N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università di Roma Tre
Interpretazione giurisprudenziale e nomopoiesi
L’Europa è antica e futura ad un tempo.
Ha ricevuto il suo nome venticinque secoli fa,
eppure si trova ancora allo stato di progetto.
Saprà, la vecchia Europa, rispondere alla sfida del
mondo moderno?
La sua età sarà fonte di solidità o
causa di debolezza?
Le sue eredità la renderanno capace od incapace di
affermarsi
nella modernità?
Jacques Le Goff*
Sommario: 1. Una premessa.
– 2. Il giudice: suggestioni illuministe e
realtà ordinamentale. – 2.1. L’argomentazione giuridica
tra retorica ed invenzione. – 2.2. L’interpretazione come
selezione e scelta di un significato. – 3. Nomopoiesi
giurisprudenziale: termini di un dibattito ancora aperto. – 4. Il ruolo della giurisprudenza sul piano della fondazione
di una cittadinanza europea. – 5. Giurisprudenza
e pluralismo. – 6. Per un “diritto
comune d’Europa”. – 7. Interpretazione
come “reductio ad unum” e
condizione evolutiva del sistema. – 8. Riflessione
conclusiva.
«L’esperienza romana ha
costituito, per la cultura occidentale, il fondamento per superare
un’operatività del diritto fondata sull’empiria, sulla
decisione – più o meno emotivamente – sentita come la
più ‘giusta’, o la più opportuna, se non addirittura
presa sulla base di pulsioni diverse dal fine di perseguire una soluzione di
‘giustizia’»[1]:
così la voce autorevole di Mario Talamanca sintetizza efficacemente
quello ch’è al contempo lascito e sostanza di tutta la tradizione
giuridica cosiddetta occidentale[2].
Lascito, perché il riconoscimento della marca romanistica
del profilo genetico di una visione razionale, laica e tecnica del ius è ormai acquisizione pacifica
della dottrina giuridica tanto delle aree della civil law che della common
law[3];
sostanza perché, come si
dirà più diffusamente in seguito, parlare di una tradizione
giuridica occidentale implica primariamente riferire di una techne prudenziale volta al
contemperamento di due esigenze: da un lato la ricerca di una soluzione
equitativamente appagante[4];
dall’altro la circoscrizione di un empirismo arbitrario[5].
Eppure, come efficacemente mostra la
tradizionale bipartizione delle famiglie giuridiche, il precetto giustinianeo
del non exemplis, sed legibus iudicandum
est[6],
ha mantenuto nelle realtà giuridiche della civil law una longevità confliggente con la stessa vocazione
espressa dagli ordinamenti al riconoscimento di una vincolatività
fattiva delle cosiddette res iudicatae[7].
Parlare di un valore esemplare[8]delle res perpetuo similiter iudicatae
– esemplarità che non opera solo a livello puramente retorico, ma
che in tutta la tradizione del cosiddetto “diritto intermedio” (o ius commune, tanto di marca civilistica
che canonistica)[9]
si offre come essenziale strumento d’invenzione, d’uniformazione e
di coesione interna del sistema ius
– è esigenza più che mai attuale oggi, allorché, a
fronte dell’insufficienza dello strumento legislativo come mezzo di
regolamentazione di una società policentrica, pluralista e metamorfica[10],
sempre più frequentemente ci si appella ad un intervento
nomopoietico-suppletivo della giurisprudenza[11].
In aperta controtendenza con questa
ricostruzione, nondimeno, persiste in molte realtà del diritto
continentale un sentimento di forte sfiducia verso il riconoscimento ai giudici
di un qualsivoglia potere creativo, fosse pure per il radicamento dell’idea
tutta illuminista della terzietà obbligata di un potere neutralizzato
proprio dalla soggezione alla sola legge[12].
Guardando in particolar modo alla situazione
italiana[13],
del resto, viene spontaneo osservare come sia stata proprio l’assenza di
giudicati uniformi e costanti ad aver offuscato la funzione da sempre
vivificante ed ammodernatrice della giurisprudenza nella storia del diritto,
tanto da associare l’idea di un ius
di marca giurisprudenziale all’arbitrio tout court. Eppure, fosse solo
per la vitalità del dibattito inaugurato attorno al tema, è
evidente esista a livello europeo – più che mai, anzi, oggi che si
discute di Europa non solo in termini di comunità geografica, culturale
ed economica, quanto soprattutto giuridica – un rinnovato interesse verso
il riconoscimento delle soluzioni prudenziali – e giurisprudenziali
– quali fonti del diritto: si sostenga, soprattutto, una percezione
più elastica e pragmatica della stessa nozione di fonte, al fine di ricomprendervi anche quegli apporti che sfuggono
ad una visione gerarchica e fortemente sclerotizzata dell’ordinamento
giuridico[14].
La progressiva ed inequivocabile
trasformazione del tessuto economico, giuridico e sociale che caratterizza oggi
quella variegata realtà politica che è l’Europa, ha
importato, a seguito della crescente insoddisfazione verso prassi e regole
radicate in un milieu culturale ormai
definitivamente superato, la ricerca da parte degli ordinamenti di nuove
soluzioni, intese, al contempo, come strumento di ammodernamento e di
snellimento strutturale[15].
La ricerca di questo nuovo ordine ha interessato in eguale misura tanto le
realtà giuridiche del diritto codificato che quelle comunemente
identificate come appartenenti alla common
law, con il singolare risultato di
produrre un avvicinamento tra due dimensioni del diritto – considerate
tradizionalmente antitetiche – in virtù di una progressiva osmosi
operativa tra i due formanti simbolo delle stesse: rispettivamente la legge e
l’attività giurisprudenziale[16].
Se gli ordinamenti della common law, a seguito dell’inserimento in quella
realtà macrogiuridica che è l’Unione Europea, hanno
conosciuto una straordinaria implementazione dell’attività
normativa scritta, ponendo gli operatori del diritto innanzi a vincoli
interpretativi precedentemente assai più blandi – interpretazione
prima anzi autoreferenziale rispetto all’esercizio del ius dicere –, quelli della civil law hanno
conosciuto un graduale e progressivo incremento della discrezionalità
giudiziale e della rilevanza delle sentenze[17].
La proliferazione delle fonti
normative, il conseguente aumento di densità del sistema, nonché
il crescente scollamento tra norme e realtà sociale – scollamento
dato dal fatto vi sia stata una sistematica riduzione della vita media della
norma – hanno determinato il definitivo superamento dell’ idea
– illusoria – l’interpretazione sia un mero sillogismo
nell’ambito di un sistema gerarchizzato e definito di norme. Si è
osservato, piuttosto, il graduale ampliarsi degli spazi di apprezzamento
autonomo del giudice, la cui discrezionalità è dunque chiamata a
riempire l’assenza di certezza delle norme stesse[18].
A fronte di una simile evoluzione
dell’ordinamento, dunque, non solo la sentenza finisce con il rappresentare
un ideale fuoco prospettico da cui vagliare l’intrinseca coerenza del
sistema – proprio in virtù del fatto traduca e concretizzi un
complesso di principi astratti e generali entro una realtà limitata e
tangibile di interrelazioni sociali –, ma diviene essa stessa fonte,
benché in un’accezione anfibolica: anfibolia data cioè dal
fatto essa possa tanto intendersi come autorità creativa di un dato
principio di diritto, tanto meramente dichiarativa del precetto scoperto in
altra fonte, la cui forza nomopoietica sia stata riconosciuta e regolata
dall’ordinamento stesso[19].
Alla luce di quanto suggerito, in ogni
caso, è evidente i termini del dibattito sul ruolo e l’attuale
funzione della giurisprudenza – ed in special modo su quello che ne
è il prodotto tipico, cioè la sentenza –, mal si prestino
ad essere inquadrati entro le tradizionali categorie oppositive del giudice-creatore e del giudice-dichiaratore, vuoi perché si attesta un progressivo
sovrapporsi dei due profili, vuoi perché l’adozione di una classificazione
eccessivamente rigida banalizzerebbe un problema attuale e vivamente sentito
non solo all’interno del tradizionale dibattito sulle fonti del diritto.
È infatti soprattutto a livello politico e sociale che la definizione
del ruolo e delle competenze della magistratura occupa oggi una posizione di
primo piano: il processo, come teatro in cui si esplica l’esercizio della
funzione giudiziale, diventa infatti il centro di convergenza di una
pluralità di tensioni, che sintetizzano la comprovata irriducibilità
del reale nella norma, e fanno del giudice un fondamentale mediatore tra
stabilità, cambiamento dei valori e conseguenti aspettative sociali[20].
Analizzare problematicamente come si
esplichi oggi il progressivo affrancamento della giurisprudenza dal suo
tradizionale ruolo di potere neutro all’interno dell’organizzazione
degli ordinamenti della civil
law, e come essa eserciti attualmente una
parte sempre più attiva sul fronte della produzione delle norme, importa
nondimeno, prima di tutto muovere da quella che è stata a lungo
l’impostazione descrittiva prevalente, per verificare poi quali ne siano stati
i limiti tali da importare una necessaria revisione.
****
Esigenze di carattere docimologico
hanno infatti definito la tendenza, soprattutto in ambito accademico, ad una
stilizzazione del ruolo e del profilo dell’ esercizio della funzione
giurisdizionale, secondo le maglie di tre direttrici fondamentali: viene dunque
identificata un’ideale tripartizione, in virtù della quale il magistrato
può essere tanto un “mero esecutore” della lettera della legge, quanto uno
“scopritore” del diritto, quando non, addirittura, un
“creatore” dello stesso, secondo la tipologia del
sistema di appartenenza[21].
L’idea secondo la quale il
giudice eserciti una professionalità riconducibile ad operazioni
puramente meccaniche – e dunque prive di qualsivoglia potere politico ed
ancor meno contenutisticamente nomopoietiche – identifica per certo una
realtà ordinamentale saldamente ancorata all’ideologia
ottocentesca che, per utilizzare le parole di Luigi Mengoni, «ipostatizzava
la codificazione come opus normativo in sé concluso, capace di
comprendere tutti i possibili casi giuridici, trasformandoli in propri
costrutti teoretici»[22], declassando perciò
l’operatore del foro ad uno strumento meramente dichiarativo della
volontà legislativa.
Più evoluto e senz’altro
vicino all’effettivo ruolo giocato dal giudice quale riduttore della complessità sociale, in quanto ideale garante della permanenza dei
fragili equilibri del sistema, è invece quel filone che sostiene il
magistrato sia, soprattutto, scopritore del diritto, riconoscendo proprio a
siffatta figura il compito di mediare tra la convulsa evoluzione delle
realtà sociali esterne all’ordinamento e la fissità delle
strutture linguistiche su cui esso si sostanzia. Questi dovrà infatti
garantire la coerente applicazione di disposizioni generali ed astratte a
situazioni in cui si concreta la naturale interazione dei soggetti, ed
assicurare la chiarezza della regola oltre le naturali anfibolie del
linguaggio.
Questi dovrà, non da ultimo,
assicurare giustizia nei casi non esplicitamente coperti da una garanzia
legislativa, ma assicurati da un’estensione analogica del dettato
normativo: si tratta di un giudice, dunque, in grado di compiere quel complesso
di operazioni ermeneutiche dirette al ritrovamento del diritto ed alla sua
applicazione, che i formalisti di cultura tedesca definiscono Rechtsfindung.
L’ideale vertice di questa
piramide volta ad individuare l’intensità del coinvolgimento dell’operatore
del foro nel percorso di nomopoiesi, è ovviamente occupato dal giudice
legislatore, ovvero un magistrato che, a fronte della lacunosità della
legge, si vede riconoscere dall’ordinamento stesso l’autorità
per creare una disposizione ad hoc che possa trovare applicazione nel caso concreto.
Si tratta ovviamente di un modello
confinato a casi eccezionali ed estremi, tanto nella tradizione culturale della
civil law è radicata l’idea la norma trovi la
propria radice genetica nell’attività parlamentare, ma che pure
è stato prefigurato all’ inizio del Novecento dal legislatore
svizzero.
Enucleando compiutamente siffatte
tipologie, facciamo ovviamente riferimento a stereotipi, emersi in epoche ed in
culture assai differenti tra loro, e che possono oggi a buon diritto ritenersi
del tutto coevi, quando non addirittura confusi a delineare una
professionalità spuria dei magistrati, come naturale precipitato del
sostrato culturale in cui matura la stessa preparazione degli operatori del
foro. Parlare di stereotipo, per altro, vuol dire accentare quel che a maggior
ragione dovrebbe esser presente a chi si avvicina allo studio del diritto, come
pure già ricordato in apertura: e cioè che non possa mai darsi
una realtà giudiziale in cui la competenza del magistrato si manifesti
integralmente solo come applicazione oppure unicamente come invenzione del
diritto.
L’analisi
dell’attività giudiziale deve inoltre necessariamente confrontarsi
con altri modelli, nei quali l’interazione tra operatore del diritto e
quotidianità vivente del ius risulta vieppiù accentuata. Per quanto infatti il prototipo del
giudice della common law, che non tanto decide in forza di
disposizioni di legge (statute law), quanto sulla base di regole tratte dai
“precedenti”, sia quello più soventemente richiamato, non
è tuttavia l’unico: il profilo di un magistrato non solo e
strettamente vincolato al dato legislativo si delinea non a caso pure negli
scritti dell’ inizio del secolo prodotti dai sostenitori del
“diritto libero”, che legittimano la creazione tout court delle regole giuridiche da applicare.
Una concezione più autonoma del
rapporto tra giudice e dato normativo emerge altresì dalle opere degli adepti dell’ermeneutica
giuridica, che descrivono con dovizia di argomentazioni come l’operazione
giudiziale sia composta di più fasi, la prima delle quali consistente
nella “precomprensione”.
Un significativo, ulteriore apporto
giunge poi dalla filosofia analitica, che distingue tra testo della
disposizione e sua traduzione in norma a mezzo di «operazioni
additive o riduttive»[23].
La complessità della
realtà giurisprudenziale, in cui dunque oggi si specchia
l’altrettanta complessità del mondo ch’essa fotografa, elude
la possibilità che si pensi ancora all’applicazione della norma
come ad un’operazione meramente esecutoria o meccanica.
Coglierne piuttosto le concrete
implicazioni vuol dire maturare la consapevolezza di un inevitabile margine di
creatività, cui l’interprete è ben cosciente.
L’obbligo istituzionale di render giustizia nel caso concreto ha infatti
portato inevitabilmente al superamento della nozione restrittiva della funzione
giurisdizionale. Progressivamente si è andato piuttosto affermando il
convincimento che la decisione giudiziale sia non solo la traduzione in termini
concreti della volontà legislativa, ma il risultato di
un’operazione intellettuale complessa e sofisticata, nella quale si
inseriscono scelte e valutazioni autonome degli stessi giudici: nella misura in
cui questi si trovano a decidere sulla base di disposizioni legislative ambigue
o in presenza di lacune, nei fatti, anche la giurisdizione viene a configurarsi
come una funzione almeno parzialmente produttiva di diritto, poiché non
integralmente vincolata[24].
L’idea, infatti, il ius possa vivere un suo essere immutabile, fossilizzato
entro una codificazione sempiterna, traduce un’ingenuità che
nessun esperto legista potrebbe mai accogliere: al più può
trattarsi di un conveniente atteggiamento di facciata, in considerazione delle
ben più profonde implicazioni che un’aperta ammissione del potere
creativo della giurisprudenza porterebbe: la stessa discrezionalità del
giudice viene infatti sovente ancora intesa in un’accezione deteriore,
quasi fosse l’espressione di un abuso o di un arbitrio ingiustificato, ancorché
l’assicurazione della migliore adattabilità delle regole formali
alle esigenze concrete di parità sostanziale delle parti.
Non a caso, la profonda influenza
esercitata nel nostro ordinamento dal modello francese si traduce –
quantunque recentemente si sia gradatamente abbandonato quello specifico
oltranzismo – nell’ideologica negazione di una specifica
prerogativa creativa in seno alla stessa Corte di Cassazione, la cui dimensione
nomofilattica, dunque, non diverrebbe, malgrado il primato sulle altre corti,
l’espressione di una capacità anche nomopoietica.
