N. 8 – 2009 – Tradizione-Romana

 

Riccardo Fercia

Università di Cagliari

 

‘Actiones’ ed ‘actio utilis ex causa interdicti’: vicende storiche, anomalie, opacità *

 

 

Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il problema dell’exemplum interdictorum in C. 8.1.3. – 3. Cognitio ed exemplum interdictorum: riflessioni sulla Tavola di Esterzili. – 4. Interdicta e actiones: problemi classificatori nella cultura del VI secolo. – 5. Spunti per un’ipotesi ricostruttiva.

 

 

1. – Considerazioni introduttive

 

Come noto, a seguito di una ricerca condotta dall’Albertario[1] tra il 1911 e il 1912, la dottrina ha assunto una vera e propria communis opinio, secondo cui nel processo civile giustinianeo risulterebbe una chiara equiparazione tra l’actio e l’interdictum, considerato alla stregua di un’actio utilis ex causa interdicti.

Ad avviso di questo studioso – che, sul punto da un lato riprendeva uno spunto del Cujas[2], dall’altro mostrava di condividere l’impostazione dello Czyhlarz[3] – mentre i prudentes avrebbero sistematicamente distinto l’actio dall’interdictum, la cultura giustinianea avrebbe invece seguito una strada opposta, per modo che costituirebbero traccia del regime classico una serie di passi in cui si parla di actiones come di entità concettuali distinte dagli interdicta[4], laddove sarebbe frutto di alterazioni testuali tutta una serie di altri testi, in cui questa terminologia tende a sovrapporsi[5].

Di qui la critica alla dottrina che tendeva ad una posizione meno drastica[6], riconoscendo come, già nel diritto classico, fossero presenti spunti per ritenere che, almeno in determinati contesti, actio ed interdictum tendessero quanto meno ad una certa sovrapponibilità pratico-applicativa: del resto, pur dopo la diffusione dei risultati cui era pervenuto l’Albertario, anche il Lenel[7], a proposito dell’interdictum de superficiebus, tendeva sul punto ad una certa cautela.

Ora, a prescindere dalla possibilità, evidentemente innegabile, che a volte il ricorso alla terminologia ‘actio’ per ‘interdictum’, nelle fonti a nostra disposizione, sia davvero il frutto di alterazioni testuali, è da dirsi che questa impostazione così netta è stata accolta dalla dottrina successiva come pienamente persuasiva: l’Albertario, nell’inserire il proprio studio su actio e interdictum nella silloge delle proprie ‘kleine Schriften’[8], rilevava come negli anni successivi alla sua pubblicazione – vale a dire tra il 1912 e il 1946 – l’impostazione da lui suggerita fosse stata comunemente accolta[9]; né, nelle più recenti analisi, sembrano potersi scorgere prospettive critiche in merito[10].

E tuttavia, un ripensamento dei problemi posti dalla procedura interdittale, a mio parere, s’impone[11]: non tanto perché si voglia negare che nella ‘Geistesart’ giustinianea fossero ravvisabili spunti a favore di questa impostazione, quanto perché il disegno storico che la sottende – e, comunque, l’argomentazione delle Istituzioni imperiali – sembra indicare alcuni dati per una ricostruzione in parte più articolata.

Entriamo, quindi, in medias res e consideriamo, innanzitutto, uno dei testi-chiave che la dottrina consolidata, dalla ricerca dell’Albertario all’esposizione che figura nel recente Manuale del Kaser, ora riveduta dallo Hackl[12], pone al centro della propria ricostruzione. Si tratta di

         

I. 4.15.8 De ordine et veteri exitu interdictorum supervacuum est hodie dicere: nam quotiens extra ordinem ius dicitur, qualia sunt hodie omnia iudicia, non est necesse reddi interdictum, sed perinde iudicatur sine interdictis, atque si utilis actio ex causa interdicti reddita fuisset.

 

Il passo è normalmente considerato, come si accennava, prova indiscutibile della riconducibilità degli interdicta del ius antiquum ad un’actio utilis. Questa lettura, nondimeno, lascia a mio parere alcune aporie, forse tuttora irrisolte. Al riguardo, è però il caso di tenere sin d’ora presente la parafrasi teofilina al testo in esame:

 

Theoph. 4.15.8 (E.C. Ferrini, 482, lin. 8-16) TÕ perˆ tÁj t£xewj kaˆ toà ¢potelšsmatoj perittÒn ™sti s»meron lšgein. 'Epˆ g¦r tîn extraordinariwn dikasthr…wn (Ðpo‹a s»merÒn ™sti) p£nta t¦ dikast»ria oÜk ™stin ™p£nagkej intérdicta kine‹sqai, ¢ll¦ d…ca toÚtwn ™ggumn£zetai t¦ dikast»ria, utilias ¢gwgÁj ¢ntˆ tîn interdictwn ™ggumnazomšnhj.  OÙkoàn oÛtwj e‡wqš tij Ðr…zesqai: «Óti Ðr…zomai kat£ sou utilian ¢gwg¾n æj ¢pÕ toà Salvianiu interdictu, À æj ¢pÕ toà ‘unde vi’ interdictu, ½goun ˜tšrou tinÒj». 

 

L’antecessor esaminava lo stesso problema posto da I. 4.15.8: non occorre mobilitare – spiegava Teofilo – gli antichi interdicta in un sistema che si basa sulle regole progressivamente configuratesi nell’ambito della procedura extra ordinem; in vece dell’interdetto, la stessa tutela si avrà ricorrendo ad un’actio utilis. Nell’edere actionem, pertanto, l’attore avrà cura di specificare che l’actio (utilis) mobilitata è quella corrispondente, ad esempio, all’interdictum Salvianum, od all’unde vi, o comunque a qualsiasi altro previsto dalla legge[13].

Vediamo ora in che cosa consistano le segnalate aporie.

Innanzitutto, il iudicare sine interdictis, nell’esposizione del testo istituzionale, è equiparato all’actio utilis con il ricorso ad una sorta di finzione, quale è, indubbiamente, il contenuto della frase atque si – fuisset. Il passo, dunque, non equipara, tout court, come comunemente si ritiene, gli interdicta alle actiones utiles; piuttosto, la proposizione introdotta da atque si – una comparativa suppositiva, strutturata come protasi dell’irrealtà[14] – afferma, a ben vedere, che «si giudica egualmente senza interdetti, come se fosse stata concessa un’azione utile». La rilevata peculiarità dell’esposizione dipende, con evidenza, dall’impossibilità di ricondurre la tutela interdittale ad uno specifico rimedio individuabile nel ‘catalogo’ delle actiones previste dalla legge: e, d’altro canto, le Istituzioni imperiali tacciono del tutto sul punto nel titolo I. 4.6 de actionibus. Non si tratta, dunque, di uno di quei casi in cui l’esposizione si polarizza sul ricordo di una riforma imperiale ad hoc[15], probabilente mai sentita necessaria, a livello giuspolitico, su questa materia: I. 4.15.8 esprime, semmai, una disciplina normativa radicata nella storia che informa e sottende l’ordinamento giustinianeo.

In questa prospettiva ben si comprende il significato della lezione teofilina: egli, parafrasando I. 4.15.8, parla senza problemi di un ™ggumn£zein riferito ad una ‘utilia ¢gwg»’, sicché è da ritenersi che, dal suo punto di vista di insegnante, il problema dovesse impostarsi nel senso che la tutela interdittale si delineava, ai suoi tempi, come una procedura in fin dei conti equivalente a quella di una qualsiasi azione utile; equivalenza che, però, come si è detto, non risulta in termini inequivoci sul piano dogmatico-classificatorio. Né sarebbe casuale, a questo punto, la stessa qualificazione di queste actiones esperibili pro interdictis come ‘utiles’, dato che, nella tradizione scientifica che gli ambienti scientifici e didattici giustinianei adoperavano, con questa terminologia si indicava, già nella riflessione classica, uno di quei rimedi che si davano al di fuori dei presupposti per cui la tutela era normalmente concessa[16].

Di qui, riterrei, la differente prospettazione che emerge tra il testo ufficiale delle Istituzioni, in cui questa tendenziale equivalenza emerge in termini ipotetici, e la lezione dell’antecessor, in cui, fors’anche per ragioni pratiche di semplificazione di una questione ritenuta espressamente superflua, emerge invece de plano.

In buona sostanza, I. 4.15.8, specie se confrontato con la corrispondente parafrasi teofilina, non offre, contrariamente a quanto normalmente si ritiene, alcuna certezza, ed anzi introduce significativi margini di problematicità, che giustificano un riesame della questione.

 

 

2. – Il problema dell’exemplum interdictorum in C. 8.1.3

 

A tal fine, sembra interessante muovere i primi passi della nostra indagine da

 

Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. Pompeiano C. 8.1.3 Incerti iuris non est, orta proprietatis et possessionis lite prius possessionis decidi oportere quaestionem competentibus actionibus, ut ex hoc ordine facto de dominii disceptatione probationes ab eo qui de possessione victus est exigantur. Interdicta autem licet in extraordinariis iudiciis proprie locum non habent, tamen ad exemplum eorum res agitur (a. 293).

 

          Non interessa, in questa sede, soffermarci sul principio affermato nella prima parte del rescriptum – inerente alla priorità della lite possessoria su quella petitoria[17] – quanto, piuttosto, sulla seconda: parte della dottrina[18], infatti, non ritiene riferibile alla cancelleria di Diocleziano il tratto interdicta autem – res agitur che, piuttosto, proprio per la sua coerenza con I. 4.15.8, non potrebbe essere il riflesso di un pensiero risalente agli ultimi anni del III secolo, ancora legato agli schemi del processo per formulas. In termini ancor più radicali, è stata poi sostenuta, anche di recente, l’origine giustinianea anche del riferimento a ‘competentibus actionibus’ che, specie a seguire l’impostazione del Falcone[19], avrebbe sostituito un originario riferimento agli interdicta uti possidetis’ e ‘utrubi’.

Esiste, però, il fondato sospetto che il rescriptum di cui discutiamo sia sostanzialmente epiclassico[20] e che, al più, la sua seconda parte possa aver subito un qualche raccorciamento.

Invero, il problema di fondo di cui occorre tener conto per orientarsi sulla possibilità che il contenuto del nostro rescriptum, nella formulazione pervenutaci, dipenda o meno una novellazione giustinianea va individuato nel contesto processuale di riferimento tenuto presente dal rispondente: occorre, cioè, domandarsi, innanzitutto, se la cancelleria dioclezianea fosse chiamata a pronunciarsi su una lite instaurata con il ricorso alla procedura formulare, oppure – quanto mi pare più probabile – con il ricorso ai più duttili schemi delle cognitiones epiclassiche, che, come noto, all’epoca tendevano, specie nelle province, a sostituire integralmente le ormai obsolete conceptiones verborum pretorie, che sarano abolite radicitus appena una cinquantina d’anni più tardi[21].

