N. 8 – 2009 – Tradizione-Romana

 

Ursula Mariani

Università di Sassari

 

Un contributo "elegante" in materia di ius belli: il De jure militari di Johannes Voet

 

Sommario: 1. Cenni introduttivi. – 2. Voet e la giurisprudenza del suo tempo. – 3. Il “geometra” della giurisprudenza. – 4. Il De jure militari. – 5. Competenza di guerra e sovranità dello Stato. – 6. Rappresaglie e autodifesa. – 7. La dottrina del Bellum Iustum. – 8. Le Iustae Causae Belli. – 9. Lo Jus in Bello. – 10. Conclusioni.

 

 

1. – Cenni introduttivi

 

Le ripetute crisi -di natura geopolitica prima ed ora anche economica- che hanno caratterizzato e stanno caratterizzando i primi anni del nuovo millennio, hanno mostrato una radice che si impone alla attenzione: la profonda modificazione di quella che era ritenuta la base fondante dello Stato moderno, cioè la sua sovranità. Risponde dunque ad un interesse drammaticamente attuale risalire al momento in cui tale concetto venne configurandosi nella forma da noi conosciuta ed applicata. Di tale forma sin dall'inizio è stato elemento costitutivo il diritto all'uso esclusivo della forza.

In un recente articolo Diego Quaglioni[1] è tornato ad occuparsi del rapporto tra guerra e diritto nella prima età moderna, analizzando la formazione del moderno diritto di guerra nell'apporto di una speculazione giuridica – come quella di Belli e Ajala – che è essa stessa tra i più forti fattori di trasformazione della concezione pluriordinamentale propria dell'età moderna.

L'emergere del nuovo concetto di sovranità indicava nel sovrano non solo il detentore della potestà legislativa[2], ma anche l'unico legittimato ad esercitare il diritto di guerra e a mantenere l'ordine pubblico nel proprio Stato. In questo quadro, Quaglioni sottolinea la “singolare capacità di resistenza e rinnovamento” dello ius belli protomoderno, segnalando come proprio i giuristi del XVI secolo[3], abbiano rielaborato la dottrina classica alla luce dei nuovi strumenti offerti dall'Umanesimo, nel tentativo di realizzare una consolidazione del diritto di guerra e del diritto militare.

La necessità di una revisione della materia era in verità un problema piuttosto sentito dai giuristi e dai pratici del tempo, i quali spesso avevano a che fare con una letteratura giuridica che – caratterizzata dalla mancanza di distinzione tra diritto di guerra e diritto militare[4] (pur negli aspetti amministrativi, disciplinari, penali e giudiziari che questo presentava) – offriva opere che servivano tanto da manuale per generali e magistrati militari, quanto da riferimento normativo. La giurisprudenza umanista, qui come altrove, propose nuove prospettive e nuove topiche all'argomentazione giuridica.

L'imitatio[5] degli antichi, tipica del pensiero umanista, divenne una risorsa per il giurista elegante, che proiettò nella ricerca erudita il punto di partenza di un percorso teso a recuperare l'autodeterminazione culturale dell'individuo rispetto alla tradizione antica, secondo un metodo che partendo dall'imitatio intendeva arrivare all' inventio.

Certo, l'apporto dei giuristi umanisti agli studi in materia di jus belli si pone inizialmente nell'alveo dell'evoluzione di una dottrina che, traendo le proprie radici dal pensiero romano e dalla sua cristianizzazione doveva trovare, nel recupero delle fonti storiche e nel giusnaturalismo, un nuovo paradigma di guerra giusta, grazie al quale incamminarsi verso una diversa stagione, quella del diritto di guerra moderno.

È appena il caso di ricordare come il problema dell'uso della forza, e soprattutto di un uso corretto della stessa, si fosse imposto subito come tema cruciale per il pensiero cristiano[6]. L'apparente frattura tra le posizioni cristiane e quelle espresse dal diritto romano in tema di guerra[7], già smorzata in S. Ambrogio che aveva intravisto la possibilità di un bellum iustum, era stata definitivamente ricomposta da S.Agostino; che ricollegandosi a Cicerone[8] aveva recuperato -al fine di definire tale concetto in senso cristiano- la rilevanza di una iusta causa belli e del rispetto delle formalità della sua dichiarazione. Naturalmente, in quanto cristiano, S. Agostino era andato oltre: per essere giustificabile, la guerra doveva non solo rispondere ad una necessità assoluta[9], (idea, questa, mutuata dal pensiero aristotelico), ma anche tendere ad una pace migliore, più conforme al volere di Dio. Con quest'idea, S. Agostino aveva individuato un'ulteriore condizione di natura etico-sostanziale tesa a distinguere il bellum iustum da quello injustum, ossia l'animus, che nel cristiano, anche se combattente, deve pur sempre essere pacifico e sempre disponibile alla pace.

Il pensiero agostiniano ebbe manifesta influenza sulla redazione di un'altra opera fondamentale per la canonistica successiva, e in particolare per l'evoluzione del diritto di guerra ossia Il Decretum grazianeo. Attraverso la tradizione scolastica la distinzione tra un uso legittimo ed un uso illegittimo della forza, ricevette poi una formulazione teorica articolata con i canonisti ed i civilisti, proprio nel periodo delle lotte tra Papato e Impero e dell'emergere di nuove forze politiche autonome. La teoria della guerra giusta, nella sistemazione fornitane nei secoli XIII e XIV, alla luce non solo del diritto romano ma anche di quello canonico e feudale, si spiega nel quadro di un'epoca politicamente vivace, che mentre per un verso tendeva ad affermare una organizzazione sovranazionale, risultante dall'unione pacifica del popolo cristiano, dall'altra spingeva i regni, le repubbliche e le signorie a rivendicare la loro autonomia[10].

La stessa temperie politico-culturale doveva portare gli umanisti ad indagare la dimensione storica della vita umana; a collocarla nel tempo, in una misura suscettibile di distinguere passato e presente. L'Umanesimo avrebbe contribuito a porre in luce il carattere di scienza umana del diritto[11], e grazie alla graduale affermazione del giusnaturalismo il giurista doveva tendere sempre più a farsene un concetto capace di tenere conto dei bisogni umani. Nel diritto di guerra questa nuova corrente si tradurrà nell'adozione di un insieme di principi e regole tese a disciplinare le azioni dei contendenti durante il conflitto, cioè lo jus in bello. Si tratterà di principi nuovi, che si distaccheranno dalla teoria classica della guerra giusta. Questa giustificava l'uso della forza tramite la legittimazione fornita dallo jus ad bellum, quella riconoscerà nell'uso della forza un attributo della sovranità e qualificherà come giusta la guerra in cui si rispettano i precetti dello jus in bello.

Ma ancora con Ugo Grozio, come ha dimostrato P.Haggenmacher[12], l'interesse per la causa belli muove verso la definizione di quei diritti dalla cui violazione deriverebbe la legittimazione di un uso della forza teso al loro ripristino. L'attenzione di Grozio, infatti, si appunta su tre diverse tipologie di causae belli, da cui a loro volta discendono tre distinte tipologie di guerra. Questi tre tipi di guerra vengono considerati in modo asimmetrico rispetto alla natura dei belligeranti: la legittima difesa è trattata maggiormente nell'ottica dei privati, mentre la riparazione e la punizione vengono illustrate in relazione alle autorità pubbliche. Nel primo caso il diritto all'uso della forza scaturisce dall'istinto di autoconservazione e non necessariamente presuppone colpa in chi è causa di pericolo, il diritto alla riparazione si attiva in conseguenza del danno arrecato che presuppone una responsabilità soggettiva, mentre invece il diritto di punire è attivato dal delitto commesso dal criminale che merita una punizione secondo quanto prevede la giustizia commutativa. Questo delitto appare come un'infrazione più di un diritto oggettivo che di un diritto soggettivo. All'asimmetria generata dall'assenza di un giudice comune, rimedia il diritto che presiede alla risoluzione delle controversie e costituisce sia la trama per l'evoluzione delle ostilità, sia l'ordito per la dichiarazione di pace. L'assenza di un giudice comune, rimanda ad una struttura sociale decentrata, nella quale la tutela del diritto resta affidata agli stessi soggetti che del diritto stesso sono titolari. Una struttura sociale che ora raduna i principi sovrani, le res publicae perfectae come auspica Vitoria[13], e che ormai esclude in via immediata gli individui soggetti a quelle.

 

 

2. – Voet e la giurisprudenza del suo tempo

 

Gli anni in cui Voet si formò come giureconsulto e letterato sono dunque testimoni di un importante metamorfosi della cultura giuridica europea. Presente e futuro s’incrociarono nel XVII secolo quando all’apogeo della giurisprudenza umanista si affiancò la nascente corrente giusnaturalista, che divenne protagonista nel secolo successivo.

Questa concitazione intellettuale si sviluppò anzitutto nel mondo accademico. Quindi le università[14], da sempre fucina dell’evoluzione del pensiero legale, diffusero i nuovi orientamenti, dimostrando oltretutto come il ceto dei giuristi, apparentemente refrattario agli epocali cambiamenti socio-culturali di quegli anni, ne era invece espressione diretta e, partendo da una comune cultura romanistica, tendesse a rinnovare lo studio del diritto cui pretendeva di restituire tanto il rigore quanto l'eleganza dei maestri antichi. Non deve dunque sorprendere che, dopo il primeggiare della scienza giuridica italiana e francese, nel XVII secolo si assista al primeggiare delle “Province Unite”.

Bisogna peraltro ricordare come, mentre il nuovo metodo conquistava un sempre maggior numero di seguaci, alcune vicende di natura religiosa, influenzavano ulteriormente la successiva evoluzione della scienza giuridica europea. Come è noto, dopo la revoca dell'editto di Nantes, furono molti gli Ugonotti che scelsero la via dell’esilio pur di non abiurare la propria fede. Agli esuli, per lo più artigiani, mercanti e professionisti, si aggiunsero anche giuristi, tra cui numerosi professori dell’università di Bourges, nota roccaforte ugonotta. La meta d’esilio prescelta da molti fu l’Olanda, nazione a maggioranza protestante, che nel XVII secolo viveva il suo periodo di massimo splendore. In questo clima di fervore socio-culturale, i rifugiati trovarono una seconda patria e poterono proseguire con maggior ardore il loro lavoro. Filosofi, scienziati e scrittori arricchirono con la loro presenza l'attività delle università olandesi di Lovanio e Leiden.

Dopo l'iniziale querelle tra mos italicus e mos gallicus, i due metodi si armonizzarono dando vita ad una nuova corrente del pensiero culto: la cosiddetta “giurisprudenza elegante[15]”. Su di essa, la storiografia, ha offerto pareri discordi[16]. Alcuni, e tra questi Ihering, hanno ritenuto il  metodo elegante, “..incapace di offrire una vera comprensione del diritto romano”; altri, come Wieacker, hanno affermato che è con la giurisprudenza elegante, che la scienza giuridica olandese raggiunge i traguardi più avanzati. Il divario di valutazioni, secondo Eltjo Schrage è alimentato da un fraintendimento, che recentemente ha portato P.Nève e A.Canoy[17], ad attribuire agli epigoni di questa scuola uno scarso interesse per la pratica e la legislazione vigente, a favore di un'interpretazione storica di carattere antiquario. In base a tale convinzione sempre a parere dello Schrage le caratteristiche dello stile elegante consisterebbero nell'uso degli scritti degli autori classici non-giuristi, nel grande interesse per i problemi filologici e per l'antichità in generale, oltre che nell'attenzione ai problemi della critica del testo. In una tale ottica, giuristi che, come Van Leeuven o Huber, affrontano la trattazione del diritto particolare delle province olandesi o la risoluzione delle controversie tipiche della letteratura giuridica medievale, non farebbero parte della corrente elegante bensì dell'usus modernus pandectarum. Schrage, attraverso l'analisi di alcuni istituti come la donazione o l'arricchimento senza causa, dimostra viceversa come per i giuristi eleganti la dimensione storica serva a penetrare il vero significato del testo in vista della pratica. Per i giuristi eleganti, insomma, sarebbe questo il fine ultimo della scienza giuridica[18].

Culla della giurisprudenza elegante fu senza dubbio l'università di Leiden[19], situata nelle Province Unite. La considerazione che Leiden riservava ai propri giuristi si manifestò già durante la cerimonia di inaugurazione della facoltà giuridica, quando venne organizzata una processione in cui alla rappresentazione delle sacre scritture e dei quattro evangelisti seguì quella dei quattro giureconsulti romani: Giuliano, Paolo, Papiniano e Ulpiano[20]. Proprio questo intento di porre Leyden sul piano dell'eccellenza, spinse l’ateneo alla nomina di alcuni professori di chiara fama, provenienti dalla grande Bourges. Così Voet si trovò a dar lustro al nuovo ateneo, insieme a Noodt, Schulting, Grozio, Binkershoek e Vinnius , che qualificarono la loro attività per la coesistenza tra l'aspetto colto ed antiquario del mos gallicus e le tendenze pratiche del mos italicus . Molti di questi illustri accademici infatti, come ad esempio Bronchorst[21], erano anche pratici e proprio dalla loro attività nei tribunali nacque la sensibilità verso l'elaborazione di un nuovo sistema giuridico posto a metà strada tra il diritto romano e il diritto patrio.

Questa tendenza “elegante” sancì ben presto la preminenza scientifica della scuola olandese e contribuì a modificare l'atteggiamento dei giuristi anche nei confronti di quei campi particolari, come il diritto di guerra, che era scaturito dalla elaborazione giurisprudenziale sulla base dei principi romanistici, ma anche e soprattutto di quelli canonistici e feudali.

Le idee degli accademici di Leiden rispecchiavano la realtà di un mondo -quello del diritto olandese- che, pur nella comune formazione romanistica, era tuttavia sensibile alla crescente necessità di coltivare gli studi del diritto patrio. La ricerca di un equilibrio in cui far coesistere l’indirizzo storico ed erudito del diritto con quello pratico di tipo bartolistico, caratterizzò dunque l'università di Leiden, trasparendo dalle opere dei giuristi che vi insegnarono nella seconda metà del XVII secolo, come Arnold Vinnius e, appunto, Johannes Voet[22].

Si può comprendere dunque come il mondo accademico di Leiden e gli accesi dibattiti culturali tra i suoi giuristi, abbiano esercitato un fondamentale stimolo su Voet ispirando quella che sarebbe diventata la sua vasta produzione letteraria. Come Vinnius prima, e Binkershoek poi, anche Voet riteneva che il giurista non potesse fare a meno di essere anche storico. Era su questo piano che egli ricercava il connubio fra il diritto romano e lo jus proprium delle Province Unite, entrambi giudicati necessari alla formazione del giurista come le due mammelle della nutrice al bimbo[23]. Si tratta di un fenomeno che investirà non solo l'Olanda ma anche altre nazioni europee, prime fra tutte l'Italia e la Francia. Utilizzato soprattutto per la sua forza precettiva pratica, il diritto patrio coadiuverà i giuristi nell'evoluzione del diritto pubblico, rispetto al diritto romano che rimarrà un baluardo nell'ambito del diritto privato[24]. Così in Germania vediamo studiosi che allontanandosi dalla tradizionale scienza giuridica civilistica si dedicano a studiare la storia del Reich dando vita a una scienza che fa oggetto del proprio studio un nuovo tema:  le fonti giuridiche autoctone del Sacro Romano Impero, come la Bolla d’Oro del 1356 e le Capitolazioni elettorali dell’Imperatore, costruendo una dogmatica del diritto pubblico ove storia e sistematica sono fortemente intrecciate. All’interno di questa nuova scienza nella prima metà del XVIII secolo altri iniziano, all'interno della pubblicistica del Reich, una separazione fra la cosiddetta Reichshistorie, la storia dell'Impero, e la teoria sistematica del diritto dello Stato. Tale separazione, iniziata a Halle da giuspubblicisti Johann Peter Ludewig e Nicolaus Hieronymus Gundling, fu portata a compimento dall'allievo di Gundling Johann Jacob Schmauss a Göttingen. A questi studiosi si connette la giuspubblicistica del XVIII secolo, la quale ora raggiunge la sua massima fioritura come branca autonoma della scienza giuridica[25].

 

 

3. – Il “geometra” della giurisprudenza

 

Johannes Voet[26] nasceva il 3 ottobre 1647 ad Utrecht, dove si sa che sia il padre Paul[27], sia il nonno, Gisbertus, furono docenti. Nella stessa città dovette compiere i suoi studi, anche se è incerto il luogo in cui si laureò: alcuni ipotizzano che tale luogo debba collocarsi in Francia, facendo coincidere il momento della morte del padre con la laurea di Johannes. Nel 1670 egli divenne docente di legge ad Herborn, una piccola università protestante nella provincia di Nassau. Nel 1674 venne nominato professore ordinario di Pandette nell’Università di Utrecht, ma se ne allontanò nel 1680, dopo aver accettato il posto di professore di Diritto Civile a Leyden. Nel 1687 Utrecht cercò di riaverlo come professor juris primarius et juris publici, ma Leyden riuscì a trattenerlo non solo concedendogli un notevole aumento del salario, ma offrendogli anche l’insegnamento di Ius practicum o ius hodiernum.

Voet incominciò ad insegnare lo ius hodiernum, usando l’“Inleidinge tot de Hollandsche Rechtsgeleerdheid” di Ugo Grozio come libro di testo. Attraverso le pagine groziane costruì quella che sarebbe stata la base della sua opera più conosciuta: il Commentarius ad pandectas, la cui prima parte fu pubblicata nel 1698, mentre la seconda vide la luce nel 1704. Voet morì a Utrecht il 9 settembre 1713 durante una breve vacanza.

Tra i suoi scritti vanno ricordati anzitutto, oltre al De jure militari[28] (1670) di cui ci occupiamo in questa sede, anche il De familia erciscunda[29] (1672), che come la prima è un'opera scritta in gioventù, nonché il Compendium juris juxta seriem pandectarum[30] (1682) e gli Elementa juris secundum ordinem institutionum Justiniani in usum domesticae exercitationis digesta[31](1700), due trattati che, come dice lo stesso Voet, sono dedicati “all’uso privato degli studenti”; ed infine il già ricordato commento al Digesto a cui egli deve gran parte della sua fama. Ognuno di questi scritti riscosse un discreto successo, sia in patria sia –anzi soprattutto- all’estero. Per quanto riguarda il De jure militari, l’opera conobbe una seconda edizione pubblicata nel 1705, e ristampata a Bruxelles nel 1728 da Simon Servesten, che in precedenza aveva già ripubblicato il De familia erciscunda.