Attestare una simile evoluzione in
seno al dibattito sull’ammissione o meno dell’esistenza di un
potere creativo del giudice non implica però che si sia esaurito il
profondo peso di una tradizione ancorata alla classificazione delle difformi
realtà ordinamentali, secondo la sensibilità che esse mostrano
all’incisività creativa della giurisprudenza, con le conseguenti
– sommarie – distinzioni tra ordinamenti codificati ed ordinamenti
non codificati; ordinamenti che disciplinano l’ermeneusi ed altri che non
prevedono regolamentazione alcuna; ordinamenti che riconoscono al
giurista-interprete un potere para-legislativo ed ordinamenti che negano
ipotesi siffatta; ordinamenti in cui prevale un’ottica giuspositivistica , che tende a circoscrivere i poteri del
giudice, ed altri in cui, all’ opposto, si codificano le creazioni
giurisprudenziali tout court[25].
Tuttavia, convenire
sull’esistenza di un dover essere specifico dell’ordinamento
non implica affatto che la realtà, sempre più complessa, collimi
perfettamente con lo stesso. E la dimensione del nostro universo normativo
costituisce senz’altro un esempio calzante: l’ordinamento italiano,
infatti, presenta una legge fondamentale, è codificato, è
influenzato nei suoi istituti dal diritto comunitario, regola
l’interpretazione e l’applicazione del diritto, riconosce e
consente l’analogia legis e
l’analogia iuris, e la
nomofilachia, pur ossequiata, non costituisce che un ideale sovente frustrato a
fronte di un’imperante creatività forense.
Il problema che inevitabilmente si
pone, nondimeno, a fronte del pur comprovato riconoscimento di come la
giurisprudenza si atteggi, se non come fonte formale del diritto, almeno quale
sua efficace espressione sostanziale, è rinvenire il fondamento di
legittimazione siffatta, tale da giustificare l’intervento sempre
più significativo della stessa in veste nomopoietica, ancorché
meramente applicativa.
L’idea secolarmente radicata che
la giurisdizione si risolva, infatti, nell’attuazione dell’ordinamento
giuridico, intesa quale
dichiarazione del diritto positivo in relazione a situazioni concrete
– risultato, questo, che può esser conseguito solo con un
procedimento logico-deduttivo, tale da porre in raffronto la proposizione
legislativa generale ed astratta con la fattispecie singola e puntuale, senza
nulla aggiungere alla volontà del legislatore – deve considerarsi
oggi sensibilmente superata.
Il
contrasto fra parole ed intenzione definisce una dialettica
agonale sovente chiamata in causa dagli stessi giuristi romani.
Influenzati
dal principio stoico del primato della volontà, essi tendono a
riconoscere la preminenza degli intenti effettivi dei soggetti agenti, rispetto
alle maglie stringenti della forma o della lex: così, ad esempio,
è possibile leggere la posizione di Papiniano[26]
o quella di Celso[27].
È quest’ultimo, in particolar modo, ad inserire il principio
stoico entro le maglie dell’interpretazione, ricordando come la
conoscenza della legge travalichi senz’altro le parole comunemente intese
per trasformarsi in un esercizio di senso[28].
L’attenzione
della dottrina contemporanea, forte di questa preziosa lezione, si è
concentrata dunque essenzialmente sulla natura argomentativa del discorso
normativo, la cui un’ampia componente entimematica (da esplicitarsi
attraverso la mediazione dei suoi interpreti), ha inevitabilmente spostato il
baricentro d’indagine sulle sedi giudiziali. Poiché esse sono
infatti intese quali luogo deputato alla risoluzione delle controversie –
e dunque naturale teatro della contrapposizione tra le diverse posizioni
interpretative –, chiunque voglia formulare una teoria
dell’argomentazione giuridica non potrebbe mai prescinderne.
L’argomentazione
giuridica, cioè, spesso dequalificata e ridotta a mera retorica, sarebbe
un naturale precipitato della logica del contendere, fondata non tanto sul
perseguimento di una verità ontologicamente assoluta, quanto finalizzata
all’affermazione della propria tesi su quella della parte avversa,
mediante il ricorso agli strumenti della dialettica confutativa.
Senza
incorrere nell’errore di ridurre così prospetticamente un problema
che investe piuttosto qualsivoglia contesto in cui venga in conto
l’esigenza di confrontarsi con il discorso legislativo, si può
tuttavia asserire con certezza come questo rinnovato interesse per la
mediazione esercitata dal giudice in seno all’esplicitazione-applicazione
del dettato normativo, abbia concorso non poco al superamento del tradizionale
convincimento in merito alla sua assoluta neutralità creativa. Il fatto
stesso l’attività di interpretazione della norma combini un
momento prettamente euristico con uno puramente ricognitivo, ed associ
interventi di emenda logica ad operazioni di carattere ricostruttivo, concorre
a consolidare l’idea che essa debba avere un quid inesorabilmente inventivo – quid che diventa però creativo, allorché la necessaria ed
inevitabile estensione analogica del precetto si traduce in un superamento ed
in un completamento dell’ordinamento stesso –.
L’interprete
non nutre infatti alcun interesse per una decompressione atomistica del diritto
fine a se stessa, quanto piuttosto è portato ad evidenziare quelle
connessioni che consentono l’edificazione di un sistema concettuale rigoroso
e coerente: esplicitando le ellissi del dettato legislativo ove occorre, dando
voce e, soprattutto, dignità giuridica a nuovi valori emergenti al
livello del tessuto sociale, rispetto al quale si pone come filtro e mediatore.
Riconoscere
un ruolo attivo al giudice in quel complesso fenomeno che è la
nomopoiesi, e superare dunque la pregressa negazione di un suo coinvolgimento
creativo nell’evoluzione-innovazione dell’ordinamento, ha portato
nondimeno ad eccessi di segno opposto, quali l’affermazione di un
deteriore relativismo, sfociata poi nel mito di una soggettivizzazione estrema
del ius, con
l’impossibilità conseguente, come ventilato dalla critica analista
del diritto[29],
di delineare in misura univoca il concetto, la natura e l’essenza della
“regola”. Poiché invece
l’argomentazione giuridica – e dunque l’attività
stessa di chi interpreta il diritto – trae le proprie premesse da un
dettato normativo, non potrà esistere una completa soluzione di
continuità tra le scelte operate da quest’ultimo in merito alla
tutela di determinati interessi, e quelle discendenti dall’ermeneusi
testuale, che sul primo trova il proprio logico fondamento. Esiste,
cioè, un’essenziale resistenza del dato scritto rispetto a letture
eccessivamente forzate: e questo, prevedibilmente, concorre in parte a smussare
i toni di una polemica che troppo spesso ha visto demonizzato il ruolo del
magistrato come interprete
creativo della norma, quasi il
naturale corollario della sua attività divenisse piuttosto il mezzo di
un illegittimo sovvertimento delle gerarchie costituzionali[30].
Senza inutili fanatismi, dunque,
è preferibile muovere piuttosto dall’attestazione di come la
maggiore dinamicità dell’attuale tessuto sociale richieda una
visione più elastica dell’interazione tra i formanti dell’ordinamento
ed il conseguente superamento di viete sclerotizzazioni strutturali.
La scientia
iuris, movendo dalla consapevolezza di una simile complessità in
seno alle fonti del diritto ed alla nomopoiesi, muta oggi l’oggetto della propria indagine, scegliendo dunque
l’interpretazione giuridica quale principale strumento di riflessione sul
ius, sulle sue prospettive di
sviluppo e sulla sua capacità di definire un dirimento equitativamente
appagante delle controversie. E se l’approccio kelseniano e hartiano
propendeva per una ricostruzione di carattere generale del problema, in epoca
più recente la riflessione sull’interpretazione è
diventata, come già anticipato, una riflessione sul ragionamento
giuridico, rispetto al quale l’assunzione paradigmatica del ragionamento
giudiziale quale modello icastico e distinto è risultata del tutto
naturale. Il percorso di mediazione caratterizzante l’esercizio della
giurisdizione ha cessato perciò di qualificarsi come naturale
precipitato di quella che è la realtà organizzativa della
giustizia dello Stato per divenire, nel contempo, momento di espressione
creativa e concretamento del precetto normativo. Definire però
costruttivamente il problema “interpretazione” implica necessariamente
ch’esso venga inteso nelle sue diverse accezioni, definendo le stesse
altrettanti approcci al problema.
L’interpretazione
può essere cioè una mera ermeneutica[31]
del fenomeno, secondo l’ascrizione di un senso ad un evento. Ma
può essere soprattutto intesa, in un’accezione semantica, come
l’attribuzione di un significato ad un enunciato linguistico, secondo
l’esplorazione del duplice canale attraverso il quale la comunicazione
avviene (emittente-fruitore).
Sotto
tale profilo può altresì leggersi come speciale
l’interpretazione giuridica – e dunque anche quella giudiziale
– in ragione della peculiarità degli enunciati che sono oggetto
della stessa e delle conseguenze che ne derivano.
Se,
per citare Giovanni Tarello[32],
«si intende per ‘significato’ di un segmento di linguaggio il
quantum di comunicazione che in esso si esprime, si realizza, si
trasmette», in ambito giuridico occorre tener conto di due profili
essenziali: se sia possibile parlare con riguardo ad enunciati prescrittivi (e
dunque enunciati rispetto ai quali non sia possibile parlare in termini di vero
e falso) di un quid di riferimento tale da poterli ricondurre ad
un’unicità di significato; se sia possibile parlare di un
significato unico, in ragione della struttura aperta[33]
che è connaturata al linguaggio giuridico, soprattutto in ragione della
non sempre data condizione cooperativa tra emittente e fruitore.
Nell’analisi
del ragionamento giuridico, il Wróblewsky[34]
definisce tre diverse modalità attraverso le quali descrivere
problematicamente l’interpretazione.
Un
approccio ermeneutico, di carattere meramente descrittivo, importa che si
riguardi all’interpretazione come attività fattuale ed a quelli
che ne sono i prodotti. Un’analisi di questo tipo determina infatti il
necessario e dicotomico frammentarsi del processo in valutazione
dell’attività interpretativa e descrizione di quello che ne
è il naturale precipitato documentale, inteso, sovente, come mezzo
significativo per ricostruire l’attività valutativa. In un approccio
prettamente realista si esaminano cioè i documenti prodotti dai giudici,
guardando a quello che comunemente viene definito lo stile della sentenza,
attraverso la metodologia dell’analisi lessicale e logica ai fini della
ricostruzione strutturale della motivazione.
Un
approccio di tipo prescrittivo, per contro, assume il dato empirico non
già al fine della ricostruzione di un modello, ma per muovere
valutazioni in merito all’operato dei giudici ed offrire indicazioni di
precetto. L’approccio teorico, da ultimo, pur movendo talora da dati
concreti, li trascende per elaborare un paradigma con finalità che
possono essere tanto esplicative che assiologiche. Queste teorie
sull’interpretazione possono tanto esser lette come alternative, quanto
assai più proficuamente rielaborate al fine di una ricostruzione
più accurata ed oggettiva di un fenomeno complesso quale
l’interpretazione giudiziale. Solo infatti prescindendo dai fanatismi dei
neoscettici[35],
che negano l’esistenza di qualsivoglia significato precostituito
all’interpretazione, sia dei neoformalisti[36],
che escludono l’esistenza di ipotesi interpretative in enunciati
giuridici il cui senso è palese, è possibile avvicinarsi ad una
verità che sia anche, sul piano teorico, fedele agli usi linguistici
propri della dottrina giuridica e conforme alle scelte concretamente operate
nei sistemi di diritto contemporanei.
La
contrapposizione del modello continentale del rule decision making, che
privilegia la certezza del diritto, e quello anglosassone del case decision
making, che assicura la giustizia del caso concreto, non ha più
ragione d’essere oltre una sommaria semplificazione teorica, utile al
più sotto il profilo docimologico.
Le
esigenze concrete di giustizia sociale, certezza ed equità hanno infatti
concorso ad una profonda, reciproca ed inevitabile integrazione tra le due
tipologie, nella piena consapevolezza non sia possibile assicurare in senso
assoluto uno dei due valori senza mortificare inevitabilmente l’altro.
Si
può dire dunque anche definitivamente superata la tradizionale
concezione dell’interpretazione come “scoperta di un significato”,
in favore di un’interpretazione che sia “selezione e scelta di
un significato”: non esiste alcuna realtà di senso che possa
dirsi precostituita all’interprete, ma la si riconosce come risultante di
un percorso individuale e discretivo dell’operatore giuridico.
In
linea teorica, dunque, può ormai darsi per diffusa e condivisa
l’idea che la discrezionalità dei giudici sia, in una certa
misura, inevitabile: sia per la struttura naturalmente aperta del linguaggio,
sia per quella inevitabile azione di catalizzatore sociale che il magistrato
sovente deve svolgere. Ancora sul piano teorico, l’ipotesi che il giudice
possa, anche se in misura marginale, creare norme giuridiche non cozza affatto
con la teoria della separazione dei poteri di Montesquieu come originariamente
concepita – e non riletta nella chiave parlamentarista e borghese delle
ideologie ottocentesche. Proprio guardando ad una realtà come quella anglosassone,
in cui la norma giuridica nella sua accezione più compiuta altro non era
se non il precipitato dell’elaborazione giudiziale, Montesquieu
contestava la concentrazione dei poteri in un unico organo, ma non intendeva
affatto l’assegnazione delle diverse funzioni istituzionali dovesse
essere intesa in senso esclusivo e non diffuso.
Se
queste sono le premesse, dunque, può essere interessante verificare in
concreto come tale capacità nomopoietica si estrinsechi e – posto essa
fattivamente sussista –, se le modalità attraverso le quali si
esplica possano ritenersi adeguate all’esercizio di un’ambiziosa
supplenza normativa. I termini del dibattito in ordine alle prospettive
evolutive del diritto si spostano perciò oggi dall’attenzione
prestata all’ attività parlamentare, all’analisi compiuta
della prassi giuridica, in ordine alla valutazione della sua qualità
razionale, nonché del suo essere contributo fondamentale e mediatore
alla crescita ed all’armonia dell’ ordinamento.
Del
resto, interrogarsi sul problema della certezza del ius, assumendo come campo d’indagine
unicamente quello del diritto legislativamente creato, vuol dire non tener
alcun conto di quella che è l’attuale complessità degli
ordinamenti e, soprattutto, del delicato gioco d’interazione che lega
strettamente creatività giuridica e conoscibilità del diritto
vigente, normativismo ed aspetti dinamici dei sistemi giuridici positivi.
La
sentenza, intesa tanto quale atto documentale, quanto prodotto ultimo
dell’estrinsecazione di un delicato equilibrio tra techne e praxis,
diviene, in tale accezione fondamentale e necessario mezzo per esplorare la
complessa realtà dell’ordinamento giuridico, tradizionalmente
descritta secondo l’opposizione dicotomica delle categorie
conoscenza/valutazione e ragione/volontà, ma non per questo irriducibile
ad una lettura in termini rigorosamente oggettivi. La consapevolezza, infatti,
ormai universalmente assunta anche negli ordinamenti di diritto codificato, di
come la prassi giudiziale non sia l’estrinsecazione di un’attività
meramente soggiacente al dettato normativo[37],
ma necessaria integrazione connettiva tra la regola, generale ed astratta, e
l’agire sociale dei soggetti dell’ordinamento, rinnova i termini
del dibattito che all’epoca delle codificazioni aveva determinato il sorgere
dell’immagine del giudice come bouche de la loi: l’esigenza
garantista, cioè, di limitare quanto più possibile
l’arbitrio inequivocabilmente latente nella discrezionalità degli
operatori giuridici.
Per
altri versi, nondimeno, spogliandosi dei preconcetti insiti nella tradizione
storica del termine, è altresì possibile assumere tale
qualificazione per una rilettura in chiave moderna e di tale definizione e del
ruolo che la giurisprudenza assume nei delicati equilibri della società
moderna. Predicare il diritto, nel senso di “dar voce alla legge”
può infatti tanto esser inteso, restrittivamente – così,
almeno, nell’ottica legicentrica del positivismo giuridico – come
mera ripetizione dell’enunciato legislativo, quanto – ed è
quel che di norma accade nella realtà degli ordinamenti – quale
riduzione ad unità di un insieme di disposizioni sovente caratterizzate
da una forte ambiguità strutturale e sottesa ambivalenza. Se dunque
l’operatore del diritto è chiamato socialmente ad operare nelle
vesti di “filtro”, quale riduttore della complessità,
non è affatto secondario, ma riveste piuttosto decisivo interesse,
vigilare sulla razionalità dell’interpretazione-dichiarazione
della norma, attività intesa non già come qualcosa di
metagiuridico od extragiurirdico, ma fortemente e strettamente legata al
diritto, in quanto da esso formalmente vincolata[38].
