectus mi appare strana la
contemporanea presenza del pretore e del prefetto. Invero, il praefectus non è facilmente
definibile e, durante il periodo repubblicano, rivestì ruoli diversi ed
ebbe configurazioni differenti, con contorni spesso difficili da cogliere[27].
In connessione con l’esercizio della giurisdizione, come sembra doversi
ritenere riguardo alla menzione della Tabula
Bantina, il rinvio parrebbe essere ai praefecti
iure dicundo. Di essi da Festo apprendiamo che venivano mandati ogni anno
nelle città che non avevano magistrati, allo scopo di amministrare la
giustizia[28],
mentre da altre fonti risulta che, inoltre, erano magistrati inviati là
dove fosse sorta un’emergenza tale che lasciasse ritenere consigliabile
di procedere all’amministrazione della giustizia attraverso magistrati
agenti sotto il controllo diretto di Roma[29].
Normalmente non elettivi, erano comunque sempre destinati all’esercizio
di funzioni delegate del pretore[30]
e con il tempo furono resi piú stabili ancorando la loro giurisdizione a
distretti, spesso ampi e abbraccianti
municipia, coloniae, fora, vici, conciliabula,
castella[31].
La presenza del praefectus, dunque, sembra sostitutiva e
non additiva del praetor. Pertanto
c’è da interrogarsi sul motivo della contemporanea menzione delle
due magistrature nella Tabula Bantina.
Sul punto, che mi pare
richiedere ultranei e specifici approfondimenti, avanzo alcune congetture, rectius, mi permetto sollevare
interrogativi cui non saprei, allo stato, dare risposta.
Potrebbe essere che il
magistrato deputato all’esercizio della giurisdizione fosse il praefectus: in tal caso la menzione del praetor starebbe ad indicare un
magistrato con altre funzioni, nello specifico, il meddix, che avrebbe via via assorbito funzioni di comando,
cosí come avvenne in Roma.
Potrebbe darsi che il praefectus fosse il delegato del praetor urbanus di Roma. In tal caso
bisognerebbe pensare ad una duplicità di organo giusdicente: uno (il praetor menzionato nella Tabula), forse per gli Osci,
l’altro (il praefectus) per i
cittadini romani, ai quali si sarebbe applicato il diritto romano. Oppure,
potrebbe esserci stata una duplicità di giurisdizione distinta per
materia, come congetturato per i municipia
optimo iure[32],
ma in tal caso il praetor non poteva
rientrare tra le magistrature elettive di Bantia,
perché sarebbe stato collegato al praetor
urbanus di Roma.
Forse la situazione doveva
essere altra. Già è stato osservato che praefucus (parola osca ‘purissima’) non
corrisponderebbe, malgrado la translitterazione latina del retro della Tabula, a praefectus, perché, invece, sarebbe stata la denominazione di
una magistratura propria degli Osci, espressione di un ordinamento ancora
autonomo[33],
le cui funzioni sarebbero ancora da individuare. Potrebbe essere diventato un
aiutante e poi un magistrato a sé stante, diversificatosi
dall’originaria funzione del meddix,
cosí come avvenne in Roma per il praetor?
Un cenno specifico meritano la
menzione e la figura del c(k)enstur.
Il termine, che non deriva dal
latino censere bensì da *censom, era riferito ad una magistratura
“prettamente indigena” dei popoli italici[34],
presso i quali indicava una funzione svolta dal magistrato in carica.
Potrebbe, al riguardo,
ipotizzarsi che addirittura i romani potrebbero avere desunto il termine Censura dagli italici, trasformandola in
un altro concetto ed in una magistratura propria ed autonoma.
Rispetto alla menzione della Tabula Bantina va ulteriormente chiarito
il ruolo del menzionato c(k)enstur.
Non mi convince l’ipotesi che indicasse la magistratura suprema. In tal
senso mi pare rivelatrice la dizione pr.
censtur Bansae, della fine del frammento. Essa mi sembra rispecchiare
l’ordine di ‘prevalenza’ delle cariche, nel senso che la
piú importante sarebbe stata la pretura[35],
menzionata per prima, di modo che capo della comunità era il praetor, con le funzioni sopra indicate
di mediazione e coordinamento[36].