L’edizione di Francoforte-Leipzig del 1758 del De jure militari presentava un’elaborata prefazione, perché oltre allo scritto di Voet, conteneva stralci delle leggi vigenti in tema di diritto militare[32].

A questa edizione ne seguirono altre tra cui quella in lingua francese pubblicata a Torino nel 1777 per coloro “qui n’aiment point le latin[33]”. Tra queste edizioni possiamo annoverare quella contenuta nell’Editio V Veneta del Commentario alle Pandette, pubblicata a Venezia nel 1828, che al settimo tomo contiene sia il De jure militari sia il De familia erciscunda. Tale edizione è quella che chi scrive ha potuto consultare ed alla quale, ove non altrimenti indicato, farà riferimento.

L’opera più rappresentativa della pubblicistica di Voet rimane il Commentarius ad pandectas, che viene pubblicato in due volumi, tra il 1698 e il 1704. Nel primo volume il commento non segue le leges del Digesto ma solo i titoli, in ognuno dei quali l’esposizione del diritto romano è accompagnata da ampi excursus nello jus hodiernum. Il secondo volume, invece, riflette, in larga misura l'orientamento “praticodi Voet. Tra gli autori citati occupa un certo rilievo il Grozio della Inleidinge e del De jure belli ac pacis insieme a qualche altro nome di spicco del panorama giuridico olandese come Groenewegen[34]. Pochi altri autori sono richiamati nel suo commento. Voet, infatti, sembra prediligere, nelle proprie citazioni, Cujacius, Donellus, Dionysius Gothofredus e Jacobus Raevardus, alle cui opere si rinvengono numerosi rinvii.

Il Commentarius divenne ben presto una delle opere più diffuse nella comunità dei giuristi[35]. Il presidente[36], della camera della corte reale di Besançon, ne curò una delle edizioni francesi, che comparve col titolo “Table des commentaires de J.Voet sur les Pandectes, analysès dans leurs rapports avec chacun des articles des cinq codes français” e fu pubblicata a Parigi nel 1841. Nell’“Avis au lecteur”, all’inizio del volume il curatore, augurandosi l'ampliamento degli orizzonti della giurisprudenza, auspica il moltiplicarsi di studi come quello di Voet: studi atti a far cogliere il legame esistente fra i grandi giureconsulti di Roma e i legislatori francesi. Voet viene poi definito “il geometra della giurisprudenza”, per aver interpretato i testi del diritto romano alla luce delle questioni più usuali dell’avvocatura, tanto da avere acquisito, fra tutti gli studiosi del diritto romano, un'autorità tale da imporsi ai più illustri giuristi delle facoltà di diritto francesi. Proudhon, Touiller e Dupin raccomanderanno lo studio delle sue opere agli studenti indirizzati ad intraprendere la carriera forense, in ragione della asserita superiorità di questo commentario a paragone di quelli precedenti.

La grande fortuna e autorevolezza di cui godette il Commentarius, fecero di quest'opera, insieme alla Censura forensis di Simon van Leeuwen[37] , il punto di riferimento per la nascita di un nuovo indirizzo dello ius romanus hodiernus, ovvero il Roman Dutch Law[38] (Rooms Hollands-Regt in Olandese), Questo diritto, derivante dalla specifica utilizzazione e modernizzazione, da parte dei giuristi olandesi, del Corpus iuris e del suo apparato di glosse, era un prodotto nuovo, scaturito sì dalla recezione del diritto romano nella prassi olandese, ma aperto ad importanti legami con il diritto proprio delle Province Unite, e destinato a essere applicato, vuoi per il diritto sostanziale, vuoi per le procedure, nelle Corti di Giustizia non solo delle Province Unite stesse, ma anche di quei Paesi ove esse estesero il loro potere. La circolazione del Roman Duch law venne infatti favorita dal consolidamento di un impero coloniale di proporzioni vastissime comprendente il Sudafrica, l’odierna Guyana britannica, Ceylon e l'anfiteatro insulare dell’Oceano Indiano. In Sudafrica, per via della struttura giurisprudenziale dello Jus Civile, il Commentario alle Pandette di Voet venne elevato al rango di fonte del diritto, conservando autorevolezza e vigenza fino ai nostri giorni[39].

 

 

4. – Il De jure militari

 

é appunto nel Commentario alle Pandette che viene a trovarsi il De jure militari, pubblicato per la prima volta nel 1670, ma appartenente alle opere giovanili di Voet. L’esigenza di dedicare un’opera alla guerra, deriva probabilmente dalla drammatica situazione di pericolo incombente in cui versavano le Province Unite[40], ma al contempo suggerisce la sensibilità del giurista di Leiden verso la materia dello ius belli che proprio in quegli anni si arricchiva di nuove tematiche.

Il proemio dell'opera ne annuncia le linee fondamentali. Voet ostenta la scelta di un modello, quello proposto dall'Impero Romano, che -come si legge nel Proemio del Codice giustinianeo promulgato nel 529-affidava la propria sicurezza e alla forza delle leggi e a quella delle armi: Summa rei publicae tuitio de stirpe duarum rerum, armorum atque legum veniens vomque suam exinde muniens felix Romanorum genus omnibus anteponi nationibus omnibusque dominari tam praeteritis effecit temporibus quam deo propitio in aeternum efficiet istorum etenim alterum alterius euxilio semper viguit, et tam militaris res legibus in tuto collocata est, quam ipsae leges armorum praesidio servatae sunt[41].

“L’antica Roma elevò a tal punto la sua gloria anche grazie alla forza di cui erano dotati coloro a cui era demandata la protezione dello Stato[42]." Uno Stato ideale a cui non può mancare la figura di un principe ideale, in questo caso Giustiniano; il quale “ sapeva bene come senza uomini forti e ben armati non si potrebbero difendere le leggi dagli attacchi nemici e come senza le arti della guerra non può durare a lungo la pace[43]”.

Degli otto capitoli successivi, sette sembrano volersi proporre come un vero e proprio manuale di diritto militare, nella presupposizione che la disciplina marziale sia necessaria agli Stati legittimamente costituiti, e che sempre per mezzo di essa può venire garantito l'equilibrio della compagine sociale[44]. Il primo capitolo, invece, affronta il tema della guerra e delle varie teorie connesse all'origine dei conflitti. La sua struttura richiama alla mente il primo capitolo del De jure belli ac pacis di Ugo Grozio. Così come aveva fatto in precedenza il giurista di Delft, Voet parte dall'esistenza di un diritto naturale, la violazione delle cui norme giustifica la guerra, la quale quindi va intesa come una prassi posta in atto allo scopo di ristabilire l'ordine violato. Anche il nostro, dunque, riprende la dottina classica in tema di bellum iustum, celebrando però il crescente spessore della politica che attraverso il diritto può regolare la violenza che si esprime nella guerra.

In una scelta che ci rende evidente quanto la giurisprudenza coeva sia sensibile alle problematiche relative alla sovranità, l'attenzione del nostro è volta quasi esclusivamente allo jus ad bellum, mentre allo jus in bello, vengono dedicate solamente le sezioni dal XXVIII al XXXI del capitolo I. Della pace, invece, non si parla che nell'ultima sezione del trattato, ove essa appare anzitutto nel suo significato negativo, quale stato di non belligeranza, e solo successivamente nel suo significato positivo, cioè come accordo e condizione ad esso conseguente, nell'ottica di una eventuale violazione di tale accordo e in funzione di una possibile ripresa delle ostilità causata da tale violazione. Non che della pace Voet voglia sminuire il valore o tantomeno proporre una definizione riduttiva, positiva o negativa che sia. Il suo intento sembra essere piuttosto quello di riportarla verso una dimensione senza tempo, che ne mostrerà il suo significato più puro. Il conflitto e la violenza che ne deriva fanno parte degli accadimenti umani; la pace invece è un valore assoluto, un bene supremo che si concretizza grazie alla sconfitta di coloro che ne sono nemici. Voet utilizza spesso in proposito frasi o concetti che ricordano la mitica età dell’oro così come descritta da Esiodo[45] nelle Opere e i giorni. Espressioni come foecunda mater bonarum artium[46], oppure come candida magistra morum[47], vengono usate per esaltare il ruolo della pace, grazie alla quale il contadino può coltivare il proprio campo ed il nocchiero spingere al largo le vele; giacché in questo mondo nulla può nascere o svilupparsi senza di essa[48].

Gli altri capitoli del De jure militari affrontano i vari aspetti della vita militare e dell’attività bellica, a partire dal reclutamento della milizia (secondo capitolo), dalla gerarchia militare e dalle qualità necessarie per chi debba essere posto a capo dell'esercito (terzo capitolo), per continuare con il diritto penale militare (quarto capitolo). Il quinto ed il sesto capitolo sono invece dedicati, il primo alle prede di guerra e in genere ai riconoscimenti previsti allo scopo di premiare il valore dei soldati, il secondo ai privilegi concessi ai militari ed alle disposizioni di ius singulare di cui hanno beneficiato, mentre il settimo si occupa del tema dei privilegi connessi allo status militare e quello delle magistrature militari. Qui,Voet si pone anche il problema del giudice competente a conoscere le controversie civili dei militari, affrontando così il delicato problema della esenzione dei militari rispetto alla giustizia ordinaria.

Pertanto, il De jure militari, può essere diviso in due parti diseguali: la prima riguardante il diritto di guerra, la seconda il diritto militare vero e proprio. Ambo le parti sono caratterizzate dall'uso costante dell'exemplum historicum, ovvero dalla tendenza a collocare al centro dell'argomentazione giuridica un modello costituito da un episodio della storia antica o-meno frequentemente-di quella recente. Tale modello viene usato a fondamento della costituzione di un nuovo diritto- il diritto di guerra- che, partendo dal progressivo superamento della tradizione fondata sulla compilazione giustinianea, giunge alla precisazione di principi riconosciuti da Stati di tipo moderno. Possiamo in proposito concludere con Ilari che, attraverso l'exemplum l'imitatio tipica dell'Umanesimo evolveva in giudizio, l'uso paradigmatico in uso critico, giungendo all'inventio, ossia all'uso sintagmatico delle fonti storiche che venivano considerate non solo come repertorio universale di casi problematici, ma anche come prova di un processo storico[49] evolutosi in norma giuridica. Insomma quello del De jure militari si presenta come un diritto orientato storicamente verso una tradizione antica, ma al tempo stesso orgogliosamente consapevole che tale tradizione nell'articolarsi in una situazione nuova può essere a sua volta creativa.

L'uso dei classici riporta Voet nell'alveo della giurisprudenza elegante, ma è dalla scelta e dall'utilizzo della pubblicistica contemporanea che il nostro ci mostra il suo lato più interessante. Così oltre agli evidenti richiami al De jure belli ac pacis di Grozio, il De jure si arricchisce altresì della presenza di “pratici”come Belli[50] e Ayala[51]. É soprattutto da quest'ultimo ed alla sua trattazione organica che Voet trae abbondante ispirazione.

Come Belli ed Ayala, anche Voet dedica una larga parte del suo trattato al diritto militare sviluppatosi di necessità con l'affacciarsi delle armate di mestiere[52], che avevano avuto una affermazione estesa, pur se sulla spinta di fattori contingenti (in Francia era stata infatti determinante la guerra dei cent'anni, in Spagna la Reconquista sui Musulmani del Sud della penisola, in Ungheria la secolare resistenza alla pressione dei Turchi). Voet però si sofferma particolarmente su quella che potremmo definire come un'analisi comparata tra il diritto militare “classico” d'impronta romana e la sua evoluzione moderna. Non solo  si era affermato quasi ovunque il monopolio dello Stato in materia militare e si erano generalizzate le armate permanenti ma dal reclutamento volontario si stava passando al servizio militare obbligatorio[53].Si era assistito inoltre ad una evoluzione tecnico-strategica, così importante da essere indicata come una vera e propria “rivoluzione militare moderna”. Con la progressiva adozione delle armi da fuoco, sul valore personale faceva sempre più aggio la strategia, donde la necessità di un’istruzione militare specialistica da impartirsi in apposite accademie militari[54]. In questa temperie, Voet si ispira ad un classico come Vegezio[55], che nel declinare dell'antico Impero aveva scritto quell' Epitome rei militaris i cui quattro libri dedicati alla gloria degli eserciti romani in un'epoca in cui questi passavano di sconfitta in sconfitta, avevano creato un topos destinato a travalicare i secoli e ad essere ripreso proprio in età umanistica a cominciare da Machiavelli e Christine de Pisan[56]. Non che questa sembri aver alimentato le riflessioni di Voet. Il nostro non la cita, così come non cita Honorè Bonnet[57] o Juan Lopez[58], e questa assenza rende ancor più rilevante il frequente ricorso alla giurisprudenza degli umanisti italiani come Guido Panciroli, citato da Voet a proposito dei giudici militari, o ancora Prospero Farinacci[59], ricordato nella disquisizione intorno ai reati dei militari, che evidenziano il legame mai sopito con la giurisprudenza italiana.

Il De jure militari si caratterizza altresì per i continui inviti dell'autore a far ricorso a mezzi di risoluzione delle controversie, mezzi atti a favorire il dialogo e l'accordo piuttosto che la realizzazione del diritto tramite l'uso della forza. Tale posizione si lega a quella assunta da Voet nei confronti della guerra in generale, posizione che, in linea con la lunga tradizione elaborata dalla scienza giuridica insiste sulla esigenza di una causa belli e ammette una guerra essenzialmente difensiva. Insomma, troviamo nel pensiero di Voet un ponte fra la prassi medievale del ricorso a strumenti di soluzione pacifica dei conflitti come mediazione e arbitrato[60] e il moderno diritto internazionale tendente a rifiutare la guerra come strumento di soluzione delle controversie[61], e ad ammettere un crescente numero di regole consuetudinarie e pattizie, denominate diritto umanitario di guerra.

 

 

5. – Competenza di guerra e sovranità dello Stato

 

Il primo capitolo del De jure militari si apre con la definizione del concetto di “bellum”. Senza soffermarsi sulla dottrina classica del bellum justum, Voet ne riassume il cammino in un percorso didascalico teso a chiarire cosa si debba intendere come guerra e quali motivazioni spingono gli uomini ad intraprenderla. Voet fa derivare bellum da duellum[62], identificando come elemento essenziale del conflitto, la presenza di due parti che si affrontano per diverse motivazioni; in ciò il Nostro segue Ugo Grozio[63] ponendosi sulla scia di una dottrina generalmente condivisa, che leggeva il binomio bellum-duellum alla luce di quello guerra “privata”-guerra “pubblica”, nel senso che la prima non si estingueva con l'avvento della seconda, ma anzi derivava da questa il proprio nome, avendone già in comune l'identica natura[64].

Ma chi è legittimato a muovere guerra? A confrontarla con quella del Bocer [65] la risposta di Voet lascia misurare quanto cammino la dottrina abbia fin qui compiuto verso la concezione moderna dello Stato. Se per Belli la guerra nasce dall'injuria, Alberico Gentili vede il bellum come una publicorum armorum justa contentio riconnettendo la guerra al duello come del resto faceva intendere Giovanni da Legnano[66]; Bocer[67] sosteneva che a fondamento della categoria del bellum ci fosse un “dissidium armatum duorum contrariorum exercituum rite prius indictum. Voet trova evidentemente la definizione di Bocer inaccoglibile[68], e rileva che ove essa fosse da ritenere esatta, qualunque privato cittadino fornito di un esercito, il quale denunci le cause e l'inizio delle ostilità mediante il rituale dei feziali, sarebbe legittimato a muovere guerra, pur se privo del diritto di sovranità[69], mentre al contrario è da ritenere inammissibile che ogni predone il quale insidi i viandanti con un'insieme di uomini armati organizzato come un esercito, ove si dichiari nemico possa avere diritto al trattamento riservato ai publice hostes [70]. Certo, non c’è bellum se non c’è dissidium armatum: La definizione di bellum data da Bocer è dunque minus exacta, non totalmente esatta. Non solo: dissidium appello armatum, precisa il Nostro, ut litem excludam civiles citra ullum armorum strepitum coram certis judicibus agitari solitas[71]. Questa puntualizzazione esclude dalla categoria del bellum le cosiddette lites civiles, cioè quelle controversie che non sono sfociate in conflitto armato e che possono essere composte dinanzi ad un giudice o comunque ad un arbitro eletto di comune accordo dai contendenti che riconoscono la sua competenza e si assoggettano alle decisioni stabilite. Voet ben conosce quanto sia significativo il numero delle controversie, anche fra popoli entrambi indipendenti, composte in questa maniera, ma pur rendendone qui testimonianza non si sofferma sull’argomento, rinviando, per gli esempi in merito al De jure jure belli del giurista italiano Alberico Gentili [72].

In effetti la definizione di Bocer prescindeva dal cammino che la dottrina sul diritto di guerra aveva compiuto di pari passo con quella relativa alla natura e alle caratteristiche dello Stato qualificabile come sovrano[73], e che aveva avuto in Tommaso de Vio e Vitoria un punto di non ritorno[74], portando alla definitiva distinzione qualitativa fra conflitti risolvibili coram certis judicibus e conflitti armati suscettibili di coinvolgere popoli diversi[75]. Per Voet invece, il bellum è il dissidium armatum, libero populo ab altero populo rite indictum[76]; il rinvio al populum ( non al princeps) e all'attributo della libertas che esso deve possedere ( il diritto internazionale attuale parlerebbe di indipendenza[77]) intesa come sinonimo della sovranità, lascia emergere l’esistenza di una comunità politica distinta, “superiorem non recognoscens”, è per Voet- come per Vitoria -legata al possesso dello jus ad bellum. Dunque, se non indetto da un sovrano che ne possiede la competenza il bellum è iniustum, pur continuando, per Voet, ad essere bellum.