Per usare le parole di Francesco Viola, «la normatività giuridica
è il risultato di un connubio tra la dimensione prescrittiva e quella
argomentativa, tra un orientamento di valore ed una procedura ragionevole da
seguire per realizzarlo nella vita sociale»[39].
Se
tuttavia, per la critica ermeneutica, il momento centrale è sempre dato
dall’attività interpretativa, quantunque si sia superato un
orientamento puramente esegetico, in virtù del riconoscimento della
necessaria ed insopprimibile varietà di significati possibili che si
offre all’ operatore, a fronte del dettato normativo, il ruolo della
giurisprudenza non può ridursi a quello di un mero organismo applicatore
– e selettore – di diritto.
Come infatti rileva Susanna Pozzolo:
«la giurisprudenza applica
norme, ma certo non fa solo questo. Essa partecipa come coautore alla creazione
delle norme; gran parte del background su cui vanno a depositarsi le parole del
legislatore è stato costruito dalla giurisprudenza e da quella
continuamente modificato ed innovato. La giurisprudenza, dunque, è, in
tal senso, fonte del diritto, non solo in un generale ed ampio senso
socio-politico, ma in senso giuridico: senza la mediazione della
giurisprudenza, il diritto non sarebbe in grado di intervenire dove
c’è il conflitto e decidere il suo ruolo»[40].
Per
una prima lettura dell’azione giudiziale in senso non rigorosamente
ricognitivo e meramente formalistico, occorre senz’altro far riferimento
a Gény[41],
che agli inizi del Novecento diede un apporto fondamentale al maturamento
dell’ideologia secondo la quale la giurisprudenza potesse configurarsi a
tutti gli effetti come fonte del diritto, dotata di una sua naturale
capacità creativa.
Teorico
di una concezione antiformalistica dell’interpretazione, Gény
costruisce la propria visione della realtà fattuale in tre ordini di
idee – la volontà dispositiva degli interessi, l’intervento
autoritativo dell’ordinamento per comporre tali interessi con quelli
della collettività, l’elaborazione scientifica che appresta
modelli per i privati ed il legislatore –, iscritti in altrettanti
principi: il principio dell’autonomia della volontà, il principio
dell’ordine pubblico, il principio dell’equilibrio degli
interessi.
«L’interpretazione
si avvale di fonti formali; la legge scritta si stacca dalla mente di chi
l’ha concepita; essa si interpreta letteralmente e mediante
l’analogia; oltre alla legge è fonte di consuetudine; in assenza
di legge e di consuetudine interviene il libero apprezzamento del giudice, che
svolge un ruolo indipendente, non arbitrario, ma conforme a quello del
legislatore ideale seguendo le direttrici oggettive che gli forniscono la
scienza e la tecnica del diritto».
Così
egli riassume le proprie posizioni, nella seconda edizione della sua opera,
dopo aver ripercorso le esperienze maturate in Francia ed in Germania, tra la
fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento[42].
Malgrado
il progressivo superamento di una concezione meramente statalista
dell’ordinamento abbia concorso in buona parte al consolidamento delle
posizioni sostenute da Gény, nel senso di un riconoscimento del ruolo
creativo della giurisprudenza, almeno sul fronte del completamento di un testo
normativo lacunoso, nonché sul piano del superamento delle antinomie e
dell’adattamento evolutivo del diritto, assai recentemente posizioni che
si davano per certo consolidate sono state nuovamente poste in discussione.
L’occasione
è stata offerta da un dibattito aperto sulla “Revue trimestrielle
de droit civil” del 1992, intitolato La Jurisprudence aujourd’hui: libres propos sur une
institution controversée,
cui hanno partecipato alcuni tra i più illustri giuristi francesi.
L’analisi
delle argomentazioni addotte può esser particolarmente interessante,
laddove si consideri siano esse stesse la testimonianza
dell’improponibilità storica del formalismo.
L’Aubert[43],
pur non contestando il principio di fondo secondo il quale la giurisprudenza
potrebbe vantare una propria attitudine nomopoietica, critica nondimeno il
modulo espressivo di quest’ultima, che ambisce ad esser fonte del
diritto, ma si presenta ellittica, capziosa e soprattutto instabile, visto il
sempre più smaccato difetto d’unità
nell’interpretazione, oltre alla sistematica ignoranza
dell’autorità della Cassazione. Vengono rilevati, pertanto, quelli
che a tutt’oggi permangono come i principali limiti della giurisprudenza
continentale: cioè la mancata assunzione di un modulo espressivo chiaro
e ben articolato, nonché il pernicioso difetto di uno stile espositivo
che la renda – più che nelle intenzioni – fattivamente fonte, in quanto suscettibile d’assicurare
razionalità e prevedibilità alla propria stessa evoluzione.
Il
Carbonnier[44]
permane nell’idea che la giurisprudenza non intervenga nella genesi del
diritto, ma sia autorità interpretativa. La sua posizione suffraga
pertanto la convinzione, saldamente radicata negli ordinamenti della civil law, che il testo legislativo costituisca
l’unico punto di riferimento del giurista e possa quindi, in presenza di
lacune, esser esteso analogicamente, ma non derogato in favore di un intervento
creativo. In tale ricostruzione, la sentenza può aspirare solo ad
un’autorità morale o di fatto, e la sua interpretazione serve al
più a cogliere la statuizione individuale sui fatti della causa,
interessando le sole parti.
Gérard
Cornu ha rilevato il carattere secondario della giurisprudenza tra le fonti del
diritto, sottolineando il duplice vincolo che si pone al giudice nell’
applicazione della norma: il fatto, senz’altro, ma pur valori
metagiuridici, ancorati ad una società in perpetuo mutamento[45].
Nella costruzione e nell’applicazione del diritto si impone infatti il
principio della scelta, che ha il suo
inequivocabile presupposto in giudizi di valore implicitati dal momento
propriamente genetico del jus,
ma non riconducibili unicamente alle strette maglie del ragionamento analitico.
Per quanto infatti l’interprete possa rivendicare l’assoluta
aderenza ad uno schema sillogistico, l’idea di equità e di
giustizia deve comunque penetrare entro le maglie dello stretto dato
legislativo, perché la pronuncia non incorra in una sanzione sociale[46].
Il
Gobert saluta la giurisprudenza come nuova fonte, ma rileva altresì il
clima di scetticismo e di ostilità che la circonda[47].
Il
Terré, non a caso, in un ardito gioco di parole, promuove il termine jurimprudence, per rilevare l’ insidia che cela la ricerca
di un ruolo nomopoietico nei fori[48].
L’analisi
compiuta di siffatte testimonianze, in ogni caso, configura soprattutto la
sostanza di un ruolo che non può leggersi meramente sul piano di una
dimicazione formale con il retroterra ordinamentale rappresentato dalla norma
scritta.
Il
discorso, ben più controverso e sostanzioso, come già più
volte ricordato, dovrebbe piuttosto tener conto della superfluità
anacronistica del permanere di una distinzione tra fonti formali e fonti
sostanziali del diritto, nell’ambito di un radicato polimorfismo delle
stesse sorgenti creative[49].
Non a caso, infatti, la misura dell’intervento giurisprudenziale
può leggersi sia sul fronte dell’anticipazione del legislatore sia
su quello che della propria autoreferenzialità, vista come condizione di
coerenza interna ed autolegittimazione sul piano delle fonti normative.
Se
la primazia della legge era mito che aveva una sua ragione d’esistere a
fronte di un’epoca caratterizzata da una certa staticità sociale,
al punto da rendere astrattamente configurabile e praticabile una
cristallizzazione dei valori condivisi entro un sistema di norme generali, la
convulsa accelerazione che caratterizza oggi ogni fenomeno sociale mal si
concilia con la lentezza congenita di un iter parlamentare. Sempre più
apertamente, ancorché semplice applicatore della lettera del testo, il
giudice si fa mediatore tra lo stesso e l’ethos sociale[50].
Quel che cioè caratterizza in modo peculiare ed assolutamente
inequivocabile l’attività giurisprudenziale è il suo essere
senz’altro razionale, ma soprattutto pratica. Come rileva Santiago Sastre
Ariza:
«el mejor
camino para profundizar en el concepto de deber jurídico es tomar como
punto de partida la noción de aplicabilidad. Este aspecto acentúa
el carácter institucional del Derecho destacando la existencia de
órganos que tienen atribuida la potestad de aplicar las normas
jurídicas. El carácter práctico del Derecho deriva, en
definitiva, de la práctica social que genera su aceptación
especialmente por los órganos aplicadores, y de su respaldo por la
coacción como medio para imponerse»[51].
Nella
sua fondamentale e critica opera di mediazione tra universalità della
norma ed attualità dei valori, la creatività giurisprudenziale si
estrinseca del resto più frequentemente non tanto come fonte di una
regola autonoma quanto come “riformulazione” di una già data. Attraverso
l’interpretazione giudiziale, non a caso, si definisce progressivamente
una stabilizzazione autoritativa del significato, suscettibile di definire un
legittimo affidamento tra le parti.
Come
osserva
Tale
tendenza, cui deve poi aggiungersi ulteriore ed approfondita attenzione al
problema della creatività tout court – ovvero di quegli ambiti in cui
è legittimo ritenere vi sia stata una vera e propria fondazione
giurisprudenziale degli istituti – non esaurisce certo l’annosa
problematica dell’ammissibilità di una simile prassi, oltre che lo
spontaneo interrogarsi su quelli che possano essere i limiti della
discrezionalità di un simile intervento.
Alla
fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il problema della creatività
della giurisprudenza e della discrezionalità del giudice è stato
affrontato in modo organico da Ahron Barak, studioso del diritto israeliano, in
un’opera appunto intitolata Judicial
Discretion[53].
Strutturata
in tre parti, la terza delle quali , incentrata su casi pratici
dell’esperienza forense locale e, come tali, avulsi dall’esperienza
dei fruitori stranieri, non è stata tradotta, quest’opera affronta
primariamente il problema della natura della discrezionalità
giudiziaria, indi i limiti di siffatta discrezionalità non solo nel
quadro dell’esperienza israeliana, ma in un’ottica decisamente
più ampia, che abbraccia tanto la common law che i sistemi
europei.
Avvezzo
ad un sistema improntato su di una struttura rigorosamente casistica,
nonché a ragionare secondo i parametri propri di un common lawyer, il Barak individua nella ragionevolezza il criterio guida dell’esercizio della
funzione giurisdizionale; ragionevolezza che deve intendersi commisurata ai
valori della comunità ed ai mores, nonché agli usi che emergono nel contesto ordinamentale e di
cui per primo il giudice è chiamato a farsi scopritore ed interprete,
traducendo nella propria sentenza la compiuta verbalizzazione di quelli che
sono i valori fondanti della collettività.
L’analisi
compiuta delle pagine di Barak costituisce un referente fondamentale
nell’ambito di uno studio ragionato e moderno del diritto, nella misura
in cui segnala ed evidenzia problematiche non circoscrivibili agli ordinamenti
di stampo anglosassone, ma comuni a tutto il mondo giuridico occidentale. Anche
nella specificità del nostro sistema di diritto codificato, nei fatti,
la pluralità degli indirizzi interni denuncia come, malgrado
l’imperante parossismo formalista, non sia possibile prescindere del
tutto da fattori che vengono ad incidere sulle scelte interpretative e che non
sarebbe possibile relegare tout court nell’ambito del meta-diritto o di una giurisprudenza
sociologica.
V’è
da dire, del resto, si venga a creare una curiosissima frattura tra essere e
dover essere della dimensione ordinamentale, come mostra il perpetrarsi di
un’impronta ormai anacronisticamente nomocentrica della realtà
forense nostrana: impronta che cozza poi inevitabilmente con quella che è
la realtà fattuale.
Per
citare il Satta, «la verità è che nel processo, cioè
nell’atto in cui l’ordinamento si concreta, accanto ed al di sopra
delle norme che lo regolano (e che sono poi quelle che, identificate con
processo, consentono la riduzione a sistema e quindi la costruzione di una
scienza) c’è qualcosa che non si lascia ridurre a norma. Questo
qualcosa è precisamente il giudizio»[54].
Ed il giudizio altro non è se non un’attività di cognizione
diretta a vagliare – soprattutto in relazione ad enunciati linguistici
– l’ottemperanza o l’inottemperanza a regole normative.
Le
organizzazioni giuridiche moderne sono costituite, del resto, proprio di regole
normative positive, la cui posizione non può avvenire se non mediante
messaggi linguistici atti a prevenire coloro cui sono diretti, mezzi, per lo
più, scritti e documentati. Ciò comporta alcune importanti
conseguenze circa i caratteri ed il funzionamento delle organizzazioni
giuridiche: in primo luogo, che l’efficacia delle regole normative sia condizionata
dai pregi e difetti del mezzo linguistico e dalle caratteristiche della sua
documentazione; in secondo luogo che l’ottemperanza e
l’inottemperanza alle regole giuridiche venga ad essere determinabile
specialmente in relazione ad enunciati linguistici documentati; in terzo luogo
che ogni operazione compiuta sul messaggio linguistico documentato sia,
intrinsecamente, una operazione compiuta sulla regola normativa giacché
questa non conserva esistenza separata dal messaggio documentato in cui si
incorpora. Poiché, peraltro, la cognizione resta affidata ai competenti
a giudicare in ultima istanza (cioè non soggetti a controlli e
revisioni), se questi competenti non coincidono con gli autori delle regole di
primo grado della cui ottemperanza od inottemperanza si giudica, si verifica il
fenomeno, comune a tutte le organizzazioni giuridiche, che ogni produzione di
regole normative comporta la trasmissione di qualche potere normativo dagli
autori delle regole ai giudici[55].
Su
tali basi, a maggior ragione, diviene legittimo tacciare di “Illuminismo
Ingenuo” chi ancora veda nel giudice un interprete-dichiaratore,
scivolando invariabilmente nel palese ossimoro che la stessa qualificazione
porta.
L’esistenza
di fenomeni semiotici quali la vaghezza e l’ambiguità, che
definiscono la stessa, imprescindibile, natura dell’atto linguistico in
quanto tale, esclude la possibilità di far coincidere il fronte della
“predicazione”, pura e semplice, con quello
dell’interpretazione, che è invenzione e selezione di un
significato.
Come
rileva il Luzzati, «questo indirizzo, con la tesi della formazione
istantanea delle norme, mette completamente al bando qualsiasi analisi
nomodinamica che stabilisca un nesso tra il problema della certezza e la
struttura a gradi dell’ordinamento giuridico.
I
sostenitori di questo accostamento, infine, ritenendo in modo dogmatico che
ogni quesito interpretativo possa ricevere una soluzione logicamente
necessitata, giungono a disconoscere i molteplici impegni politici ed
ideologici del giurista»[56].
Il
doveroso riconoscimento della naturale anfibolia dello strumento linguistico
non deve, tuttavia, ridurre all’acquisizione acritica di una posizione
rigorosamente ed orgogliosamente scettica in merito alla possibilità di
fissare un parametro interno di delimitazione alla produttività creativa
dell’interprete, così da assicurare, senza svilire o mortificare
il ruolo di quest’ultimo, un equilibrio nomodinamico tra i formanti e,
soprattutto, la certezza del diritto.
Poiché
l’attività dell’interprete importa una persistente selezione
di opzioni di valore, entro la complessità dei significanti assunti da
una stessa disposizione «il problema della certezza non è mai
completamente riducibile ad una discussione, propria della statica dell’
interpretazione, sui canoni esegetici che i singoli interpreti dovrebbero
seguire […]. Si deve essere capaci di vedere dinamicamente
l’interpretazione come un processo collettivo che si rinnova di continuo:
una simile prospettiva, infatti, consente di valutare la certezza anche sulla
base della stabilità o meno degli indirizzi giurisprudenziali e del
grado di antinomicità fra i diversi contributi che i vari organi
dell’ordinamento danno alla produzione di una medesima norma
estesa»[57].
Come
osserva Susanna Pozzolo, l’attività dell’interprete non si esaurisce
mai nel semplice rapporto con il dato testuale, ma si esplica nella
globalità del contesto in cui esso si pone.
Esiste,
cioè, un minimo convenzionale dal quale non è possibile
prescindere e che definisce una stabilizzazione autoritativa dei significati.
L’esistenza
di un simile background garantisce la flessibilità nomodinamica,
garantendo, da un lato, la persistenza della mediazione linguistica e critica
dell’interprete, dall’altro la certezza del diritto, intesa come
salvaguardia delle aspettative legate all’abito testuale di una norma[58].