Al riguardo, specie per quanto concerne il problema dell’ipotizzata sostituzione di un originario riferimento agli interdicta con l’espressione competentibus actionibus, optare per quest’ultima possibilità consentirebbe una soluzione conservativa. E difatti, l’incertum ius che il richiedente doveva aver allegato configura un dubbio de iure della parte di cui la cancelleria nega l’esistenza, ma che si giustifica perché, con ogni probabilità, la lite doveva essere stata instaurata come una cognitio extra ordinem: se, quindi, l’ufficio rispondeva con riferimento a questo specifico contesto procedurale, la terminologia riscontrata non potrebbe rappresentare, di per sé, l’esito di una novellazione giustinianea, ma semmai la normale qualificazione giuridica del rimedio mobilitato dal possessore.

In quest’ordine di idee, e di conseguenza, nulla consentirebbe di affermare l’estraneità della precisazione di cui discutiamo al quesito posto dal richiedente: in altri termini il rescriptum, che sconta con ogni probabilità una mera massimazione del suo originario tenore, doveva essere articolato su due piani, entrambi – come oggi si direbbe – in rito; ed il rispondente, dopo aver affermato la priorità della quaestio possessionis rispetto alla quaestio dominii, doveva aver ritenuto necessario chiarire altresì che «quantunque, poi, gli interdetti, a rigore, non trovino collocazione nel novero dei giudizi straordinari, nondimeno la lite deve essere trattata seguendone il modello».

Insomma, il richiedente doveva aver allegato che l’identità di rito – il rito extraordinarium – nella duplice controversia avrebbe potuto consentire al dominus di vincere in petitorio, così eludendo del tutto l’ostacolo della tutela possessoria che, a seguire lo schema classico, incentrato sulla procedura interdittale, l’avrebbe visto, in ipotesi, soccombente. Ed invece, quantunque la lis proprietatis et possessionis sia interamente trattata come un iudicium extraordinarium, la quaestio possessionis deve essere comunque decisa prioritariamente in base alle competentes actiones: e proprio perché queste ultime, nella prospettiva della cognitio, veicolano gli interdicta dell’ordo, il relativo exemplum va comunque, ed inesorabilmente, rispettato, quantunque, a rigore, si tratti di figure rientranti nell’ordo iudiciorum privatorum[22].

Vista in questa prospettiva, la seconda parte della costituzione non sembra rappresentare un mero adeguamento normativo a I. 4.15.8, in quanto non si afferma che gli interdicta sono equiparati sic et simpliciter ai iudicia extraordinaria, ma che semmai essi costituiscono un exemplum da seguire anche se la lite sia trattata come un giudizio straordinario: la costituzione in esame sembra, quindi, presupporre un ordinamento che, ancora, adoperi l’ordo iudiciorum privatorum come punto di riferimento del processo civile.

Insomma, il nostro rescriptum sarebbe, a questo punto, di centrale importanza storica, in quanto il legislatore estenderebbe espressamente il modello – non altro – di un rimedio formalmente previsto dall’ordo al rito adoperato extra ordinem, così creando una vera e propria fusione tra rimedi previsti dall’ordo e regole procedurali ormai proprie dei iudicia extraordinaria classici: in buona sostanza, l’exemplum interdictorum avrebbe costituito una sorta di ‘ponte’ tra figure dell’ordo e cognitio postformulare[23].

Se ciò è vero, conseguenza forse più rilevante di questa fusione è, per corollario, la devoluzione della procedura interdittale agli organi che giudicavano nelle cognitiones classiche: le strutture del rito, evidentemente, potevano prestarsi all’emanazione ed al controllo di un ordine inteso come il provvedimento di un funzionario imperiale investito di un ufficio giurisdizionale, così da sostituire progressivamente lo schema formulare classico, costituito dall’emanazione dell’ordine pretorio e dal conseguente accertamento della sua fondatezza o meno, con formula arbitraria o per sponsionem[24]. Del resto, che l’interdictum, richiesto davanti al praeses provinciae – e, quindi, in aree culturali notoriamente meno legate agli schemi del processo formulare –  rientrasse in un cognoscere risultava chiaro, nel medesimo contesto diacronico, sia alla cancelleria di Valeriano e Gallieno, sia a quella di Diocleziano e Massimiano[25].

 

 

3. – Cognitio ed exemplum interdictorum: riflessioni sulla Tavola di Esterzili

 

Ma proprio dal punto di vista della progressiva integrazione dell’exemplum interdictorum all’interno della cognitio, e quindi alla configurazione dei presupposti processuali per l’emanazione ed il controllo di un ordine giurisdizionale diverso da una sententia disponiamo, almeno a mio parere, di una testimonianza importante.

E difatti, una specifica connessione con quanto leggiamo in C. 8.1.3 – che, quindi, non sarebbe frutto di una novellazione – è a mio parere ravvisabile nel contesto di una un’epigrafe su bronzo che, tuttora, continua a sollevare numerosi interrogativi. Mi riferisco alla Tavola di Esterzili:

 

Imp. Othone Caesare Aug. cos. XV k. Apriles / Descriptum et recognitum ex codice ansato L. Helvi Agrippae procons(ulis) quem propulit (i.e. protulit) Gn. Egnatius / Fuscus scriba quaestorius in quo scriptum fuit it quod infra scriptum est tabula V c(apitibus) VIII / et VIIII et X. III Idus Mart. L. Hevius Agrippa proco(n)s(ul) caussa cognita pronuntiavit: / (5) “Cum pro utilitate publica rebus iudicatis stare conveniat et de caussa Patulcensi/um M. Iuventius Rixa, vir ornatissimus, procurator Aug(usti) saepius pronunt<i>averat fi/nes Patulcensium ita servandos esse ut in tabula ahenea a M. Metello ordinati / essent ultimoque pronuntiaverit Galillenses frequenter retractantes controver/sia(m) nec parentes decreto suo se castigare voluisse sed respectu clementiae  optumi / (10) maximique principis contentum esse edicto admonere ut quiescerent et rebus / iudicatis starent et intra k. Octobr(es) primas de praediis Patulcensium decederent vacuamque possessionem traderent; quodsi in contumacia perseverassent, se in auctores / seditionis severe animadversurum; et postea Caecilius Simplex, vir clarissi/mus, ex eadem caussa aditus a Galillensibus dicentibus tabulam se ad eam rem / (15) pertinentem ex tabulario principis adlaturos, pronuntiaverit humanum esse / dilationem probationi dari et in k. Decembres trium mensium spatium dederit in/tra quem diem, nisi forma allata esset, se eam quae in provincia esset secuturum; / ego quoque, aditus a Galillensibus excusantibus quod nondum forma allata esset, in / k. Februarias quae p(roximae) f(uerunt) spatium dederim et moram (i)llis possessoribus intellegam esse iucun/ (20) dam: Galil(l)enses ex finibus Patulcensium Campanorum quos per vim occupaverint intra k. / Apriles primas decedant: quod si huic pronuntiationi non optemperaverint, sciant / se longae contumaciae et iam saepe denuntiata(e) animadversioni obnoxios / futuros”. In consilio fuerunt M. Iulius Romulus leg(atus) pro pr(aetore), T. Atilius Sabinus q(uaestor) / p(ro) pr(aetore), M. Stertinius Rufus f(ilius), Sex. Aelius Modestus, P. Lucretius Clemens, M. Domitius / (25) Vitalis, M. Lusius Fidus, M. Stertinius Rufus. Signatores Cn. Pompei Ferocis, L. Aureli / Galli, M. Blossi Nepotis, C. Cordi Felicis, L. Vigelli Crispini, C. Valeri Fausti, M. Luta/ti Sabini, L. Coccei Genialis, L. Ploti Veri, D. Veturi Felicis, L. Valeri Pepli.

 

Il provvedimento del governatore della Sardegna[26], il proconsole L. Elvio Agrippa, databile al 13 marzo del 69, definisce, caussa cognita, una controversia insorta tra le popolazioni rurali sarde dei Galillenses e dei Patulcenses. L’interesse che presenta per la giusromanistica è molteplice: basti pensare alla configurazione di una motivazione[27], che, come noto, in dottrina non è considerata un obbligo giuridico[28], e sembrerebbe qui sommariamente esposta più che altro, forse, per ragioni di opportunità politica collegate al controllo del territorio, nonché all’individuazione delle parti, considerate alla stregua di persone giuridiche[29].

Ma quanto qui maggiormente interessa è costituito dalla tecnica processuale adoperata per la repressione della vis e l’emanazione ed il controllo dell’ordine di sgombero e reintegrazione dei Patulcenses nella vacua possessio dei loro praedia, tenuto conto di un accertamento, già precedentemente intervenuto, dei confini dei territori dei due gruppi rurali. Per interpretare correttamente la fonte occorre peraltro aver chiaro il dipanarsi dell’intera vicenda, che va distinta in tre diversi momenti: la trattazione davanti a M. Iuventius Rixa, quella davanti a Caecilius Simplex e, infine, quella davanti a L. Helvius Agrippa.

Emerge, innanzitutto, che il governatore Rixa aveva più volte stabilito che i confini tra i due gruppi dovevano essere rispettati come già stabiliti, oltre un secolo prima, da M. Metello; ma che i Galillenses, opponendosi sistematicamente, non avevano mai eseguito il provvedimento, qualificato come decretum, con il quale, con ogni probabilità, si disponeva lo sgombero. Da ultimo, il governatore emana un edictum intimando a questi ultimi di quiescere e rispettare la decisione di merito sui fines; di decedere praediis Patulcensium e di vacuam possessionem tradere, prospettando, in caso di inadempienza, una severa animadversio. L’opposizione dei Galillenses, però, viene riproposta davanti al nuovo governatore, Caecilius Simplex, che concede loro un termine per esibire la tabula conservata a Roma contenente, a loro dire, l’esatta determinazione dei fines da loro sino a quel momento contestati. Infine, la controversia prosegue anche davanti a L. Helvius Agrippa, che concede l’ennesima ed ultima dilazione ma, scaduto il termine, caussa cognita dispone senz’altro lo sgombero, minacciando nuovamente l’animadversio.

La connessione, segnalata dallo Schipani[30], tra questo provvedimento e la procedura interdittale, segnatamente quella degli interdetti de vi e de vi armata, mi pare esatta. Se, infatti, non si può escludere che, nelle vicende processuali antecedenti alla decisione di Elvio Agrippa, si fossero intrecciate, al di fuori di un rigoroso giudizio di priorità dell’una sull’altra, le vie della tutela possessoria e di quella petitoria[31], tenuto conto altresì del fatto che la sua pronuncia non viene mai qualificata come sententia, laddove quella, come vedremo analoga, di M. Iuventius Rixa è qualificata come edictum, e, quindi, come provvedimento assunto nell’esercizio della iurisdictio, il modello che il governatore sembra tener presente mi pare accostabile ad una figura sincretistica tra l’interdictum unde vi  e il de vi armata: da un lato, infatti, non v’è traccia dell’exceptio vitiosae possessionis, che nel diritto classico connota comunque il primo rimedio; dall’altro, non v’è nemmeno traccia di un riferimento ad homines coacti armative, che connota il secondo[32].

Due brevi considerazioni in merito potrebbero forse contribuire a meglio configurare il problema, comunque destinato a rimanere aperto.