L'esistenza o meno di una justa causa belli passa quindi in seconda linea, quanto alla distinzione fra bellum justum e bellum iniustum, fra bella e latrocinia rispetto alla auctoritas principis, una auctoritas che deve non essere condizionata da nessun’altra autorità superiore, e quindi capace di decidere autonomamente non solo chi sia hostis e dunque quali siano bella e quali latrocinia, ma soprattutto l’inizio e la fine delle ostilità. Senza il consenso del princeps, nessun suddito può pensare di esercitare il diritto di rappresaglia, o ancor peggio, di compiere atti finalizzati al turbamento della pace, senza attirarsi l’imputazione di alto tradimento. Dunque solo la guerra supportata dalla auctoritas principis può essere qualificata come giuridicamente legittima, e solo ad essa possono essere applicate le regole dello jus in bello, che, viceversa, non sono contemplate per i reati dei latrones, anche se costoro si dichiarino publice hostes [78].

Dunque, requisito necessario del bellum è che si affrontino popoli liberi[79], altrimenti non si tratta di bellum, ma di latrocinia, seditiones, bella civilia. Non solo perchè si ricadesse nella categoria del bellum era necessario che vi fosse un dissidium armatum, bisognava altresì che un tale dissidium non fosse semplicemente l'affrontarsi duorum contrariorum exercituum, come riduttivamente proposto da Bocer, ma che esso venisse mosso libero populo ab altero populo. Gia la dottrina dei glossatori, come è noto, connettendosi alla legge hostes, aveva mostrato l'esigenza che il bellum, per qualificarsi come tale, rispondesse a precise condizioni formali[80]; ma da Fulgosio in poi la libertas dei popoli contendenti era stata individuata come la conditio sine qua non perchè si avesse propriamente un bellum[81]. Rileggendo il passo di Ermogeniano, Fulgosio disegna la guerra come un istituto di jus gentium, che i popoli, le gentes superiorem non recognoscentes, avrebbero costituito quale giudice supremo delle loro controversie, capace di giudicare secondo le forze presenti, senza riguardo alla giustizia della causa. Fulgosio non nega che la giustizia materiale della causa esista, ma ammette che la possibilità di raggiungerla ceda il passo alla modificazione qualitativa delle istituzioni statuali[82]. Pur se meno spregiudicato, anche Francisco de Vitoria, facendo dello jus ad bellum la caratteristica fondamentale delle res publicae perfectae; l'aveva evidentemente limitato ad esse, vale a dire a delle istituzioni giuridicamente capaci di costituire e di fare parte della comunità internazionale.

Ai tempi di Voet l'evoluzione istituzionale- e il diritto con essa- era andata molto avanti in questo senso. Colpisce piuttosto l'attenzione che Voet presta alla definizione della categoria del bellum civile[83], e la Voet condanna dell’insensata crudeltà e pervicacia di quest'ultimo[84]. Si trattava di una tematica che aveva costituito un aspetto importante della dottrina medievale della guerra giusta che proprio questo aveva teso a precisare: l'uso illegittimo della forza non costituiva titolo[85]. Ma non è ad essa che Voet si richiama, egli piuttosto cita anzitutto la lex ulpianea si quis ingenuam[86] (secondo cui i soldati catturati durante una guerra civile non potevano diventare schiavi dei vincitori, né potevano usufruire dei diritti di postliminium[87]), poi exempla tratti da Floro[88], volti a sottolineare come il dux - per essere considerato vincitore - deve aver combattuto contro dei nemici non contro i propri concittadini, e da Lucano, per ribadire che nelle guerre fratricide non c’è mai un vincitore[89]

Ed ecco infine il terzo requisito necessario affinché si possa parlare di bellum: tertium denique, quod ad belli requiro substantiam est ut rite indicatur[90].: il conflitto deve essere sollevato secondo le procedure consolidate dalla consuetudine, il cui rispetto oltretutto consente di discutere ed eventualmente risolvere la controversia con mezzi pacifici prima di arrivare all’uso delle armi. Questo complesso di norme Voet, come gia Vico[91] e Zouche[92], lo identifica nello jus feciale[93] (sic) e richiama in proposito non solo il De officis di Cicerone[94], che aveva offerto alla dottrina tradizionale del bellum justum -in particolare quella canonistica- uno dei suoi fondamenti, ma anche Dionigi d'Alicarnasso, la cui testimonianza ha contribuito a farci conoscere le procedure che accompagnavano a Roma l'indictio belli. Il rispetto delle procedure e l'eventuale soluzione pacifica del conflitto ritorna anche nei due exempla successivi: il primo rinvia ad un passo del Deuteronomio in cui Jahve prescrive ai suoi condottieri di proporre la pace prima di attaccare qualunque città; il secondo alle Fenicie di Euripide[95] ove Eteocle affronta il fratello Polinice e gli dichiara la sua intenzione di entrare in guerra per riprendersi il regno che gli era dovuto. Il senso di queste citazioni si coglie poco più innanzi quando Voet stesso precisa che anche se ne possono variare le modalità, firmum tamen est atque indubitatum jure gentium esse necessariam belli denunciationem apud morationem quosque populos continuo velut usu inductam et approbatam[96] Dunque, la guerra sarebbe subordinata al preventivo adempimento di atti formali che rinviano alle norme tese a regolare le relazioni fra i soggetti della comunità degli Stati, in particolare in caso di conflitto. tali norme sarebbero espresse dallo jus gentium e la loro violazione implicherebbe l’illiceità della guerra[97].

 

 

6. – Rappresaglie e autodifesa

 

Nonostante lo sforzo compiuto al fine di superare la concezione integrata della dottrina precedente e pervenire ad una separazione del livello ordinamentale interno da quello internazionale, ancora nel pensiero di Voet, l’uso della forza non è ritenuto monopolio assoluto del sovrano. Una significativa ambiguità in proposito affiora nell'attenzione che il nostro presta alla materia delle rappresaglie, istituto che aveva accompagnato la mercatura medievale[98]e costituito l'oggetto dell'attenzione di un raffinato trattato bartoliano[99], ma che era ormai pronto a trasformarsi anch'esso in un istituto del moderno diritto internazionale pubblico, esercitabile, cioé solo da un soggetto dell'ordinamento internazionale[100]. Orbene, per Voet le rappresaglie sono pronte ad attivarsi “propter illatas forte privato contumelias[101]”,ogni qualvolta si affidi alle armi la riparazione di un danno arrecato da stranieri. A coloro i quali lamentino tali danni è concesso d’usare la forza per ottenere soddisfazione qualora non sia stato possibile ottenerla per le vie consuete: dunque l’uso della forza da parte dei privati è ancora possibile sebbene, come Voet sottolinea, gli esperti rerum politicarum lo riguardassero con sospetto e ne sconsigliassero vivamente la cancessione per cause banali o danni di poco conto, suggerendo invece il ricorso ad ogni mezzo alternativo suscettibile al costringere gli avversari alla riparazione del danno od alla soddisfazione del torto.

Resta poi sempre legittima l'autodifesa. Non solo Voet la sgancia dall'auctoritas principis riconnettendola al diritto naturale, ma qualifica come bellum la stessa violenza inferta ad un privato, contro la quale questo si può opporre:“nullus tamen dubito(sic),quin et absque praevio principis mandato sujectus(sic) impune possit illatum ex improvviso repellere bellum,et intentatas a se suisque arcere injurias:cum juris sit minime controversi,unumquemque tuto jus sibi dicere et ab inimicorum audacia telisque vitam defendere posse, non exspectato superioris consensu,ubi judicis nequit haberi copia, neque diuturnitam res moram patitur[102]”.Nulla è quindi più naturale, nulla più equo e razionale quanto “a rapacium quasi vulturum vi defendere[103]” cioè difendere se stessi ed i propri beni dalla violenza altrui.

Il passo a cui Voet si rifà in proposito è tratto dal “Pro Milone” di Cicerone[104]; ma è chiaro il rinvio alla “Ut Vim[105]” del Digesto. L'autotutela che viene così legittimata, non muta nemmeno la propria sostanza se anziché dal singolo venga attuata da un gruppo che, a tal fine quegli abbia adunato: eandem quoque ratio pro multis plurium simul arcentibus injuriam militatura sit[106].

 

 

7. – La dottrina del Bellum Iustum

 

Certo, la distinzione qualitativa fra uso della forza da parte di Stati sovrani e uso della forza all'interno del territorio dello Stato, affiora abbastanza chiaramente nell'esame dei vari aspetti della problematica del bellum justum.

A preambolo della dissertazione Voet rileva come prius discipiendum est, num certis in causis licitum sit ac concessum belli artibus ea sibi quaerere, quae blandis admonitionibus impetrari non potuerunt. La retorica della domanda, diviene evidente poco più avanti quando lo stesso Voet prosegue affermando che non solo è lecito ma è anche giustificabile l'uso della forza ogni qualvolta esso è necessario per difendersi; tanto più in quanto una tale liceità è sancita dallo ius naturae, dallo ius gentium e dai Dei praecepta[107].

É posto così l'ordito che, intrecciandosi con la trama delle successive argomentazioni rivela il pensiero del nostro in tema di guerra giusta. La prima considerazione da fare a riguardo consiste nell'uso non casuale delle citazioni: il confronto tra i passi 1,1,3 e 1,1,2,5[108] del Digesto e I, 2§ 2 delle Istituzioni[109] riguardato nell'ottica della liceità ci restituisce una costruzione dottrinale fortemente influenzata dal giusnaturalismo, coerente con una visione del mondo in cui i soggetti possono sì usare la forza per difendersi, ma tale uso non deve confliggere con la spinta naturale a costituire una società, perché una violenza lesiva dei diritti altrui sarebbe contraria a tale spinta. Corollario di questo teorema è la necessità di circostanze e condizioni specifiche in presenza delle quali la guerra possa essere considerata legittima e qualificata come justa iniuria; Voet, ancora una volta, mutua tali condizioni dal diritto naturale, assoggettando ai suoi vincoli il conflitto, così che la loro violazione escluda la possibilità di qualificare il bellum come justum[110].

Dunque la guerra può essere giusta o ingiusta, ma per quanto riguarda l'ambito giuridico, nella cui ottica essa va riguardata dal giurista, non vi è dubbio che essa vada fatta rientrare nello jus gentium[111],e che la sua genesi debba essere ritenuta contestuale al fondamento dei diversi dominia[112]. Voet si riallaccia dunque alla grande tradizione interpretativa che, con i primi civilisti, aveva trattato di bellum sul fondamento del passo di Ermogeniano- uno dei primi del Digestum Vetus- che per l'appunto proponeva il Bellum come un istituto di jus gentium[113]. Nel contempo, però, Voet richiama anche un testo tratto dalle Istituzioni di Marciano[114] che sancisce la separatezza dello jus naturale dallo jus gentium. Separatezza ben nota alla scienza giuridica dell'età di mezzo, per la quale il diritto naturale si confondeva col diritto divino e pertanto-più chiaramente nel pensiero canonistico- era posto su un piano sovraordinato rispetto a quello positivo e allo stesso jus gentium[115]. Ecco dunque che tale separatezza ritorna qui nella scelta degli exempla tratti dall'Ippolito di Seneca, e dalle Fenicie di Euripide. Seneca riconduce l'origine della guerra ad un obnubilamento della mente umana dovuto alla sete di prevalere sul proprio simile per spogliarlo dei suoi averi; quanto ad Euripide, anch'egli nelle Fenicie[116] fa dire a Polinice come la necessità di muovere guerra sia nata dall'ambizione dell'uomo di possedere le ricchezze dei suoi simili. Ognuna di queste argomentazioni ha lo scopo di evidenziare come nel passaggio della società dallo jus naturale allo jus civile, gli uomini abbiano avvertito la necessità di juxta juris gentium praecepta a cui assoggettare il bisogno di autotutela per se e per i propri beni[117]. Se questi sono rinvii espliciti, vi è anche, implicito, quello alla visione hobbesiana della tendenza di tutti a desiderare i beni altrui e del conseguente rischio di perdere non solo i beni sed ipsam quoque libertatem et vitam. Di qui la necessità di costituire una società, il cui princeps, tuttavia, Voet ritiene regnandi causa violari posse jura, così come avrebbe fatto il primo imperatore dei romani.

A questo punto, in Voet rieccheggia l'antico problema posto sin dalla prima Civilistica: vale a dire se anche il bellum injustum possa definirsi come appartenente allo jus gentium[118]. La risposta è negativa e viene espressa tramite un giudizio asciutto e severo:“nullius ego iuris illud esse censeo, cumque jus omne denegetur injusto bello, frustra quem in agere ut ad aliquam juris speciem reducat”. Il bellum injustum è inviso ad ogni diritto: non è possibile collegare l’injustum al jus, che per natura regola ciò che è lecito ed onesto, prescrivendo le regole a cui devono conformarsi le azioni umane: per questa ragione non vi può essere nessun diritto che consigli o approvi il bellum injustum. Ciò che infrange il diritto non può in questo cercare collocazione.

In generale si può dire che Voet, movendo dalla distinzione scolastica tra ius ad bellum e ius in bello cerca di pervenire ad una nozione unitaria del bellum iustum suscettibile di comprendere sia una concezione giuridico-formale del conflitto bellico[119]-secondo cui è lecita la guerra indetta nel rispetto delle regole imposte dal diritto interstatale- sia una concezione etico-sostanziale che si basa sull’individuazione di una iusta causa belli[120], intesa come ragione obiettiva e sufficiente a giustificare l’uso della violenza in una società civile, in relazione ai fini che le parti si propongono. Questa apparente duplicità in realtà è solamente il simbolo della raffinatezza espressa nel de jure militari che concilia le nuove posizioni sulla guerra intesa come espressione della sovranità statale finalizzata al perseguimento degli interessi del singolo Stato con l’insopprimibile esigenza etico-giuridica dell’individuazione di una justa causa belli, della osservanza delle formalità della indictio, esigenza già espressa da Cicerone e ripresa nel pensiero cristiano[121] e destinata, quest'ultima, ad essere presto sopraffatta nel pensiero giuridico successivo. Per la necessità della indictio belli si erano espressi Gentili e Zouche[122], ma contro questa tesi si andava schierando la giurisprudenza che si ispirava alla distinzione groziana fra legittimità delle guerre secondo il diritto naturale e legittimità secondo il diritto volontario delle genti[123]: Pufendorf[124] e Thomasius, per il quale l'indictio belli recte sibi videtur ad sola officia humanitatis[125]Non sorprende perciò la quaestio XIV in cui Voet, definendo il bellum iustum, ne privilegia l’aspetto formale: “justum esse censeo, quod suprema majestas legitimis de causis indicit populo superiorem non agnoscenti[126].” poiché come si è visto tale precisazione esprime la trasformazione del diritto internazionale di cui lo stesso Voet è testimone.

Ed è ancora alla letteratura dell'età classica che si rifà a proposito della justa causa che riaffiora in questo contesto: “Diximus ad belli justitiam requiri, ut rite quisque illud denunciet, primumque petat, quicquid sibi debitum existimat, antequam ad arma ultimam convoltet regum rationem[127]”. Dunque perché la guerra indetta sia giusta, è necessario aver avviato, antecedentemente all’indire bellum, un tentativo di soddisfare pacificamente le proprie pretese, che è altresì la condicio sine qua non per cui la guerra così indetta possa essere qualificata come justa.

In questa ottica Voet ribadisce l'obbligo del previo esperimento degli strumenti di soluzione pacifica dei conflitti, in contrasto con chi -come Bjnkershoek- vedrà nell'ammettere un tale obbligo (di ricercare previamente una soluzione pacifica del conflitto) un vulnus alla sovranità[128]dello Stato. Al contrario, pur non addentrandosi nella specifica analisi di tali istituti,Voet, insiste più volte all'interno del de jure militari sulla necessità della utilizzazione di strumenti atti alla composizione pacifica dei conflitti come arbitrato o mediazione [129]. É il previo ricorso a tali mezzi a determinare una condizione oggettiva per cui la guerra può essere considerata giusta.

L’adesione alle teorie secondo cui il conflitto deve essere subordinato alle regole imposte dall'affermarsi di strutture politiche mature, indica l’apertura di Voet verso un’evoluzione del concetto di bellum justum connessa con la trasformazione della struttura stessa della Comunità internazionale. La posizione del nostro tuttavia non combacia perfettamente con il pensiero di alcuni dei protagonisti della svolta come Grozio o Vitoria che spostano l’interesse speculativo dallo jus ad bellum allo jus in bello. Infatti, tale posizione pur riprendendo la dottrina classica circa la liceità della guerra lasci trasparire abbastanza chiaramente che per Voet il bellum è legittimo quando viene indetto da un'autorità superiore. La guerra è una “triste necessità” a cui talora è necessario ricorrere, dopo aver constatato l’esistenza dell’ingiustizia ed il rifiuto degli altri a riparare[130], ma tale ricorso sta nelle mani del principe.

 

 

8. – Le Iustae Causae Belli

 

Per Voet le iustae causae belli si possono ricondurre a tre capita[131]: l'autodifesa come resistenza alle offese; il recupero dei beni asportati con la forza; la repressione delle offese ingiuste. In quanto diretto a reprimere l'illecito, l'uso della forza in questi casi non può essere considerato come antigiuridico, anche quando consista di atti che in altre circostanze costituirebbero una violazione del diritto. La mancanza di tali condizioni tornerebbe a fare della realtà fattuale della guerra una trasgressione al principio fondamentale della coesistenza, la qualificherebbe come ingiusta.Voet esalta il principio finalistico e moralizzante del bellum iustum sottolineando che non tamen ob parvi momenti negotium in armis villico praesidium quaerendum, e che summae quippe stoliditas esset propter exiguum forte dispendium universam periculis exponere reipublicam[132].