Egualmente non è ozioso
ricordare come, a differenza del discorso filosofico, il discorso normativo
giuridico non possa contentarsi di formule generali e astratte, prescindendo
dalle conseguenze risultanti dall’applicazione fattuale: è anzi la
costante ricerca di soluzioni concrete ad imporre una reinterpretazione di
principi, e a distinguere il punto di vista pragmatico da quello formalistico,
quale deriverebbe da un’interpretazione solo letterale della norma.
Altrettanto prevedibilmente
è proprio in virtù di un costante gioco di mediazione ed
alternanza degli equilibri, in un contesto naturalmente fluido quale quello
della realtà sociale coeva, che si valorizza la figura del giudice-interprete.
«Continuiamo
a proclamarci interpreti della legge e ad elaborare teorie sulla sua
interpretazione, ma ci troviamo di fatto ad operare, sempre più
frequentemente, come interpreti della sentenza. La legge, nel senso pieno
dell’espressione è ormai una specie alquanto rara e la funzione di
adeguamento del diritto ai mutamenti della realtà è sempre più
largamente svolta dal giudice»[59]:
con esemplare chiarezza, Francesco Galgano così dipinge il graduale
evolversi del fronte dell’ermeneutica giuridica da un piano squisitamente
normativistico ad uno pragmaticamente giurisprudenziale. Non si tratta, come
è agevole comprendere, di una considerazione puramente teoretica, poiché
l’attenzione volta all’attività del giudice è
sintomatica piuttosto di specifiche scelte operate sul fronte della politica
del diritto.
Il
paradigma strutturale della stessa sentenza, intesa come espressione ultima
dell’attività interpretativa e rielaborativa del giudice, infatti,
discende direttamente dal contesto politico e culturale in cui essa si iscrive,
non meno di come l’attenzione al dato storico costituisce condizione
imprescindibile per una riflessione adeguata su quello che è il ruolo
dell’autorità giudicante. Questa premessa è tanto
più vera ed attuale, quanto più si confronta con il progressivo
ed ormai avviato processo di integrazione europea, in ragione del quale gli
ordinamenti dei singoli stati membri si trovano a dover riconsiderare nella sua
globalità il sistema delle fonti, nonché ad assicurare, con
opportuni accorgimenti, il raggiungimento di un denominatore comune per quel
che riguarda la certezza del diritto e l’offerta di giustizia.
La
crisi progressiva della sovranità nazionale, intesa come ricerca di una
dimensione più ampia ed aperta per l’interazione dei soggetti; la
graduale emancipazione delle istanze economiche dai vincoli di natura politica,
hanno concorso, in modo più o meno generalizzato, da un lato ad un
caotico e tumultuoso moltiplicarsi delle fonti normative, dall’altro ad
una decisiva espansione della giurisdizione, mediante un’attività
più dichiarativa che non interpretativa di regole, per rispondere
all’esigenza di un’adesione ai valori socialmente consolidati,
più che normativamente sanciti.
È
a tal quadro, dunque, che occorre far riferimento, quando si comincia a parlare
di una qualche capacità nomopoietica della giurisprudenza e si indagano
gli ambiti in cui tale assimilazione progressiva alle fonti normative si
è realizzata persino in quegli ordinamenti in cui la norma è
regina ed satura, apparentemente, ogni spazio creativo.
Parlare
del resto di uno stile della sentenza e farlo non già nel ripiegamento
quasi municipalistico della propria locale e circoscritta esperienza, è
interesse che non può restare limitato ai soli giuristi
nell’esercizio di un’attività scientifica volta agli
ambienti accademici, ma deve soprattutto investire gli operatori pratici del
diritto, che da un’adeguata esegesi dei metodi della pronuncia giudiziale
e dall’approfondimento conoscitivo di quelle che sono le strategie
stilistiche e tecniche d’altri ordinamenti, possono trarre profondo
giovamento nell’esercizio di un’attività professionale
sempre più transnazionale.
V’è
da dire, nei fatti, come il tradizionale paradigma della sentenza italiana, con
una salda prevalenza del ragionamento di diritto su quello di fatto, carenza di
enunciazione e giustificazione dei giudizi di valore – la cui ellissi
finisce con il rendere incomprensibile lo stesso fattore decisivo del giudizio
–, la netta prevalenza di un linguaggio tecnico e la vocazione
antipersonalistica del prodotto, se pure possiede una propria intrinseca ragion
d’essere nell’ambito d’una realtà territoriale chiusa
in se stessa, nel mito orgoglioso ed assoluto dello statalismo giuridico, certo
non può più configurarsi altrettanto funzionale in una dimensione
storicamente dominata, piuttosto, dal processo di integrazione europea, che
importa la necessità del rinvenimento di nuove soluzioni giuridiche, ma,
soprattutto, di una funzionalità processuale chiaramente prescindente le
logiche di frontiera.
Nella
globale riconsiderazione delle fonti del diritto, del resto, è evidente,
nei fatti, come la sentenza, nella quale si incarna l’afflato
senz’altro più vitale del ius, debba divenire il principale strumento di appianamento delle
divergenze e, nel contempo, di fondazione concreta dei presupposti sui quali
debba esser sostanziato il concetto stesso di cittadinanza in termini
europei, intesa come eguaglianza sostanziale e fruibilità su scala
europea delle risultanze di giudizio.
Ciò,
naturalmente, non elude affatto la resistenza mossa da parte dei
tradizionalisti alla permeabilità del proprio sistema giuridico alle
nuove soluzioni mosse da parte degli interpreti della norma, autentici
alchimisti dell’evoluzione vitale del diritto, ma è pur vero come
la tendenza ormai accreditata sia piuttosto quella di una graduale
amplificazione della coscienza creativa della giurisprudenza, manifestatasi
attraverso l’affermarsi di scelte decisionali non tanto mutuate
dall’analisi di disposizioni sovente stantie , ma dall’attingimento
a canoni extranormativi.
Il
superamento di ogni chiusura nazionalista, ma soprattutto l’affermarsi di
un’aspettativa condivisa di tutela uniforme, tanto nelle forme che negli
esiti, nonché nella prevedibilità delle soluzioni accolte,
importa inequivocabilmente la ricerca di un modulo espressivo ed argomentativo
comune nel prodotto della prassi forense; più importante ancora, il riconoscimento
la concreta democraticità e probità della formulazione della
decisione giuridica si colga proprio nell’adozione di un registro
semantico di immediata permeabilità, tale da consentire agevolmente il
controllo sociale.
Su
quest’ultimo punto, del resto, non par leggersi nulla di nuovo per la
verità, se si considera la compressione del potere dei forensi
all’indomani dell’esperienza rivoluzionaria francese, ispirata
proprio alla necessità di contener qualsivoglia manifestazione
espressiva non riconducibile al verbo del popolo. Tanto più si accentua
il profilo tecnico-professionale nell’ordinamento della selezione e della
carriera dei magistrati, infatti, quanto più si afferma una concezione
essenzialmente restrittiva della funzione giurisdizionale, intesa come mera
applicazione a casi particolari dei disposti generali della legge.
L’ostracismo ostentato verso ogni forma di ermeneusi giudiziale non
è che la conseguenza della necessità, percepita in tutta la sua
urgenza, di difendere l’anima autentica e razionale della legge da una techne disonesta ed opportunista.
Il
valore pregevole della trasparenza decisionale, nondimeno , non
dev’essere certo confuso con un appiattimento od una banalizzazione del
tessuto espressivo: «sino a quando non si darà ingresso
alla regola dello stare decisis ed
agli itinerari argomentativi che tale regola implica, specie nell’analisi
del fatto, la complessità della motivazione in punto di diritto
continuerà a rappresentare una modalità imprescindibile
perché resa necessaria dalle stesse caratteristiche strutturali del
ragionamento del giudice, il quale è chiamato, in un sistema che lascia
aperta la via a più opzioni interpretative, a giustificare (non solo
sulla base della premessa ma) la premessa
stessa»[60].
Appellarsi
ad una regola quale quella dello stare decisis, quasi fosse una panacea
contro tutti i mali ed un’assicurazione di coerenza dell’operato
della giurisprudenza, sarebbe tuttavia fin troppo ingenuo, se non si ponessero
su piani ben distinti la vincolatività del precedente e lo stile argomentativo
delle Corti. Lo stare decisis opera infatti come condizione di certezza
dell’ordinamento solo ed in quanto, nella metodologia argomentativa, le
ragioni di fatto e di diritto vengano rigorosamente distinte ed esplicate,
consentendo alla ratio decidendi di emergere. Quel che cioè
sovente non è adeguatamente espresso è il fatto non sia il
precedente in sé a configurarsi quale vincolo giuridico, ma il principio
di diritto che informa di sé la pronuncia giudiziale. Ne consegue,
pertanto, che pure laddove si affermi lo stare decisis come regola per
le Corti, senza che si modifichi lo stile espressivo delle stesse, nessun
beneficio ne deriverebbe sul fronte della razionalità e della certezza
del ius. Un esempio emblematico in tal senso è dato proprio dalla Corte
di Giustizia, cui pure l’art.220 CE, sovrappostosi all’ art.177 del
Trattato di Roma, riconosce la facoltà di attenersi, pur con forti
limitazioni, ai propri precedenti. Benché, infatti, questi ultimi siano
seguiti in modo più o meno costante, e la Corte, per prima, ami citarsi
in interi paragrafi, laddove decida di abbracciare un nuovo orientamento, non
sempre spiega perché abbia abbandonato un principio sul quale è
comunque presumibile gli operatori avessero fatto affidamento.
Seguire
un precedente senza discuterlo in maniera analitica, al fine di esplicitarne la
ratio, e non effettuare il distinguishing, che, discutendo in modo
problematico il punto di diritto, consente il superamento del principio
pregresso, senza minare il valore intrinseco della vincolatività,
escludono dunque il rispetto di quella razionalità evolutiva che
è determinante per la crescita armoniosa del diritto. Come criterio di
selezione delle scelte disponibili, il precedente è altresì un
baluardo contro gli overruling ingiustificati e gli altissimi costi
sociali ed economici che derivano da una condizione di siffatta incertezza.
Riconoscere, infatti, un potere nomopoietico alla giurisprudenza non può
escludere la necessità di definire misure atte a regolarlo e garantirlo,
soprattutto in un contesto che, come l’Europa, si sostanzia su tradizioni
giurisprudenziali ben individuate, ciascuna caratterizzata da una ben definita
tipicità.
Il
dibattito sul ruolo del giudice quale fonte del diritto ha ormai portato la
maggior parte della dottrina a riconoscere l’esistenza di un ius “vivente” prodotto dai giudici.
È un’espressione efficace, dacché ne sintetizza un certo
grado di sclerotizzazione che lo renderebbe, al di fuori della prassi
giudiziaria, “morto”. Ciò dunque pone, in maniera evidente e
per certuni versi drammatica, la duplice polarità sulla quale oggi viene
ad esser ridiscusso l’intero sistema delle fonti, equamente bilanciato
sulla necessità di trovar una legittimazione e, per converso, una
risposta efficace al divenire inarrestabile dei tempi e delle aspettative
disciplinari e risolutive.
Se
infatti il giurista, parlando dal proprio scranno accademico, non ha
possibilità alcuna di veder realizzato il proprio programma, se non
nell’accoglimento di un pubblico capace di dare applicazione allo stesso;
se il legislatore, pur nell’imperiosità coercitiva dei suoi
comandi, necessita sempre di una struttura organizzata in cui essi possano
trovare concreta applicazione, il giudice predica il diritto con un immediato
potere di realizzazione della sua parola. Non solo per l’aspetto
sostanziale del caso, ma soprattutto per il profilo processuale, quando egli
valuta la qualità degli interessi coinvolti, ai fini delle misure
processuali[61].
Della
strettissima coincidenza tra legittimazione alla pronuncia della regola di
diritto ed efficacia del diritto stesso, è chiaro esempio
l’orientamento assunto dalla dottrina nel valutare le sentenze della
Corte Costituzionale. Queste ultime vengono assunte quali fonti del diritto per
la definitività della loro legittimazione: si ritiene, infatti, il
giudice costituzionale abbia tanto il potere di creare diritto con la propria
sentenza (attribuire l’efficacia), quanto il potere di riconoscere la
legittimazione del diritto dando la sua valutazione (definire la
legittimazione). Prima ancora dell’interpretazione della sentenza,
cioè, quest’ultima interverrebbe creativamente mediante il
dispositivo e la motivazione, laddove essi definiscano modelli per il
legislatore o vincoli per lo stesso[62].
La giurisprudenza della Corte Costituzionale si è evoluta verso
l’accettazione netta, anche se in molti giudici inconsapevole, della
giuridicità del pluralismo.
Il
potere di fatto del giudice di dare efficacia al diritto con le sentenze
prevale sul potere che egli ha pure di qualificare il diritto attribuendogli
legittimazione.
«Il problema di definire
la collocazione del giudice tra le fonti del diritto ha il crinale spartiacque
fra la legittimazione ed efficacia. Da una parte il giudice può essere
fonte, perché legittimato a trarre norme dalle disposizioni [...].
All’opposto, il giudice può essere fonte perché con la
sentenza l’efficacia coincide sempre con la legittimazione e nell’
uso del diritto l’efficacia prevale oggi, nella società, sulla
legittimazione. Lo spostamento della rilevanza giuridica dalla legittimazione
all’efficacia cambia il lavoro del giudice per le sentenze: dalla ricerca
della (supposta) norma, all’identificazione del risultato per il quale il
diritto è creato. Anziché fare una classificazione delle sentenze
costituzionali per tecniche di elaborazione delle norme, oggi sarebbe
più utile fare una classificazione delle sentenze della Corte per
efficacia del risultato.
Anziché parlare di bilanciamento dei valori, occorre
mettere in evidenza la creazione di qualità giuridica con la sentenza.
Il diritto, infatti, è sempre diritto, in base alla legittimazione.
All’opposto, il diritto varia di molto la sua qualità giuridica
con l’efficacia. Usando per valutare le sentenze costituzionali il
criterio della rilevanza dell’ efficacia, appare evidente che la Corte
Costituzionale non ha, in realtà, alcun problema di bilanciamento dei
valori, malgrado si avvalga di tale figura retorica.
Ha solo problemi di scelta del diritto da essa preferito, secondo
la qualità giuridica del risultato, cioè problemi di
efficacia»[63].
Le
profonde trasformazioni socio-politiche che hanno investito la società
italiana negli ultimi cinquant’anni hanno concorso in modo inevitabile
all’affermazione di una realtà pluralista, espressa nella
frammentazione dei poteri dello Stato, nel tumultuoso mutamento di interessi
sovrapposti, nella differente percezione del dover essere sociale di ciascun
cittadino. Il pluralismo ha inciso in maniera inequivocabile nel percorso di
assimilazione e di interpretazione del diritto, con conseguenti e significativi
effetti sul piano sociale.
Se
l’etica borghese accettava la norma secondo la legittimazione della
fonte, ecco dunque che nella nuova dimensione dello Stato si ricerca piuttosto
un’immediata efficacia nella soluzione prospettata: l’utile prevale
sul certo, in un inarrestabile processo di moltiplicazione polimorfa dei
formanti normativi.
La
certezza del diritto, bandiera della società borghese, nasce infatti
come espressione di un potere dominante, che fa della legittimazione il
vessillo di un servaggio in cui sono ridotti coloro che non hanno la
possibilità di elevarsi sino al controllo degli strumenti normativi.
Per
contro, in una società pluralista, è possibile assistere ad un
gioco di forza in cui, soggetti apparentemente estranei alla sfera della
legittimazione, sviluppano la capacità di utilizzare il diritto in senso
contrario all’interesse della forza che detiene il controllo degli
strumenti politici.
Evidentemente,
pertanto, non può esservi pluralismo laddove esista una salda
autorità centrale capace di dare efficacia al dover essere
legittimamente stabilito. L’esistenza di un tale potere è
postulato nella scienza giuridica del diritto, che, da Irnerio in poi, ha
voluto rintracciare l’essenza stessa della società in norme che intrinsecamente serberebbero una
autonoma capacità coercitiva: il diritto così concepito, in ogni
caso, proprio perché autoreferenzialmente volto al predicare ed al
realizzare se stesso, non può che essere statico ed esemplificativo di
un’egemonia di classe incompatibile con la nuova idea di società.