Innanzitutto, non possiamo escludere che questa forma di vis – vale a dire quella, qualificata, del de vi armata – fosse stata ritenuta implicita nella circostanza che lo spossessamento violento, cui fa riferimento il governatore, era stato perpetrato non già da un singolo individuo, ma da una collettività di persone, i  Galillenses, individuati nella loro ‘soggettività’. Questo gruppo rurale, infatti, era stanziato nell’attuale Gerrei, ed aveva invaso le terre del basso Flumendosa, spogliando della relativa possessio la comunità dei Patulcenses, agricoltori che sfruttavano la ricca fertilità di quei luoghi sin dalla originaria determinazione dei rispettivi fines, databile agli ultimi anni del II secolo a.C.: vi aveva proceduto, come dimostrano le più recenti ricerche, proprio il M. Metello ricordato nella fonte[33]. Per altro verso, la configurazione dell’ordine del proconsole potrebbe far della nostra testimonianza un viatico assai antico verso la configurazione dell’interdictum momentariae possessionis: si tutelerebbe la momentaria possessio pervasione violata cui farà riferimento CTh. 2.4.6 = C. 8.1.4 (a. 406).

Al riguardo, è tuttavia da dirsi che un confronto eccessivamente dogmatico con i modelli processuali, classici così come postclassici, a noi noti appare forse poco fruttuoso, non tanto perché si tratta di un processo provinciale, ma soprattutto perché lo stesso si è svolto in una provincia particolare, la Sardegna. Anche se, infatti, non abbiamo notizie specifiche sull’editto provinciale della Sardegna, è plausibile ipotizzare che la repressione della vis, per evidenti ragioni pratiche e giuspolitiche, fosse configurata, tra gli ultimi anni del principato di Nerone e l’anno dei tre imperatori, in modo ben più rigoroso di quanto non prevedesse l’editto del pretore urbano. Non può tacersi, da questo punto di vista, sulla circostanza che solo in quegli anni (segnatamente, dal 1° luglio del 67; ma la lite insorgeva già negli ultimi anni del principato di Nerone[34]) l’amministrazione imperiale aveva ‘ceduto’ il governo dell’Isola al Senato, e che precedentemente, come è noto, esso era stato affidato a prefetti, in ragione di una pluriennale occupazione militare[35], resa necessaria dalle gravi difficoltà di gestione del territorio.

È, quindi, difficile pensare che i primi proconsoli inviati a Carales, Cn. Cecilius Simplex e L. Helvius Agrippa appunto, abbiano pensato di delineare forme e figure di provvedimenti, nell’ambito della loro plenissima iurisdictio[36], meno ‘drastici’ di quelli che si può immaginare come previgenti, tenuto conto, con ogni probabilità, dei rischi connessi con le note difficoltà politiche che conseguivano alla successione di Nerone, che imponevano un saldo controllo di una provincia tanto importante per ragioni strategiche ed economiche quanto ‘difficile’[37]. Forse non a caso, del resto, l’eventuale mancata esecuzione della pronuncia da parte della popolazione intimata è accompagnata dalla prospettazione, come del resto già aveva fatto il prefetto, M. Iuventius Rixa, di una repressione criminale, nelle forme notoriamente poco garantiste dell’animadversio, non più nei confronti degli auctores seditionis, ma nei confronti della comunità collettivamente considerata[38].

Tenuto conto, in questo particolare contesto storico e politico, del già intervenuto accertamento dei confini, caussa cognita il governatore emana un ordine di rentegrazione – reciperandae possessionis – della popolazione dei Patulcenses, considerata evidentemente il soggetto vi deiectus: «Galillenses» – ordina il proconsole – «ex finibus Patulcensium Campanorum quos per vim occupaverint intra k. Apriles primas decedant». Analoga configurazione, del resto, deve ravvisarsi nell’edictum di M. Iuventius Rixa, che aveva ordinato ai Galillenses di quiescere (quanto presuppone, a mio parere, una valutazione della vis già in questa fase della vicenda[39]), di praediis decedere e di vacuam possessionem tradere: «ut quiescerent» – aveva intimato Rixa – «et rebus iudicatis starent et intra k. Octobres primas de praediis Patulcensium decederent vacuamque possessionem traderent».

Torniamo ora alla rilevata connessione tra la Tavola di Esterzili ed il dato tecnico che emerge in Diocl. et Max. C. 8.1.3. Al riguardo, infatti, non potrà non rilevarsi come l’exemplum interdictorum governi costantemente la procedura extra ordinem adoperata per la trattazione (rem agere) di questa controversia provinciale: essa si presta, infatti, all’emanazione di un ordine così come al controllo del suo fondamento, per modo che il decretum di Rixa, a seguito del controversiam retractare degli intimati, viene confermato con un edictum, ulteriormente controllato dai successivi governatori sino alla definitiva pronuncia di Agrippa, che pone fine alle excusationes dei Galillenses.

In tutto questo si assiste, quasi di conseguenza, ad una permeazione tra la procedura extra ordinem e l’exemplum interdictorum: se, infatti, si considera che l’iniziativa processuale in concreto davanti ad Elvio Agrippa era stata assunta, seppur solamente ai fini di un ulteriore rinvio, dai Galillenses, vale a dire la parte intimata e, quindi, soccombente («ego quoque, aditus a Galillensibus excusantibus quod nondum forma allata esset, in k. Februarias quae proximae fuerunt spatium dederim et moram illis possessoribus intellegam esse iucundam»), la duttilità della procedura adottata deve aver consentito alla controparte, i Patulcenses, di formulare a sua volta la richiesta di reintegra, o quanto meno di insistervi: il provvedimento, insomma, sembra consentirci di presupporre non solo un verosimile dipanarsi della procedura, specie se vista nella sua globalità, in una successione di udienze davanti all’ufficio del governatore[40], ma altresì, e soprattutto, un qualcosa di analogo – non altro – ad una sorta di ‘Widerklage’, con cui i Patulcenses si sarebbero opposti all’ennesimo rinvio, ottenendo, contrariamente all’istanza della controparte, piena tutela. Si tratta di una possibilità che sembra quasi rappresentare una proiezione del modello del rapporto tra sponsio e restipulatio che connota, sul piano dell’accertamento della legittimità dell’ordine, la procedura interdittale classica a noi nota: anche da questo punto di vista, quindi, è plausibile pensare che il processo sia stato condotto dall’ufficio del proconsole con il rispetto dell’exemplum interdictorum all’interno di uno schema processuale proprio della cognitio extra ordinem.

In definitiva, quindi, che gli schemi processuali propri delle controversie extra ordinem accogliessero nel loro seno, nella prassi provinciale[41], il modello degli interdicta, quantunque previsti dall’ordo, doveva essere una prospettiva da tempo consolidata a livello di prassi, che come tale, del resto, sembra trattata dalla cancelleria dioclezianea nel momento in cui la stessa la riconosce formalmente come praticabile. Tutto questo, ad ogni modo, non significa riconoscere l’equiparazione tra interdetti ed azioni: molto più semplicemente, gli interdetti rappresentano un modello da seguirsi anche se l’azione è trattata come un giudizio straordinario.

Ad ogni modo, difficilmente la soluzione di Diocl. et Max. C. 8.1.3 può aver risolto definitivamente simili problemi; semmai, ne deve aver posti di nuovi. Consideriamo, infatti, gli argomenti di CTh. 2.4.6 = C. 8.1.4, nelle due redazioni pervenuteci:

 

Impp. Arc., Hon. et Theod. AAA. Aemiliano p.u. CTh. 2.4.6 Si quis debiti, quod ex fenore vel mutuo data pecunia sumpsit exordium vel ex alio quolibet titulo in litterarum obligationem facta cautione translatum est seu fideicommissi dirigat actionem aut momentariam possessionem pervasione violatam vel quodlibet interdictum efflagitet seu inofficiosum arguat testamentum vel tutelae seu negotiorum actionem intendat, ruptis denuntiationum ambagibus inter ipsa cognitionum auspicia rationem exprimere ac suas allegationes iubeatur proponere, denuntiatione et temporum observatione remota, quam in ceteris civilibus causis, quarum tamen aestimatio centum solidorum summam excedat, volumus custodiri (a. 406).

 

Impp. Arc. et Hon. AA. Aemilio p.u. C. 8.1.4 Si quis quodlibet interdictum efflagitet, ruptis veteribus ambagibus inter ipsa cognitionum auspicia rationem exprimere ac suas adlegationes iubeatur proponere (a. 406).

 

La nostra costituzione, ‘massimata’ da Giustiniano ma conservata in ben più ampia argomentazione dal Teodosiano[42], mostra che sulla procedura interdittale la cancelleria aveva registrato – venuti meno, con Costantino e Costante, gli schemi verbali del processo formulare[43] – opacità ed anomalie: e tuttavia, ruptis denuntiationum ambagibus, l’attore deve senz’altro esprimere la propria difesa inter ipsa cognitionum auspicia, proponendo in tale contesto le sue allegationes. In questa prospettiva, il legislatore mette sullo stesso piano il dirigere actionem per un debitum, per un fideicommissum, per la momentaria possessio pervasione violata; l’efflagitare quodlibet interdictum; l’arguere inofficiosum testamentum; l’intendere actionem negotiorum gestorum e tutelae.

Sicché, se gli interdetti sono oggetto di un efflagitare – vale a dire richiedere con urgente necessità il provvedimento previsto dalla legge – la procedura è la stessa delle ceterae causae: con l’abolizione del processo formulare, gli interdicta non sono più immediatamente distinguibili, se non sul piano della loro storia, da qualsiasi altro rimedio giurisdizionale, stante la tendenziale assimilazione delle regole procedurali. Per chi convenga, a questo punto, sulla datazione pregiustinianea del De actionibus[44], a questa grande linea di tendenza dovrà pure ascriversi il ricordo, in de act. 33 e 34, di specifici interdicta.

 

 

4. – Interdicta e actiones: problemi classificatori nella cultura del VI secolo

 

Resta ora da vedere se ed in quale misura gli interdicta, tra il V e il VI secolo, possano o meno dirsi assimilati, da qualsiasi punto di vista, alle actiones, come ritiene la dottrina tuttora dominante.

Occorre brevemente riesaminare, al riguardo, i problemi posti dalla summa divisio delle actiones che, secondo l’esposizione di I. 4.6.1, è tra azioni in rem ed azioni in personam. Si tratta, invero, di una prospettiva di un certo interesse, ove si consideri che, nel prosieguo della trattazione di I. 4.6, i commissari imperiali non affrontano mai il tema della tutela interdittale, come invece ci saremmo attesi una volta accolta, come è communis opinio in dottrina, l’idea della perfetta riconduzione degli interdicta alle actiones nella cultura giustinianea.

Invero, almeno a mio avviso, le tracce di una vera e propria parificazione tra actio ed interdictum, in questo contesto, sono assai labili: oltre I. 4.15.8, da cui abbiamo preso le mosse, almeno a seguire l’esposizione delle Istituzioni imperiali si può tener conto di un’altra sola occorrenza. Dobbiamo, quindi, esaminare

 

I. 4.15 pr. Sequitur, ut dispiciamus de interdictis seu actionibus, quae pro his exercentur. Erant autem interdicta formae atque conceptiones verborum, quibus praetor aut iubebat aliquid fieri aut fieri prohibebat. Quod tum maxime faciebat, cum de possessione inter aliquos contendebatur.