É particolarmente significativo come per Voet caratterizzate da justa causa siano anzitutto le guerre volute da Dio, così come tramandate dalle Scritture. In queste è dunque possibile ravvisare le norme da osservare in guerra: “Abrahamus ,Moses ,Josue, David ,Josaphat ,aliique israelitarum reges ac duces pientissimi bella mandato Jehovae gesserunt, e come ipse Deus optimum maximum per dilectum fidumque servum suum Mosen varias armorum praescribere leges et belli jura dare voluit israelitico populo[133]”. I precetti in materia di jus belli a cui Voet fa riferimento sono quelli contenuti nel Deuteronomio[134] 13,16-18; 20,16-18 e 31, 3, 4, 5; e si sostanziano nella pratica dell' hērem[135] che, per impedire ogni contaminazione religiosa straniera, prescriveva l'obbligo di distruggere i luoghi e gli oggetti di culto pagani, nonchè ogni essere vivente; analogamente contro ogni città israelitica diventata idolatra, stabiliva l'uccisione di tutti i suoi abitanti e la sua completa distruzione con il fuoco. Jahweh, in Dt 20 viene descritto come un comandante in capo che combatte al fianco del suo popolo garantendogli la vittoria; per contro i nemici non possono contare su analogo sostegno e sono destinati alla sconfitta. Qui l'elemento che qualifica tali guerre come giuste e non come guerre di conquista è l'attribuzione del territorio da parte della volontà divina. La promessa di Dio ad Abramo prima e poi a Mosè, fornisce la legittimazione giuridica per l'acquisizione e, il titolo del possesso della terra promessa[136], che di conseguenza sono gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei[137] ad occupare abusivamente. Ecco dunque la necessità di una serie di guerre tese ad affermare il rispetto del patto con Jahweh che presupponeva il mantenimento ( da parte degli ebrei) di una assoluta purezza morale, e dunque l'esclusione di tutti gli stranieri[138], perchè Dio era il solo proprietario del paese mentre gli Israeliti vi avrebbero abitato solo in grazia della Sua volontà. È in questa ottica che assume significato anche la pratica dell' hērem,che Voet legittima come funzionale al rispetto del patto per la riconquista della terra promessa. Naturalmente, tali passi erano ben conosciuti dalla dottrina medievale, la quale però, pur ricordandoli, vi aveva tuttavia sorvolato limitandosi ad asserire che la guerra mossa per volontà di Dio era per definizione giusta.

Figlio e artefice del suo tempo, Voet ci rimanda invece nei confronti dell'uso della forza a un atteggiamento assai più crudo di quello che aveva animato sin qui lo spirito dell'Età di Mezzo, anche se ne mantiene lo spirito moraleggiante. Voet conosce Gentili e Bocer[139], tuttavia, diversamente da questi e da quanto aveva intuito già Fulgosio, egli rifiuta l'idea di un bellum justum per entrambe le parti contendenti, e ciò anche quando ciascuno dei due belligeranti sia in grado di affermare che solo il suo è un bellum sacrum e che i relativi hostes sono violatores foederum. Anzi, egli egli avanza il dubbio che episodi iniqui compiuti da singoli individui, nel contesto di un bellum justum, possono essere suscettibili di mutarne la primitiva giustizia.

Naturalmente, Voet ammette vi possano essere conflitti in cui il complesso meccanismo della giustizia si interrompe, dando origine all’iniquità, “un morbo che aggredisce il progresso”: sono le guerre che trovano la loro origine nel desiderio di gloria: sola gloriae cupido justam nemini suppeditat armorum causam: non enim illa plurimorum, quos in bello perire contingit, est anteponendo vitae ac saluti[140]”.Ancora una volta è dalle Sacre Scritture, che Voet trae argomenti per esemplificare il suo pensiero, e precisamente dal Libro dei Re ove si parla del re dei Giudei Amasia, il quale muove guerra al re degli Israeliti Ioas al solo scopo di dimostrare il suo valore e quello delle sue armate e ne viene sconfitto e fatto prigioniero[141]. Infatti nessun trionfo ripaga di un’inutile perdita di vite umane; poiché : “neminem occidendum esse divinae voluere constitutiones, si non in extrema necessitate, et velut inculpatae tutelae moderamine: at quis incorruptae mentis gloriam dixerit esse necessitatem?[142], benché, come Voet rammenta, “praeterquam quod infelices saepe, Deo sic disponente, sint ad gloriae certamina provocantium successus.”

Parimenti ingiustificabili sono le guerre cagionate dal desiderio ampliare i propri domini. Di nuovo Voet recepisce qui, senza citarla, la dottrina medievale del bellum justum, laddove questa ragionava in termini di legittimità del dominio ed escludeva che l'occupazione violenta costituisse titolo[143]. Infatti “Quo titulo - si chiede Voet- in extraneorum opes in possessiones sibi jus vindicabit?”: é necessario che i sovrani abbiano un honestum titulum belli. Qui lo soccorre Giustino[144], che parla proprio di honestum titulum belli a proposito della guerra di Demetrio[145]. Viceversa l'assenza di giusta causa riduce a praedones coloro che brandiscono le armi per appropriarsi dei territori altrui: esempio proposto al riguardo è Alessandro Magno, un felix praedo[146] come lo definisce Lucano. Abbandonare questi principi voleva dire distruggere la società umana: “Et certe quicunque legitimam statuere vellet hanc belli causam, eum nocesse foret omnem etiam inter homines evertere societatem: tunc enim, quo quis est potentior, eo et in alios plus juris sibi vindicare volet”.

Voet peraltro non si sottrae alla discussione di due τoποι delicati del tema della guerra: le guerre generate da motivi religiosi e quelle in cui i sudditi insorgono contro il princeps che diventa un tyrannus. L'Europa risentiva ancora dell'“onda lunga” generata dalla guerra dei Trent'anni, guerra che-mescolate con forti motivi politici- aveva visto confrontarsi in uno scontro mortale due diverse prospettive religiose. Voet, mostrando quanto la brutalità di quella esperienza avesse- nella coscienza del suo tempo- sterilizzato questo tipo di istanze- le colloca senz'altro fra le “injustae belli causae”, poiché a suo modo di vedere esse non costituiscono neanche in apparenza un giusto titolo. Seguendo le argomentazioni fornite nel suo De jure belli[147] da Gentili, anch’egli concorda sul fatto che “non foedera, non pacem religionis interrumpit diversitas; ut credibile magis sit, principes illos speciosum solummodo, quo tegant avaritiam quaerere praetextum[148]”. E più avanti sottolinea come spesso la religione divenga un pretesto per coprire una guerra i cui veri scopi sono temporali. Peraltro, anche nel caso in cui così non sia, Voet avverte che “praeterquam quod verberibus et cruciatibus ad fidem nemo compelli possit; est namque donum Dei, quod non nisi spiritualibus armis et praecibus assiduis impetrari potest[149]”. Un popolo conquistato può essere costretto a fingere di credere alla religione del proprio conquistatore, ma non può essere indotto a farlo veramente. Ciò vale a maggior ragione nel caso in cui il conquistatore venga meno, con i nuovi sudditi, all’impegno eventualmente assunto, di far conservare loro la libertà religiosa: avendo il principe mancato ai propri impegni, quei sudditi possono pretendere nuovamente la loro indipendenza. A questo proposito Voet osserva come le nazioni che si assoggettano al dominio di un principe straniero, ottengano in cambio il rispetto della libertà religiosa, o degli altri diritti, in forza del pactum subiectionis[150].

Con ciò Voet faceva evidente riferimento al diritto di resistere, che aveva preso forma definitiva nella struttura bifocale propria della maggior parte degli Stati dell'età moderna, struttura entro la quale si articolava la dialettica fra dominante e dominati, fra il sovrano e la società da lui governata, società organizzata in Ceti, ovvero Stati, ordini, banchi, bracci, Stände, secondo le varie denominazioni. È noto come fossero tali Ceti a rappresentare il paese nelle trattative con il sovrano, sicché dalla storiografia più recente, essi non sono intesi solo come una analogia, ma veramente come una prefigurazione della moderna rappresentazione costituzionale della volontà popolare, che in parte proprio da tali origini si è sviluppata[151]. Questa coreggezza tra principe e Ceti era più che mai visibile nel Sacro Romano Impero giacchè, salvo che per esercitare gli jura cesarea reservata, l'imperatore doveva munirsi del loro preventivo consenso per ogni decisione riguardante il governo del Reich. Egli infatti, secondo le leggi fondamentali dell'Impero- che all'atto stesso dell'incoronazione giurava solennemente di rispettare[152]- non poteva senza il consiglio degli Stände modificare le leggi già approvate o farne di nuove né imporre nuove tasse. In via specifica non poteva intraprendere guerra o concludere pace benché la rappresentanza del Reich e la sua politica estera fossero, in via di principio nelle sue mani[153]. Voet però, non parla di Ceti, ma ammette il diritto di difendere anche con le armi lo Stato le cui istituzioni siano insidiate: in questo caso, dunque, i cittadini possono prendere le armi contro chiunque minacci la loro libertà, foss’anche lo stesso princeps[154].

In materia di religione valevano tuttavia in proposito i principi sanciti dalla pace di Westfalia e in particolare lo jus reformandi che essa stabiliva per i principi dell'Impero. Ne derivava l'inammissibilità, per i sudditi, di insorgere contro il legittimo principe, il quale avesse cambiato religione, poichè in forza dell'art.5 dell'I.P.O[155], egli poteva ordinare ai sudditi di fare altrettanto, senza per questo decadere dal suo diritto d’imperio. Ma ne deriva anche l'inammissibilità dell'uso della forza da parte del principe contro i sudditi che non aderiscono alla confessione da lui eletta[156].. Per Voet infatti il potere del principe incontra un limite proprio nel primo degli aspetti suindicati. Il principe non può costringere i suoi sudditi all'apostasia dato che, nella coscienza di ciascuno, “Deo magis quam hominibus oporteat obedire[157].” Che il contrasto fra il comando dell'autorità terrena e quello dell'autorità spirituale debba, per Voet, risolversi a favore di quest'ultima è comprovato dagli exempla di matrice sia scritturistica sia classica in forza dei quali egli avvalora la propria tesi: come quello del profeta Daniele che resiste al precetto imposto dal re Dario[158] per la prima, e quello di Antigone che si oppone all’Editto di Creonte[159] per la seconda.

Si trattava, peraltro del principio fondante della dottrina cristiana[160], quello in forza del quale la frattura della coscienza individuale giustificava, nel contrasto ora creatosi, il sorgere ideale e concreto del diritto di resistenza[161]. Voet qualifica come bellum, la ribellione dei sudditi contro un principe tiranno. E qui il nostro ritiene anzitutto necessario precisare cosa debba intendersi per “tirannia”. Secondo la sua opinione essa consisterebbe nel comportamento di colui che esercita il diritto di sovranità, non come difensore della patria e dei diritti dei cittadini - cioè come pater civium-, ma calpestandoli ed applicando la legge secondo il proprio arbitrio: un tale comportamento renderebbe costui hostis acerrimus. Con l'uso di una tale espressione che Voet si mostra erede della ricca tradizione, che già da S. Tommaso in poi ammetteva che un principe di tal genere si ponesse da sé nella condizione di colui contro il quale può essere legittimamente usata la forza delle armi. Non era tuttavia avanzata invano la concezione moderna dello Stato, che aveva strappato dalle mani dei sudditi quel bandolo della sovranità, sulla cui permanenza in capo al popolo, la dottrina- interpretando la Lex Regia de Imperio- si era a lungo interrogata a partire dai suoi primordi bolognesi[162]. Ecco infatti che secondo Voet è illecito per il singolo volgere le armi contro il principe, poiché, pur se malvagio, egli conserva ancora i diritti propri della sua condizione e qualunque privato cittadino gli si opponga, si macchierebbe del reato di alto tradimento. L’unico modo per rimuovere legalmente un tiranno consiste nel dichiararlo decaduto ad opera vuoi del popolo, vuoi di coloro che rappresentano la maestà regale[163]. Qui è la stessa storia delle Province Unite a fornire al Nostro materia di riflessione: il Duca d’Alba, cui Voet fa espresso riferimento, aveva con il suo governo tirannico[164] indotto le Province Unite, il 19 luglio 1572, a prendere le armi in difesa della propria libertà. Successivamente nel 1576 il trattato di pacificazione di Ghent preannunciava la decisione delle Province Unite di rendersi indipendenti, ciò che fu deciso definitivamente col trattato di Utrecht del 1579: sette province al Nord (Olanda, Zelanda, Gheldria, Groninga, Utrecht, Frisia e Over Yssel) prevalentemente abitate da popolazioni protestanti e di razza germanica, formarono una federazione indipendente tesa alla difesa dei diritti comuni[165] ; dieci province al Sud, prevalentemente abitate da popolazione cattolica e di razza latina, rimasero sotto il governo della Spagna. Il 26 luglio 1581 le Province Unite dichiararono pubblicamente che avendo il re Filippo violato gravemente le leggi del paese, doveva essere considerato decaduto[166], mentre al suo posto veniva scelto Guglielmo principe d'Orange, come principale protettore della libertà dei Paesi Bassi.

Voet non accenna affatto ad un problema rimasto a lungo di incerta soluzione: quello del momento in cui le Province Unite si sarebbero rese indipendenti dal Sacro Romano Impero[167]. Anche nell'atto di Utrecht si precisava che l'Unione era conclusa senza pregiudizio dei rapporti con il Sacro Romano Impero, vuoi quanto a soggezione delle Province Unite, vuoi quanto a privilegi che esse potevano vantare verso lo stesso[168], ma tali rapporti non era chiaro se fossero di vera e propria soggezione o di natura internazionalistica. D' altro canto, se è vero- come sostiene Feenstra- che l'indipendenza delle Province Unite dall'Impero non fu mai riconosciuta de jure[169], si comprende come anche Voet abbia evitato l'argomento, mentre i frequenti richiami ai mezzi pacifici di soluzione delle controversie è probabile che fossero suggeriti dalla consueta utilizzazione di questi mezzi proprio nelle trattative tra l'Impero e le Province Unite[170].

La ribellione al duca d'Alba si giustificava, secondo Voet, per il fatto che ai sudditi non può essere riservato un trattamento peggiore di quello della schiavitù, dato che anche gli schiavi si possono tutelare contro un padrone iniquo[171]. Così, nella migliore tradizione della scienza giuridica egli rinviava alla costituzione Digna vox dell’imperatore Teodosio II[172]: il sovrano deve essere sia vincolato dalle leggi vigenti che da quelle che egli stesso emana; e conseguentemente deve essere tenuto a rendere conto ai sudditi delle proprie azioni[173].

Più attuali motivi di guerra giusta vengono ravvisati nella violazione del diritto degli ambasciatori e dei trattati di pace. Riguardo a questi ultimi,Voet richiama i principi generali relativi ai contratti[174], e riporta l'attenzione su quelli affetti dai vizi della volontà; distinguendo il caso in cui il consenso di uno dei due contraenti sia viziato da dolo[175]; e invocando per tale trattato l'annullamento in base all’exceptio doli[176]. Simili vizi della volontà sarebbero suscettibili di costituire, secondo Voet, il fondamento di una guerra giusta.

Assume rilievo in proposito l'episodio biblico ove Giosuè, raggirato dai Gabaoniti, interessati a concludere un trattato di pace, accortosi dell'inganno rompe si l’alleanza conclusa con essi, ma ritenendosi pur sempre vincolato a tener fede al patto, non muove loro guerra bensì li condanna ad una corveé per il Tempio[177]. É interessante rilevare come proprio tale episodio fornisse, al tempo, il punto di partenza per affrontare il problema del rapporto fra vizi della volontà e validità dei trattati internazionali[178] che la scuola di diritto naturale tendeva a sacralizzare, a prescindere da elementi estrinseci come il giuramento[179].L'esigenza di mantenere ferma la forza obbligatoria della parola data aveva condotto Grozio a negare la possibilità di considerarla nulla anche in presenza di un vizio della volontà[180] e Hobbes ad affermare l'obbligatorietà dei trattati indipendentemente dalla violenza con cui fosse stata coartata la volontà, a meno che essi non fossero contrari al diritto[181].Per Voet, Giosuè avrebbe dovuto ritenersi libero dal giuramento. Egli dunque aveva la possibilità di muovere guerra ai Gabaoniti; ma qui Voet cita, per controbatterle, le opinioni contrarie di Sanderson e di Grozio.

Al primo[182], secondo cui Giosuè avrebbe dovuto osservare il trattato, soprattutto perché Dio gli aveva concesso una grande vittoria contro i Gabaoniti[183] Voet ribatte che quel trionfo realizzava la promessa fatta a suo tempo da Dio ad Abramo di dare ai suoi posteri la terra di Canaan[184], perciò non poteva essere messo in rapporto col trattato in oggetto.

A Grozio, invece, secondo il quale Giosuè avrebbe dovuto osservare il trattato in quanto gli Israeliti, pur nell’inganno, erano legati ai Gabaoniti da un foedus de vita conservanda[185], Voet oppone il comando di non confondersi con nessuno dei popoli che non avessero accettato la pace del popolo di Dio "perchè essi non vi insegnino a commettere tutti gli abominii che commettono per i loro dei e voi non pecchiate contro il Signore vostro Dio" e a tale fine il comando di Dio era: "non lasciate in vita nessun essere che respiri[186]". Un richiamo di passi durissimi, che non ci appare tanto riflesso dal vecchio modello medievale di una Comunità "internazionale" coincidente con la Christianitas[187], quanto piuttosto da una Europa che a stento riusciva a soffocare terribili esplosioni di intolleranza (ne sono tuttora testimonianza le gabbie di ferro, sospese nel cielo di Münster) ed ora incamminata a soggiogare con vincoli di natura coloniale Paesi considerati incivili[188].

Resta fermo peraltro il principio per cui, in assenza di una justa causa il rumpere foedus rappresenta un illecito, la guerra intrapresa in violazione di un trattato è injusta e, e secondo Voet, i sudditi non sono obbligati a sostenere il principe in una tale iniquità con il proprio contributo. A riguardo egli cita il capitolo 8 del tractatus de feudis di Rosenthal[189]. L'assoggettamento incondizionato alla parola data nel caso in cui l'accordo sia fruto di una coercizione sarà peraltro criticato da Pufendorf[190] e Barbeyrac[191].

 

 

9. – Lo Jus in Bello

 

Il problema del bellum justum non concerne solo lo jus ad bellum, bensì anche lo jus in bello. Poichè una guerra giusta è anche legittima, ne deriva per Voet l'esigenza di operare una distinzione, all'interno dell'opzione bellica, fra attività illecite ed attività lecite, e di precisarne la disciplina. I principi del bellum justum si applicano infatti sia al jus ad bellum sia al jus in bello, in quanto si tratta di due aspetti che, pur ben distinti, sono fra loro interdipendenti.