Pluralismo sociale vuol dire infatti, soprattutto, moltiplicazione degli
interessi in gioco e necessità di sostituire soluzioni formali a scelte
sostanziali, in cui realizzare non tanto un progetto ideale di ordine, quanto
di soddisfacimento.
La
produzione del diritto in questa nuova dimensione dei rapporti diviene sempre
più non tanto volontà delle fonti, quanto creazione del ius come rapporto tra gli interessi e
modulazione degli stessi; fonti creative del diritto, perciò, divengono
le stesse forze agenti all’interno della società, sia forze
sociali, sia istituzioni: e tra queste, soprattutto, la magistratura, non tanto
(o semplicemente) bocca della legge, ma autentica interprete dell’essere del diritto.
La
crescente consapevolezza del sentimento democratico ha portato infatti
all’acquisizione definitiva dell’idea secondo la quale
l’equità e la funzionalità del diritto non debbano
prospettarsi unicamente come qualità imprescindibili del momento
formativo della norma, ma soprattutto del contesto applicativo della stessa.
È infatti attraverso il controllo degli atti provenienti dai pubblici
poteri – e dunque pure dagli organi giurisdizionali – che la
collettività può accertare se la regola, tradotta ed applicata
nel caso concreto, presenta elementi di conformità ai fini perseguiti
dal legislatore, come pure al complesso dei valori su cui si sostanzia la
società in cui vive.
All’attività
meramente ricognitiva ed esegetica dell’ordinamento, pertanto, si
sostituisce dunque l’essenziale e imprescindibile intervento di
mediazione tra quelle che sono le finalità legislativamente perseguite e
il clima sociale in cui si estrinseca la stessa funzione giudiziale, al fine
– è evidente – di circoscrivere, ridurre o annullare tout
court l’ipotesi di una frattura
tra il diritto coattivamente imposto e quello riconosciuto come fattivamente
disciplinante i diversi momenti del vivere collettivo.
Una
condizione, questa, che vieppiù legittima e rende anzi imprescindibile
l’attenzione alle modalità espressive del giudice, e, soprattutto,
alla trasparenza del percorso decisionale. È tramite la motivazione che
la magistratura evidenzia come il suo non sia un atto decisionale assimilabile
a tutti gli altri e men che mai una decisione d’imperio, ma il frutto di
quella delicata attività di mediazione tra diversi equilibri di cui si
è detto.
«La formazione del
diritto quando in una situazione vi sono un solo potere e moltissimi interessi
è altra cosa da quando vi sono molti poteri e pochi interessi
fondamentali .
Nel primo caso la formazione del diritto è la definizione
della volontà del potere, nel secondo caso essa è la definizione
dell’influenza degli interessi sul risultato di ciascun potere.
Ogni potere è influenzato, in questo secondo caso, dal
dover essere dell’interesse per esso prevalente perché vi è
pluralismo di giuridicità (interessi di classe) nella società.
Nel primo caso i giuristi legisti pensano, ed hanno in tale
specifico caso pienamente ragione, di poter conoscere il diritto leggendo solo
le leggi.
Nel secondo caso i giuristi legisti possono solo descrivere ombre
sui muri, quali sono in tale caso le leggi, mentre la creazione del diritto
è fatta da forze che agiscono nella realtà sociale, fuori dalle
ombre, con rapporti tra interesse e potere che le ombre delle leggi non
rappresentano affatto, o descrivono malamente»[64].
La
realizzazione degli obiettivi prefigurati dalla costituzione stessa di una
realtà economico-politica quale l’Unione Europea, nella
prospettiva di un processo sempre più ampio di integrazione
politico-istituzionale, sembra coinvolgere in maniera particolare il mondo dei
giuristi, sia teorici sia pratici, molto più di ogni altra professione
intellettuale, in ragione, se non altro, del fatto il diritto, o, per meglio
dire, quella sua manifestazione che si è soliti chiamare ius positivum possieda, a dispetto d’ogni altro settore
delle cosiddette scienze sociali, un carattere spiccatamente nazionale,
indissolubilmente legato alla sua vigenza territorialmente circoscritta.
Il
coinvolgimento dei giuristi, per altro, non presenta un rilievo meramente
tecnico, ma si carica di significati e risvolti ulteriori, connessi con lo
spirito d’ogni sistema giuridico nazionale.
Uno
spirito o stile che si riflette, come è noto, sulla forma delle leggi e
delle sentenze, sulla sistematica e sull’educazione giuridica; insomma
che investe le strutture portanti dell’ordinamento, inteso soprattutto
come tradizione giuridica, con una propria identità culturale, cui si
ricollega una certa mentalità da parte dei giuristi che vi operano. Tale
panorama deve dunque costituire il punto di partenza di un’analisi che consenta
da un lato di comprendere i pericoli insiti in un processo unificatore
suscettibile di compiersi a scapito di ambienti e stili nazionali, provocando
resistenze, o, almeno, incomprensioni e situazioni di disagio; e
dall’altro lato, di indicare scelte idonee ad evitare simili conseguenze
ed a conferire maggiore equilibrio, insieme con una più efficace
capacità di penetrazione, al processo stesso. In tale senso, la sfida
europea costituisce uno stimolo soprattutto ad interrogarsi su quanto e come la
nostra tradizione possa offrire in termini di apporto scientifico-culturale
alla formazione di una mentalità giuridica davvero europea.
L’apertura
degli ordinamenti giuridici statuali al flusso di normative di provenienza
comunitaria è fenomeno che, insieme, del resto, al moltiplicarsi ed
intensificarsi a tutti i livelli degli scambi transnazionali, appare destinato
ad investire, al di là degli ambiti specialistici di riferimento, le
singole culture giuridiche nazionali, suscitandovi interrogativi di fondo ed
alimentandovi dibattiti imperniati in particolare sui temi ed i problemi del
rinnovamento e della riqualificazione degli studi di diritto, che trovano poi
un naturale prolungamento sul piano culturale oltre che tecnico della
professionalità giuridica.
Del
resto, che la tradizione del diritto occidentale non possa dirsi ab origine affatto legata ad un contesto territorialmente
ristretto, ma recisamente orientata verso una dimensione universalistica del
mondo del ius, appoggiata
all’idea del progresso civile e della civiltà tout court, emerge
chiaramente da tutta l’ esperienza del diritto medioevale e del diritto
comune, da quella di stampo illuministico e dell’usus modernissimus Pandectarum, in cui traspare una marcata impronta
transnazionale e più specificatamente europea.
Tant’è
che verrebbe piuttosto spontaneo interrogarsi come una scienza tanto duratura,
da caratterizzare per quasi otto secoli un ambito territoriale tanto vasto, non
sia stata poi in grado di lasciare agli ordinamenti continentali attuali un sistema
di diritto assai più uniforme di quanto non risulti, in sede di
macro-comparazione, con il motivo della generica appartenenza di questi
ordinamenti ad un’unica tradizione giuridica, per altro articolata in una
serie di varianti a contenuto spiccatamente nazionalistico. Contraddizione,
invero, spiegabile in forza di cause anch’esse contraddittorie, che poco
concedono sul fronte della certezza storica, ma implicano necessariamente si
rifletta sulla ricchezza e complessità di un’ esperienza cardine
della tradizione giuridica continentale quale è stato il diritto comune
europeo. È tra il XVI ed il XVIII secolo, in cui essa raggiunge il
proprio apogeo, vedendo, nondimeno, già porsi i primi, inequivocabili
segni di decadimento, che si pongono, pur nella contraddittorietà sorgiva
che li connota, molti dei temi su cui si edificheranno i sistemi giuridici
attuali: da un lato si osserva, infatti, il soffocante apparato
burocratico-amministrativo dell’assolutismo regio, dall’ altro, una
raffinata cultura del garantismo, ancorché originariamente espressa in
difesa di privilegi, contro ogni forma di abuso dei poteri del sovrano ed in
genere di arbitrio[66].
Ed ancora, da un lato un cumulo polveroso di nozioni, formule, prescrizioni ed
opinioni, venutosi a creare con l’opera secolare di un ceto di giuristi
forensi molto preoccupati, certamente, di mantenere quanto più elevato
possibile il tasso di obsolescenza di un patrimonio giuridico estremamente
composito nei suoi materiali costitutivi e lo stesso strumentario linguistico,
a vantaggio di una posizione monopolistica di custodia d’entrambi, e,
dall’altro lato, un’arte precisa e rigorosa
dell’interpretazione fatta di collaudate tecniche, come quella del
precedente giudiziale, ben consapevole del proprio ruolo, come pure della
propria responsabilità, di fattore di produzione del diritto per via di
adattamento ed in funzione di una certezza intesa soprattutto come valore
strumentale.
La
fine del mondo dell’Ancien
Régime,
per un verso tanto auspicata da spiriti liberi e progressisti, avvenuta
però sul piano politico-istituzionale con la rottura di quel
tradizionale equilibrio di poteri che aveva permesso alla giurisprudenza
forense di assolvere un compito fondamentale di controllo e bilanciamento del
potere di governo e legislativo, si è tradotta sul piano culturale nella
lacerazione profonda del tessuto connettivo fatto di regole, valori, principi
ed atteggiamenti alla base di un diritto inteso dialetticamente come durevole,
nello spazio e nel tempo. Fine, questa, che segna l’inaugurazione di quel
modo, senz’altro deprecabile, di concepire il diritto
normativisticamente, sclerotizzato ad espressione di una volontà
sovrana, identificata con gli organi-apparato dello Stato nazionale ed attuata
nella forma della legge od atti similari.
Metodo,
questo, che nell’inarrestabile tendenza all’accumulo ed alla
sovrapposizione di materiali normativi, ha contribuito non poco ad aggravare,
ancorché a soddisfare quell’insaziabile fame di certezza
giuridica, in risposta alla quale aveva, nondimeno, dovuto la propria stessa
origine.
Sul
tema inesauribile della comune matrice giuridica del diritto continentale, ed
in particolar modo dell’indiscutibile interazione della stessa con
l’attività dei Grandi Tribunali, valida testimonianza è
quella offerta da Luigi Moccia , nel quadro di un intervento offerto nel corso
del convegno tenutosi all’Università di Macerata nell’aprile
1995 sul tema “I giuristi italiani e l’Europa”.
«[…] Quando
si tenga presente, dunque, lo sviluppo complessivo della scienza giuridica continentale,
dal Medioevo fino all’epoca moderna, tanto sul versante
accademico-dottrinale del droit savant,
quanto su quello pratico-forense del diritto giurisprudenziale dei Tribunali
supremi e delle grandi Corti di giustizia, appare evidente come, nell’uno
e nell’altro caso, la dimensione tradizionalmente europea di questa
scienza – e, nel secondo caso, anche della prassi – giuridica sia
al tempo stesso una dimensione elitaria, per numero, posizione, funzione,
condizione e stile dei personaggi che vi compaiono in veste di protagonisti:
grandi scrittori, grandi giudici e grandi avvocati; ossia tutti coloro alle cui
opinioni si riconosceva, anche in altri paesi, nelle rispettive sedi dottrinali
e giudiziali, valore sostanziale di auctoritates.
A ridosso di questa élite o, meglio, al di sotto di essa,
si collocava la schiera più affollata dei personaggi minori, se non
delle comparse: il cui profilo europeo stenta a riconoscersi come precipuo e
caratterizzante nel loro modo di operar , essendo costoro invece totalmente o
prevalentemente immersi in realtà locali e marginali: giuristi bollati,
a quel tempo, come illiberali, appunto perché chiusi nei rispettivi
ambiti ordinamentali; ma alle cui successive fortune si legheranno i destini
degli ordinamenti continentali, nel senso, appunto, della chiusura
nazional-positivistica degli stessi. Sullo sfondo storico così
tratteggiato, il problema della formazione del giurista europeo sembra dunque
sollecitare, a ben vedere, una riflessione circa la dimensione europea –
e più generalmente transnazionale – dello studio e
dell’insegnamento del diritto per rapporto a tale obiettivo, che si pone
in termini di alternativa tra una figura elitaria di giurista europeo ed una
più popolare – per così dire – di giurista locale,
cioè nazionale. La prima, a differenza della seconda, evidentemente
dotata e motivata nel senso della massima apertura alla comunicazione con i
giuristi ed i diritti degli altri paesi (europei), a fini sia di scienza sia di
prassi giuridica, cioè teorici e pratici insieme […]»[67].
Chi
osservi l’evoluzione attuale dei sistemi giuridici in Europa può
notare due tendenze che sembrano contraddittorie: da un lato si assiste alla
formazione progressiva di un diritto uniforme a livello europeo, che informa di
sé gli ordinamenti nazionali in molti settori ed anzitutto nel diritto
dell’economia; dall’altro, è in atto un processo di
valorizzazione della pluralità dei sistemi normativi nazionali
(all’interno dell’Unione europea) ed anche regionali
(all’interno di ciascuno Stato), che coesistono e si intrecciano senza
elidersi sul fondamento di principi ormai codificati, quali la
sussidiarietà e la concorrenza tra norme.
Sotto
quest’ultimo profilo, del resto, è impossibile non osservare come
anche all’interno dei singoli ordinamenti nazionali sia ormai più
che manifesta la tendenza a riconoscere una piena autonomia normativa alle
regioni. Ciò vale da tempo anzitutto per la Germania, ove i singoli Länder hanno poteri e competenze, nella
prospettiva della sussidiarietà, che li avvicinano al ruolo degli stati
membri di una federazione. Anche altri Stati, peraltro, si sono orientati nella
medesima direzione: non solo il Belgio ormai federale, non solo la Spagna
– ove regioni quali la Catalogna hanno vasti ambiti di autonomia anche sul
terreno del diritto privato, ma anche il nostro stesso Paese, sull’onda
della tanto celebrata devolution (attualmente tradotta in una decisa spinta
verso forme di federalismo fiscale). Si assiste oggi, inoltre, ad una rinascita
delle autonomia municipali che si iscrive nel medesimo segno. Basti pensare,
ancora per l’Italia, alla L. 142/1990, che ha imposto il varo dei nuovi
statuti dei comuni; ovvero alla reintroduzione dell’autonomia impositiva
degli enti locali territoriali.
Come
giustamente ha sottolineato Antonio
Padoa-Schioppa, «tutto ciò non può non provocare, in un osservatore
dotato di memoria storica, una serie di risonanze evocative di importanti
esperienze del passato»[68]:
il diritto comune, che ha rappresentato il passato glorioso del diritto
europeo, torna a proporsi come anelito della nuova civiltà giuridica
comunitaria. Eppure, per una significativa analogia con la crisi del sistema
medioevale fondato sul mito dell’universitas,
parallelamente, spinte centrifughe invitano ad una parcellizzazione settoriale.
Quel
che emerge chiaramente da una ricostruzione siffatta è che l’idea
di ordine giuridico non tanto riposi su di una forzosa fossilizzazione delle
fonti dell’ordinamento, quanto sul delicatissimo equilibrio risultante
dalla mediazione tra i diversi formanti, esercitata in ambito accademico dalla
compiuta attività didattica della dottrina, ma, soprattutto, concretata
nella quotidianità vivente del ius attraverso il fondamentale apporto dei tribunali.
Che
l’attività di tipo interpretativo-esegetico non sia mai
integralmente tale, ma debba necessariamente investire profili nomopoietici
risulta chiaramente dalle pagine di Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria[69],
che promuovono l’idea di un diritto come “comunità
interpretativa”, rilevando come «la vita di una
comunità giuridica consista in un’incessante ed instancabile
prassi interpretativa»[70].
L’idea
che sostanzialmente si afferma è quella di una naturale perduranza della
norma, malgrado l’insopprimibile tendenza evolutiva interna agli
ordinamenti, proprio in ragione dell’immutabilità degli obiettivi
concretanti gli stessi, in virtù dell’ affermarsi di presidi
ermeneutici, che configurano i criteri identificativi della comunità ed
assicurano continuità alla regola, onde porre limiti all’arbitrio
ed assicurare certezza ai rapporti.
Come
poi rileva Guido Alpa, nella lettura critica dei due autori, «poiché
le comunità sono plurime, all’interno di ogni esperienza, e poiché
le esperienze debbono governare i rapporti interni che si intrecciano nel loro
ambito ed i rapporti esterni che si intrecciano tra comunità, il diritto
assolve il ruolo di veicolo di comunicazione; in questo senso il diritto
è il più importante linguaggio dell’interazione sociale; si
tratta allora di identificare le convenzioni dell’ uso di questo
linguaggio»[71].
Un
linguaggio, si noti bene, che non si svela mai interamente, ma muove dal
delicatissimo equilibrio che si pone tra l’interpretazione
dell’enunciato linguistico e l’argomentazione della risultanza.