 

Né qui, né in I. 4.15.8, almeno a mio parere, le Istituzioni si esprimono nel senso che gli interdicta – di cui si ricorda l’originaria struttura formulare – siano actiones: molto più semplicemente, le fonti sinora esaminate depongono più che altro per ritenere che gli interdicta rappresentassero forme di tutela che, per la (come vedremo parziale) identità dello svolgimento processuale, dovevano essere assimilate, sul piano del rito, alle actiones.

Del resto Teofilo, parafrasando I. 4.15 pr., si esprimeva affermando che, una volta esaminata la tematica delle ¢gwga…, delle paragrafa… e delle replicationes, è consequenziale discorrere anche degli interdicta, ½toi – prosegue l’antecessortîn ¢gwgîn, a†tinej e„j t£xin tîn interdíctwn kinoàntai. Forme, quindi, che sul piano espositivo non vengono discusse insieme con le  ¢gwga…, ma risultano delineate brevemente in una prospettiva che tende in una certa misura alla residualità, quasi l’imponesse la completezza dell’informazione istituzionale, che appare polarizzata sulle modalità della tutela possessoria, da ritenersi, con ogni probabilità, il tema realmente a cuore nella descrizione dell’istituto.

In altri termini, la cultura giuridica del VI secolo prende atto del fatto che già ab antiquo – e, quindi, ancora nella vigenza dell’ordo iudiciorum privatorum, come testimonia Diocl. et Max. C. 8.1.3 nonché, a mio parere, i provvedimenti documentati nella Tavola di Esterzili – l’exemplum interdictorum aveva fatto il suo ingresso all’interno della procedura propria dei iudicia extraordinaria; considerato, però, che nel 534 tutti i processi seguono ‘de principe’ questo schema, risulta del tutto inutile discutere de ordine et veteri exitu interdictorum.

Risulta inutile, cioè, discutere dell’ordo e dell’exitus: del riferimento, cioè, all’ordo del ius antiquum, che creava problemi alla cancelleria dicolezianea, costretta a precisare che il ricorso al rito dei iudicia extraordinaria non consentiva di derogare al modello della procedura interdittale disciplinata dall’ordo; e dell’exitus, vale a dire del provvedimento da adottarsi, ormai riconducibile ad un provvedimento del giudice, seppur emesso, con ogni probabilità, a seguito di una cognizione sommaria (summatim cognoscere) che consente al suo interno quella verifica di legittimità – affidata, nello schema classico, ad un procedimento a sé stante – in cui emanazione e controllo dell’ordine  non sono più distinguibili.

In definitiva, sul piano della genesi storica di questa tutela avrebbe ragione il Collinet ad osservare che l’actio utilis giustinianea altro non sarebbe se non l’esito della procedura formulare di accertamento di legittimità dell’ordine pretorio, che avveniva con azione arbitraria o per sponsionem[45]; questo non significa, tuttavia, equiparazione per omnia tra actio e interdictum, ma solo presa d’atto di come quell’exemplum che s’inseriva, ancora nella vigenza dell’ordo, nel iudicium extraordinarium non sia più percepibile come tale, ma divenga un procedimento ormai autonomo; procedimento che, peraltro, ha in sé la sua storia, ostativa al riconoscerlo, ‘tout court’, come una vera e propria actio.

Si comprende, quindi, come nel più maturo contesto delle Isituzioni imperiali I. 4.15.8 escluda espressamente (non est necesse reddi interdictum…) che il giudizio presupponga, quale prius logico, un qualcosa di analogo all’ordine magistratuale del ius antiquum, quanto cioè il Betti riconduceva ad un «precetto amministrativo»[46], seppur rilevante, a suo avviso, come una finzione nell’ottica delle Istituzioni imperiali: come riconosceva il Bruns discutendo del nostro passo, è da dirsi, piuttosto, che, specie a seguire l’andamento complessivo del testo, l’azione utile è data al fine di ottenere il provvedimento lato sensu cautelare, non già per opporvisi (…sed perinde iudicatur sine interdictis)[47]. Per questa ragione, in definitiva, nel VI secolo si giudica senza interdetti, come se in loro vece l’ordinamento avesse previsto azioni utili ex causa interdicti, dato che, quasi paradossalmente, non esiste una norma imperiale – a parte i vari cenni che, nel Digesto come nelle Istituzioni, hanno evidentemente forza di legge – che statuisca formalmente un’equiparazione.

Ma solo questa è la via, priva di una vera e propria connotazione dogmatica, che porta gli antecessores – e, quindi, l’esposizione delle Istituzioni imperiali – a considerare gli interdetti come assimilati ad actiones: per individuare la ‘via’ della giustizia cautelare, essi ricorrono alla storia e, quindi, alla tradizione culturale e pratica dell’azione utile classica per delineare la parziale sovrapponibilità del rito della procedura interdittale – che comunque si connota, come si accennava, per alcune peculiarità imposte dalla tendenziale funzione cautelare della tutela[48] – a quello  che governa lo svolgimento dell’actio mota.

In definitiva, essi non sono riducibili in alcun modo, sul piano dogmatico, alla summa divisio tra azioni reali e azioni personali che esaurisce la categoria delle azioni esaminata in I. 4.6. A questo proposito appare necessario procedere ad un breve esame di un testo importante, confluito nel Digesto, che confermerà con evidenza quanto sinora ipotizzato. Esaminiamo, quindi,

 

D. 43.1.1.3 (Ulp. 67 ad ed.): interdicta omnia licet in rem videantur concepta, vi tamen ipsa personalia sunt.

 

L’Albertario[49] congetturava l’origine emblematica di questa frase, attribuita dai compilatori ad Ulpiano. In realtà, nulla dimostra con certezza che la in rem conceptio cui fa riferimento il passo rappresenti un’alterazione sostanziale dell’originaria argomentazione del giurista.

Ciò non significa, tuttavia, che il testo non ponga problemi. Se, infatti, il ricorso alla terminologia ‘concipere’ – basti pensare alla contrapposizione tra certa verba e concepta verba in Gai 4.29-30 – può costituire un indizio di classicità, rappresenta indubbiamente un problema la riconoscibilità di un in rem concipere con riferimento alla struttura formulare dei singoli ordini interdittali, che non sono riducibili allo schema formulare delle azioni reali, connotate dall’indicazione, nell’intentio, della res oggetto del diritto senza indicazione del nome del convenuto, che compare solo nella condemnatio. La diversità, rispetto alla struttura delle vere e proprie actiones in rem, è dunque autoevidente: il che ci impone l’arduo compito di dare un significato all’espressione adoperata dal giurista, se vogliamo orientarci, come qui si propone, in chiave tendenzialmente conservativa.

Al riguardo, si può osservare come l’ordine pretorio classico risulti di volta in volta emanato non già nei confronti del soggetto che sia parte di un rapporto giuridico inteso come correlazione tra dovere e potere, ma di chiunque ponga in essere una condotta incidente sulla materiale disponibilità una res, vietando  od imponendo, in conseguenza, un determinato comportamento (interdicta omnia licet in rem videantur concepta…); allo stesso tempo, l’emanazione dell’ordine espone l’intimato a specifiche conseguenze coercitive, inconfigurabili a carico del convenuto in un’azione reale (…vi tamen ipsa personalia sunt).

Se ciò è vero, una prospettiva come quella in esame, tutto sommato, sarebbe compatibile con una discussione che presupponga l’attualità pratica – non solo didascalica[50] – della conceptio verborum formulare.

In definitiva, la configurazione dell’interdetto, anche per un giurista classico, può ben apparire in una certa misura ‘ibrida’ a fronte della distinzione, di per sé classica, tra azioni reali e azioni personali adottata dai commissari giustinianei, che ovviamente seguivano la summa divisio delle actiones di Gai 4.1-3[51] e, quindi, una tradizione culturale assai forte nell’esperienza romana[52]. Di qui, inoltre, l’improbabilità – non altro – che essi inserissero espressamente ex novo una precisazione che avrebbe finito per precludere qualsiasi possibilità di classificare gli interdetti all’interno della dicotomia delle actiones di I. 4.6.1: appare, cioè, più verosimile che gli ambienti culturali giustinianei, nel corso dei lavori funzionali alla compilazione dei Digesta, abbiano trovato nei testi a loro disposizione questa specifica indicazione, e che poi non l’abbiano soppressa perché essa non costituiva, in ogni caso, una prospettiva in stridente contraddizione con la sistematica che avrebbero successivamente delineato a livello di esposizione degli elementa.

Per concludere sul punto, sia o meno classico questo tratto del libro LXVII dell’ad edictum, in cui forse si può ravvisare, al più, la rielaborazione di un’idea classica con il ricorso alla terminologia – verosimilmente giustinianea – denunziata dall’Albertario[53], è chiaro che la scelta dei compilatori delle Istituzioni di non trattare degli interdicta tra le actiones – e, quindi, in I. 4.6 – si giustifica nell’ambito di una ben precisa difficoltà dogmatica, quale è l’impossibilità, chiara nel passo in esame, di ricondurli alle due grandi categorie concettuali in cui si risolve la dicotomia delle actiones intese – siano esse, almeno nell’ottica degli antecessores, personali o reali, quantunque ciò crei all’interprete attuale una certa difficoltà[54] – come ius persequendi iudicio quod sibi debetur (I. 4.6 pr.).

In altri termini, anche se il rito è ormai lo stesso dell’actio, gli interdetti non sono né azioni reali, né azioni personali: o meglio, per la struttura sono reali, per la vis sono personali. Il che, evidentemente, non risolveva il problema; sicché l’aver conservato questo testo, se classico, o l’averlo inserito ex novo sarebbe, per la cultura giustinianea, indifferente. Sul piano tecnico, il rito che governa actio e interdictum è, almeno per grandi linee, il medesimo; sul piano dogmatico, però, l’interdictum non è classificabile tra le actiones: ed in questo le Istituzioni non contraddicono affatto D. 43.1.1.3, ma ciò non prova a favore dell’interpolazione.

Quasi per corollario, a questo punto, gli interdetti non rientrano nella summa divisio di I. 4.6.1[55], ma ne hanno una propria, che si risolve in una tricotomia: I. 4.15.1 afferma, infatti, che la summa divisio interdictorum – distinta, quindi, dalla summa divisio delle actiones – è nel senso che aut prohibitoria sunt aut restitutoria aut exhibitoria.

In quest’ordine di idee, tuttavia, dobbiamo pur sempre giustificare la problematica assimilazione di I. 4.15.8 che, non dimentichiamolo, si muove in una logica espositiva che non equipara nella realtà le due categorie di rimedi, ma afferma, piuttosto, che si procede sine interdictis come se la legge avesse previsto, in luogo di essi, un’azione utile ex causa interdicti: quanto, in definitiva, appare compendiato nell’inscriptio – di cui mi pare veramente supervacuum discutere sulla possibilità o meno di un’interpolazione, dato che tutte le inscriptiones dei tituli del Digesto sono interamente dovute ai compilatori[56] – del titolo di D. 43.3, de interdictis sive extraordinariis actionibus, quae pro his competunt.