E il nostro inizia l’analisi delle regole del jus in bello con un quesito ben noto alla canonistica classica: la guerra va vinta combattendo apertamente o è lecito ricorrere ad inganni per sconfiggere il nemico[192]?

L’inganno, espresso con il termine latino fraus può, beninteso, avere un doppio significato: “fraus autem alia licita est, alia illicita: licitam appello, quae fit per stratagemata bellica proprie sic dicta; dolum bonum vocat jurisconsultus[193]”; dunque esiste un inganno lecito ed un inganno illecito, anche se per Tacito[194], come ricorda Voet, il dolo è sterile e si ritorce contro chi lo utilizza. La distinzione, tuttavia, consente al nostro di ammettere l'uso del dolus contro il nemico, purché entro i limiti del dolus bonus; dal che consegue il dovere di umanità verso il nemico e la necessità di non dimenticare che la pace rappresenta il fine ultimo dell’indicere bellum. A supporto di tale affermazione; Voet ricorre a S.Agostino[195] e a Grozio[196], i quali pur partendo da punti di vista diversi, affermano entrambi che le astuzie-i dola bona-utilizzate in una guerra indetta secondo le regole, sono da preferire all’uso manifesto della forza. Tra due vittorie è da preferire quella ottenuta senza spargimento di sangue: meglio, di un assedio suscettibile di durare anni, una soluzione rapida che infine consente un’ingente risparmio all’erario. Oltretutto, a fronte delle spese per premiare pochi valorosi che mettono a repentaglio la propria vita per lo Stato, si risparmia- osserva il Nostro-sulle altre innumerevoli operazioni di guerra.

Invece, per quanto riguarda gli inganni generati dal dolus malus, come la violazione dei giuramenti e la menzogna, Voet li classifica come spregevoli. Riguardo alla violazione dei giuramenti è per lui “durum et injustum adversus sua pacta vel promissiones venire”. Se un tale comportamento non venisse sanzionato, svanirebbe l’utilità di qualsiasi alleanza e non avrebbe valore il vincolo rappresentato da qualunque giuramento. La menzogna deve rappresentare un’eccezione; e in via di principio va ritenuto illecito servirsi di questo tipo di frodi in guerra; lo stesso problema si pone nei confronti della lotta all'eresia: secondo S. Agostino il diritto divino non ammette l'uso dell'inganno anche se finalizzato allo scopo di riportare l'uomo sulla strada della verità[197].

Non diversa è l'ottica dalla quale Voet riguarda il problema della liceità dell’avvalersi del servizio di traditori contro i propri nemici. Egli ci introduce all’argomento, ricordando come M. Furio Camillo avesse rimandato in città un maestro dei Falisci che aveva portato nel campo romano i suoi alunni allo scopo di spiare i Romani[198]; dopodiché rinvia a Grozio quanto alla diversa valutazione del ricorso ai traditori a seconda che questi al tradimento siano stati indotti ovvero abbiano offerto spontaneamente la propria collaborazione[199]. Nel condividere la distinzione Voet ribadisce con forza come chi istiga “altri” a commettere un illecito- ancor più un tradimento- ne condivide l'azione, diversamente dal caso in cui il traditore porga spontaneamente il proprio aiuto, senza che questo sia richiesto, perchè in questa ipotesi chiunque può trarre vantaggio di quest’atto malvagio danneggiando i propri avversari. Camillo-spiega Voet-avrebbe potuto trattenere nel suo campo la scolaresca dei Falisci senza nessun inganno ed aggiunge che il diritto non proibisce di poter usufruire di qualcosa che è stato ottenuto grazie ad un reato commesso da altri poiché viene usato un mezzo che conduce ad un fine ulteriore.

 

 

10. – Conclusioni

 

Pur al di qua della doppia frattura introdotta dalla Riforma da un lato e dalla virata anti-bartolista dall'altro, Voet dimostra di essere erede della grande tradizione dottrinale civilistica e canonistica del bellum justum. Nonostante l'appartenenza alla corrente elegante del suo autore, la struttura del “De jure militari”tenendo in gran conto gli insegnamenti del mos italicus, delineando con precisione le distinzioni tra differenti situazioni di fatto. La molteplicità delle fonti utilizzate conferma peraltro l'eclettismo di questo professore-giurista, le cui conoscenze non comprendono solo giuristi contemporanei, in special modo italiani, francesi e qualche tedesco come Zasio, ma si arricchiscono pure di suggestioni più lontane, riconoscibili in filigrana anche quando non esplicite. Di matrice tutta germanica e “cetuale” paiono poi i ripetuti rinvii al diritto di resistenza contro il principe che abbia violato le leggi del paese, intese come un patrimonio intangibile dello stesso. È chiara tuttavia, nel suo pensiero, l'evoluzione imposta dall'avanzata dello Stato moderno che suggerisce a Voet, come ad altri giuristi coevi, di confrontarsi con il nuovo ordine internazionale sancito dalla pace di Westfalia. Di qui scaturisce l'aggancio dello jus belli al diritto naturale. A tale riguardo, il Il diritto naturale si basa sul principio di autoconservazione: ragion per cui l'uomo può usare la forza per difendersi; senza che né tale uso confligga con l'altro principio, quello dell'appetitum societatis, perchè solo la violenza lesiva dei diritti altrui è contraria alla società. Corifeo di questa nuova corrente è senz'altro Grozio a cui Voet dichiaratamente si ispira pur non seguendolo sempre pedissequamente, ma facendo coesistere, nel de jure, dottrina classica e giusnaturalismo, exempla storici e prassi giurisprudenziale nel tentativo di dare equilibrio ad una materia, il diritto di guerra, in costante evoluzione.

 

 



 

[1] D.QUAGLIONI, Guerra e diritto nel Cinquecento, in Studi di Storia del diritto Medievale e Moderno, a cura di Filippo Liotta, Bologna 2007.

 

[2] Sul rapporto fra legge e consuetudine nell'età precedente vedi, da opposti punti di vista, E.CORTESE, Il diritto nella storia medievale, II, Roma 1995, 407-408; P.GROSSI; L'ordine giuridico medievale, Roma Bari 1995, 87-93; D.QUAGLIONI, "La consuetudine come costituzione", in Dominii collettivi e autonomia. Nervi P. (a cura di), 2000, 21-40.

 

[3] Sull'evoluzione della cultura giuridica al volgere del XVI secolo vedi ultimamente C.ZENDRI, Pierre Grégoire tra leges e mores. Ricerche sulla pubblicistica francese del tardo cinquecento, Bologna 2007, 1-21 .

 

[4] Il problema viene segnalato dallo stesso Grozio che nel paragrafo 37 dei Prolegomena, pur citando i giuristi specializzati in diritto di guerra come Giovanni da Legnano o Juan Lopez, sottolinea che su questo argomento tanto ricco di contenuti, essi si erano espressi in maniera parca confondendo o mescolando diversi istituti di diritto naturale, diritto divino, jus gentium e jus civile.

 

[5] Il passaggio dall'imitatio dagli antichi all' inventio intesa come sviluppo originale del proprio spirito creativo viene affrontato da L. BATKIN, L'idea di individualità nel Rinascimento italiano, Bari 1992, 16-25.

 

[6] Alcuni padri della chiesa tra cui Cipriano, Tertulliano e Lattanzio, deprecarono l'uso delle armi come mezzo di soluzione delle controversie tra i Christifideles , ribadendo il rifiuto al servizio militare per i cristiani e criticando la politica ed il diritto espressi dal popolo romano, in quanto ispirati all'utilitas e non alla giustizia.

 

[7] Per il diritto romano il bellum iustum et pium era soltanto quello preceduto dai riti del collegio dei feziali il cui compito era quello di provvedere ad assicurare o a chiedere il risarcimento dei torti arrecati a Roma da comunità straniere, di controllare l'esatta applicazione dei  trattati già esistenti e, infine di dichiarare in forme legali una guerra giusta ai popoli che avessero recato oltraggio ai romani. Una guerra che rispondeva a tali requisiti poteva essere qualificata come giusta, anche prescindendo dalla effettiva gravità delle offese subite di cui i feziali chiedevano la riparazione. Per ulteriori approfondimenti vedi F.SINI, Bellum nefandum, Virgilio e il problema del diritto internazionale antico, Sassari 1991, 199.

 

[8] CICERONE, De republica, III, 35 "Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta, nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam, bellum geri iustum nullum potest ...nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de repetitis rebus"; cfr S.AGOSTINO, Quaest. in Heptateucum, X, in MIGNE, P.L., XXXIV, coll. 780-781:"Justa autem bella definiri solent quae ulciscuntur injurias, si qua gens vel civitas, quae bello petenda est, vel vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel reddere quod per injurias ablatum est."

 

[9] S.AGOSTINO, De civitate Dei 19.VII, in P.L., vol. 41, col. 633: “Sed sapiens, inquiunt, justa bella gesturus est. Quasi non, si se hominem meminit, multo magis dolebit justorum necessitatem sibi exstitisse bellorum; quia nisi justa essent, ei gerenda non essent, ac per hoc sapienti nulla bella essent. Iniquitas enim partis adversae justa bella ingerit gerenda sapienti [(a)] : quae iniquitas utique homini est dolenda, quia hominum est, etsi nulla ex ea bellandi necessitas nasceretur. Haec itaque mala tam magna, tam horrenda, tam saeva, quisquis cum dolore considerat, miseriam fateatur. Quisquis autem vel patitur ea sine animi dolore, vel cogitat, multo utique miserius ideo se putat beatum, quia et humanum perdidit sensum”.

 

[10] In questa temperie si muovono dunque civilisti e canonisti: Il ruolo di questi- attraverso l'opera dei decretisti e delle grandi summae dei decretalisti (Sinibaldo dei Fieschi, l'Ostiense) ma anche la Quaestio de bello di S. Tommaso- s'integrerà con quello dei primi, la cui speculazione in tema di diritto di guerra si affaccia gia con la scuola della Glossa ( Odofredo, Azzone, Accursio) per intensificarsi con i grandi Commentatori ( Bartolo, Baldo). Ad essi succederà una nuova generazione di giuristi umanisti che prima in Francia, poi in Olanda ed infine in Germania, influenzerà l'evoluzione della scienza giuridica europea.

 

[11]  M.REULOS, L’influence des juristes humanistes sur l’evolution du droit, in La formazione storica del diritto moderno in Europa. Atti del terzo congresso internazionale della società di storia del diritto, Firenze 1977.

 

[12] P.HAGGENMACHER, Grotius et la doctrine de la juste guerre, Paris 1983. 549 e ss.

 

[13] Di respublicae perfectae parla S.Tommaso, che con tale termine intendeva indicare quelle munite di potestà legislativa. Il concetto viene ripreso dal Caietano il quale però lo identifica con quei potentati cui va riconosciuto lo Jus belli, ed è in questa eccezione che viene ripreso da Vitoria, che pone chiaramente il rapporto fra piena competenza di guerra e Stato. (Vitoria, De jure belli, nn 8-9). Questa respublica è per Vitoria una pars totius orbis, mentre il totus orbis viene a sua volta concepito come una respublica ( Vitoria, Commentarios ad Pandectas II, II, 4,1, n.3; De potestate civili, n 13). A.TRUYOL y SERRA, La Conception de la Paix chez Victoria et les classiques Espagnols du droit des Gens, in La Paix, Recueils de la Societé Jean Bodin, XV, Bruxelles 1961, 257.

 

[14] Un interessante saggio sulle università e la loro evoluzione è quello di A. ROMANO, Università in Europa: le istituzioni universitarie dal medio evo ai nostri giorni, strutture organizzazioni e funzionamento (Atti del convegno internazionale di studi Milazzo 28 settembre –2 ottobre 1993); Messina 1995.

 

[15] Sulla giurisprudenza elegante, i suoi contenuti ed i suoi principali esponenti vedi, vengono descritti da C. GOVAERT- J. VAN DEN BERGH, Die holländische elegante schule ein Beitrag zur geschichte von humanism und  rechtwissenschaft in den niederlanden 1500-1800, Frankfurt 2002.

 

[16] E.SCHRAGE, La scuola elegante olandese, in Studi Senesi, CIV (III serie, XLI), Siena 1992, 534 e ss.

 

[17] A.M.M. CANOY-OLTHOFF P NÈVE, Hollandische Eleganz gegenüber deutschem Usus modernus Pandectarum? Ein Vergleich des privatrechtlichen unterrichts in Leiden und an einigen deutschen Universitäten anhand einiger holländischer und deutscher juristicher dissertationen uber locatio-conductio (1650-1750), Nimega 1990. nel volume dedicato all'analisi del commentario di G.Noot al titolo sulla locatio-conductio.

 

[18] E.SCHRAGE, cit. cfr. 547.

 

[19] Un quadro completo sulla storia della facoltà di Leiden e dei suoi professori viene offerto da R. FEENSTRA-C.J. WAAL, Seventeenth Century Leiden Law professors, Amsterdam 1975, 8.

 

[20]Questa cerimonia viene descritta da P. STEIN, Il diritto romano nella storia europea, Milano 1996, 120.

 

[21] Everard Bronchorst, che dovette la sua fama ad un metodo d’insegnamento del diritto che combinava l’approccio “elegante” con quello “forense.” Di fatto si trattava di un’equilibrata sintesi tra il mos italicus e il mos gallicus. Un approfondimento ed una bibliografia essenziale sulla vita e le opere del giurista è offerta da R. FEENSTRA-C.J. WAAL, cit., 18-22 in particolare nota.39.

 

[22] Vinnius, professore e scrittore eclettico divenne celebre con il suo ampio commentario alle istituzioni di Giustiniano, pubblicato nel 1642. L’opera, rivolta a un tempo all’uso accademico ed a quello forense, riuniva le idee dei principali umanisti francesi, come Cuiacio e Hotman, le idee dei glossatori, dei bartolisti e dei più recenti esponenti della prassi germanica; ed inoltre conteneva una vasta area dedicata alla prassi giuridica olandese con le collezioni di sentenze del gran consiglio di Malines (nel sud dei Paesi Bassi). Lo scopo di Vinnius era presentare il diritto civile romano come la fonte delle nozioni fondamentali, da un lato del diritto universale derivato dalla natura e dall’altro della prassi giuridica. Le sue opere di natura enciclopedica, calate nel familiare schema delle istituzioni,ebbero una larga diffusione all’estero divenendo un punto di riferimento per i giuristi e gli studenti di diritto di una larga parte dell’Europa. Su Vinnius e Voet vedi R. FEENSTRA, op.cit, 70 e ss e J.C. VAN OVEN, Le droit romani aux Pays-Bas, in Atti del congresso internazionale di diritto romano, Bologna e Roma 1932, Pavia 1935, 26-55.

 

[23] L'allegoria, tesa a sostenere la necessità che agli studenti venissero impartite contemporaneamente nozioni di diritto romano e diritto contemporaneo olandese, è contenuta nella Oratio de jungenda Romani Lugduni Batavi com iuris practici professionem susciperet …Lugduni Batavorum, apud Johannem Verbessel, 1688. Di questa orazione parla anche Van Owen, Le droit Roman, op.cit, 44-45.

 

[24] Vedi I. BIROCCHI, La formazione dei diritti patri nell’Europa moderna tra politica dei sovrani e pensiero giuspolitico, prassi ed insegnamento, in Il diritto patrio. Tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX). Atti del convegno internazionale. Alghero 4-6 novembre 2004 (a cura di I. Birocchi e A. Mattone), Roma 2006; P.STEIN, Il diritto romano nella storia europea (trad. italiana a cura di E. Cantarella), Torino 1982, 97-118.

 

[25] R. HOKE, Pensieri sulle ricerche di Emilio Bussi sul Sacro Romano Impero nel Settecento in Le Carte e la Storia, 1999.

 

[26] Un’ampia biografia del personaggio è contenuta in J.van KUYK, in Niew Ned. Biography, Woordenboek, III 1914 coll 1328-1329;. A.A. ROBERTS, A guide to Voet, Pretoria 1933; J.C.de Wett, Jan Voet, in Tydskrif vir hedendaagse Romeins Hollandse reg, 11, 1948 , 50-57.

 

[27] Paul Voet, padre di Johannes, nacque ad Heusden nel 1619, come suo padre Gisbertus Voet (entrambi furono professori di teologia all’università di Utrecht). Paul studiò ad Utrecht, divenendo professore in quell’università nel 1641; ricoprì le cattedre di logica e metafisica, nonché di greco, finchè nel 1654 divenne professore ordinario di diritto. Morì ad Utrecht nel 1667. Egli espose le sue convinzioni sul diritto internazionale privato nel De statutis eorunque concursu liber singularis, Amsterdam 1661. La sua opera In quatuor libros Institutionum imperalium commentarius , Ultrajecti 1668, venne pubblicata dopo la sua morte e confusa spesso con il Commentario alle Pandette di Voet. A.A. ROBERTS, A Sout African Legal Bibliographi, Pretoria 1942, 326-327.

 

[28] De jure militari liber singularis in quo plurimae ad militiae militumque jura pertinentes controversiae juxta leges, gentium mores et rerum judicatorum exempla sunt definitae, Ultrajecti, ex officina Antonimi Smytegelt, 1670.

 

[29] De familia erciscunda liber singularis, quo varia est exposita dividendarum haereditatum methodus ejusque divisionis effectus et praecipue pleraeque controversiae ex civili et consuetudinario jure definitae, Ultrajecti, apud Johannem Ribbium , 1672.

 

[30] Compendium juris justa seriem Pandectarum, adjectis differentiis juris civilis et canonici, ut et definitionibus ac divisionibus praecipuis secundum Institutionum titulos, Lugduni Batavi apud Felicem Lopez, 1682.

 

[31] Elementa juris secundum ordinem institutionum Justiniani in usum domesticae exercitationis digesta, Lugduni Batavorum, apud Johannem Verbessel, et Hagae com, 1700.

 

[32] Quest’edizione, con lo stesso titolo di quella del 1670 conteneva però una nova praefatio de praetestantissimis juris militaris scriptoribus cum indice, denuo editus a J.Cristian Fischerio, Francofurti et Lipsiae, 1758.

 

[33] Droit militaire par Jean Voet, Nouvelle edition, tome premier, Turin, chez H.de Rossi 1777.