L’interpretazione concerne, infatti, la relazione tra testo, soggetto
interprete e prodotto dell’ermeneusi; l’argomentazione implica una
relazione tra il soggetto che la propone, una situazione discorsiva ed un
uditorio da convincere.
Ogni
argomentazione si basa su di un ragionamento, influenzato dal tipo di testo da
interpretare e dalla cultura giuridica in cui si cala il processo ermeneutico.
Francesco
Viola e Giuseppe Zaccaria propendono per una concezione semantica, ovvero orientata alla decrittazione
dell’enunciato al fine dell’iscrizione di un significato pregnante.
Ciò concorre ad evidenziare come il fine ultimo dell’ermeneusi sia
essenzialmente una finalità pratica, cioè la soluzione di casi
concreti originati da controversie: in questo
senso l’interpretazione non può essere disgiunta
all’applicazione e quindi alla decisione.
L’enunciato
normativo diviene dunque l’espressione di una funzione creativa del
giudice resa in un percorso di interpretazione/applicazione. Si tratta, in ogni
caso, di una creatività derivata, non originaria, in quanto il legame
dell’interprete al testo non può essere rescisso. Occorre,
cioè, riconoscere come senz’altro l’irriducibilità
del ius non possa essere ricondotta entro le maglie di una formula
sclerotizzata, ma non si possa per questo ritenere non sia compito primario del
giudice ridurre al minimo l’ambiguità che da ciò deriva,
prima ancora d’introdurre del nuovo.
Sarebbe
erroneo, nondimeno, intendere l’interpretazione come un fenomeno univoco,
non suscettibile, piuttosto, d’esser frammentato caleidoscopicamente in
ragione della pluralità dei soggetti che la esercitano e dei filtri di
cui possono avvalersi. Filtri che, nel caso del giudice, sono sostanzialmente
– ma non unicamente – dogmatici.
Dei
diversi modelli storicamente affermatisi sul fronte dell’ermeneusi
testuale, due soprattutto meritano d’esser ricordati, in ragione
dell’impronta che hanno lasciato nella nostra cultura giuridica: quello
giuspositivista e quello ermeneutico.
Il
primo, combinando interpretazione esegetica ed impostazione sistematica,
confida in sussunzioni di tipo logico dei fatti nella disposizione,
ingenuamente glissando sulle naturali anfibolie del linguaggio e la conseguente
incapacità di trovare in concreto significati univoci da attribuire
all’unico significante.
Il
secondo – che è poi il modello proposto dagli autori prima citati
– propone una lettura non autoreferenziale, ma “sociale”
del ius, vivendolo quale
frutto dell’esistere comune dei soggetti dell’ordinamento, definito
dall’interazione continua delle sue componenti e valutabile solo nel
continuo confronto delle stesse.
Egualmente
contesta ogni pretesa di unicità sul fronte metodologico, imbracciando
il vessillo della complementarietà, quale si rende necessaria a fronte
del pluralismo della realtà sociale del nostro tempo.
Il
criterio ermeneutico dell’interpretazione giuridica nasce infatti come
risposta all’irriducibilità del diritto entro lo spazio angusto
della norma, com’era invece stato nelle pretese dell’indirizzo
giuspositivista, sottolineando come il diritto positivo debba arricchirsi e non
promuoversi quale alterità nel confronto con i valori in cui si muove
l’interprete. Il ius non è
semplicemente “testo”, ma soprattutto “con-testo”, dovendosi necessariamente ricordare com’esso non nasca
con vocazione antiquaria o destinazione meramente scientifica, ma sia destinato
a disciplinare in modo concreto l’interagire dei consociati,
conformandosi alle aspettative di pacificazione ed ordine sociale.
«Il discorso normativo
deve fare i conti col fatto che è destinato a valere nella vita e
nell’ esperienza concreta e perciò a misurarsi con i contesti di
azione e comunicazione»[72]:
l’ermeneutica ricostruisce il
rigore scientifico del processo interpretativo, ma trascende lo stesso limite
del concetto di diritto come linguaggio normativo, sforzandosi di identificare
i procedimenti conoscitivi giuridici, attraverso la precomprensione. In questa
ottica il diritto è un “evento di discorso” che serve
a comunicare le intenzioni dei partecipanti, ma, soprattutto, a tessere una
forma di vita comune. Esso non è un’idea astratta e nemmeno un
valore, sotto certi profili, ma la condizione attraverso la quale possa
esprimersi appieno la consorzialità di esseri liberi ed autonomi.
La
discrasia spesso esistente tra un sistema codificato ed una realtà
emergente di bisogni ed interessi che la legislazione speciale solo in parte
riesce a colmare, e talora addirittura esaspera con il suo andamento frammentario,
non può che confermare il riconoscimento del ruolo insostituibile della
giurisprudenza, quale strumento d’integrazione ed armonizzazione
dell’ordinamento.
****
In
un universo composito e pluralista, l’interpretazione giudiziale diviene
dunque condizione imprescindibile per rendere vivo e vitale il mondo del ius, per non ridurlo entro gli schemi asfittici
di una formula, ma, soprattutto per garantire l’armonioso raccordo tra
tutti i formanti di un sistema che, nella loro fluidità, trascendono gli
schematismi preconcetti dell’ordine delle fonti per interpretare al
meglio il quotidiano.
Di
qui, senz’altro, la centralità dell’analisi della
giurisprudenza come ara privilegiata in cui quotidianamente si celebra il
rinnovamento del tessuto normativo, in un’ottica, nondimeno, che non
può mai prescindere la storia e la comparazione come altrettante
espressioni di quella concretezza sociale in cui si vivifica il diritto.
Quel
che occorre, cioè, per assicurare una lettura attendibile e realistica
dello stato attuale del diritto, non è promuovere un’inversione
insensata dell’ordine delle fonti e dei ruoli, ma verificare in concreto
quali siano i nuovi equilibri di interazione.
Se
poi si ricorda l’innovativa ed altrettanto significativa definizione di
sistema giuridico, offerta da Maurizio Lupoi[73],
non più sinonimica di “ordinamento”, ma complementare ad
esso, al di là di ogni specifica connotazione territoriale e
perciò nazionalista, ancor più si coglie la centralità del
ruolo giurisprudenziale in una serie aperta e fluida di interazioni reciproche,
in cui l’azione forense, concretandosi quale “flusso”
nella novità irriducibile dei propri contenuti, si promuove fin
dall’esterno quale fattore perturbativo e perciò fautore di nuovi
equilibri che non possono non valutarsi quale preludio al futuro stesso del
divenire giuridico dell’Europa.
In
un mondo che sempre più trascende i confini nazionali e di cui diffida
chi non coglie in quest’allargamento un’indiscussa ricchezza, non
è forse superfluo chiudere allora con le parole esemplari di Tullio
Ascarelli, il quale osserva come allo studioso che si dedichi ad altro
ordinamento giuridico «avverrà talora di trovare, alla
fine del suo studio del diritto straniero, una spiegazione più completa
di alcuni problemi del proprio diritto […].
È attraverso questa
ricostruzione integrale, questo allargamento di esperienza giuridica, che il
diritto comparato compie la sua funzione, vuoi favorendo il progresso giuridico
internazionale, vuoi perfezionando la conoscenza del fenomeno giuridico e
permettendo di considerare il diritto nella sua unità internazionale»[74].
Coinvolgere
la giurisprudenza nel complesso fenomeno nomopoietico e avocarle quel ruolo di
fonte del diritto tanto dibattuto a livello dottrinale e politico, implica
nondimeno assicurare che il suo operato sia certo e coerente, in ragione di una
costante riflessione scientifica sullo stesso e sulle pronunce che ne
discendono.
Sotto
tale profilo, dunque, per finalità al contempo sistematiche e descrittive,
è necessario che si fissino criteri in grado di descrivere il prodotto
dell’attività giurisprudenziale non solo per quel che appare
– una mera applicazione sussuntiva della norma, dunque –, quanto
soprattutto per quel che esso rappresenta all’interno
dell’ordinamento.
Dire
della giurisprudenza, dunque – dire del suo ruolo, delle sue nuove
funzioni, dell’ossequio, ovvero del superamento della tradizione –,
implica soprattutto fissare un sistema di criteri di lettura che ne guidino la
comprensione: solo penetrando la reale sostanza di un testo, nei fatti,
è possibile risalire al contesto che lo ha prodotto ed alla ratio
che lo supporta.
Riferire
di una nomopoiesi giudiziale, sostanziata sulla continuità dei
precedenti, ovvero negare esista una creatività forense, importa nei
fatti applicare un primo fondamentale criterio di lettura: quello che indaga,
cioè, sulla prevalenza di un ruolo creativo-suppletivo
ancorché applicativo-esegetico in capo ai tribunali.
Attraverso
una simile chiave di lettura è possibile nei fatti misurare la
consistenza dell’apporto creativo del giudice risultante dal rapporto
sussistente tra disciplina legale ed attività interpretativa.
Nell’analizzare la motivazione, dunque, occorrerà verificare la maggiore
o minore aderenza delle argomentazioni proposte alla norma giuridica. Nel caso
si addivenga ad un superamento della stessa, poi, accertare se ciò
discenda dalla lacunosità del testo normativo, dalla sua vetustà,
ovvero da un’interpretazione tanto originale della legge da tradursi in
un’espressione paranormativa[75].
Un
secondo, imprescindibile criterio, è senz’altro quello che vuole
l’operatore impegnato in analisi siffatta occuparsi della ricognizione
degli orientamenti consolidati, come pure degli eventuali contrasti interpretativi.
È una lettura, questa, funzionale ad un duplice scopo: verificare la
coerenza degli indirizzi giurisprudenziali da un lato, individuare eventuali
elementi di novità e superamento dall’altro[76].
Un
terzo criterio dovrà invece importare una lettura storica della sentenza
e della sua motivazione: dunque contestualizzarne la ratio decidendi ai
fini di una sua reale comprensione. Proprio perché si è detto che
il diritto è sempre qualcosa di vivo ed intensamente mutevole,
all’interno di una decisione potranno facilmente fluire considerazioni di
politica del diritto. Il giudice potrà infatti suggerire certuni
indirizzi al legislatore, ovvero privilegiare un’interpretazione rispetto
ad un’altra in ragione di una valutazione di opportunità.
Egualmente l’operatore del foro potrà effettuare scelte
ideologiche orientate alla tutela di un soggetto considerato più debole,
oppure adeguare la pronuncia al contesto socio-economico in cui essa
verrà accolta[77].
Si
tratta, come credo risulti evidente, di fattori che prescindono del tutto
dall’applicazione meccanica di uno schema sillogistico, ma che dicono in
concreto dell’attività dei fori e del ruolo ad essi demandato.
Non
meno importante è un quarto criterio, volto a prendere in considerazione
il rapporto tra la giurisprudenza e la dottrina; un rapporto, si noti bene, che
non tanto è da vedersi nella possibilità o meno di inserire nella
sentenza una citazione autorevole, quanto nell’effettività di una
reciproca contaminazione. Una motivazione, nei fatti, pur senza inserire
riferimenti diretti, può essere più o meno concorde rispetto ad
un indirizzo consolidato: l’analisi di tale influenza diventa pertanto la
cartina al tornasole della coesione e della coerenza di un sistema.
Un
ultimo criterio di lettura, infine, può esser quello che tiene conto,
nella sentenza, dell’influenza esercitata dai precedenti, nonché, congiuntamente o in
alternativa, da fonti normative di carattere sovraordinato rispetto alla legge
nazionale (norme comunitarie o costituzionali). Si tratta di un’inferenza
senz’altro importante poiché rende ragione proprio della
complessità estrema del rapporto che intercorre tra la genesi del
diritto e la sua applicazione. La sentenza, cioè, non può mai
considerarsi la semplice traduzione in concreto della sola norma direttamente
applicabile, quanto il momento in cui viene messo in opera l’intero
ordinamento, tradotto nelle sue molteplici espressioni.
In
tal senso anche il precedente – inteso come fattore stabilizzante –
ha un’importanza pregnante[78]:
non è infatti altro che il precipitato naturale di una rielaborazione
concettuale ed argomentativa del caso già discusso, ovvero una memoria
giuridica sedimentata, depurata dei suoi elementi contingenti sino a ridursi a
pura ratio.
Dall’applicazione
di tali criteri – applicazione non evidentemente meccanica, ma fluida
come fluide sono le esigenze di una qualunque indagine che tocchi il diritto
inteso nella sua accezione più viva e vitale – dovrebbe
svilupparsi un qualunque studio che voglia cogliere le tracce della creatività
dei fori anche laddove semplificazioni docimologiche e una certa tradizione
politica seguitino a negare la forza rinnovatrice della giurisprudenza.
Poiché
tuttavia, come già si è accennato, non vi è diritto
giudiziale senza un adeguato filtro prudenziale – detto
altrimenti: senza una scientia iuris che faccia proprio il precipitato
della prassi e lo rielabori in un sistema compiuto di regole –, una
simile analisi dovrà soprattutto prendere le mosse da una compiuta
riflessione sul percorso operativo della giurisprudenza romana, assumendone la
metodologia come spunto di riflessione iniziale, e al contempo facendo di
quella preziosa lezione una lente d’ingrandimento attraverso cui filtrare
i profili di identità e di diversificazione del processo nomopoietico
(come caratterizzante gli ordinamenti giuridici occidentali).
* J.
Le Goff, L’Europa medievale
e il mondo moderno, Storia d’Europa, Bari, 2003.
[1]M. Talamanca, Il ‘Corpus Iuris’ giustinianeo fra il diritto romano e il
diritto vigente, in Aa.Vv., Studi
in onore di Mazziotti Celso, Padova, 1995, 775
[2] Cfr.
C. A. Cannata – A. Gambaro,
Lineamenti di storia della giurisprudenza
europea, Torino, 1989, 129 ss.;
sul punto v. anche G. Gorla,
Interessi e problemi della comparazione
fra il nostro diritto e la common law in Aa.Vv., Studi
in onore di Tullio Ascarelli, II, Milano, 1968, 943 ss. Cfr. inoltre C. A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I, Torino, 1997, 15
s.; A. Gambaro – R. Sacco, Sistemi giuridici comparati, Torino, 1996. Tra i contributi
provenienti dall’area della common
law, da segnalare J.M. Kelly,
Storia del pensiero giuridico occidentale,
Bologna, 1996. Nella presentazione all’edizione italiana, scrive Mario
Ascheri: «Due millenni e mezzo di una storia «culturale»
specialistica sono qui sintetizzati richiamando i contributi volta a volta
più notevoli, e in prospettiva durevoli, concernenti il diritto e le sue
fonti, la giustizia (e quindi l’equità), il fondamento della pena,
la concezione dello stato e della sovranità, inclusi i limiti con cui
giuridicamente si è tentato di circoscriverla». La rule of law richiamata in
quest’opera, dunque, non è semplicemente quello che chiameremmo
(in una traduzione meccanica) il “governo
del diritto”, quanto il complesso di quelle suggestioni culturali che
costituiscono la cifra distintiva di tutta la tradizione del diritto cosiddetto
occidentale. Estremamente significativa è poi la posizione assunta dalla
più recente storiografia giuridica italiana, per la quale non è
possibile parlare di una storia del diritto che non sia anche e soprattutto una
storia giuridica europea, nel pieno riconoscimento di una fortissima tradizione
comune che le singole differenze ordinamentali non potrebbero offuscare. In
tale direzione v. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, Roma,
1995-1998; e A. Padoa-Schioppa, Il diritto nella storia
d’Europa, Milano, 1995.
[3] Per
un’analisi volta a sottolineare gli elementi identitari tra le due
famiglie giuridiche, ancorché accentare i profili di differenziazione, v.
M. R. Damaška, Il diritto delle prove alla deriva,
Bologna, 2003, 214 ss.; B. Markensis,
The gradual convergence, Oxford,
1994; P. Stein, Legal Institutions: the development of
dispute settlement, London, 1984. Cfr. anche G. Benedetti, Precedente
giudiziale e tematizzazione del caso in Aa.Vv., Scintillae
Iuris, Studi in onore di Gino Gorla,
I, Milano, 1994, 187 ss. Una critica al pregiudizio che vuole la tradizione
giuridica della common law avulsa
dalla storia del diritto continentale (con particolare riguardo al tema dei
diritti reali. Ma entrano in conto osservazioni che ben si prestano anche ad
una riflessione di carattere generale) si coglie in G. Gorla – L. Moccia, A
‘Revisiting’ of the Comparison between ‘Continental
Law’ and ‘English Law’ (16th-19th Century), in J. Leg. Hist, 1981, 153-155. V. anche L. Moccia, Il modello inglese di «proprietà», in Aa.Vv.,
Diritto privato comparato. Istituti e
problemi2, Bari, 2001, 35-37. Sulla comune matrice filosofico-ispirativa,
J.M. Kelly, Storia, cit.