Il che sarebbe congruo alla struttura federativa dei popoli Osci, dove si pose
come esigenza primaria l’omogeneità del diritto e della giustizia,
necessaria per il commercio e la coesione tra i soggetti federati;
sicché è facile che la prima convergenza avvenisse intorno ad un
luogo di culto comune e desse corpo ad un organo comune di amministrazione
della giustizia[37].
Certamente piú recente
deve essere stata la questura, il cui nome q(uaestor)
pare di chiara derivazione latina. Ma non è detto che le funzioni
corrispondessero a quelle del questore romano e forse andrebbero rivisitate
anche in relazione al ruolo avuto dal senato, organo anch’esso da
stagliare meglio. Invero, riguardo al Senato si è solito pensare ad un
Organo delle famiglie piú influenti di Bantia, probabilmente (ad immagine della gerusia greca) la discendenza dell’antica riunione dei
‘vecchi’[38],
come indica anche il termine romano Senatus.
Anche qui mi sembra che siano ancora da precisare la composizione e la funzione
del Consiglio originario, latinizzato
con il termine romano Senatus. In
proposito credo possa essere di aiuto quello che sappiamo riguardo a Capua,
dove il meddix Pacuvio Calavio
dissolse il precedente Senato e lo sostituí con un nuovo organo di
natura elettiva, quindi dissimile da quello romano, anche se la
traslitterazione latina usava il termine Senatus[39].
Non si sa, però, se siamo di fronte ad un’innovazione
generalizzata nel mondo italico o ad una riforma particolare di Capua,
introdotta ad imitazione del mondo greco[40].
Da chi era composto il consiglio di Bantia, che la Tabula
chiama senateis? Era quello antico o
aveva subito trasformazioni? In particolare, in una realtà che non era
quella della città, anche se ad essa (sull’esempio della colonia venusina) si stava conformando,
si può congetturare che esso fosse l’organo di confluenza dei
componenti la federazione e che fosse
costituito da persone rappresentative dei gruppi (pagi, trifu) costituenti il touto
di Bantia?
In questa nuova ottica,
probabilmente, ad esempio, si potranno capire l’originalità e la
natura del pertumum, vanamente
assimilato alla intercessio romana[41]
o la singolarità del rapporto magistrato inquirente-accusato, che deve
svolgersi attraverso tre confronti (interrogatori). O, piú in generale,
si potrà rivedere la nozione corrente delle magistrature bantine[42].
I punti che potranno emergere
ed il quadro che ne scaturirà forse potrà gettare nuova luce
sulle comunità lucane e potrà contribuire a recuperare il loro
profilo storico, a partire dalla loro mediterraneità,
legata all’originaria discendenza illirica[43].
In conclusione, si può
dire che la parte osca della Tabula
Bantina, forse può ancora dirci qualcosa sulla civiltà osca ed
in particolare riguardo al processo di adattamento, ma anche di resistenza,
alla forza espansiva del ‘modello’ romano.
Sarebbe, forse, opportuno
assumere un’ottica differente rispetto al passato. Si è spesso
proceduto alla ricerca degli elementi di romanità
della comunità bantina[44];
invece, è forse piú opportuno rovesciare l’ottica di
approccio e porre come assunto di partenza la scoperta degli elementi osci e
bantini, interrogandoci da un lato su come essi siano stati romanizzati e, dall’altro, su se e
come (specialmente alle nella fase precivica e di formazione della Civitas) abbiano influito su Roma[45].
Forse si può partire da
queste suggestioni per una rivisitazione della Tabula Bantina.