 

[34] Simon Groenewegen van der Made nacque a Delft nel 1613. Qui compì i propri studi ed esercitò la professione di avvocato e successivamente divenne segretario nella città. Ivi morì nel 1652. Tra le sue maggiori opere ricordiamo il Tractatus de legibus abrogatis et inusitatis in Hollandia vicinisque regionibus. Ulteriori notizie in A.A.ROBERTS, Bibliography, cit, 137.

 

[35] Antonio Pertile definisce il Commentarius ad pandectas come un'opera d'intento pratico caratterizzata da tale schematicità e chiarezza, da meritare d'essere il testo più diffuso riguardo a tale materia. cfr. A. PERTILE, Storia del diritto italiano-dalla caduta dell'impero alla codificazione, Torino 1898, 431.

 

[36] Vedi A.A.Robert, A guide to Voet, op.cit., 127 e 208.

 

[37]  Simon Van Leeuwen si laureò all'università di Leida nel 1649. Iniziò subito dopo la pratica come Avvocato a L'Aia e più successivamente a Leida. Nel 1681 venne nominato come aiuto alla Corte suprema a L'Aia. Van Leeuwen guadagnò la sua fama con i suoi scritti, Paratitula novissimi iuris (1652), Censura Forensis theoretico-practica (1678) ma soprattutto, Het Rooms-Hollands-Regt (1664), che si occupava del fenomeno della recezione” del diritto romano in Olanda e della nascita del Roman-Duch law. Alcune sue opere tra cui la censura forensis vennero innalzate al rango di fonti del diritto sudafricano. Per ulteriori approfondimenti vedi A.A.ROBERTS, Bibliography, cit, 183-186.

 

[38] Per un primo orientamento riguardo al complesso argomento dell'evoluzione del Roomsch-Hollandsch Recht e sul suo legame con l'odierno diritto sudafricano vedi R. ZIMMERMANN, Diritto romano e unità giuridica europea, in AA. VV, Studi di storia del diritto, Giuffrè 1996; I. FARLAM, The old authorities in south african practice, in Revue d'Istoire du droit, tome LXXV, fascicule 4, 2007; R. ZIMMERMAN, Das römisch-holländische recht und seine bedeutung für Europa, in Juristen Zeitung, Tubinga 1990, pag. 825 e ss; R.ZIMMERMANN, Roman Law, contemporary law, european law, Oxford 2001;A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, I, Torino 1982, 439 ss.

 

[39] Alcune delle sentenze più recenti che utilizzano il commentarius ad pandectas di Voet sono consultabili in www.supremecourtofappeal.gov.za/ judgments/sca-2005/2004-459.pdf ; http://www.doj.gov.za/

 

[40] Alla morte di Filippo IV di Spagna, Luigi XV inviò l'esercito francese nei territori delle Fiandre, in virtù dello jus devolutionis, grazie al quale solo i figli di primo letto erano eredi legittimi dei beni del proprio padre. Consapevole di ciò, Luigi XIV, alla morte del suocero Filippo IV re di Spagna, rivendicò per la moglie Maria Teresa una parte dei domini di suo padre, visto che non era stata pagata l’enorme dote pattuita per la rinuncia di lei all’eredità. Questa iniziativa turbò tutte le maggiori potenze europee, in quanto attentava alla libertà ed alla sicurezza dell’Olanda. Il nuovo conflitto trovava un protagonista in Jan de Witt, pensionario d’Olanda dal 1652, che seppe tessere le trattative fondamentali al fine di rompere gli intrighi francesi e risolvere la questione belga col minor danno possibile. Tra queste trattative è d’obbligo ricordare la “triplice alleanza” a cui presero parte l’Inghilterra e la Svezia. Dopo varie esitazioni le vere e proprie ostilità iniziarono nel 1672 ad opera degli Inglesi, che, sostenuti dal denaro francese, ruppero la Triplice alleanza e tentarono di catturare nel Canale della Manica un convoglio mercantile olandese che navigava verso Rotterdam. L’Olanda era irreparabilmente minacciata, via mare e via terra, dato che Luigi XIV in persona avanzava alla testa del suo esercito verso il Reno. Essa affidò le proprie speranze di salvezza in Guglielmo III d’Orange; al quale venne nuovamente conferito il titolo di Stadhouder, che era divenuto vacante nel 1651 alla morte di suo padre. Egli, in effetti, respinse l'offensiva francese con grande abilità: resta famoso l'abbattimento delle dighe intorno ad Amsterdam (1673) per inondare le campagne circostanti e fermare l'avanzata nemica. Grazie poi all'azione diplomatica e a un'oculata politica matrimoniale (nel 1677 sposa una cugina, la principessa Maria, figlia primogenita del futuro re Giacomo II d'Inghilterra), Guglielmo riuscì a porre fine al conflitto a condizioni molto favorevoli per l'Olanda.La pace venne firmata l’11 agosto 1678 Luigi XIV offriva condizioni vantaggiose, purché gli Olandesi stipulassero una pace separata ed abbandonassero i loro alleati, ma lo Stadhouder si obbligò alla neutralità verso quelle potenze, che ancora volevano continuare la guerra contro i Francesi. Quando, nel 1679, il trattato di Lund segnò il trionfo di Luigi XIV, gli Olandesi potevano andare orgogliosi del fatto che il loro piccolo paese aveva saputo resistere al più potente stato dell’Europa occidentale. Ulteriori approfondimenti in C. MANFRONI Storia dell'Olanda, Milano 1908, 336 e ss.

 

[41] CJC, Codex Iustinianus proemio, a cura di P.Krueger, Berlino 1954, in http://webu2.upmf-grenoble.fr/Haiti/Cours/Ak/index.htm

 

[42] J. VOET, De iure militari, in Commentario alle Pandette, V, Venezia 1828, cap.I, pag. proemio: “summis viribus illos, quibus erat demandata  reipublicae cura, annixos fuisse animadverto, ut non minus foris armorum gloria, quam domi legum justitia essent  illustres, 3

 

[43] J VOET; De jure militari, in idem, cap. I proemio: “Noverat enim nec sine viribus et armatorum  praesidio inviolatas ab hostibus  posse  conservari leges ,nec sine belli artibus pacem esse diuturnam”

 

[44] J.VOET, De jure militari, prefazione.

 

[45] ESIODO, Erga, vv.125-194, ora in ESIODO, Opere, testi introdotti, tradotti e commentati da Graziano Arrighetti, Torino 1998, 61 e ss

 

[46] VOET De jure militari cap.VIII, § XII, 76-77, cfr. ESIODO, Erga, cit, vv.109-126.

 

[47] Ibidem.

 

[48] VOET De jure militari, in op.cit. cap.VIII, § XII.

 

[49] Cfr. V.ILARI, Imitatio, restitutio e utopia: la storia militare antica nel pensiero strategico moderno, in Guerra e diritto nel mondo greco e romano, a cura di Marta Sordi, Milano 2002, 269-381.

 

[50] Su Pietrino Belli autore di un De re militari et bello tractatus, dedicato al re Filippo II di Spagna, si è ultimamente tornata a volgere l'attenzione degli studiosi. Vedi, per tutti, il bel volume di atti del convegno di studi tenutosi ad Alba nel 2002. Un giurista tra principi e sovrani: Pietrino Belli a 500 anni dalla nascita, Alba 2004, ed anche G.S.PENE VIDARI, Guerra e diritto nel pensiero di Pietrino Belli, in Diritto @ Storia 4, 2005 = http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Pene-Vidari-Guerra-Diritto-Pietrino-Belli.htm .

 

[51] L’opera citata sembra essere Balthazaris Ayalae, I.C. et exercitus regij apud Belgas supremi iuridici, De iure officijs bellicis & disciplina militari libri III. Antverpiae 1597.

 

[52] Il sistema prevedeva un contratto con il capitano che aveva non solo il compito di comandare una compagnia, ma anche di reclutarne ed addestrarne i componenti -in un numero determinato (da venti a cento)-in nome del sovrano. Tale sistema prevedeva il pagamento di una somma forfettaria, fu conosciuto in Italia con il nome di condotta donde il nome di condottieri attribuito ai capitani. A.CORVOISIER, Armeés et sociétés en Europe de 1494 à 1794, Paris 1976, 53.

 

[53] A.LECA, La republique européenne ( introduction a l'histoire des institutions publiques et des droits communes d'Europe) , I, L'unité perdue ( 476-1806) Marseille, 2000, 582.

[54] Per quanto riguarda l’Olanda di Voet, viene attribuita ai comandanti dell’esercito olandese, i conti Maurizio e Guglielmo di Nassau, l'invenzione di un nuovo modo per aumentare il ritmo di fuoco dei moschettieri. La tecnica a raffica appare per la prima volta in una lettera datata 8 dicembre 1594 del conte Guglielmo Luigi di Nassau a suo cugino Maurizio in cui il mittente asseriva di aver tratto l’idea da uno studio assiduo dei trattati romani. L'uso di questa nuova tattica si diffuse ben presto in tutta l’Europa, numerosi istruttori militari olandesi sarebbero stati mandati negli stati amici. cfr. G. PARKER, La rivoluzione militare.Le innovazioni militari ed il sorgere dell’Occidente, Bologna 1990, 7-8, 35-30.

 

[55] Il funzionario e scrittore di cose militari, Publio Flavio Vegezio Renato compilò tra il 379 e il 395 un' Epitome rei militaris, su commissione di Tedosio I. L'opera, che aveva lo scopo di riordinare gli antichi dati sparsi per diversos autores librosque, durante il Rinascimento divenne uno dei punti di forza della cosidetta “rivoluzione militare” conducendo Vegezio ad essere considerato auctoritas per eccellenza in campo militare. Per ulteriori approfondimenti sulla fortuna di Vegezio vedi tra gli altri: V.GIUFFRé, Militum disciplina e ratio militaris, in Aufstieg und niedergang der römischen Welt, Berlino-New York 1980, 235-241; cfr. P.CONTAMINE, La guerra nel Medioevo, tr it, Bologna 1986, 289-300.

 

[56] Le notizie relative alla vita di Christine de Pisan derivano soprattutto da Byles (ed.), “The Book of Fayttes of Armes and of Chyvalrye”, tradotto e stampato da William Caxton dall'originale francese di Christine de Pisan. Pubblicata da Humphrey Milton, Oxford University press, Londra 1932. Per quanto riguarda invece la bibliografia relativa all'autrice italiana, vedi: M.J.PINET, Christine de Pizan. Étude biografique et litteraire, Paris 1927; R. PERNOUD, Christine de Pizan, Paris 1982; C. CANNON WILLARD, Christine de Pisan. Her life and works, New York 1984; dello stesso autore, The writing of Christine de Pizan, New York 1984; E.YENAL, Christine de Pizan. A. Bibliography, sec ed, London 1989, dello stesso autore, The reception of Christine the Pizan from the fifteenth through the nineteenth centuries visitors to the city. Ed G.K Mc Leod, Lampeter 1991; A.J.KENNEDY, A selective biography of Christine de Pizan scolarship, 1980, 87, in Reinterpreting Christine de Pizan, ed E.J.Richards, Atthens 1992, pag.285-301; B.ZUHLKE, Christine de Pizan in " Text und Bild Selbstdarstellung einer Fruhhumanistichen Intellektuellen, Stuttgart 1994; M.T. GUERRA MEDICI, The mother of international law: Christine de Pisan, p 1-24(dell’estr.).

 

[57] HONORE BONNET, L'arbre des batailles, Parigi 1493.

 

[58] IOANNES LUPUS, Tractatus de bello et bellatoribus, T.U.I., XVI, foll 320 e ss.

 

[59] Su Guido Panciroli e Prospero Farinacci vedi V.PIANO MORTARI, La scienza giuridica del XVI secolo, Catania 1966, 10, 15.

 

[60] Sul punto vedi L. BUSSI, La comunità di nationes dell'alto medioevo e la  soluzione delle controversie intersoggettive in Diritto @ Storia 6, 2007 = http://www.dirittoestoria.it/6/Contributi/Bussi-Comunita-nationes-medioevo-soluzione-controversie.htm .

 

[61] P.FISCHER- H.F. KÖCK, Allgemeines Völkerrecht, Wien 2000, 299. Tale rifiuto è espresso nella maniera più chiara nello Statuto delle Nazioni Unite, art 2 § 4:I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Vedi T.PERASSI, L'ordinamento delle Nazioni Unite, Padova 1962, 66. Benchè comunità internazionale particolare, quella delle Nazioni Unite, per il numero dei suoi aderenti, tende a coincidere con la Comunità Internazionale generale. Vedi A. MALINTOPPI, Comunità parziali e comunità internazionale universale, Roma 1977, 47.

 

[62]: Dictum autem est bellum a duello; neque enim exploratius quicquam est, quam duas in bello requiri partes utrinque de summa rei contendentes” J.VOET, De jure militari , op cit, cap I, § I, pag.4. Voet riporta essenzialmente il fenomeno fonetico costituito dal passaggio del du- iniziale a b- che ha determinato l’evoluzione dell’originaria forma duellum in bellum, anche se numerose testimonianze indicano come il termine continuava a venire utilizzato in forma arcaica all’interno delle formule solenni del linguaggio sacerdotale Per un approfondimento di questo ed altri temi correlati si può consultare l’intervento di F. SINI, Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma antica, in Atti del convegno Guerra, pace e diritto, (Sassari-Porto Conte, 28-30 Aprile 2004.)

 

[63]Neque huius nominis origo repugnat; est enim bellum ex voce veteri duellum, ut duonus quod fuerat factum est bonus, et duis bis” HUGO GROTIUS, De iure belli ac pacis, L I, c 1 § 2, a cura di B.J.A de Kanter, Van Hettinga Tromp, Aalen 1993, 30.

 

[64] In tema di duello vedi le ricerche di M.CAVINA, Privilegio di duello? Note per una ricerca in corso, in A Ennio Cortese, tomo I, Roma 2001, p.257 e sgg.

 

[65] Heinrich Bocer (1561-1630) allievo del Vigelius a Marburg e del Borchontel a Helmstädt, si addottorò in diritto a Tübingen (1585) e vi insegnò fino alla morte; membro dello Hofgericht e poi del Rath del Würtemberg e dotato di grande autorità in seno alla facoltà giuridica di Tübingen, prese parte ai lavori di revisione del Würtembergisches Landrecht. Per ulteriori approfondimenti I. BIROCCHI, Saggi sulla formazione storica della categoria generale del contratto, Cagliari 1988.

 

[66] V.ILARI, L'interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1982, 132.

 

[67] HENRICUS BOCERUS, De jure pugnae, hoc est, belli & duelli, tractatus metodicus, Tubinga, 1591.

 

[68] Vedi L. BUSSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, cit., 118-119.

 

[69] VOET, De Jure militari, capitolo I § II "...iuxta eam namque vel penes quemlibet privatum, modo exercitu stipatus bellum per fecialem alteri, seu privato, seu reipublicae denunciasset, non secus atque penes summam majestatem decernendi belli resideret potestas."Va rilevato che Voet adotta ancora la " vecchia" dicitura "respublica" .Vedi sul punto E.BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Milano 2002, 22-25.

 

[70] VOET, De Jure militari, cit, capitolo I § II, 5.

 

[71] VOET, De Jure militari, cit, capitolo I § IV, 5.

 

[72] A.GENTILI. The jure belli libri tres, in Classics of International Law, Oxford 1933, lib.1 cap 3, 22-32. Gentili (1552-1608), professore regio, lavorò a significative opere quali il De jure belli libri tres, Hanau 1598 e il De juris interpretis dialogi sex, Londini 1582. Sulla particolare metodologia del Gentili si veda D.PANIZZA, Machiavelli e Alberico Gentili, “il pensiero politico” Anno II, n. 3, Firenze 1970, 476-483; e in modo più ampio, relativamente al metodo giuridico, sempre dello stesso PANIZZA, Alberico Gentili, giurista ideologo nella Inghilterra elisabettiana, Padova 1981. Tra le ultime pubblicazioni vedi Alberico Gentili -Il diritto di guerra ( De jure belli III), a cura di C.Marchetto e C.Zendri, con introduzione di D.Quaglioni, Milano 2008.

 

[73] Le problematiche relative a tale processo hanno richiamato di recente un sempre più attento interesse della dottrina, interesse testimoniato nella maniera più chiara dai convegni organizzati a Trento nel 2007 e nel 2008 che si sono illuminati del dibattito di studiosi italiani e tedeschi. I risultati scientifici di tali convegni si trovano ora pubblicati in Gli inizi del diritto pubblico. L'età di Federico Barbarossa: legislazione e scienza del diritto / Die Anfänge des öffentlichen Rechts. Gesetzgebug im Zeitalter Friedrich Barbarossas und das Gelehrte Recht, a cura di/hrsg. von G. Dilcher - D.Quaglioni, Bologna-Berlin 2007; Gli inizi del diritto pubblico, 2. Da Federico I a Federico II / Die Anfänge des öffentlichen Rechts. Von Friedrich Barbarossa zu Friedrich II, a cura di/hrsg. von G. Dilcher - D. Quaglioni, Bologna-Berlin 2008.

 

[74] Vitoria riprendendo gli studi del Caietano, teorizza l'esistenza di una res publica perfecta, prototipo del nascente Stato sovrano, che ha l'autorità non solo di difendersi ma anche di vendicare se stessa ed i propri cittadini; depositario di questo potere è il princeps che detiene la legittimazione attiva all'uso della forza senza limitazioni ad un uso puramente difensivo. Un'analisi del pensiero di Vitoria e dei punti di contatto con le posizioni espresse dagli altri esponenti della seconda scolastica, tra cui il Caietano, è contenuta nel recente contributo di M.GEUNA, Le relazioni fra gli Stati e il problema della guerra: alcuni modelli teorici da Vitoria a Hume; in La pace e le guerre. Guerra giusta e filosofia della pace (Atti del seminario Cagliari, 29 novembre, 9 e 16 dicembre 2004) , a cura di A.Loche, Cagliari 2005.

 

[75] The Spanish Origin of International Law: Francisco de Vitoria and his Law of Nations, a cura di J. B. Scott, London 1932

 

[76] VOET, De Jure militari, capitolo I § l. pag 4-5, la definizione è contenuta in D.49.15.24 .