[4] Una
riflessione compiuta sul significato e sul ruolo svolto dall’aequitas costituisce senz’altro
categoria cardine di qualsivoglia ricerca che miri a dimostrare la funzione
nomopoietica del filtro prudenziale. La sua centralità nel percorso
creativo dell’interprete è del resto ben nota ai giuristi
classici: cfr. Ulp. Dig. 1,1,1 pr.: …nam
ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Come acutamente
sottolinea Letizia Vacca, in La
giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, Torino, 1989,
60, «l’endiadi è praticamente intraducibile, in quanto
costituisce l’essenza non di un canone interpretativo astratto, ma di un
criterio di valutazione della situazione concreta che può essere
individuato solo dalla perizia del giurista, di volta in volta, in relazione
alla struttura del “caso”». Che l’aequitas sia un formante essenziale dell’ordinamento romano
– con un’inevitabile ricaduta su tutte quelle realtà
giuridiche che di esso si informano –, risulta del resto chiaramente
anche da Cic. Top. 5,28; sul punto v.
L. Vacca, Considerazioni sull’aequitas come elemento del metodo della giurisprudenza romana, in L. Vacca, Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova, 2006,
1-27. Interessante anche la riflessione proposta in J.M. Kelly, Storia, cit.,
76 ss.: «… con equità romana intendiamo anche, in senso
più generale, l’impatto sulla teoria e sulla pratica romana delle
idee greche, quelle sulla superiorità dello spirito sulla lettera e
l’importanza attribuita alla volontà o all’intenzione rispetto
alle mere parole, e quelle sull’epieikeia,
che i Romani traducevano con aequitas,
e che sta ad indicare sia ciò che è corretto o secondo coscienza,
che un volere coordinato a quello dello ius, la stretta legalità
[…]. Ma proprio come l’epieikeia
greca non aveva un ruolo definito nella pratica concreta delle corti ateniesi,
così pure l’aequitas non
indicò un principio che il sistema giuridico romano riconoscesse come
capace di correggere il diritto». Anche da tal contributo emerge dunque
una visione dell’aequitas quale
formante interno del ius: criterio ispiratore, più che correttivo, nel
superamento di quell’opposizione agonale aequitas-ius strictum
(Cfr. Cic. De Off. 1,10,33: si
riferisce del valore proverbiale dell’assunto secondo il quale
l’applicazione più stretta del ius si trasformerebbe nella massima ingiustizia), che intride di
sé, ad esempio, il termine equitable
negli ordinamenti della common law.
Più avanti lo stesso Autore ricorda nondimeno esistesse «un
paradosso formale attraverso il quale quelli che oggi si definirebbero valori
dell’equità venivano di
fatto introdotti nel diritto, e cioè la già citata scienza
giuridica dei pretori» (Op. cit.,
79). La stessa, come sappiamo, che non tanto trovava concreto fondamento
nell’incarico magistratuale, quanto nel filtro prudenziale che si poneva
a monte dell’elaborazione stessa. Ancora, sul rapporto aequitas-ius strictum (dicotomia che, come si dirà ancora
diffusamente, attraversa la storia di ogni sistema giuridico): «l’aequitas è vista come lo strumento
di critica e di rinnovamento del ius
strictum, ma nel momento in cui è ammessa senza alcun limite formale
segna la preminenza del momento pratico sul momento teorico, e quindi la
preminenza dell’interprete sul legislatore» (L. Vacca, Considerazioni, cit., 3). Sul valore retorico di tale
contrapposizione, v. Cic. De Orat.
1,57,244. In merito all’aequitas
come categoria tecnica dell’interpretatio, all’interno di
un’interessante riflessione sul ruolo ch’essa gioca a seconda della
conformazione dell’ordinamento (se, cioè, esso sia di marca
casistico-giurisprudenziale o codificato), v. ancora L. Vacca, L’aequitas
nell’interpretatio prudentium,
in L. Vacca, Metodo casistico, cit., 236-238.
[7] In
particolare, sul valore delle res
iudicatae nell’economia del diritto romano d’età
repubblicana, cfr. Cic. Top. 5,28;
Cic. De Orat.
2,27,116; Cic. De Inv. 2,22,65; Auct.
ad Her. Rhet. 2,12-13,29. V. pure
Dig. 1,3,38. Buona parte della normativa imperiale romana a cavallo tra il II
ed il III secolo d. C. tende a riconoscere ai precedenti giudiziali,
organizzati secondo un’interpretazione uniforme e costante, un valore, se
non effettivamente nomopoietico, almeno ermeneuticamente vincolante rispetto ad
una legge ambigua. Così U.
Vincenti, Premessa in Aa.Vv.,
Il valore dei precedenti giudiziali nella
tradizione europea, a cura di Umberto Vincenti, Padova, 1998, XI.
[8] Per
una riflessione sintetica ed efficace sul punto, v. L. Vacca, La
giurisprudenza, cit., 37-42
[9] Cfr.
G. Dolezalek, Precedenti giudiziali nello ius commune,
in Aa.Vv., Il valore dei
precedenti giudiziali, cit.; J.
Krynen, Une assimilation
fondamentale. Le Parlement “Sénat de France”, in Aa.Vv.,
Studi in onore di Ennio Cortese, II,
Roma, 2001; U. Petronio, Il senato di Milano. Istituzioni giuridiche
ed esercizio del potere nel ducato di Milano, da Carlo V a Giuseppe II,
Milano, 1972; U. Petronio, I Senati Giudiziari, in Aa.Vv.,
Quaderni Fiorentini, XXVII, Milano,
1998, 396-400.
[10]
[11] Sul
punto, tuttavia, occorre tenere ben presente il lucidissimo invito alla
prudenza ed al realismo che si coglie in M.
Talamanca, Il Corpus Iuris
giustinianeo fra il diritto romano ed il diritto vigente in Aa.Vv.,
Strutture e forme di tutela contrattuale,
a cura di V. Mannino, Padova, 2004, 31 s. Come rileva l’Autore, infatti,
sarebbe astorico pretendere di applicare ad una realtà complessa come
quella attuale i criteri procedurali che caratterizzano la snella
fluidità dell’ordinamento romano. È piuttosto compito di
una matura scienza giuridica raccogliere il precipitato
dell’attività forense e tradurlo in principi cui il Legislatore
dovrà poi dare forza cogente.
[13] Cfr.
M. Bin, Il precedente giudiziario. Valore e interpretazione, Padova, 1995,
63; M. Lupoi, La percezione della funzione del precedente
quale flusso giuridico, in Aa.Vv., Lo
stile delle sentenze e l’utilizzazione dei precedenti (Seminario ARISTEC
– Perugia, 25-26 giugno 1999), a cura di Letizia Vacca, Torino, 2000,
97 ss.; M. Taruffo, La fisionomia della sentenza in Italia,
in Aa.Vv., La sentenza in
Europa. Metodo, tecnica e stile. Atti del convegno internazionale, Ferrara,
10-12 ottobre 1985, Padova, 1988; G.
Visintini, Il modello italiano,
in Aa.Vv., Lo stile delle
sentenze, cit., 166 ss.
[14] V. supra nt. 10. Sulla necessità di
una scienza giuridica che sappia farsi portavoce delle istanze ammodernatrici
del nuovo secolo, offrendosi come strumento di mediazione tra i particolarismi
del nazionalismo giuridico e la nuova vocazione europeista del diritto
continentale, v. L. Vacca, Cultura giuridica e armonizzazione del
diritto europeo, in L. Vacca,
Metodo casistico, cit., 220-228. Cfr.
anche V. Mannino, Questioni di diritto, Milano, 2007, 4-6.
[16] Cfr.
L. Vacca, L’interpretazione casistica fra storia e comparazione giuridica,
in L. Vacca, Metodo casistico, cit., 258-259.
[17] Crf. M. R. Damaška, Il diritto delle prove, cit.; B.
Markensis, The gradual convergence,
cit. Come del resto rileva Vincenzo Mannino (Id.,
Questioni di diritto, cit., 317 ss.),
il Legislatore comunitario mostra una spiccata diffidenza nei confronti della
mediazione politica dei conflitti, privilegiando per contro la via della
risoluzione giudiziale degli stessi. Sposando la tecnica dei rimedi, più
di quella astrattizzante dei diritti, proprio al fine di raggiungere un
obiettivo ch’è sempre tendenzialmente circoscritto, il diritto
comunitario sposta l’asse compositivo dai Parlamenti alle Corti. Ciò,
come rileva l’Autore, mina senz’altro a livello dogmatico la
possibilità di parlare di un ius comune, se non altro perché
– fosse solo sul piano rimediale – quello che viene a mancare
sarebbe proprio l’uniformità, ma consente al contempo di
verificare come le esigenze legate ad un più fluido contesto
socio-economico sollecitino altresì una mediazione pratica e casistica
prima ancora che legislativa.
[18] Con
particolare riguardo all’ordinamento giuridico italiano, cfr. P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1996, 108 ss.; G. Zaccaria, Diritto come interpretazione, in Aa.
Vv., Riv. dir. civ., 1994; F. Galgano, Dei difetti della giurisprudenza, in Aa. Vv., Contratto e
Impresa, Padova, 1988, 504. Da sottolineare come la posizione degli autori
sopraccitati sia tendenzialmente critica nei confronti di una lettura
eccessivamente entusiasta della supposta funzione nomopoietica della
giurisprudenza, fosse pure per il difetto di stabilità e coerenza degli
orientamenti della stessa.
[19]
Ricorda del resto acutamente Letizia Vacca (Id.,
L’interpretazione casistica fra
storia e comparazione giuridica, in L. Vacca,
Metodo casistico, cit., 270) come
nell’esame compiuto di un ordinamento giuridico, il vero problema non sia
tanto «quello di elaborare una ‘gerarchia’ delle fonti ma
quello di percepirne la complessità e ragionare sulla necessità
che i diversi ‘formanti’ si compongano in un quadro coerente, che
offra gli elementi idonei alla compiuta consapevolezza della struttura
dell’ordinamento e degli strumenti idonei per la sua evoluzione».
Sul tema delle potenzialità creativa delle giurisprudenza, v. anche G. Belloni Peressutti, Metodo e strategia nell’utilizzazione
dei precedenti giudiziali: riflessioni d’un avvocato civilista, in Aa. Vv., Il valore dei precedenti giudiziali, cit., 151-152: «…
al giudice va riconosciuta una attività di creazione del diritto nei
termini in cui rende concreta la norma astratta nel caso specifico che gli
viene sottoposto: la norma rimarrebbe astratta se il giudice non fosse capace
di trasformare quel principio nell’attuale affermazione
dell’esistenza o inesistenza di un diritto soggettivo fatto valere. Il
giudice facit de albo nigrum.
Ciò avviene con maggiore evidenza quando è chiamato ad integrare
una lacuna dell’ordinamento piuttosto che quando si limita ad
interpretare la norma».
[20]
«L’attività dei giuristi, a tutti i livelli e per
l’intero coinvolgimento della storia del diritto, ha cercato di
conciliare le tecniche del ragionamento giuridico con la giustizia o per lo
meno con l’accettabilità sociale della decisione. Basta questa
preoccupazione per sottolineare l’insufficienza, nel diritto, di un
ragionamento puramente formale, che si limiti a controllare la correttezza
delle inferenze, senza dare alcun giudizio sul valore della conclusione»:
così C. Perelman, Logique
juridique, Paris, 1976, 33 (Ed. it. a cura di G. Crifò, Logica giuridica. Nuova retorica, Milano,
1979).
[21] La
tripartizione qui offerta è illustrata con esemplare chiarezza da G. Alpa, L’arte del giudicare,
Bari, 1996. Fin dalle note introduttive dell’opera, l’Autore offre
infatti una lettura attenta e sensibile delle problematiche connesse
all’esercizio della funzione giusdicense.
[22] L. Mengoni, I cinquant’ anni del
Codice Civile: considerazioni sulla parte generale delle obbligazioni, in Aa.Vv.,
Scritti in onore di Rodolfo Sacco. La comparazione giuridica alle soglie del
3°millennio, II, Milano, 1994, 752.
[24] Una
riflessione compiuta e sintetica sullo stato del dibattito dottrinale in merito
al tema dell’interpretazione della legge (e della conseguente mediazione
giudiziale sul fronte applicativo) viene offerta da G. Alpa, Relazione conclusiva, in Aa.Vv., Lo stile delle sentenze, cit., 221 ss.
[25]
«L’attività
giurisprudenziale si presta ad esser considerata anche in sé,
indipendentemente dallo status dei soggetti che la svolgono, la prospettiva del
‘momento giurisprudenziale’ e della giurisprudenza come
attività può essere estesa fino a ricomprendere tutti coloro che,
in uno status o nell’altro, esercitano tale attività: quindi non
solo il giurista in senso stretto, il giurista ‘puro’ non investito
di pubblico ufficio, ma anche il giurista giudice ed il giurista legislatore, o
addirittura il giudice ed il legislatore in quanto tali (magari non giuristi di
professione) se si dimostri che il giudice ed il legislatore sono
attività per se stesse (sia pure latu sensu) giurisprudenziali: è
possibile, infatti, ed abbastanza frequente che legislatori e giudici siano
giuristi, ma in quanto essi legiferano e giudicano essi assumono nella
società e nell’ordinamento una posizione il cui profilo dominante
è quello pubblico ed autoritativo, non quello del giurista; profilo per
cui nessuno mette in dubbio che essi producano diritto, siano ‘fonti’,
mentre la posizione di ‘fonte’ della giurisprudenza è
discussa, e in questa discussione (che è precisamente quella sul
‘diritto giurisprudenziale’) la giurisprudenza di cui si parla
è appunto il ceto dei giuristi ‘puri’ individuato dalla sola
loro competenza professionale. E sebbene si possa sostenere legiferare e
giudicare costituiscano attività in senso lato giurisprudenziali, non
è questo loro profilo, ma quello della provenienza da
‘corpi’ investiti d’autorità pubblica (e dunque distinti
dalla giurisprudenza-ceto) che risalta con maggior spicco ai fini della
problematica delle fonti» in L. Lombardi, Saggio sul diritto
giurisprudenziale, Milano, 1967, 375.
[29] Cfr.
W. Twining – D. Miers, Come far cose con regole,
Milano, 1990. Sul punto v. anche R. Guastini,
Le fonti del diritto e
l’interpretazione, Milano, 1993, 18: «la disposizione
costituisce l’oggetto dell’ attività interpretativa, la
norma il suo risultato. La disposizione è un enunciato del linguaggio
delle fonti, soggetto ad interpretazione e ancora da interpretare. La norma
è piuttosto una disposizione interpretata e, in tal modo, riformulata
dall’interprete: essa è dunque un enunciato del linguaggio degli
interpreti. La distinzione è resa necessaria dal fatto che tra le
disposizioni e le norme non si dà corrispondenza biunivoca».
[30]
Sottolinea ad esempio Letizia Vacca (v. anche nt. 19) la fecondità di
ogni esperienza giuridica in cui il precipitato della prassi sia raccolto e
rielaborato da una scientia iuris in
grado di proporsi come stabile connettivo tra la stessa e l’esercizio
della funzione legislativa. La giustizia del caso concreto, nei fatti, non
può diventare giustizia del caso futuro, a meno che dalla sentenza non
si sussuma quel quid razionale,
quella regola universale la cui applicabilità prescinda del tutto da
istanze contingenti. Ma questo, appunto, presuppone una vera e propria
convergenza operativa tra scienza e pratica del diritto. Sul punto, L. Vacca, L’interpretazione casistica fra storia e comparazione giuridica,
in L. Vacca, Metodo casistico, cit., 268 ss.
[31] Cfr.
J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del
diritto: fondamenti di razionalità nella prassi decisionale del giudice,
Napoli, 1983.
[33] H.L.A.
Hart, Il concetto di diritto (1961), trad. it. M.A. Cattaneo, Torino, 1965. Il tema viene
però soprattutto trattato diffusamente in C. Luzzati, La vaghezza
delle norme.Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990,
monografia descrittiva del rapporto tra interpretazione ed anfibolie del
linguaggio.