Al riguardo, una specifica giustificazione pratica, come abbiamo avuto modo di accennare a proposito della lettura teofilina di I. 4.15.8, sembra riscontrabile nell’ambito del più ampio problema dell’editio actionis, che sembra implicare, come ora immediatamente vedremo, una ben precisa radice classica. Consideriamo, infatti,

 

D. 44.7.37 pr.-1 (Ulp. 4 ad ed.) Actionis verbo continetur in rem, in personam: directa, utilis: praeiudicium, sicut ait Pomponius: stipulationes etiam, quae praetoriae sunt, quia actionum instar obtinent, ut damni infecti, legatorum et si quae similes sunt. Interdicta quoque actionis verbo continentur. (1) Mixtae sunt actiones, in quibus uterque actor est, ut puta finium regundorum, familiae erciscundae, communi dividundo, interdictum uti possidetis, utrubi.

 

Questo passo, tratto dal commentario ulpianeo alla rubrica edittale de edendo[57], è in parte sospettato dall’Albertario.

E tuttavia, non si può esser certi dell’atetesi suggerita da questo Autore, secondo il quale sarebbe interpolato il tratto interdicta quoque – continentur nel § 37 pr. nonché il riferimento all’interdictum uti possidetis e utrubi nel successivo: al riguardo, sarebbe significativo, a Suo avviso, lo «spostamento» operato dai compilatori – dal titolo D. 13.1 de edendo al titolo D. 44.7 de obligationibus et actionibus, indice di generalizzazione – così come la terminologia ‘edere interdictum’ per ‘reddere interdictum[58].

Pur non potendosi negare il verosimile intendimento sistematico dei compilatori, l’argomentazione, che evidentemente si fonda su indici meramente formali, non sembra decisiva. Se classico, infatti, il testo non affermerebbe affatto l’equiparazione dell’actio all’interdictum: molto più semplicemente, come già suggeriva il Gandolfi[59], Ulpiano si limiterebbe a chiarire che il termine ‘actio’ con cui si designano, dal punto di vista dell’edere, le singole forme di tutela promesse nell’editto, si deve intendere anche l’interdictum. Se, cioè, qua quisque actione agere volet, eam edere debet[60], chi chiede l’interdictum ha l’onere di indicare alla controparte i dati essenziali che consentano l’instaurazione di un adeguato contraddittorio in iure, strumentale alle scelte difensive previste dall’ordinamento. Da questo (limitato e particolare) punto di vista, insomma, non vi sarebbe alcuna differenza tra le vere e proprie actiones, gli interdicta e le stipulazioni pretorie.

Se a questo punto si passa all’esame del § 37.1, non può che sorgere un’ulteriore aporia, che si aggiunge alle altre già evidenziate nella prima parte della ricerca. Come mai, infatti, l’esposizione delle Istituzioni imperiali sulla categoria dell’actio con causa mixta non ricorda l’interdictum uti possidetis e l’utrubi, che figurano nel passo del Digesto? Consideriamo, al riguardo,

         

I. 4.6.20 Quaedam actiones mixtam causam optinere videntur tam in rem quam in personam. Qualis est familiae erciscundae actio, quae competit coheredibus de dividenda hereditate: item communi dividundo, quae inter eos redditur, inter quos aliquid commune est, ut id dividatur: item finium regundorum, quae inter eos agitur qui confines agros habent. In quibus tribus iudiciis permittitur iudici rem alicui ex litigatoribus ex bono et aequo adiudicare et, si unius pars praegravari videbitur, eum invicem certa pecunia alteri condemnare.

 

L’Albertario non procedeva, come credo invece si debba, a confrontare I. 4.6.20 con D. 44.7.37.1, ed espungeva di conseguenza, come si è detto, il riferimento ai due interdicta indicati nel passo del Digesto[61].

Innanzitutto, tra le due impostazioni sembra differente, ad una prima ricognizione, il modo di pensare lo schema concettuale dell’actio mixta: per il testo del Digesto, sono mixtae le azioni in quibus uterque actor est; per le Istituzioni, hanno mixta causa le azioni che si configurano tam in rem quam in personam, sicché da questo punto di vista l’opzione presuppone comunque la summa divisio di I. 4.6.1, che rileva sul piano della coesistenza, in un solo rimedio, dell’uno come dell’altro elemento caratterizzante i due genera actionum. In quest’ottica, peraltro, l’esposizione delle Istituzioni – da tenersi distinta da quella sul problema dello scopo pratico del rimedio, di cui si parla in I. 4.6.18 – era incentrata sul rapporto tra adiudicare e condemnare; e, tenuto conto di questa angolazione, non ravviserei un abisso tra le due letture.

Se, cioè, a seguire D. 44.7.37.1, chi è attore rispetto alla res è anche convenuto necessario e predeterminato dallo specifico rapporto che connota la fattispecie, e viceversa, sicché l’uno e l’altro sono attori (e, quindi, convenuti), questa peculiarità semplicemente si risolve, nelle Istituzioni, nel rapporto tra il rem alicui adiudicare, in cui si ravvisa il (mixtam) causam optinere in rem, e l’invicem certam pecunia alteri condemnare, in cui si ravvisa il (mixtam) causam optinere in personam. Insomma, il Digesto e le Istituzioni esaminano la medesima problematica, seppur da un diverso punto d’osservazione.

In secondo luogo, appare evidente un dato a mio avviso alquanto significativo: le Istituzioni leggono la mixta causa in tre specifiche actiones (le prime tre indicate nel passo attribuito ad Ulpiano), non anche nei due interdetti richiamati nel § 37.1. Sarebbe singolare, a questo punto, pensare che il riferimento all’uti possidetis ed all’utrubi sia frutto di un’interpolazione del discorso di Ulpiano, specie se si considera che i primi tre rimedi sono qualificati come actiones, gli ultimi due sono un interdictum, senza che ciò vada a contraddire l’impostazione che emerge nel § 37 pr., in cui, limitatamente all’edere, il termine actio comprende l’azione in rem e in personam; quella directa e quella utilis; il praeiudicium; le stipulationes praetoriae; gli interdicta.

In realtà, quindi, non sembra assurdo pensare che anche il § 37.1 possa essere classico, e che, sempre nell’ottica della struttura formulare, Ulpiano pensasse non solo ai tre iudicia tenuti presenti dalle Istituzioni imperiali, ma anche ai due interdetti duplici, in cui l’ordine del magistrato giusdicente – cioè il ‘vim fieri veto’ – si rivolgeva, come noto, ad entrambi i contendenti, sicché uterque actor est.

L’ulteriore aporia, a questo punto, è evidente: se nel VI secolo l’attore doveva definire actionem dichiarando nel libellus – a voler esemplificare seguendo una delle ipotesi fatte in D. 44.7.37.1 – «Ðr…zomai kat£ sou utilian ¢gwg¾n æj ¢pÕ toà ‘uti possidetis’ interdictu», la prospettiva che il Digesto offriva ben avrebbe potuto rappresentare l’occasione per discutere di interdicta nel titolo de actionibus; e tuttavia, il manuale preferisce limitare la categoria di queste azioni, considerate allo stesso tempo in rem e in personam, ai tre rimedi costituiti dalla finium regundorum e dai due giudizi divisori, la familiae erciscundae e la communi dividundo. Nemmeno questo profilo, evidentemente, consentiva alla ‘Geistesart’ giustinianea di superare la difficoltà dogmatica posta dalla summa divisio tra azioni in rem ed azioni in personam, anche perché, in fin dei conti, mentre i tre iudicia di I. 4.6.20 sono allo stesso tempo in rem e in personam, D. 43.1.1.3 stabiliva piuttosto, per gli interdicta, un principio diverso, dato che interdicta omnia licet in rem videantur concepta, vi tamen ipsa personalia sunt: non si tratta, cioè, di rimedi in cui coesistono i momenti caratterizzanti i due genera actionum (che, infatti, in I. 4.6.20 vengono poi autonomamente individuati, pur se nella loro concomitanza, nel rapporto tra adiudicare / condemnare), ma di un vero e proprio ‘ibrido’, che ha la struttura dell’azione reale, ma la forza di quella personale.

 

 

5. – Spunti per un’ipotesi ricostruttiva

 

I presupposti per un’equiparazione puramente pratica tra actio e interdictum, dal punto di vista meramente procedurale, troverebbero a questo punto un nucleo già nella riflessione classica, formatasi sui dati tecnici del processo formulare: se l’edere riguardava allo stesso modo qualsiasi forma di tutela concessa dal magistrato giusdicente, nella procedura giustinianea l’identità di rito impone l’identificazione della tutela anche ove si ricorra ad un interdictum, che quindi va qualificato in base ai nomina iuris del ius antiquum. Nel definire actionem, dunque, l’attore deve indicare la causa della sua pretesa, la ‘via’ della giustizia, che si risolve di necessità in un’actio ex causa interdicti; actio che viene qualificata come ‘utilis’, pur senza una ben precisa consapevolezza concettuale.

E tuttavia, di qui all’equiparazione dogmatica dell’azione all’interdetto, alla quale probabilmente l’esperienza giuridica romana non giunse mai, il passo è forse troppo lungo. Nelle Istituzioni imperiali, la trattazione delle actiones non contempla, come abbiamo più volte rilevato, la procedura interdittale: l’equiparazione ha valenza meramente terminologica, come già probabilmente l’aveva per i giuristi del III secolo, ed è conseguenza, tra il V e il VI secolo, di un dato di rilevanza puramente pratica. Mi riferisco alla circostanza che l’interdetto rappresenta semplicemente un exemplum da seguirsi pur all’interno di processi condotti con il ‘nuovo rito’: la cancelleria dioclezianea, pur riconoscendo come l’interdictum fosse una tutela prevista dall’ordo, prescriveva che il suo modello fosse seguito anche ove la res fosse trattata con il ricorso alle più duttili forme delle cognitiones classiche, lasciando quindi ad un giudice, funzionario imperiale, l’intera cognizione della lite, sia possessoria sia petitoria.

In definitiva, la contrapposizione netta suggerita dall’Albertario, tuttora seguita dalla dottrina maggioritaria, può essere condivisa solo in parte, nel senso che il problema appare articolarsi in una pluralità di prospettive culturali e pratiche difficilmente riconducibili ad una sequenza storica così lineare. È difficile, cioè, che abbia un reale fondamento l’idea secondo cui il diritto classico avrebbe sistematicamente ed in qualsiasi contesto contrapposto le actiones agli interdicta, mentre il diritto giustinianeo avrebbe attratto questi ultimi nell’area concettuale e pratica delle prime.

Se è vero, infatti, che nel diritto della Compilazione gli interdicta rientrano nell’ambito della nozione (procedurale) dell’actio mota e, quindi, la loro mobilitazione si risolve nel rapporto tra kine‹n ed ™ggumn£zein (Theoph. 4.15 pr. e 4.15.8)[62], sul piano dogmatico non emerge alcuna prova di una sovrapposizione tra actio ed interdictum da questo specifico punto di vista: anzi, l’esposizione istituzionale mostra chiaramente che le due tipologie di tutela erano concettualmente distinte e davano luogo, quasi di conseguenza, ad autonomi procedimenti classificatori.