Appendice
LEX
LATINA TABULAE BANTINAE
1
...neque
provinciam .. ..in senatu sive* in publico* iudicio* ne sententiam rogato
tabellamve ne* dato.. ..neve* is testimonium* dicito* neve* quis magistratus
testimonium* publice* ei deferri neve* denuntiari* sinito. neve* iudicem* eum
neve* arbitrum neve* recuperatorem dato. Neve* is in publico* luuci praetextam
neve* soleas habeto, neve* quis magistratus ibi* praetextam soleasve habere eum
sinito. Magistratus quicumque* comitia conciliumve habebit, eum suffragium*
ferre ne* sinito, neve* eum censor in senatum legito neve* in senatu
relinquito.
2
Si*
tribunus plebi*, quaestor, IIIvir capitalis, IIIvir agris* dandis*
adsignandis*, iudex*, qui* ex hace lege plebive* scito factus erit, senatorve
fecerit gesseritve, quo ex hace lege quae fieri oporteat minus fiant, quaeve ex
hace lege facere oportuerit oportebitve non fecerit sciens dolo malo; sive*
advorsus hance legem fecerit sciens dolo malo, HS.. nummum populo dare damnas
esto et eam pecuniam* qui* volet magistratus exsigito. Si* postulabit qui*
petet, praetor recuperatores... quos quotque dari oporteat dato, iubetoque eum,
si* ita pariat, condemnari populo, facitoque iudicetur*. Si* condemnatus erit,
quanti condemnatus erit, praedes ad quaestorem urbanum det, aut bona eius
publici* possideantur facito. Si* quis magistratus multam inrogare volet qui*
volet, dum minoris partus familias taxat*, liceto, eique omnium rerum siremps
lex* esto, quasi* si* is haace lege pecuniam*, quae supra scripta est,
exigeret.
3
Consul,
praetor, aedilis*, tribunus plebi*, quaestor, IIIvir capitalis, IIIvir agris*
dandis* adsignandis*, qui* nunc est, is in diebus V proximis*, quibus quique*
eorum sciet hance legem populum* plebemve iusisse*, iuranto*, uti* infra
scriptum est. Item dictator, consul, praetor, magister equitum, censor,
aedilis*, tribunus plebi*, quaestor, IIIvir capitalis, IIIvir agris* dandis*
adsignandis*, iudex* ex hace lege plebive scito factus.. quicumque* eorum post hac factus erit,
is* in diebus V proximis* quibus quisque eorum magistratum imperiumve* inierit,
iuranto*, uti* infra scriptum est. Eis consistunto pro aede castorus palam luci
in forum vorsus, et eidem in diebus V apud quaestorem iuranto* per iovem
deosque penatis*: sese quae ex hace lege oportebit facturum, neque sese
adversum* hance legem facturum scientem dolo malo, neque sese* facturum neque
intercessurum*, quo, quae ex hace lege oportebit, minus fiant. Qui*
ex hace lege non iuraverit*, is magistratum imperiumve* ne* petito neve* gerito
neve* habeto, neve* in senatu sententiam dicito* dicereve* eum ni quis sinito,
neve* eum censor in senatum legito. Qui* ex hace lege iudicaverit*, is facito
apud quaestorem urbanum eius qui* ita uti* supra scriptum est iuravit* nomen
perscriptum siet quaestorque ea nomina accipito, et eos, qui* ex hace lege apud
sed iurarint, facito in tabulis* publicis* perscribat.
4
Qui* senator est eritve inve
senatu sententiam dixerit* post hance legem rogatam, is* in diebus X proximis*,
quibus quisque eorum sciet hance legem populum* plebemve iussisse* iuranto*
apud quaestorem ad aerarium palam luci per iovem deosque penatis*: sese quae ex
hace lege oportebit facturum esse, neque sese advorsum hance legem facturum
esse, neque seese, quominus si*.............se hoice
leegei...anodni...uraverint.....e quis magistratus p.......uti in tabulis*
publicis*....trinum nondinum...is erit un........
[1]
Cosí G. Devoto, Gli antichi italici4, Firenze 1969, 13.
[3] Sul
punto v. G. Devoto, Gli antichi italici, cit., 15, il quale
si basa su T. Mommsen, Die Unteritalischen Dialekte, 121 s.