 

[77] Vedi R.QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli 1968, 397.

 

[78] Un’esempio della disparità di trattamento riservata ai latrones, rispetto agli hostes publice è contenuto in D.49,15,24: Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur. Et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat. In questo passo il giurista Ulpiano presenta il caso dell’uomo qui a latronibus captus est, argomentando come la servitù legittima (cioè prevista dallo jus gentium) non si deve applicare nei confronti del prigioniero (servus latronum non est), né in caso di liberazione sarà applicabile l’istituto del postliminium.

 

[79] In tal senso si pronuncia RAFFAELE FULGOSIO, Super prima digesti veteris parte, ad D.1,1,5 ex hoc iure, ed.Lugduni 1654, 8.

 

[80] Sul punto si esprime abbastanza chiaramente Odofredo che nel suo commento alla hostes (D.50,16,118) identifica il bellum iuris gentium con il bellum iniziato o subito dal popolo romano o dall'Imperatore. Un'ulteriore spiegazione è contenuta nella glossa quinque sunt genera gentium che enumera quali fossero le principali condizioni giuridiche a cui la legge hostes faceva riferimento: oltre al populus romanus ed ai latrones vengono individuati anche i populi liberi e quelli a cui si applica il postliminium anche in pace. Quest'ultima categoria offre il modo di distinguere tra il bellum, ossia una guerra formalmente dichiarata contro un nemico riconosciuto come hostis, e un conflitto che comunque giustifica una risposta in termini difensivi. Sempre riguardo alla posizione di Odofredo è poi di particolare interesse il suo commento alla lex del digesto relativa ai modo di acquisizione del dominio. Uno dei modi di acquisizione del dominium riconosciuti dallo ius gentium è l'occupazione, ed una condizione nella quale tale acquisizione può verificarsi è la guerra. Orbene, in caso di occupazione bellica, la legge hostes prevede che possano essere acquisiti solo i beni dei nemici e che solo in presenza di nemici si possa attivare l'istituto del postliminium. Sul punto vedi L.BUSSI, Il problema della guerra, op.cit, 124-125.

 

[81].L.BUSSI, Il problema della guerra, cit, 149-151; P. HAGGENMACHER, Grotius e la doctrine, cit, 204-208.

 

[82]Nam princeps est caput et primus et summus magistratus populi romani, et populus  dicitur indixisse cum princeps indixerit, cui populus id negans, ante concesserit: ut infra.et dicta lege hostes que infra allegatur que fuerunt Ulpiani: qui fuit post latam legem regiam...In eadem ibi hostes dicit Guil. de Cuneo idem si indicto a quolibet alio per quem respublica regeretur vel a quocunque superiore in subditos.” RAPHAELIS FULGOSII PLACENTINI, In primam Pandectarum partem, Lugduni MDXLIIII

 

[83]Liberum utrinque desidero populum ut latrocinia, seditiones, bella civilia removeam, et si quae sint huius farinae alia quibus neque belli jura, neque privilegia tribuenda, ac ne nomen quidem proprio loquendi modo imponendum.”VOET, De jure militari,.cit, cap I § V, 5.

 

[84]In civilibus namque dissidiis non liber utrinque contendit populos, verum una natio uni subiecta principi in duas scissa partes contrarias ,in duas divisa factiones ;ubi eadem utrinque conspiciuntur insigna patria ...commilitonibus adversi commilitones..in sua viscera et cognatas acies versae detrae;ibi nullum principis supremi consensus, nullum belli decretum …non ibi de reipublicae ruina et exilio sed conservatione summis utrinque decertatur ardoribus, dum in suam quisque partem ac factionem regnum trahere consensus, nullum belli decretum … non ibi de reipublicae ruina et exilio sed conservatione summis utrinque decertatur ardoribus, dum in suam quisque partem ac factionem regnum trahere annititur et quaequmque potest ratione illud urget ne quam nisi propriam aut amica frontem diadema obvestiat”. Ibidem.

 

[85] L BUSSI, Il problema della guerra, op cit, 138-140.

 

[86] Dig.49.15.21pr “In civilibus dissensionibus quamvis saepe per eas res publica laedatur, non tamen in exitium rei publicae contenditur: qui in alterutras partes discedent, vice hostium non sunt eorum, inter quos iura captivitatium aut postliminiorum fuerint. et ideo captos et venumdatos posteaque manumissos placuit supervacuo repetere a principe ingenuitatem, quam nulla captivitate amiserant.”

[87] Per la definizione vedi Gaio, Inst. 1,129: “Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt, itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens,an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitar ipotest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse. Per un riesame recente dell’istituto vedi A. MAFFI, Ricerche sul “postiliminium”, Milano, 1992, 61 e ss; M.F. CURSI, La struttura del “postliminium” nella repubblica e nel principato, Napoli 1996, 137 e 143; M.V.SANNA, Nuove ricerche in tema di postliminium e redempio ab hostibus, Cagliari 2001, 42.

 

[88] “Victores duces, externum id magis quam civile bellum videri voluerunt ut triunpharent. L. A FLORO, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, libro III, capitolo 22 in fine.

 

[89]Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri? gentibus invisis Latium praebere cruorem cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta bella geri placuit nullos habitura triumphos? LUCANO, De Bello Civili Sive Pharsalia, I,1 in http://www.thelatinlibrary.com/lucan/lucan1.shtml

 

[90] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § VI, 5.

 

[91] Vedi in proposito G.B.VICO, Scienza Nuova I, 2, cfr. V.ILARI, L'interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, 125.

 

[92] Nel 1650 Zouche era stato autore di un juris et judicii fecialis sive iuris inter gentes et quaestionum de eodem explicatio. Vedilo in The Classics of international law, 1, Washington 1911.

 

[93] Sui sacerdoti feziali e sullo ius fetiale, fra la letteratura più recente: P. DE FRANCISCI, Primordia civitatis, Roma 1959, 472 ss; P.CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965; M.R. CIMMA, I feziali e il diritto internazionale antico, in Ius antiquum- Drevnee Pravo 6, 2000, 24 ss; G. FRANCIOSI, Manuale di storia del diritto romano, Napoli 2001, 54,133-147.

 

[94] La citazione del testo Ciceroniano operata da Voet nel de jure non è letterale e in luogo di Nullum intelligitur bellum, nisi quod aut rebus repetitis geratur bisogna intendere…Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum nisi quo daut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit, et indictum.

 

[95]Adsum paratus nunc quoque his e finibus, exercitum omnes protinus deducere, dum me ista dominum Regia agnoscat suum, reddenda fratri temporum justo ambitu. Ita nec paternas arma vastabunt opes, nec scala celsos faciet in muros gradum. Sin haec negantur, quicquid est juris mei experiar: inque hoc advoco testes Deos, cum jus petam praestemque.” VOET, De jure militari, cap I § VI cfr con il testo euripideo in http://www.perseus.tufts.edu/cgi-bin/ptext?doc=Perseus%3Atext%3A1999.01.0117

 

[96] J.VOET, De jure militari, op.cit, cap I § VI, 5.

 

[97] J.VOET Ibidem, “Nec absque praevia juris ac rerum repetitione foedera pacisque dissolvenda esse vincula, in tantum ut latrones, atque praedones audiant quos aliter inferendi belli vesania subiit.”

 

[98] Sul tema vedi G. S PENE VIDARI., Rappresaglia (storia), in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXVIII, Giuffrè, Milano, 1987, 403-409; A.DEL VECCHIO - E.CASANOVA, Le rappresaglie nei Comuni medioevali e specialmente in Firenze, Bologna 1894, p.93; G.CASSANDRO, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI, Torino, 1938, 5-23.

 

[99] BARTOLO, Tractatus represaliarum,in  Opera omnia, X, Venetiis 1602.

 

[100] A GIANELLI., Rappresaglia nel diritto internazionale, in Digesto (discipline pubblicistiche), vol. XII, Utet, Torino, 1997, 411-443.

 

[101] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XI, 7.

 

[102] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XIII, 7.

 

[103] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XIII, 7.

 

[104] CICERONE, Pro Milone XI“Hoc ratio doctis, et necessitas barbaris,et mos gentibus,et feris natura ipsa praescripsit, ut omnem sempre vim,quacumque ope possent,a corpore,a capite,a vita sua propulsarent.” in http://www.thelatinlibrary.com/cicero/milo.shtml#11

 

[105] Dig.1.1.3 “Ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse.”

 

[106] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XIII, 7.

 

[107] VOET; De jure militari, op.cit,cap I § VII 6. “Et ad propulsandam quidem injurias ac ablata injuste per vim repetenda penitus esse permissum armorum adminiculum, non facile quisquam, nisi qui videri velit humanam prorsus exuisse naturam, negaverit; illud enim non naturalia tantum ac gentium iura, sed immutabilia quoque nobis injiungunt Dei praecepta.”

 

[108] D.1,1,2,5 “Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi, aedificia collocata, commercium, emptiones venditiones, locationes conductiones, obligationes institutae: exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt.”

 

[109] Inst.I, 2, § 2 “Ius autem civile vel gentium ita dividitur: omnes populi qui legibus et moribus reguntur partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur: nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium civitatis est vocaturque ius civile, quasi ius proprium ipsius civitatis:  quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. et populus itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utitur. quae singula qualia sunt, suis locis proponemos”

 

[110] Bellum vero aliud justum est, aliud injustum.Iustum esse censeo, quod suprema majestas legitimis de causis indicit populo superiorem non agnoscendi. VOET, cap I § XIV, 7.

 

[111] “.. neque cuiquam dubium esse potest justum jure gentium primitus esse introductum” .J.VOET De jure militari, cit, cap I § XIV, 7.

 

[112]J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XVI “Postquam enim inter homines dominorum esset introducta distinctio..” cfr. Dig.1.1.5; cfr. J.VOET De jure militari cap I § XIV “Postquam enim inter homines dominiorum esset introducta distinctio...

 

[113] Sull'importanza del passo 1,1,5 del Digesto insieme alla lex del Digestum Novum 49.15.24 (legge Hostes) vedi L.BUSSI; Il problema della guerra, cit, 131-134.

 

[114] “...omni humano generi commune est. Nam usu exigente , et humanis necessitatibus, gentes humanae jura quaedam sibi constituerunt. Bella etenim orta sunt et captivitates secutae, et servitutes que sunt naturali jure contrariae. Jure enim naturali omnes homines ab initio liberi nascebantur. Et ex hoc jure gentium omnes et pene contractus introducti sunt, ut emptio, venditio, locatio conductio, societas, depositum, mutuum et alii innumerabiles”.

 

[115] Sulla distinzione operata dalla civilistica dell'età di mezzo vedi E.CORTESE, Il diritto nella storia medievale, II, cit., 93-95; IDEM, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, I, Milano 1962, 80 e ss.

 

[116]memorare dictum liceat antiquum mihi, Imperium opesque prima sunt mortalium, Censu, atque in animos maximas vires habent. Horum ergo veni cum tot hastatorum agmine.” J. VOET, De jure militari, cit, cap I §XIV cfr con il testo euripideo in http://www.perseus.tufts.edu/cgibin/ptext?doc=Perseus%3Atext%3A1999.01.0117;layout=;query=line%3D469;loc=469

 

[117] Inter homines dominiorum esset introducta distinctio, neque amplius mortales in omnium rerum vivere communione pacata, evenit ut una cum numero paulatim cresceret avaritia, et animos ipsorum invaderet amor sceleratus habendi unde non propriis contenti rebus, alienis coeperunt insidiari cfr. “justum adinventum est jure gentium bellum, ut medicina adversus omni jure adversantes iniquorum insultus et invasiones, ne tractu temporis nimium invalescerent.”

 

[118] L. BUSSI, Echi dello jus belli romano nella dottrina canonistica della guerra giusta, in Diritto @ Storia 3, 2004 = www.dirittoestoria.it/3/Tradizione romana /Bussi-ius belli.htm, e in Jus antiquum 1(13), 2004, 130 e ss.

 

[119] Tale concezione della guerra, risalente al periodo arcaico della storia di Roma, aveva come punto di riferimento l’attività del collegio dei feziali, che con e loro riflessioni teologico-giuridiche contribuirono all’elaborazione di una sorta di “codice diplomatico”, cioè un sistema di regole rese inviolabili dalla religione, da utilizzare nelle relazioni internazionali per preservare o ristabilire la fides publica inter populos; regole e procedure indispensabili ut iustum conciperetur bellum.Vedi F. SINI; Ut iustum conciperetur bellum in http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Iustum-bellum.htm ; M.SORDI Bellum Iustum ac pium, in Guerra e diritto nel mondo greco e romano, a cura di M.Sordi, Milano 2002, 3-11.

 

[120] L’elemento della iusta causa belli, presente nella riflessione ciceroniana viene considerato dalla maggior parte della dottrina come un punto di svolta all’interno della problematica del bellum. La justa causa infatti, avrebbe dato origine ad una concezione etico sostanziale della guerra giusta, sviluppatasi poi con la cultura cristiana del medioevo ed ancora presente nella moderna polemologia. da posizioni diverse vedi S:ALBERT, “Bellum iustumDie Theorie des “gerechten Krieges”und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz 1980; A.WATSON, International Law in Archaic Rome. War and Religion, Baltimore-London 1993; K.H.ZIEGLER, Völkerrechts-geshichte, München 1994 p.62; L. LORETO; Il bellum iustum e i suoi equivoci, Napoli 2001, 27 ss.

 

[121] Su tale argomento vedi L.BUSSI, Echi dello jus belli, cit, 140.

 

[122] ZOUCHE, De jure et judicii fecialibus, Lugduni Batavorum 1651, lectio 10, quaestio 1, 2

 

[123] GROZIO, De jure belli ac pacis 3,3,6.

 

[124] S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium libri octo, Francofurti ad Moenium, 1694, § 8, 6, 9 , 15; HUBER, De jure civitatis libri tres, 1684, libro III, act III, cap IV.

 

[125] V. ILARI, L'interpretazione, cit, p.129.

 

[126] J.VOET, De jure miliari, cit, cap I § XIV, 7.

 

[127] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XX, 8-9.

 

[128] Cfr. SCHÜCKING, cit., p. 17 con riferimento a Cornelius van Bynkershoek: Quaestionum Juris Publici libri duo vol. I, cap. 25, n. 10.

 

[129] J.VOET, De jure militari, op.cit, cap I § VI, 5-6 “Tertium denique, quod ad belli requiro substantiam est ut rite indicatur, seu ut consilio prius, quam armis omnia experiamur...” cfr. cap I § XI “Verum prius omnes, quibus absque vi publica ad sarciendum damnum, aut injuriae ultionem compelli posse creduntur adversarii, tentandas esse vias” cfr. cap I § XXV “ Caeterum si subsecuto foedere sublata semel fuerit ac sopita justa belli causa, aut transactum sit de negotio, quod armorum praebere forte potuisset ansam, liberum cuiquam non amplius est ex obsoleta illa atque antiquata causa de novo bellandi quaerere occasionem.”

 

[130] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XVIII, 8.

 

[131] J VOET, De jure militari, cit, cap I § XVIII, 8 “justas inferendi belli causas ad tria facile capita cogi posse puto; aut enim ad propulsandam vim suscipitur, suisque defensionem: aut ad repetendam res quascumque summo scelere nobis ereptas: aut denique ad ulciscendas injurias immerentibus illatas.”

 

[132] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XVIII, 8.

 

[133]J.VOET; De jure militari, cit, cap I § VII, 6.

 

[134] Si tratta di Dt. 13, 16-20: “..Devi passare gli abitanti di quella città a fil di spada, votare all'anatema essa e quanto è in essa, e passare a fil di spada anche il suo bestiame; ammasserai tutto il bottino in mezzo alla piazza e brucerai nel fuoco la città con tutto il bottino, tutta intera, per il Signore tuo Dio. Diverrà una rovina eterna e non sarà più ricostruita.”, Dt 20, 16-18: “ Invece nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dona in eredità non lascerai viva anima alcuna ma voterai allo sterminio Hittiti, Amorrei, Cananei, Perizziti, Evei e Gebusei, come ti ha ordinato il signore tuo Dio, affinché non vi insegnino ad imitare tutti gli abomini che compiono per i loro dei, e pecchiate contro il Signore vostro Dio.”Dt. 31, 3-5: “Il signore tuo Dio, lui lo attraverserà davanti a te, lui distruggerà quelle nazioni davanti a te e le caccerà. E Giosuè, lui lo attraverserà davanti a te, come ti ha detto il Signore. Il Signore farà ad esse come ha fatto a Sicon e a Og re degli Amorrei e alla loro terra, che ha distrutti. Il Signore le metterà in vostro potere e voi le tratterete secondo il comando che vi ho prescritto.”Il primo e il secondo passo si riferiscono al caso in cui si sospetti la diffusione di pratiche idolatre, ed impone prima di procedere, la verifica di tali sospetti, solo dopo tale verifica Dio impone l'uso della violenza sancendo dunque l'importanza dei rituali connessi all' indictio belli. Il terzo passo invece tratteggia la figura di Dio come “Signore degli eserciti”. Un Dio che guida la mano del suo dux -in questo caso Giosuè- e conduce lui ed il suo popolo verso la vittoria contro i nemici che sono avversi agli Israeliti ma al contempo avversi anche a Dio.

 

[135] L'atto di consacrazione a Dio dei frutti della vittoria o hērem,al tempo della composizione del Deuteronomio, così come del libro di Giosuè, era un postulato teorico dettato più dalla necessità di rafforzare l'identità religiosa di un popolo esposto al pericolo dei culti stranieri e dei matrimoni misti, che da reali necessità. Dunque la menzione di questa pratica dovrà essere interpretata alla luce di tre fattori: uno teologico uno morale ed uno sociologico: il riconoscimento della terra come dominio inalienabile del Signore; la necessità di risparmiare al popolo ogni tentazione che poteva compromettere la totale fedeltà a Dio ed infine la tentazione molto umana di mescolare alla religione le forme più aberranti di ricorso alla violenza. Per ulteriori approfondimenti riguardo all'esegesi storico-critica delle fonti vetero e neo testamentarie che riguardano il popolo ebraico vedi Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella bibbia cristiana, a cura della Pontificia Commissione Biblica e con prefazione del cardinale Joseph Ratzinger, in http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_index_it.htm ; C. STUMPF, Vom heiligen krieg zum gerechten krieg, in Zeitschrift der Savigny-stiftung fur Rechtsgeschichte, 2001, 1-30.