In quest’ordine di idee, non può dirsi, quindi, che l’interdictum sia – come l’actio – un ius persequendi iudicio quod sibi debetur, come si legge nella definizione di I. 4.6 pr. che, almeno nell’ottica giustinianea, tende a riferirsi tanto alle azioni personali quanto a quelle reali; il che è come dire, sul piano sostanziale, che il possesso, per la cui tutela esisteva, in ultima analisi, la procedura interdittale, rimane nettamente distinto dalla proprietà, un ius inteso in senso soggettivo: per tutelare una situazione possessoria, si mobilita un’actio utilis ex causa interdicti, che evidentemente non può considerarsi né actio in  rem, né actio in personam ed è concettualmente estrinseca tanto alla definizione di I. 4.6 pr. quanto all’intera trattazione delle actiones, che su quella dicotomia si basa; per tutelare la proprietà, la rei vindicatio o la Publiciana, cioè vere e proprie actiones previste a tutela di quel ius che la legge riconosce all’attore[63]. In definitiva, possesso e proprietà, interdictum (inteso come causa di un’actio utilis ‘asistematica’) e actio, conservano – o, forse meglio, recuperano, dopo la tendenziale commistione postclassica tra giudizio possessorio e giudizio petitorio[64] – la rispettiva autonomia dogmatica, a prescindere dalla tendenziale identificazione procedurale delle tutele.

In buona sostanza, nel VI secolo la relativa identità procedurale rappresenta un denominatore comune alle due tipologie di tutela, evidentemente estrinseco, però, all’impostazione della questione sul piano delle categorie concettuali: assimilazione sotto alcuni profili che, ad ogni modo, doveva avere radici sufficientemente solide tanto nell’esperienza classica, quanto in quella postclassica. La storia, da questo punto di vista, non sembra mostrare quelle nette cesure che la dottrina facente capo all’Albertario ritiene di poter individuare.

Da un primo punto di vista, infatti, niente consente di escludere che già Ulpiano tendesse ad interpretare il termine actio in un’ottica generalizzante per quanto concerne il limitato e specifico problema della disciplina dell’edere actionem, che, nel caso degli interdicta, era connotata dal fatto che la conceptio verborum formulare, percepita probabilmente come in qualche modo analoga al modello delle formulae delle azioni in rem, implicava poi la vis delle azioni in personam.

Da un secondo punto di vista, quindi, si assiste ad un’ulteriore evoluzione pratico-applicativa del problema dell’edere actionem, nel senso che la cancelleria imperiale, tra il III e il IV secolo, ha ben presente che la procedura interdittale è riconducibile all’ordo e, quindi, alla forma edicti perpetui; e tuttavia, ammette – formalizzando con forza di legge, con ogni probabilità, una prassi provinciale – che gli interdetti, una volta mobilitati con il ricorso alla cognitio, dovessero pur sempre rappresentare un exemplum inderogabile, quanto implica l’immediata ricaduta pratica della priorità della decisione sulla quaestio possessionis rispetto alla pretesa petitoria (C. 8.1.3).

Venuto meno formalmente, nel 342, il processo formulare, a seguito della sostanziale decadenza di quei meccanismi di tutela, la cui inadeguatezza alle esigenze economico-sociali doveva essere fortemente sentita da tempo, l’equiparazione in rito è tendenzialmente completa, pur nella peculiarità del summatim cognoscere che connota la procedura. Tra il IV e il V secolo, e cioè quando si delinea, come si accennava, una tendenziale commistione tra giudizio petitorio e giudizio possessorio, si pongono le basi per la configurazione di regole procedurali funzionali ad un qualcosa di assai vicino all’attuale procedura cautelare, che sembra delineare la funzione pratica del ricorso allo schema dell’actio utilis ex causa interdicti giustinianea: non sarà superfluo, in quest’ordine di idee così fortemente condizionato dall’immanenza del rito, evidenziare come, in fin dei conti, questa logica appaia pienamente compatibile con una grande linea di tendenza verso un’evoluzione della concezione dell’azione in senso processuale; evoluzione, questa, che se non giunge a sovvertire l’idea classica dell’azione in senso materiale, consente pur sempre di riconoscere come, nell’esperienza processuale del VI secolo, i percorsi delle vie della giustizia siano, innanzitutto, un problema processuale, con tutto quel che ne consegue dal punto di vista del tormentato rapporto tra potere di agere e instaurazione del processo.

 

 



 

* Relazione presentata nel Convegno “Principi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C”, Parma, 18-19 luglio 2009.

 

[1] La cui definitiva configurazione è ora confluita nel IV volume degli Studi: cfr. E. Albertario, ‘Actiones’ e ‘interdicta’, in Studi di diritto romano, IV, Eredità e processo, Milano, 1946, 117 ss. (cfr. già Contributi allo studio della procedura civile giustinianea: 1. ‘Actiones’ e ‘interdicta’, in RISG, LII, 1912, 13 ss., a sua volta rielaborazione di una nota esegetica, ‘Actio’ e ‘interdictum’, edita a Pavia nel 1911, cui non mi è stato possibile accedere). La letteratura formatasi nel XIX secolo sul problema degli interdicta è indicata da L. Capogrossi Colognesi, voce Interdetti, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 927 s., e discussa via via nel corso della trattazione dell’Autore.

 

[2] ‘Notae ad lib. XLIII, tit. I, Dig.’ (in J. CuiaciiOpera omnia’, II, editio altera Pratensis, 1859, col. 643); ‘Paratitla in lib. XLIII, tit. I, Dig.’ (ivi, col. 491).

 

[3] K.R. von Czyhlarz, Lehrbuch der Institutionen des römischen Rechtes, XI-XII ed., Wien-Leipzig, 1911, 384; cfr. E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 119.

 

[4] D. 3.3.35.2 (Ulp. 9 ad ed.); D. 3.3.39 pr. (Ulp. 9 ad ed.); D. 8.5.6.1 (Ulp. 17 ad ed.); D. 8.6.25 (Paul. 5 sent.); D. 43.4.3.2 (Ulp. 68 ad ed.); D. 43.16.1.32 (Ulp. 69 ad ed.); D. 43.16.1.48 (Ulp. 69 ad ed.); D. 43.17.1.4 (Ulp. 69 ad ed.); D. 44.2.14.3 (Pomp. 31 ad Sab.): cfr. il primo § dello studio di E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 117 s.

 

[5] Cfr., in particolare, secondo questa ricostruzione (E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 123 ss., limitandoci al § 4 dello studio dell’Autore), D. 9.2.43 (Pomp. 19 ad Sab.); D. 42.2.6.2 (Ulp. 5 de omn. trib.); D. 43.18.1 pr. (Ulp. 70 ad ed.); D. 4.7.3.2 (Gai. 4 ad ed. prov.); D. 12.2.3.1 (Ulp. 22 ad ed.); D. 44.7.35 pr. (Paul. 1 ad ed.); D. 5.3.40.2-4 (Paul. 20 ad ed.); D. 39.2.18.15 (Paul. 48 ad ed.); D. 19.1.13.12 (Ulp. 32 ad ed.); D. 43.24.22 pr. (Ven. 2 interd.); D. 43.24.15.2 (Ulp. 71 ad ed.); D. 44.7.9 (Paul. 9 ad Sab.); D. 43.24.13.1 (Ulp. 71 ad ed.); D. 43.24.3 pr. (Ulp. 71 ad ed.); D. 43.24.5.11-12 (Ulp. 71 ad ed.);  D. 18.2.4.4 (Ulp. 28 ad ed.); D. 43.24.11.10 (Ulp. 71 ad ed.); D. 7.1.13.2 (Ulp. 18 ad Sab.); D. 19.1.7.1 (Pomp. 5 ad Sab.); D. 43.8.39.2 (Ulp. 68 ad ed.); D. 3.3.40 pr. (Ulp. 9 ad ed.); Arc. et Hon. C. 8.2.3. In particolare, l’Autore (E. Albertario, op. cit., 143 ss.) riteneva alterati alcuni testi (ritenuti dallo studioso di centrale importanza) che, tuttavia, come vedremo, sono probabilmente classici: cfr. D. 44.7.37 pr.-1 (Ulp. 4 ad ed.), su cui l’Albertario si soffermava nel § 5,  e D. 43.1.1.3 (Ulp. 67 ad ed.), indagato nel § 6. Di entrambi avremo modo di discutere nel prosieguo della ricerca.

 

[6] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 119 ss., criticava, in particolare, O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II, Leipzig, 1901, 1001, nt. 2; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, II, Firenze, 1908, 31 e 74; G.F. Puchta, Cursus der Institutionen, nach dem Tode des Verfassers beforgt von P. Krüger, X ed., I, Leipzig, 1893, 508 ss. e 571.

 

[7] O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung3, Leipzig, 1927, 476 s.

 

[8] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 117, in asterisco (cito sempre dagli Studi, IV).

 

[9] Con riferimento, in particolare, a A. Berger, voce ‘Interdictum’, in RE, IX, Stuttgart, 1916, 1611 s.; E. Costa, Profilo storico del processo civile romano, Roma, 1918, 112 s.; B. Biondi, ‘Summatim cognoscere’, in BIDR, XXX, 1921, 252, nt. 2; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano2, II, Roma, 1928, 102; F. De Martino, La giurisdizione nel diritto romano, Padova, 1937, 234 s.; L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana, tradotte da R. Orestano sull’ed. tedesca interamente riveduta e ampliata dall’Autore, Milano, 1938, 326 e nt. 42, dove si parla, in adesione alla dottrina dell’Albertario, di «equiparazione giustinianea di interdetto e actio»; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, X ed. (rist. corr. dell’edizione di Torino, 1946, a cura di G. Bonfante e G. Crifò, con una prefazione di E. Albertario e una nota di G. Crifò), Milano, 1987, 112. Sul punto, cfr. anche A. Biscardi, La protezione interdittale nel processo romano, Padova, 1938, 16 e nt. 5; S. Riccobono, ‘Interdictum’ – ‘Actio’. Ulp. LXIX ad Ed. fr. 1 § 4-9 D. 3,17 – Gai. IV, 155, in Festschrift P. Koschaker, II, Weimar, 1939, 373 e 380 s.

 

[10] Cfr. essenzialmente P. Collinet, La nature des actions des interdits et des exceptions dans l’œuvre de Justinien, Paris, 1947, 479 ss.; J. de Malafosse, L’interdit ‘momentariae possessionis’. Contribution à l’histoire de la protection possessoire en droit romain,  Toulouse, 1947 (rist.: Roma, 1967), 75 s.; G.I. Luzzatto, Il problema d’origine del processo ‘extra ordinem’, I, Premesse di metodo. I cosiddetti rimedi pretori, Bologna, 1965, 143 s.; G. Provera, Lezioni sul processo civile giustinianeo, I-II, Torino, 1989, 427 ss., in particolare 450 s. e 472 s., sino alla recente esposizione di M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, 2a ed., München, 1996, 637 s. Per uno sguardo alla communis opinio nella manualistica, cfr. quindi V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 14a ed., Napoli, 1960, 157; E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, rist. anast. 1993, 264; G. Pugliese, con la collaborazione di F. Sitzia e L. Vacca, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., Torino, 1991, 791 s.