[5] M. Torelli, Una nuova epigrafe di Bantia e la cronologia dello statuto municipale
bantino, in Atheneum, 67, 1983,
252-257.
[8] Per le
letture della tabula v. la sintesi
esauriente di D. Monaco, Storia dei Sanniti e del Sannio –
meddix Tuticus, Isernia 2002, al quale devo le notizie qui riportate.
[9]
Ricordo che il manuale di Festo ci è pervenuto attraverso un
manoscritto, in scrittura farfense, probabilmente steso in Illiria verso la fine del secolo XI e di
lí portato a Napoli nel secolo XV, noto con il nome di Festi Codex Neapolitanus (IV A 3) sive Farnesianus
(è conservato nella biblioteca nazionale di Napoli), purtroppo distrutto
per quasi la metà da un incendio. La dottrina contemporanea ha posto in
luce il valore delle citazioni delle glosse della prima parte del manuale di
Festo, la loro fedeltà al testo di Verrio Flacco (che egli riassumeva) e
la derivazione da fonti piú antiche (come i libri pontificum) delle citazioni: cfr. Müller,
Sexti Pompei Festi De Verborum
significatu quae supersunt cum Pauli Epitome emendata et adnotata a Carolo
Odofredo Muellero, Lipsiae in libraria Wiedmanniana anno mdcccxxxix; Thewrewk, Sexti Pompei
Festi De Verborum Significatu quae supersunt cum Pauli Epitome edidit AEmilius
Thewrewk De Ponor - Pars I, mdxxxlxxxix;
Lindsay, Sexti Pompei Festi De Verborum Significatu quae supersunt cum Pauli
Epitome - Thewrewkianis copiis usus edidit W. M. Lindsay, MCMXIII; Strzelecki, Quaestiones
Verrianae, in Trav. de la soc. des
Sc. et des Lettr. de Varsovie, cl. I, Nr. 13 (1932). Rinvio a quanto da me
osservato in Pubes eviripotens nella
esperienza giuridica romania, Bari 1988, 28 s.; 66 ss.
[10] Ennio
si vantava di poter penetrare in tre ‘cuori’, perché
conosceva il greco, il latino e l’osco: cfr. I. lana, Letteratura
latina, Firenze 1970, 75.
[11] V. O.
Skutsch, The annals of Q. Ennius, oxford 1985, 467:
“The meddix was in charge of
sacral functions, public buildings and the penal system, and was commander in
chief”.
[13] A. Momigliano, Quarto
contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma
1969, 403 ss.
[14] Ad
esempio nelle tavole iguvinae nelle
quali di norma l’uso dell’alfabeto etrusco doveva certamente essere
piú antico, senza che da ciò derivi una contemporaneità
con il testo latino, il quale in alcuni punti poteva avere presente una stesura
antecedente rispetto a quella utilizzata nella parte scritta in etrusco; il fatto
è che spesso le stesure bilingue non derivano da un archetipo unico e
comune: cfr. M. Bréal, Les tables Eugubines, 223 ss.; G. Devoto, Tabulae iguvinae, 3a ed., Roma 1962, 51 ss.
[15] Va
tenuto presente che i meddices erano
di norma due o anche di piú di 2: v. G.
Devoto, Gli antichi italici,
cit., 216 s.
[16] V. L. Capogrossi - F. Càssola, Le vicende repubblicane sino alle XII tavole,
in [AA. Vari], Lineamenti di Storia del diritto romano,
Milano 1989, 82.
[17] Cfr. L. Capogrossi - F. Càssola, I censori, in [AA. Vari], Lineamenti di Storia del diritto romano cit., 167 ss.
[21] Ogni singolo "pagus" era capo di un
distretto rurale semindipendente. Piú "pagi" si raccoglievano
poi, in una forma di strutturazione territoriale superiore, detta
"touto" (per i Peligni, ad esempio, un touto era composto da 28 pagi: il nome ha una radice comune con
il latino "tutela": la radide indoeuropea è *TEWE- =
"faccio sviluppare, faccio sicuro, guardo"). Il termine osco pagi
entrò nella lingua latina, per definire l’insediamento a capo di
un distretto rurale.