 

[136] M.LIVERANI, Oltre la bibbia-Storia antica di Israele, Bari 2003

 

[137] Dt 20, 16

 

[138] Gs 24, 14-24

 

[139]Cum autem justi et injusti sit opposita natura, sic ut alterum ab altero excludi ac removeri necesse sit, vim veritati intulerit, qui iustum dixerit utrinque dari posse bellum” J.VOET, De jure militari, op.cit, cap I § XVIII, 8, cfr. A.GENTILI, De jure belli libri tres, op.cit, 47-52; H.BOCER, De bello, cap I § 12.

 

[140] J.VOET, De jure militari, op.cit, cap I § XIX, 8.

 

[141] 2 RE,14, 8

 

[142] La condizione del moderamen inculpatae tutelae era stata ampiamente affrontata dalla dottrina dell'età di mezzo, di matrice vuoi canonistica, vuoi civilistica, vedi a riguardo L.BUSSI, Echi dello jus belli ,cit, 4-5.

 

[143] L.BUSSI, Il problema della guerra cit., 131-134.

 

[144] Marco Giuniano Giustino storico latino dell'epoca degli Antonini compose tra la fine del II e l'inizio del III secolo l'Historiarum Philippicarum T. Pompeii Trogi Libri XLIV una epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo. L'opera, più interessante per la parte aneddotica che per quella storica, spesso disordinata ed erronea, ebbe larghissima diffusione nella tarda romanità.

 

[145] “ Demetrius occupato Syriae regno novitati suae otium periculosum ratus ampliare fines regni et opes augere finitimorum bellis statuit. 2 Itaque Ariarathi, regi Cappadociae, propter fastiditas sororis nuptias infestus fratrem eius Orophernen per iniuriam regno pulsum supplicem recepit, datumque sibi honestum belli titulum gratulatus restituere eum in regnum statuit.” M.IUNIANO IUSTINO, Historiarum philippicarum in epitomen redacti, L.XXXV, 1, in http://www.thelatinlibrary.com/justin/35.html

 

[146]illic Pellaei proles vesana Philippi felix praedo jacet illic Pellaei proles vaesana Philippi, felix praedo, iacet, terrarum vindice fato raptus: sacratis totum spargenda per orbem membra viri posuere adytis; fortuna pepercit manibus, et regni duravit ad ultima fatum” LUCANO, De bello civili sive pharsalia, L X, 20, http://www.thelatinlibrary.com/lucan/lucan10.shtml

 

[147] A.GENTILI, De jure belli, op. cit, Libro I, cap.IX “ Sed haec alia quaestio est de defensione qua postea examinabo. Nuncilla est si uno religionis obtentu bellum inferri possi. Et hoc nego et addo ratione: quia religionis ius hominibus ou hominibus proprie no est itaque nec eius laeditur hominu ob diversa religione itaque nec bellum causa religionis. Religio erga Deu est ius est divinu, id est, inter deum, e homines: non est eius humanum, id est inter homines e homine.Nihil igitur quaeritat homo violatum sibi ob aliam religionem.”

 

[148] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XXI, 9.

 

[149] J.VOET, De jure militari, ibidem.

 

[150] Con ciò Voet rinviava a un istituto ben conosciuto dalle costituzioni europee del tempo, sul punto vedi A. HOLENSTEIN, Die Huldigung der Untertanen Rechtskultur und Herrschaftsordnung (800-1800), Stuttgard 1991.

 

[151]HINTZE, Typologie der ständischen Verfassungen des Abendlandes, ora in Staat und Verfassung. Gesammelte Abhandlungen zur allegemeine Verfassungsgeschichte (a cura di G. Oestreich) Göttingen 1970, I, 121 (l'articolo riproduce una prolusione dall'autore tenuta nel 1926); vedine la sintesi critica in OESTREICH, Ständestaat und Ständewesen im Werk Otto Hintzes, in AA. VV., Ständische Vertretungen in Europa, cit., 65.

 

[152] Sull'argomento vedi E. BUSSI, Il diritto pubblico, cit., II, 82.

 

[153] La collocazione dei domini asburgici fu infatti la più importante delle ragioni per cui da Alberto V d’Asburgo (Alberto II come imperatore).in poi a ricoprire la dignità imperiale venne sempre eletto un membro di Casa d'Austria.Vedi E. BUSSI, Il diritto pubblico, cit., II, pag. 264; cfr. L.BUSSI, Fra Unione personale e Stato sovranazionale, cit, 83.

 

[154] " ..at vero dubium nemini esse potest, majestatem habentibus esse quovis jure licitum adversus insidiatores et hostes ad illam defendendam arma capessere. J.VOET, De jure militari, op.cit, cap I § XXIII III, 9. Questa tesi viene raccolta da L. BUSSI, idem, 259 e 296-298.

 

[155] I.P.O, art 5, § 30 “Quantum deinde ad comites, barones, nobiles, vasallos, civitates, fundationes, monasterias, commendas, communitates et subditos statibus immediatis, sive ecclesiasticis sive saecularibus subiectos pertinet: cum eiusmodi statibus cum iure territorii et superioritatis ex communi per totum imperium hactenus usitata praxi, etiam ius reformandi exercitium religionis competat ac dudum in pace religionis talium statuum subditis, si a religione domini territorii dissentiant beneficium emigrandi concessum, in super majoris concordiae inter status conservandae causa cautum fuerit quod nemo alienos subditos ad suam religionem pertrahere eave causa in defensionem aut protectionem suscipere, illisve ulla ratione patrocinari debeat: conventum est hoc idem porro quoque ab utriusque religionis statibus observari, nullique statui immediato ius, quod ipsi ratione territorii et superioritatis in negotio religionis competit impediri oportere

 

[156] Importante a questo proposito fu la distinzione fra fede e culto, intima adesione a una confessione religiosa e pubblica manifestazione della stessa. Su ciò E.BUSSI Evoluzione storica, op.cit, 219.

 

[157] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XXII, 9.Il riferimento è quello classico a At, 4, 19 - 5, 29.

 

[158] Dn 6, 8-28

 

[159] “...Io non pensai che tanta forza avessero gli ordini tuoi, da rendere un mortale capace di varcare i sacri limiti delle leggi non scritte e non mutabili. Non son d'ieri ne d'oggi, ma da sempre vivono: e quando diedero rivelazione di se è ignoto.” SOFOCLE, Antigone, a cura di G. Lombardo Radice, Torino 1982.

 

[160] E.BUSSI, Evoluzione storica, cit; p.129-132, ne fa il principale carattere di differenziazione dello “Stato patrimoniale feudale”, rispetto allo “Stato antico” e-possiamo aggiungere- rispetto al concetto di “Stato” proprio della cultura araba o orientale.

 

[161] G.CASSANDRO, voce Resistenza, in in Novtssimo Digesto Italiano, vol. XV, 161 e ss., individua qui una delle radici del diritto di resistenza, l'altra sarebbe quella germanica. Sull'argomento vedi anche P. BELLINI, Respublica sub deo, il primato del sacro nell'esperienza giuridica dell'Europa preumanistica, Firenze 1985, 8 e ss.

 

[162] Per una ricostruzione del percorso compiuto dalla speculazione civilistica sulla Lex Regia de imperio, dall'interpretazione gosiana a quella fornita da Azzone ed Ugolino vedi E.CORTESE, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma 1982, 92-104.

 

[163] J.VOET, De jure militari, cit., cap I § XXIV, p. 10 “Ut igitur constet omnibus, imperii jure decidisse tyrannum,universi populi, vel eorum qui vice eius consuli consuevere, majestatemque realem repraesentant, revocationem atque declarationem antecedere necesse est.” Nelle parole di Voet, anche se non citato rieccheggia il pensiero dell'Altusio secondo il quale il popolo è dotato di majestas inalienabile ed inprescrittibile, il cui esercizio però può essere delegato ad un summus magistratus mediante un contratto che delimiti i poteri a lui conferiti. In caso di inosservanza il magistratus può essere ridotto a presona privata rendendo in tal modo lecita la resistenza e persino l'uccisione dello stesso. Ulteriori approfondimenti in G.CASSANDRO, voce Resistenza, cit., 601.

 

[164] L'eco delle vessazioni descritte da Voet ritorna nel carteggio tra il duca d'Alba e il duca di Feria, in cui il primo sostiene che bisogna impiegare la forza delle armi per ristabilire l'ordine nei Paesi Bassi. Il duca di Feria gli risponde che è più glorioso per un principe concedere clemenza ai suoi sudditi piuttosto che lottare contro di essi. Per ulteriori approfondimenti vedi AA.VV, Histoire de Flandre-Tome sixième-temps modernes 1500-1792, Bruxelles 1850, 250-300.

 

[165] Testo e commento in Z.W. SNELLER, Unie van Utrechten Plakkaat van Verlatinge, Rotterdam 1929.

 

[166]Vedi F.GAETA, P. VILLANI, Documenti e testimonianze-Antologia di documenti storici, Milano 1972, 318-319.

[167] Su tale problema vedi R.FEENSTRA, A quelle epoque les Provinces-Unies sont-elles devenues indipendantes en droit a l'egard du Saint-Empire? in Tijdschrift voor rechtsgeschiedenis, tomo XX, 30 e ss; M. ASCHERI, Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo, Torino 2007, 179.

 

[168] Sul punto FEENSTRA, op.cit p.42, invita a risalire al trattato di Augusta (26 giugno 1548) fra Carlo V, erede per via materna delle Fiandre e dei Paesi Bassi e gli Stati dell'Impero: l'obbligazione corrispondeva alla contribuzione di due elettori, di tre in caso di conflitto contro i Turchi. Essi erano inoltre tenuti ad osservare la pace pubblica.

 

[169] R. FEENSTRA, idem, 211.

 

[170]R. FEENSTRA, idem, 186.

 

[171]Nam ne ipsis quidem servis, qui iure civili pro nullis habebantur, olim denegatum fuit ad evitadam dominorum saevitiam ad principum confugere statuas, et de dominis iniquis querelas instituere, quo nimis atroci semet illorum subducerent imperio”, J.VOET de jure militari, op.cit, cap I § XXIV, 10, cfr Institutiones I, 8§2. Dominorum quidem potestatem in suos servos illibatam esse oportet nec cuiquam hominum ius suum detrahi. sed dominorum interest, ne auxilium contra saevitiam vel famen vel intolerabilem iniuriam denegetur his qui iuste deprecantur. ideoque cognosce de querellis eorum qui ex familia Iulii Sabini ad statuam confugerunt, et si vel durius habitos quam aequum est, vel infami iniuria affectos cognoveris, veniri iube, ita ut in potestatem domini non revertantur.

 

[172] C.1,14,4 “Digna vox maiestate regnantis legibus alligatum se principem profiteri: adeo de auctoritate iuris nostra pendet auctoritas. et re vera maius imperio est submittere legibus principatum. et oraculo praesentis edicti quod nobis licere non patimur indicamus.” Tra le ultime pubblicazioni a commento della Digna Vox vedi D. QUAGLIONI, Dal costituzionalismo medievale al costituzionalismo moderno. Annali del Seminario giuridico dell'Università di Palermo, 2008, v. 52 (2007/2008), 55-67.

[173] E. CORTESE, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma 1982, pag. 141-142; G. CASSANDRO, op.cit, 593.

[174] J.VOET, De jure militari, cit, cap I § XXVI, 11 “Nihil in contrahendo magis esse necessarium quam consensum, notius est quam ut probatione egeat: ast ubi dolus est, ibi omnis exulat consensus, omnis ibi cessat conventi, ac paciscendi voluntas, sicut et contractus, et transactiones, quibus causam dolus dederit, aut nullas esse aut rescrindendas utique, ac doli infringendas exceptione jura voluerint et nullum sit jusjurandum cui dolus causam dedit.”

 

[175] Tra i vizi della volontà aveva particolare rilievo il dolus malus, cioè il comportamento inescusabilmente malizioso di un soggetto (deceptor) nei riguardi di un altro soggetto (deceptus) con cui fosse in trattative o in rapporti giuridici , esercitato allo scopo di indurlo in azioni pregiudizievoli per i propri interessi. A.GUARINO, Diritto privato romano, Napoli 1998, 353-355; G.PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Torino 1998, 114.

 

[176] Sin dall’età preclassica,in ordine al problema della formazione viziata della volontà negoziale, il pretore intervenne a favore della vittima, ponendo a disposizione dei mezzi giudiziari (exceptio e restitutio in integrum) adeguati a conseguire l’effetto di una inutilizzazione del negozio. L’exceptio doli era concessa al deceptus per opporsi all’actio che il deceptor esercitasse nei suoi confronti per ottenere l’adempimento di un’obbligazione contratta dolo malo o per approfittare dolo malo, senza giustificati motivi, di un diritto a lui spettante. Essa presupponeva in linea di principio che tra le due parti fosse intervenuto un negozio bilaterale e che questo non fosse stato eseguito completamente; posto ciò il deceptus era posto in condizione di bloccare l’azione del deceptor. G.PUGLIESE ivi.pag.356, 154.

 

[177] J.VOET De jure militari, cit, cap I § XXVI, 11; cfr con Giosuè 9, 3-27.

 

[178] Riguardo al rapporto fra vizi della volontà e validità dei trattati internazionali, per la normativa attuale vedi: A.ORRISON, Le dol dans la conclusion des traités, in Revue General de Droit International Public, 75 (1971), 617 e ss; R.QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli 1968, 168-171.

 

[179] Lo dirà nella maniera più chiara VATTEL, Le Droit des gens, ou Principes de la loi naturelle, II, XV, § 219: " dall'osservanza dei trattati " dépend toute la sûreté que les princes et les Etats out les uns à l'égard des autres".

 

[180] GROZIO, De jure belli, III, XIX, § 11,1.

 

[181] HOBBES, De cive, I, II e XVI Vedi in proposito V.ILARI, L'interpretazione, cit,

 

[182] Con tutta probabilità Voet si riferisce al giurista inglese Robert Sanderson (1587-1663) autore di un Judicium Universitatis oxoniensis, de 1. Solenni ligâ & fœdere., Iuramento negativo, Ordinationibus Parlamenti circa disciplinã, & cultum. Jn plenâ Convocatione 1. junii 1647, Communibus suffragiis (nemine contradicente) promulgatum. Per ulteriori informazioni vedi http://catalog.loc.gov/

 

[183] L'episodio ricordato da Voet contiene un'inesattezza, infatti Gs 10 narra della battaglia di Gabaon dove i nemici affrontati da Giosuè non sono i Gabaoniti ma bensì i cinque re amorriti che avevano minacciato di espugnare Gabaon per via del trattato concluso con i figli di Israele.

 

[184] Gn 17,8

 

[185] GROZIO, De jure belli ac pacis, L II, cap XIII § IV “ ..Quare cum credibile esset, si rem ipsam Gabaonitae indicassent, quod prae metu non fecerunt, tamen vitam salvam sub parendi conditione impetraturos fuisse, valuit iusiurandum, adeo quidem ut et de eo violato postea poenae sumtae sint gravissimae Deo auctore.Ambrosius hanc tractans historiam: Iosue tamen pacem quam dederat, revocandam non censuit, quia firmata erat sacramenti religione, ne, dum alienam perfidiam arguit, suam fidem solveret. ”

 

[186] Vedi Deuteronomio, 20, 10-18; Giosuè, 11, 10-14.

 

[187] G. VISMARA, Impium foedus. Le origini della "Respublica christiana", Milano 1974, 6-12.

 

[188] G.VISMARA idem, 95-136.

 

[189] Il Rosenthal citato è Henri Rosenthal che alla fine del 500 scrisse un Tractatus de synopsis totius juris feudalis. a riguardo vedi B.V.ZAMBELLI, Saggio sulla introduzione enciclopedica allo studio politico legale, Bergamo 1823, 281. Quello ricordato da Voet era principio sancito dal diritto feudale (LL.FF, II, 28) secondo cui il vassallo era tenuto a seguire il dominus in guerra, ove questa fosse giusta “sed cum clam est quod irrationabiliter eam facit adiuvet eum ad eius defensionem: ad offendendum vero alium non adiuvet, si vult.” Sul punto vedi D.QUAGLIONI, Riflessione giuridica sull'uso legittimo della forza tra Medio Evo ed Età Moderna, in http://www.dirittoestoria.it/5/D-&-Innovazione.htm

 

[190] S.PUFENDORF, De jure naturae et gentium VIII, VII, §2. In tema vedi P.FORIERS, L'organisation de la paix chez Grotius, in la Paix, Recueil de la societe Jean Bodin pour l'histoire comparative des institution, Bruxelles 1961, 321 e ss.

 

[191] BARBEYRAC-GROZIO, III, XIX, § 11,1

 

[192]...namque vel armata manu et aperto Marte belli solent aleam tentare, vel hostilem fraudis adminiculo subvertere potentiam.”, J.VOET, De jure militari, op.cit cap I § XVIII, 8.

 

[193] J.VOET, ibidem .

 

[194] TACITO, ANNALES, L.XII c. 32 “vastati agri, praedae passim actae, non ausis aciem hostibus, vel si ex occulto carpere agmen temptarent, punito dolo”. in http://www.rassegna.unibo.it/autlat.html

 

[195] S.AGOSTINO, Quaestiones in heptateuchum, L.VI,10  in http://www.augustinus.it/latino/questioni_ettateuco/index2.htm

 

[196] GROZIO, De jure belli ac pacis, L. III, cap.I § 6.

 

[197] S.AGOSTINO, Contra mendacium liber unus, capitoli 6-7, in http://www.rassegna.unibo.it/autcrist.html

 

[198] L'episodio in TITO LIVIO, Ab urbe condita, L. V§ 27

 

[199] GROZIO, De jure belli ac pacis, L. III, cap I § 22 “ Aliud est si quis opera sponte nec suo impulsu peccantis ad rem sibi licitam utatur: quod iniquum non esse Dei ipsius exemplo alibi probavimus. Transfugam iure belli recipimus, inquit Celsus, id est, contra ius belli non est, ut eum admittamus qui deserta hostium parte nostram eligit”.