 

[11] Cfr., del resto, la prudente posizione assunta nella ricerca di L. Solidoro Maruotti, La tutela del possesso in età costantiniana, Napoli, 1998, 127 s.

 

[12] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 118 s.; M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, cit., 638 e nt. 17.

 

[13] Sul punto cfr. P. Collinet, La procédure par libelle, Paris, 1932, 52 ss. e 124.

 

[14] A. Traina, T. Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, III ed., Bologna, 1985, 470.

 

[15] Si pensi, ad esempio, alla riforma giustinianea della donazione obbligatoria (Imp. Iustinianus A. Iuliano pp. C. 8.53.35.5-5e, a. 530, tenuta presente in I. 2.7.2, su cui cfr. l’analisi di R. Lambertini, I. 2.7.2: un problematico raccordo tra effetti della donazione e della compravendita in diritto giustinianeo, in Labeo, XLIX, 2003, 72 ss., nonché Id., In tema di ‘iusta causa traditionis’, in  ‘Fides’ ‘Humanitas’ ‘Ius’. Studii in onore di L. Labruna, IV, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 2752 ss.), oppure, sempre a titolo esemplificativo, alla riforma giustinianea in tema di foolrma del documento (Imp. Iustinianus A. Menae pp. C. 4.21.17, a. 528, tenuta presente in I. 3.23 pr., su cui cfr., per tutti, M. Talamanca, voce Vendita, I. - Vendita in generale, a) diritto romano, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 467 ss., in particolare 469 ss.).

 

[16] Così, quasi testualmente, M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 318.

 

[17] Su questo aspetto, cfr. L. Solidoro Maruotti, La tutela, cit., 129 e 151.

 

[18] Per tutti cfr. M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, cit., 638, nt. 17.

 

[19] G. Falcone, Ricerche sull’origine dell’interdetto ‘uti possidetis’, in AUPA, XLIV, 1996, 115 s., in adesione a E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 115 ss., in particolare 152 e G. Segré, Studi sul concetto del negozio giuridico nel diritto romano e nel nuovo diritto germanico, in Scritti giuridici raccolti per iniziativa di colleghi e discepoli in occasione del XL anno d’insegnamento dell’Autore, I, Roma, 1930, 255, nt. 1.

 

[20] Così, a mio avviso esattamente, altra parte della dottrina: cfr. L. Solidoro Maruotti, La tutela, cit., 129 e nt. 46; L. Capogrossi Colognesi, voce Interdetti, cit., 920 s. e nt. 90; A. Berger, voce ‘Interdictum’, cit., 1704.

 

[21] Impp. Constant. et Constans AA. Marcellino praesidi Phoenice C. 2.57(58).1 Iuris formulae aucupatione syllabarum insidiantes cunctorum actibus radicitus amputentur (a. 342).

 

[22] La logica della cancelleria dioclezianea or ora evidenziata trova altri riscontri nel medesimo àmbito culturale e pratico, vale a dire gli anni 293-294: cfr. le fonti indicate da L. Capogrossi Colognesi, voce Interdetti, cit., 920, nt. 90, vale a dire Impp. Diocl. et Max. AA et CC. Latinae C. 8.3.1.1 (a. 293); Idem AA. et CC. Marco C. 8.2.2. (a. 294); Idem AA. et CC. Alexandro C. 8.4.2 (a. 293); Idem AA. et CC. Hygino C. 8.4.4 (a. 294); Idem AA. et CC. Hermiano et Hermippo C. 4.49.17 (a. 294?). Sul punto, cfr. anche A. Berger, voce ‘Interdictum’, cit., 170. In una diversa prospettiva d’indagine, su C. 8.1.3 cfr. altresì, esattamente, F. Zuccotti, Sulla tutela processuale delle servitù cosiddette pretorie, in Atti del Convegno su «Processo civile e processo penale nell’esperienza giuridica del mondo antico» in memoria di A. Biscardi (Siena, Certosa di Pontignano, 13-15 dicembre 2001), in Collana della RDR, http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/attipontignanozuccotti.pdf, 168 e nt. 293.

 

[23] La testimonianza di I. 4.15.8 è stata esaminata, in questa prospettiva, nella relazione di N. Palazzolo, Dalle ‘cognitiones’ alla ‘cognitio’: principe e giuristi verso la costruzione del nuovo sistema processuale, tenuta in occasione del Convegno internazionale di diritto romano di Copanello, I Tribunali dell’Impero (7-10 giugno 2006), di cui tuttavia si attende la pubblicazione dei relativi atti.

 

[24] Sul punto, per tutti, cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 347 s.

 

[25] Impp. Valer. et Gall. AA. Messiae C. 8.1.2 Praeses provinciae in eum, qui eiusdem provinciae non est, nec ex interdicto potest cognoscere (a. 260); l’anno successivo al rescriptum in esame – vale a dire C. 8.1.3 – si esprime in questi termini anche Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. Cyrillo C. 8.6.1 Uti possidetis fundum de quo agitur, cum ab altero nec vi nec clam nec precario possidetis, rector provinciae vim fieri prohibebit ac satisdatationis vel transferendae possessionis edicti perpetui forma servata de proprietate cognoscet (a. 294).

 

[26] CIL, X, 7852 = FIRA, I2, n. 59; trascrivo e seguo qui, tuttavia, la recente riedizione proposta da E. Cadoni, La ‘Tabula’ bronzea di Esterzili (CIL X, 7852), in La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella ‘Barbaria’ sarda, Convegno di studi (Esterzili, 13 giugno 1992), a cura di A. Mastino, Sassari, 1993, 78. Ivi anche un’interessante ipotesi di traduzione. Sono miei gli apici nelle ll. 5-23.

 

[27] In merito, cfr. S. Schipani, La repressione della ‘vis’ nella sentenza di L. Helvius Agrippa del 69 d.C. (Tavola di Esterzili), in La Tavola di Esterzili, cit., 134, nt. 2. In generale, su questa fonte, oltre gli altri saggi contenuti in questa collettanea, cfr. per tutti P. Meloni, La Sardegna romana, 2a ed., Sassari, 1990, 159 ss., con letteratura a p. 471 s.

 

[28] Ma la questione è oggi riaperta, con interessanti argomenti, alla luce dell’interessante analisi di M. Marrone, Contributo allo studio della motivazione della sentenza nel diritto romano, in Mélanges en l’honneur de C.A. Cannata, Bâle - Genève - Munich, 1999, 53 ss., in particolare 64 s., nonché Id., Su struttura delle sentenze, motivazione e “precedenti” nel processo privato romano, in BIDR, C, 1997 (ma 2003), 37 ss., con altra letteratura.

 

[29] Il fatto che la fonte attribuisca soggettività a due gruppi rurali che non sono civitates Romanae (Galillenses e Patulcenses non sono né municipiacoloniae; su questi problemi, mi limito ad un rinvio a R. Orestano, Il “problema delle persone giuridiche” in diritto romano, I, Torino, 1968, 101 ss., nonché a M. Talamanca, Istituzioni, cit., 180), ma civitates Barbariae («si trattava» – scrive P. Meloni, La Sardegna, cit., 159 s. – «di comunità non cittadine, ma sulla base di una struttura di tipo tribale, probabilmente con un rudimento di organizzazione amministrativa che consentisse, in qualche modo, di disciplinare l’uso delle terre comuni»: cfr. peraltro Id., op. cit., amplius 155 ss.; le ipotesi in ordine alle opzioni amministrative adottate in merito da Roma sono tuttavia, per stessa ammissione dell’Autore, largamente congetturali) appare di grande interesse. Esse, evidentemente, potevano agire e resistere in giudizio, probabilmente per il tramite di un actor (possibilità attestata, come noto, per municipes e coloni: cfr. G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni, cit., 424).

 

[30] S. Schipani, La repressione, cit., 142 ss., in part. 143 (amplius, 138 ss.).

 

[31] S. Schipani, La repressione, cit., 137 ss. La tutela petitoria poteva essere l’actio finium regundorum (che questo Autore ipotizza nel procedimento davanti a Cn. Caecilius Simplex: ivi, 140; io penserei a M. Iuventius Rixa); per una vicenda analoga, avvenuta in Corsica e risolta dalla cancelleria di Vespasiano, cfr. R. Zucca, La Tavola di Esterzili e la ‘controversia finium’ tra ‘Vanacini’ e ‘Mariani’ in Corsica, in La Tavola di Esterzili, cit., 185 ss.

 

[32] Per la configurazione di questi problemi, cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 498 s.

 

[33] Per queste informazioni, cfr. in generale P. Meloni, La Sardegna, cit., 159-164, con ampia letteratura; in particolare, A. Boninu, Per una riedizione della Tavola di Esterzili (CIL X, 7852), in La Tavola di Esterzili, cit., 63 ss., nonché i due saggi di M. Bonello Lai, Sulla localizzazione delle sedi di ‘Galillenses’ e ‘Patulcenses Campani’, ivi, 49 ss., ed Il territorio dei ‘populi’ e delle ‘civitates’ indigene in Sardegna, ivi, 157 ss., nonché M. Pittau, La localizzazione dei ‘Galillenses’ e dei ‘Patulcenses’, ivi, 123 ss.

 

[34] Amplius, su questo punto, A. Boninu, Per una riedizione, cit., 63 ss.

 

[35] Per la ricostruzione storica, cfr. ancora P. Meloni, La Sardegna, cit., 139 ss., in particolare 143 ss.

 

[36] D. 1.16.7.2 (Ulp. 2 de off. proc.), su cui cfr. D. Mantovani, Il ‘bonus praeses’ secondo Ulpiano. Studi su contenuto e forma del ‘de officio proconsulis’ di Ulpiano, in BIDR, XCVI-XVII, 1993-1994, 244 ss. e, più di recente, C.M. Doria, Tribunali e ordinamento territoriale: prospettive provinciali (relazione tenuta in occasione del Convegno internazionale di diritto romano di Copanello, I Tribunali dell’Impero [7-10 giugno 2006], di cui si attende, tuttavia, la pubblicazione dei relativi atti). Per un quadro istituzionale del governo provinciale, cfr. A. Masi, M. Mazza, L’amministrazione delle province, in Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., sotto la direzione di M. Talamanca, Milano, 1989, 487 ss.; sull’imperium magistratuale e l’editto provinciale, F. Càssola, L. Labruna, L’ordinamento delle province, ivi, 268; M. Talamanca, Le costituzioni imperiali nel sistema normativo del principato. Il ‘ius extraordinarium’ e la ‘cognitio extra ordinem’, ivi, 424 (l’Autore escludeva la possibilità di accertare se l’editto provinciale sia stato ‘codificato’ ai tempi dell’imperatore Adriano come avvenne per l’editto del pretore urbano e quello degli edili curuli).