[23]
Possiamo immaginarci il fenomeno guardando a quanto accade oggi nei confronti
dell’Unione Europea, meta di arrivo di persone e gruppi attratti dalla
sua prosperità e dal suo modello di civiltà.
[24] In tal
senso, se non erro, interpreta gli eventi delle guerre sociali anche M. Torelli, Una nuova epigrafe cit., il quale ipotizza la «reazione di
ceti interessati allo sviluppo della proprietà e della conduzione della
terra secondo i nuovi indirizzi prevalenti in territorio romano, e per
ciò stesso i medesimi strati sociali inclini ad una
«romanizzazione» della comunità lucana» e conclude che
«forse in questa prospettiva, ove hanno giuocato
«assimilazioni» economiche di tal fatta ed alleanze locali con
gruppi emergenti della colonia latina, che possiamo, se non spiegare, intuire
alcuni dei motivi della singolare defezione di Venusia in occasione della
guerra sociale».
[25] L. Del Tutto Palma, La tavola bantina (sezione osca): proposte di rilettura,
Padova-Urbino 1983, 46 s.: «La lingua della TB può rappresentare
la riesumazione di una lingua non più in uso». Se si domanda
«qual'è il grado di questa riesumazione e quale ne è il
senso?», a parere della studiosa ritiene che «il fattore 'lingua'
assume una funzione culturale piú specifica e si qualifica come
'recupero' di una tradizione locale volto a mantenere in qualche modo
l'identità di questa comunità». Questo fa sì che sia
«legittimo porre una discriminante fra l’osco di Bantia e 1'osco del 'nord'; non
dimentichiamo che la TB, anche a prescindere dai latinismi, presenta
caratteristiche lessicali che non hanno riscontro nel resto del corpus
osco e per questo classificate come 'bantinismi'» (p. 49).
[26]
Osserva la Del Tutto Palma, op.
cit., 56 s.: «la TB assume il ruolo di dato sociolinguistico fondamentale:
la presenza di una lingua non latina non è spontanea, ma frutto di un
impegno volontario in una prospettiva ideologica in cui la lingua è
espressione (e in questo caso anche contenuto) di identità culturale. Di
qui il recupero del passato, reso necessario dalla consapevolezza di un 'vuoto'
proprio in un settore strettamente tecnico, in un clima di rinascita
nazionale.... le peculiarità lessicali della TB sarebbero il frutto di
una maggior attenzione, da parte degli utenti(elaboratori), a particolari forme
dell'osco, per un tentativo di ricercatezza e quindi di equiparazione al
piú autorevole modello latino. Un'esigenza di fedeltà linguistica
e di connotazione culturale in un contesto storico di dissolvimento può
aver prodotto il recupero di elementi di un piú antico vocabolario,
unitamente alla coniazione di forme nuove o con diverso contenuto semantico....
Questa 'oscità' del testo è un dato incontestabile, ma essa si
rileva, per cosí dire, solo esteriormente, nell'aspetto fonologico
(parzialmente) e in una serie di elementi lessicali, per tratti e non
per strutture. Desumere da ciò il grado di vitalità
dell'osco, anche se predicibile, non ci sembra corretto e nemmeno pertinente,
per due ragioni: 1) perché la TB è un testo e non un modello di
lingua, 2) perché il registro latino ne ha predeterminato la
composizione. Il che non significa,
almeno nel nostro caso, che l'osco si è latinizzato ma, piuttosto, che
il latino si è 'oschizzato'; le strutture morfosintattiche sono quasi
completamente latine e come tali sono state recepite dai riceventi, i qua li le
hanno trasposte, non in quelle corrispondenti dell'osco, ma in strutture ibride
di cui solo l'aspetto superficiale si connette all'osco».
[27] La
più antica menzione nella storia di Roma pare costituita da un praefectus urbi «che avrebbe
esercitato in assenza del re i suoi poteri», cosí P. De Francisci, Storia del diritto romano I, Roma 1926, 129.