[34] J. Wróblewsky,
Il sillogismo giuridico e la razionalità della decisione giudiziale
(1974), in Aa.Vv., L’analisi del ragionamento
giuridico. Materiali ad uso degli studenti, a cura di Paolo Comanducci e Riccardo Guastini, Torino, 1987,
277-298.
[35] Cfr.
R. Guastini, Le fonti del diritto, cit.; T. Mazzarese,
Forme di razionalità delle
decisioni giudiziali, Torino,1996.
[36] U. Scarpelli, Contributo alla semantica del linguaggio normativo, ried. a cura di
Anna Pintore, Milano, 1985.
[37]
«Il diritto non è solo autorità e comando e di conseguenza
il ruolo dell’interprete non può essere soltanto quello di
rendersi veicolo di un’intenzione autoritativa volta ad orientare la
condotta di altri e dunque di limitarsi a riprodurne passivamente la
volontà, ma è piuttosto quella di reperire, ricorrendo agli
strumenti della ragione e della ragionevolezza, il senso delle azioni sociali,
guardando dunque non solo agli imperativi contenuti nel testo ma anche ai
comportamenti ed ai contesti»: così G. Zaccaria, Discorso ed
intersoggettività, in Aa.Vv., Prassi
giuridica e controllo di razionalità, a cura di Lucia Triolo,
Torino, 2001, 246-247.
[38]
«La determinatezza di per sé non è un mero fatto statico,
ma propriamente un processo di progressiva specificazione. Nella misura in cui
si ritiene che il diritto sia un processo di progressiva determinazione,
cioè una pratica sociale di tipo interpretativo, questo modo di
intendere l’ermeneutica può dimostrare tutta la sua
fruttuosità. Ed allora il percorso deliberativo sfociante nella
decisione (legislativa o giudiziaria) non si dovrebbe collocare a monte, o
comunque al di fuori del diritto, ma è a tutti gli effetti un processo
giuridico, e non solo per i vincoli formali che deve rispettare, bensì
anche per i contenuti di valore che deve amministrare»: sul punto F. Viola, Ermeneutica e Ragione giuridica, in Aa.Vv., Prassi giuridica, cit., 231.
[40] S. Pozzolo, Congetture sulla giurisprudenza come fonte, in Aa.Vv.,
Prassi giuridica, cit., 144.
[41] Cfr. F. Gény, Méthode d’interprétation et sources en droit
privé positif, 2a ed., LGDJ,
Paris, 1919. V. anche V. Crisafulli,
voce Fonti del diritto (dir. cost.)
in Aa.Vv., Enciclopedia del
Diritto, XVII, Milano, 1968, 925-966.
[50] «L’interprete diviene soprattutto un
mediatore, sia perché l’interpretazione presuppone un
delicatissimo, e talvolta precario, rapporto dialogico fra gli organi
dell’ordinamento e fra questo ed i cittadini, sia perché
l’interpretazione, pur essendo sempre creativa, non si riduce ad un mero
gioco della “discrezionalità dell’arbitrio”
[…]». Così C. Luzzati,
L’interprete ed il legislatore.
Saggio sulla certezza del diritto, Milano, 1999, 528.
[51] S. Sastre
Ariza, Sobre el carácter
externo del punto de vista externo, in Aa.Vv., Prassi giuridica, cit., 163.
[52] S. Pozzolo, Congetture sulla giurisprudenza come fonte, in Aa.Vv.,
Prassi giuridica, cit., 145. Sul tema
anche M. R. Damaška, Il diritto delle prove, cit., 19-21:
«[…] Non è infatti un segreto che i giudici europei, sebbene
siano formalmente liberi di disattendere le opinioni espresse dai giudici di
grado superiore, cerchino in realtà un orientamento da parte delle corti
superiori: costituisce normale prassi aderire alle opinioni di queste ultime, e
l’allontanamento da esse implica una sanzione: che consiste, come in
common law, nella riforma della decisione di appello. Né è vero
che i parametri derivanti dalle decisioni europee sono maggiormente derogabili
rispetto al diritto giurisprudenziale angloamericano […]. Diversamente,
quando i giudici europei ricercano un indirizzo nelle opinioni delle corti
superiori, essi cercano pronunce che hanno una forma simile a quella di una
norma. Poiché queste pronunce sono relativamente indipendenti dai dettagli
di fatto, i giudici europei non possono facilmente fare distinzioni sui fatti
al fine di attenuare la rigidità dei parametri normativi enunciati dalle
corti superiori […]». Cfr. anche M.
Bin, Funzione informatrice della
Cassazione e valore del precedente giudiziario, in Aa. Vv., Foro It.,
1986, V, 546.
[53] Cfr. A. Barak, Judicial
discretion, Yale, 1989. La traduzione, a cura di Ilaria Mattei,
è comparsa nella collana “Giuristi stranieri d’oggi”,
diretta da Cosimo M. Mazzoni e Vincenzo Varano per la casa editrice
Giuffrè, nel 1995.
[55] G.Tarello, in Aa. Vv., Manuale di Diritto Pubblico, a cura di
Giuliano Amato ed Augusto Barbera, I, Bologna, 1996, § 8, 28-29. Sul punto
anche W. Twining – D. Miers, Come far cose con regole,
cit., 224-251. Sulla natura dell’interpretazione e la sua incidenza in
ambito creativo, anche C. Luzzati,
L’interprete ed il legislatore,
cit., 74-75: «A me invece pare che, quando si fuoriesce dalla mera
parafrasi dei testi, non si possa interpretare senza fare, sia pure
sinteticamente o implicitamente, un’ opera di costruzione che riguarda per lo meno un intero istituto, ossia un
settore dell’ ordinamento. Non
è un caso se il termine inglese “construction” deve essere reso con l’italiano
‘interpretazione’ […] Nel diritto moderno
l’interpretazione ha generalmente per oggetto segni linguistici. Sarebbe
però riduttivo vederla soltanto come una specie di traduzione
ininterrotta di enunciati in altri enunciati. Una simile traduzione, infatti,
sarebbe incapace di uscire da una dimensione meramente verbale. Invece prima o
poi, il linguaggio giuridico deve fungere da guida all’ agire
concreto».
[58] S. Pozzolo, Congetture sulla giurisprudenza come fonte, in Aa.Vv.,
Prassi giuridica, cit., 141. Sul
punto osserva ancora: «Il formarsi del background giuridico, e quindi di
un livello di convenzione minima (che nulla esclude possa essere anche
complesso), mi pare sia spiegabile facendo riferimento a un sistema di
aspettative a circolo vizioso, in cui interviene l’autorità dotata
di potere interpretativo, nell’ambito di un’interazione sociale
intrinsecamente e pragmaticamente conflittiva (quindi non proprio cooperativa,
ma in ogni caso strategica). I casi facili, si potrebbe sostenere allora,
rappresentano la fotografia, una istantanea di stabilizzazioni autoritative di
significato, che però restano eventuali e contingenti e nulla dicono
circa i confini del senso dell’oggetto interpretato».
[59] F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario in Aa.Vv.,
Contratto e impresa, Padova, 1985,
701
[61] Sul
ruolo della scientia iuris come
ideale connettivo tra giudice e legislatore, ma, soprattutto, come strumento di
razionalità e coerenza nel progetto di armonizzazione del diritto
europeo, v. L. Vacca, L’interpretazione casistica fra storia
e comparazione giuridica, in L. Vacca,
Metodo casistico, cit., 268 ss.
L’Autrice rileva infatti come, prescindendo da una lettura sclerotizzata
e gerarchica delle fonti, ma guardando piuttosto nella sua complessità
al sistema attraverso i formanti, il giurista possa rielaborare il precipitato
della prassi in un sistema di principi che il legislatore dovrebbe tradurre in
norme. V. anche nt. 14, 19, 30.
[62]
«La motivazione include implicitamente o esplicitamente condizioni di
comportamento conforme e costituzione per il legislatore. È qui il punto
limite della dottrina kelseniana sul contrarius
actus; anche quando sembra che la sentenza contenga solo un contrarius actus, quasi sempre è
possibile rovesciare, traendo condizionamenti impliciti per la futura condotta
del legislatore […]. Solo agli estremi possiamo immaginare, come ha
immaginato Zagrebelsky, due estremi in cui il modello di comportamento non ci
sarebbe, cioè una sentenza di puro e semplice rigetto o una sentenza di
accoglimento talmente pura e semplice perché si rivolge a norme tali che
nulla poiil legislatore debba fare a seguito della sentenza». Così
L. Elia, Il potere creativo delle Corti Costituzionali, in Aa.Vv.,
La sentenza in Europa, cit., 224 ss.
[63] F. Spantigati, La legittimità nel
pluralismo (Né giuristi, né legislatori producono il diritto
nella società pluralista), in Aa.Vv., Giuristi e legislatori. Pensiero
giuridico ed innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto.
Atti dell'Incontro di studio - Firenze, 26- 28 settembre 1996, a cura di
Paolo Grossi, Milano, 1997, 493.
[65] Sulle
problematiche relative all’inquadramento della categoria, v. L. Vacca, Cultura giuridica e armonizzazione del diritto europeo, in L. Vacca, Metodo casistico, cit., 217-220; G.
Pugliese, Scritti giuridici
(1985-1995), a cura di Letizia Vacca, Napoli, 2007, 801 ss.
[66] Sul
ruolo dei Parlamenti francesi nell’ambito della temperie rivoluzionaria e
sulla funzione ch’essi ebbero, anche sul fronte della catalizzazione del
malcontento generale verso i tentativi di accentramento autocratico della
monarchia, A.M. Rao, La rivoluzione francese, in Storia
moderna, Roma, 1999:
«Un ruolo fondamentale nella dinamica politica avevano da allora assunto
i Parlamenti, nonostante le loro funzioni dovessero essere soltanto
giudiziarie, e in particolare il Parlamento di Parigi, suprema corte di
giustizia civile e criminale con giurisdizione su circa un terzo della Francia.
Considerandosi depositari e custodi delle leggi fondamentali del Regno
[…], i suoi membri esercitavano i diritti di registrazione e di
rimostranza: gli atti del potere regio diventavano esecutivi solo dopo esser
stati registrati dal Parlamento, che ne verificava la congruità con le
leggi fondamentali e, in caso contrario, presentava delle rimostranze scritte
[…]. Un saldo spirito di corpo univa il Parlamento di Parigi ai sedici
Parlamenti provinciali, anch’essi corti di giustizia sovrane, presenti
nelle principali città del regno, come Tolosa, Grenoble, Bordeaux,
Digione, Rouen ed Aix.
Attraverso
le rimostranze i Parlamenti
esercitavano un forte potere di condizionamento sulla corona, e non solo
in campo fiscale. In materia di religione, ad esempio, avevano costantemente
difeso il gallicanesimo, si erano opposti alla misure della Chiesa contro il
gianseinismo, avevano capeggiato la campagna contro i gesuiti, contribuendo
alla loro espulsione (1764). Si era formata in tal modo la teoria dei
Parlamenti come rappresentanti della nazione e garanti dell’ordine
costituzionale, latamente ispirata agli scritti di Montesquieu. Dagli anni
sessanta il conflitto tra corona e Parlamenti divenne cronico […]. Da una
parte i Parlamenti si presentavano come i tutori delle leggi fondamentali e
delle autonomia delle province e ceti contro l’arbitrio regio, favorendo
il formarsi di una cultura politica che difendeva la libertà (o, meglio,
le libertà) ed il principio di rappresentanza.
Le
loro battaglie, riprese ed amplificate dalla stampa , svolsero un ruolo di
primo piano – assieme agli scritti dei philosophes, alle
accademie, alle logge massoniche ed alle società di pensiero –
nella formazione di un’opinione pubblica che esercitava in maniera sempre
più esplicita e frequente il suo diritto di critica […].
Dall’altra parte, però, i Parlamenti non riuscivano a separare la
lotta all’assolutismo dalla difesa corporativa delle prerogative della
nobiltà di toga e di sangue, impedendo ogni serio progetto di riforma
non solo della fiscalità ma anche dell’amministrazione
giudiziaria, che la venalità delle cariche centrali e periferiche e le
differenze territoriali rendevano incerta e persino arbitraria».
Sul tema v. anche G. Gorla, in “Iura naturalia sunt
immutabilia“ – I limiti al potere del “Principe“ nella
dottrina e nella giurisprudenza forense fra i secoli XVI e XVIII , in Aa.Vv.,
Diritto e potere nella storia europea, Atti del VI Congresso int.le Soc. it. St. dir., Firenze, 1982; J.
Krynen, Une assimilation
fondamentale. Le Parlement “Sénat de France”, in Aa.Vv.,
Studi, cit.
[67] L. Moccia, Riflessioni introduttive
sull’ipotesi di un “giurista (e di un diritto) europeo”,
in Aa.Vv., I giuristi e l’Europa, a cura di Luigi
Moccia, Bari, 1997, 9 s.
[68] A. Padoa-Schioppa,
Il diritto comune in Europa: riflessioni sul declino e sulla rinascita di un
modello, in Aa.Vv., I giuristi e l’Europa,
cit., 43 s.
[69] Cfr.
F. Viola-G. Zaccaria, Diritto ed interpretazione.
Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999.
[73]
«[…] Un sistema è un insieme di dati della vita
reale che il comparatista unifichi sulla base di caratteristiche alle quali
attribuisce capacità discretiva e delle quali si cerca la ricorrenza in
altri sistemi similmente costruiti [ … ]»: così M. Lupoi, La percezione della funzione del precedente quale flusso giuridico,
in Aa.Vv., Lo stile delle
sentenze, cit., 87.
[74] T. Ascarelli, Premesse allo studio del
diritto comparato, in Aa.Vv., Studi di diritto comparato ed in
tema di interpretazione, Milano, 1952, 10.
[75] Si
parla di una funzione suppletiva in
presenza di lacunosità, indeterminatezza o tenore di clausola generale del dettato normativo. Si parla per
contro di un’interpretazione
evolutiva quando si accerta la vetustà della norma rispetto ai nuovi
contesti sociali ed economici. Si può parlare di una vera e propria interpretazione creativa, invece, quando
l’interpretazione dei dati normativi esistenti supera la lettera della
legge. In tal senso viene ad esempio letta la sentenza Cass., sez. II, 22 aprile 1995, n. 4563, che ha desunto una regola
di ultrattività dei contratti collettivi dall’art.36 della
Costituzione.
[76]
Particolarmente importante diviene in tal senso l’analisi delle distonie
interpretative in sentenze cronologicamente ravvicinate e provenienti, ad
esempio, da un medesimo organo. È infatti uno degli elementi su cui si
è particolarmente sostanziata la critica di chi non vede nella
giurisprudenza una fonte in grado di assicurare stabilità al diritto.
Un’attenta riflessione sul tema appartiene già alla dottrina
italiana, divisa nel riconoscere o meno una funzione paranormativa alla Corte
di Cassazione proprio in ragione della frequente contraddittorietà di
certe sue pronunce (la controversa definizione del danno biologico, nell’ambito del sistema della
responsabilità civile, è senz’altro icastica di difficoltà
siffatte).
[77] Il
giudice può prendere atto di una tendenza dell’ordinamento al fine
di avvalorare una certa interpretazione del dato normativo. Oppure può
effettuare vere e proprie valutazioni di tipo politico che hanno ad oggetto
l’opportunità di pervenire ad una determinata soluzione
interpretativa, svolgendo al contempo una funzione di proposta e di stimolo nei
confronti della riforma legislativa.
Il criterio in esame, come
accennato, serve altresì a valutare la maggiore o minore influenza
esercitata sulla giurisprudenza da considerazioni di tipo ambientale: ne registra, cioè, la sensibilità
rispetto alle diversità dei mercati del lavoro, delle situazioni
occupazionali o dei settori merceologici.
[78] Con
riguardo all’uso del precedente, si potrà valutare se esso sia
richiamato per la stessa o analoga fattispecie al fine di pervenire alle
medesime o opposte conclusioni; oppure sia citato per un’analogia solo
apparente e funzionale dunque a determinare una diversa decisione, o, ancora,
sia richiamato per confermare un’interpretazione già elaborata con
riferimento a fattispecie diverse.
Quanto alle altre fonti e
principi citati, si tratterà essenzialmente di rilevare in che misura il
giudice li richiami, consentendo pertanto di determinare la misura della sua
ricettività rispetto a concetti e clausole generali, ovvero alle norme
costituzionali e comunitarie.