 

[37] «Certo» – scrive, al riguardo, P. Meloni, La Sardegna, cit., 144 – «non doveva allettare l’autorità imperiale l’idea che un governatore di rango senatorio fosse a capo di una provincia così vicina all’Italia e così ricca di risorse granarie da far nutrire eventuali sogni di rivolte e di usurpazioni. Può essere interessante ricordare che agli inizi del 69, durante la lotta tra Otone, da poco proclamato imperatore, e Vitellio, che gli contendeva il potere, la Sardegna e la Corsica rimasero a fianco del primo, anche se il governatore di Corsica, il procuratore Decimo Picario, tentò, senza esito, di fare abbracciare all’isola le parti di Vitellio».

 

[38] «Quod si huic pronuntiationi non optemperaverint, sciant se longae contumaciae et iam saepe denuntiatae animadversioni obnoxios futuros», ammoniva L. Helvius Agrippa; «quodsi in contumacia perseverassent, se in auctores seditionis severe animadversurum», aveva già ammonito M. Iuventius Rixa. Quest’ultimo, quindi, non prospetta una repressione ‘di massa’, ma l’animadversio nei confronti di chi avesse fomentato la seditio, cioè gli auctores seditionis (tra i quali, probabilmente, dovevano essere anche l’auctor o gli auctores legittimati a rappresentare il gruppo in sede processuale). La diversa configurazione della minaccia di repressione da parte del proconsole, insieme con un riferimento, questa volta esplicito, alla vis, sembra, quindi, presupporre il suo intendimento di un ‘giro di vite’ più stretto nei confronti dei Galillenses. Difficilmente, del resto, il governatore avrà visto di buon occhio scorrerie che finivano per rallentare l’economia agraria della provincia (i Patulcenses erano, come si è detto, una comunità agricola), fondamentale in chiave strategica e politica; allo stesso tempo, sarebbe stato inopportuno, fors’anche per esiguità di mezzi, gestire immediatamente il problema con il ricorso all’uso della forza (cfr. P. Meloni, La Sardegna, cit., 160 s.; 162). S. Schipani, La repressione, cit., 139 ravvisa piuttosto, in questa forma di sanzione, peraltro solo prospettata, un tentativo di superare il limite intrinseco della condemnatio nel processo formulare classico (che in linea di principio poteva consistere, come noto, soltanto in una somma di denaro); una volta escluso che questa procedura fosse impostata in chiave di procedimento per formulas, io collegherei, invece, la prospettazione dell’animadversio alla perdurante difficoltà di gestione del territorio (cfr. P. Meloni, La Sardegna, cit., 162): per l’esecuzione del provvedimento, sarebbe stato sufficiente procedere manu militari, senza necessariamente invocare sanzioni criminali.

 

[39] Più cauto S. Schipani, La repressione, cit., 139.

 

[40] Più d’una una davanti a M. Iuventius Rixa, che aveva pronunciato saepius sui finessaepius pronuntiaverat fines Patulcensium ita servandos esse ut in tabula ahenea a M. Metello ordinati essent») ed aveva poi emanato il primo – chiamiamolo pure così – interdetto («ut quiescerent et rebus iudicatis starent et intra k. Octobres primas de praediis Patulcensium decederent vacuamque possessionem traderent»); almeno una seconda davanti a Cn. Caecilius Simplex per il primo rinvio istruttorio («ex eadem caussa aditus a Galillensibus dicentibus tabulam se ad eam rem pertinentem ex tabulario principis adlaturos, pronuntiaverit humanum esse dilationem probationi dari et in k. Decembres trium mensium spatium dederit intra quem diem, nisi forma allata esset, se eam quae in provincia esset secuturum»); un’ulteriore davanti a L. Helvius Agrippa («ego quoque, aditus a Galillensibus excusantibus quod nondum forma allata esset, in k. Februarias quae proximae fuerunt spatium dederim»), per il rinvio, in funzione istruttoria, al 1° febbraio del 69, e forse addirittura un’altra, davanti allo stesso proconsole, in cui si possono immaginare le doglianze dei Patulcenses per una condotta con ogni probabilità denunziata come puramente defatigatoria («et moram illis possessoribus intellegam esse iucundam»: vedrei qui la preoccupazione del proconsole di non indulgere ancora, per l’ennesima volta, ad una richiesta ormai sentita come sostanzialmente ingiusta; cfr. D. 1.18.19.1 (Call. 1 de cognit.), sed in cognoscendo neque excandescere adversus eos, quos malos putat, neque precibus calamitosorum inlacrimari oportet: id enim non est constanti et recti iudicis, cuius animi motum vultus detegit. Et summatim ita ius reddi debet, ut auctoritatem dignitatis ingenio suo augeat: del passo si è occupato di recente N. Palazzolo, Dalle ‘cognitiones’, cit.), cui avrebbe fatto seguito l’ordine, questa volta perentorio, di sgombero, emanato il 13 marzo, al 1° aprile del 69.

 

[41] Di vivo interesse, al riguardo, quantunque non riconducibile al problema della tutela possessoria, è del resto il riscontro della testimonianza di P.Euphr. 2, di recente riesaminata da G.D. Merola, Sull’amministrazione della giustizia nelle province: il ‘P.Euphr.’ 2, in ‘Fides’ Humanitas’ ‘Ius’. Studii in onore di L. Labruna, V, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 3577 ss., in particolare 3684 ss.

 

[42] Sul punto cfr. ancora L. Capogrossi Colognesi, voce Interdetti, cit., 923 s.

 

[43] Impp. Constant. et Constans AA. Marcellino praesidi Phoenice C. 2.57(58).1.

 

[44] Per tutti cfr. F. Sitzia, ‘De actionibus’. Edizione e commento, Milano, 1973, 93 ss.

 

[45] «La procédure de l’Interdit» – osservava l’Autore – «et la procédure commune, la procédure par libelle, et la voie de droit elle-même, l’Interdit, a été ramenée à la forme d’une simple utilis actio ex causa interdicti»; più precisamente, «au point de vue de son origine historique, l’action utilis ex causa interdicti dérive évidemment de la formule que le démandeur intentait, à l’époque classique, contre l’adversaire qui violait l’interdit rendu par le magistrat» (così P. Collinet, La nature, cit., 380, per entrambe le citazioni testuali); in quest’ordine di idee anche E. Betti, Istituzioni di diritto romano, I, 2a ed., Padova, 1942, 342.

 

[46] E. Betti, Istituzioni, I, cit., 342.

 

[47] «Es heißt nicht: perinde atque si interdictum redditum fuisset, also nicht: wie wenn ein Interdict erlassen wäre, sondern: perinde atque si ex causa interdicti actio reddita fuisset, also nicht: wie wenn aus dem Grunde des Interdicts, statt das Recht auf das Interdict selber, eine einfache Klage gegeben wäre. Hieße es: wie wenn ein Interdict erlassen wäre, so wäre die gemeine Meinung richtig, dann wäre die neue Klage an Stelle der alten Klage aus dem Interdicte. Aber da es heißt: wie wenn aus der causa des Interdicts eine Klage gegeben wäre, so kann dies nur bedeuten, daß man aus der causa des Interdicts kein Interdict mehr zu fordern braucht, sondern gleich direct klagen kann. Dann ist mithin die neue Klage an die Stelle der alten Klage auf das Interdict, nicht aus dem Interdicte getreten. Im Übringen aber soll der Sache nach perinde iudicari» (così, testualmente, C.G. Bruns, Die Besitzklagen des römischen und heutigen Rechts, Weimar, 1874, 53 s., seguito da G. Gandolfi, Contributo allo studio del processo interdittale romano, Milano, 1955, 7 s.).

 

[48] M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, cit., 638; L. Solidoro Maruotti, La tutela, cit., 127 s., con letteratura.

 

[49] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 147 ss.

 

[50] Cfr. P. Collinet, La nature, cit., 182 ss.

 

[51] Sui problemi posti dal passo gaiano in chiave classificatoria, cfr. per tutti M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, Roma, 1977 (= Quad. Lincei, 221.2), 242 ss.

 

[52] Per i problemi posti dalla dissensio ricordata da Gai 4.1, cfr. ancora M. Talamanca, Lo schema, cit., 245, nt. 691.

 

[53] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 148, che nota criticamente il termine ‘personalia’. Ma si potrebbe ipotizzare, a ben vedere, un qualcosa di simile: interdicta [omnia (?)] licet in rem videantur concepta, vi tamen ipsa [personalia] <in personam> sunt. In quest’ordine di idee, la classicità dell’espressione ‘in personam esse’, riferita all’actio, sarebbe comprovata da Gai 4.2; mentre il riferimento ad ‘omnia’ potrebbe essere frutto di una generalizzazione sì innocua, ma forse non necessara per il giurista classico. L’alterazione del dettato classico, ove davvero esistente, sarebbe, in definitiva, solamente formale.

 

[54] Invero, la definizione di I. 4.6 pr., che fa riferimento al debere, funziona bene – ma ad adoperare una dogmatica forse non coincidente, nel rigore  che la connota, con  il modo di pensare dei giuristi del VI secolo – solo se riferita all’azione personale, non anche a quella reale; ed in questo senso, del resto, l’intendeva con ogni probabilità la fonte delle Istituzioni, che è, come noto, Cels. 3 dig. D. 44.7.51 (sul punto, cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 277): ma nell’intendimento dell’esposizione delle Istituzioni imperiali, essa è adoperata in una prospettiva a mio avviso generalizzante, che ricorre al debere per indicare qualsiasi situazione giuridica soggettiva tutelata dall’azione; del resto, «tanto le actiones in  personam quanto quelle in rem costituivano poteri di agire in giudizio», ed erano esperibili «contro chiunque si trovasse in contrasto con quelle situazioni soggettive a causa di un rapporto di fatto con la persona o la cosa che ne era oggetto», sicché la definizione celsina, «pensasse o no questo giurista alla sola actio in personam, si attagliava altrettanto bene all’actio in rem» (così, testualmente, G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni, cit., 223, nonché a p. 336 s. per la diversa prospettiva posta dalla tutela interdittale).

 

[55] Cfr. M. Talamanca, Lo schema, cit., 245, nt. 691.

 

[56] Cfr. esattamente L. Capogrossi Colognesi, voce Interdetti, cit., 920.

 

[57] O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’, cit., 59-64.

 

[58] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 143 ss.

 

[59] G. Gandolfi, Contributo, cit., 36.

 

[60] D. 13.1 pr. (Ulp. 4 ad ed.).

 

[61] E. Albertario, ‘Actiones’, cit.,146 s.

 

[62] Sul punto, sia consentito un rinvio a quanto dico in ‘Intentiones exercere’. Problemi e prospettive in Nov. 112, in SDHI, LXXIV, 2008, 170 ss., in particolare 203 ss.

 

[63] Il che, evidentemente, ci riporta al complesso problema del rapporto tra ius e dikaion, ed alla configurazione del ius in senso soggettivo in relazione al ‘canone linguistico’ che, nelle fonti, predica non già il riconoscimento o meno di un diritto, ma la spettanza o meno di un’actio, tematica, questa, ampiamente indagata da F. Sitzia, “DIKAION-IUS” nelle Novelle giustinianee, in Il diritto giustinianeo fra tradizione classica e innovazione. «Atti del Convegno di Cagliari, 13-14 ottobre 2000», a cura di F. Botta, Torino, 2003, 1-33.

 

[64] Cfr. per tutti G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni, cit., 848.