[28] Festi
L. 333 Prefecturae: eae
appellabantur in Italia, in quibus ius dicebatur et nundinae agebantur, et erat
quaedam earum res publica neque tamen magistratus suos habebant. In quas
legibus praefecti mittebantur quotannis qui ius dicerent. Questi praefecti
erano inviati annualmente dal praetor
urbanus.
[29]
Così, parlandone riguardo ai praefeti
inviati a Capuam Cumas, L. Capogrossi - F. Càssola, Gli edili, i questori, i cd.
‘vigintisexvitri’, in [AA. Vari],
Lineamenti di Storia del diritto romano
cit.,176.
[30] V.,
sul punto, quanto osservato già dal P.
De Francisci, Storia del diritto
romano II, Roma 1929, cit., 27: «Per quanto riguarda l'esercizio
della giurisdizione nei municipia. va
osservato che teoricamente sarebbe spettata al praetor la iurisdictio
anche su tutti i nuovi cittadini di quelle comunità. Tuttavia presso i municipes optimo iure continuavano a
sussistere le antiche magistrature locali; si venne cosí lentamente
sviluppando una distinzione, i cui termini furono però variabili, tra
alta giurisdizione spettante al pretore e bassa giurisdizione lasciata ai
funzionari locali, i quali, io penso, dovevano essere soprattutto competenti
quando la lite si svolgeva sulla base dei principii del diritto locale. Ma per
i municipes sine suffragio (fossero questi aerarii
o Caerites) le cui città o non
hanno alcuna autonomia o ne hanno una ben limitata, la iurisdictio compete al pretore e questi la esercita per mezzo di
suoi delegati, i praefecti iure dicundo,
in origine tutti direttamente scelti dal pretore stesso, piú tardi,
invece, almeno in parte eletti nei comizii. A questi delegati del pretore
vengono assegnati dei distretti, nei quali potevano essere comprese parecchie
delle antiche città, ora comunità di cives sine suffragio:
questi distretti presero pertanto il nome di praefecturae, e, rispetto alle città di municipes aerarii, i praefecti
vi sovraintendono anche all'amministrazione». V. W. Enßlin, v.
Praefectus ed in particolare praefectus
iure dicundo, in pwre xxiv, coll. 1309-1323; E. Ratti,
I 'praefecti iure dicundo' e la
'praefectura' come distinzione gromatica, in Centro studi e documentazione sull'Italia romana. Atti VI, Milano 1975; M.
kaser, Das römische
Zivilprozessrecht, München 1996, 13a ed., 38.
[31] V. L. Labruna - F. Càssola, Le ‘coloniae civium Romanorum’
ed i ‘municipia’, in [AA. Vari],
Lineamenti di Storia del diritto romano
cit., 249 s.
[35] Contro
questo convincimento non depone la circostanza che per essere censore bisognava
avere ricoperto la pretura, indicata subito dopo. Invero in Roma si usava
eleggere alla censura senatori che
avessero già ricoperto il consolato, ma questo non implicava un
assorbimento del potere supremo nella Respublica
da parte dei censori: cfr. L. Capogrossi
- F. Càssola, I censori
cit., 169.
[37]
Così come, peraltro, avvenne in Roma, assurta a Civitas dall’originaria federazione del latinum nomen e dei vici
e pagi: v. P. Frezza; Corso di storia
del diritto romano, 2a ed., Roma 1968, 39.
[41] Come
ha dimostrato L. Del Tutto Palma,
Tavola Bantina 1-8: il contenuto
istituzionale alla luce dell’analisi testuale e delle fonti romane,
in SE LVI (1991) 217 ss.
[42]
Affermo ciò, pur consapevole delle difficoltà e degli
avvertimenti sull’impossibilità di delineare la cornice delle
magistrature locali, espressi, ad esempio, da G.
Tibiletti, Diritti locali nei
municipi d’Italia e altri problemi, in Storie locali dell’Italia romana, Pavia 1978, 347
«Cercare una linea teorica di separazione, che valga come norma generale originaria
(dalla quale si siano dipartiti i vari casi particolari) fra la competenza
giurisdizionale dell’autorità romana e quella
dell’autorità locale, è però, forse, fatica vana, e
non già perché troppi vuoti ci si aprono da ogni parte nelle
fonti, ma per un motivo piú profondo, che riesce decisivo: ogni
municipio ha una sua storia particolare e conserva, nell’ambito della
giurisdizione del magistrato locale, propri istituti giuridici, diversi dal
diritto del pretore urbano». Ma le difficoltà non significano
sicura impossibilità, avendo (peraltro) presente che è opinione
corrente quella dell’esistenza di differenze anche rilevanti da
città a città e di esse rispetto a Roma.
[43] V.
quanto osserva M. Feo, Sotto i lecci di Banzi, Pisa 200, in Lucania online/Fons Bandusiae.htm, il
quale parla della Grecità illirica
e afferma: «Duemila anni prima
dell'era cristiana ondate di popoli balcanici si erano riversate sulle tre
penisole adiacenti, l'Italia, la Grecia, l'Asia Minore. La loro cultura
è la stessa: ma quella italica "è rimasta", scriveva un
mio maestro (si tratta di Silvio Ferri, del quale è richiamato, in
particolare: S. Ferri, Nuovi dati e nuove ipotesi sull'origine dei Lucani, in Antiche civiltà lucane. Atti del
convegno di studi di archeologia, storia dell'arte e del folklore, Oppido
Lucano 5-8 aprile 1970 [cur. P. Borraro],
Galatina 1975, 30), "allo stato
'tracio', allo stato della steppa, senza interferenze razionalistiche e
nobilitanti", "esclusa dal 'miracolo' ellenico".
Dall'Illiria,(...) o ur-Grecia, vennero pure gli uomini-lupo, i Lucani, e si
insediarono, per difendersi meglio, sulle cime delle montagne dell'odierna
Basilicata, e lí restarono a lungo in condizioni primitive; parlavano
"un greco allo stato 'pelasgico'", finché, venuti in contatto
con gli Oski, non ne assimilarono la lingua. Poi Roma livellò loro, come
gli altri popoli italici».
[44] In
questa direzione, ad esempio, si collocò l’entusiasta
ricostruzione dello zotta, desideroso di mostrare la superiorità e la
lungimiranza di Roma ed il parallelo tra la Tabula
Bantina e le XII Tabulae, secondo
un disegno di «pareggiamento cioè dei vincitori e dei vinti sia
nel diritto pubblico che nel diritto privato»: M. zotta, L’organizzazione
degli italici sotto l’egemonia di Roma e la tabula bantina, in Riv. Dir. Pub. – la giust. Amm.
– XX (1942), 202.
[45] Sul
punto, richiamo le penetranti osservazioni di L. Del Tutto Palma, Tavola
Bantina 1-8 cit., 217: «È tradizione consolidata `leggere' la Tavola
Bantina attraverso il filtro romano: operazione ineccepibile dal momento che si
ha a disposizione un materiale tradito proporzionalmente enorme contro i
relitti isolati di una realtà altrimenti cancellata. Inoltre, la
legittimità dell'operazione poggia sul dato incontestabile delle omologie, quali risultanti di
imposizioni e sovrapposizioni di modelli egemoni nei livelli fondamentali della
cultura dei soggetti: alfabeto, lingua, organizzazione politico-sociale. Il
rischio sotteso a questa direzione di lettura, in generale, è quello
dell'appiattimento della realtà storica – `altra' rispetto al noto
– e del valore oggettivo del dato, a favore di una realtà vulgata,
che neutralizza o riassorbe il dato nella misura in cui questo vi si conforma.
In questo studio si tenta una diversa direzione di lettura del documento: una
lettura che parta da quanto il testo oggettivamente dà, si confronti con
i dati romani disponibili senza forzature né direzioni preferenziali,
per tornare poi al documento nel senso della riprova dei dati oppure
dell'ipotesi integrativa di questi».