N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università
di Cagliari
‘Actiones’ ed ‘actio utilis ex causa
interdicti’: vicende storiche, anomalie, opacità *
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il
problema dell’exemplum
interdictorum in C. 8.1.3. – 3. Cognitio ed exemplum interdictorum: riflessioni sulla Tavola di Esterzili.
– 4. Interdicta
e actiones:
problemi classificatori nella cultura del VI secolo. – 5. Spunti per un’ipotesi ricostruttiva.
Come
noto, a seguito di una ricerca condotta dall’Albertario[1]
tra il 1911 e il 1912, la dottrina ha assunto una vera e propria communis opinio, secondo cui nel
processo civile giustinianeo risulterebbe una chiara equiparazione tra l’actio e l’interdictum, considerato alla stregua di un’actio utilis ex causa interdicti.
Ad
avviso di questo studioso – che, sul punto da un lato riprendeva uno
spunto del Cujas[2],
dall’altro mostrava di condividere l’impostazione dello Czyhlarz[3]
– mentre i prudentes avrebbero
sistematicamente distinto l’actio
dall’interdictum, la cultura
giustinianea avrebbe invece seguito una strada opposta, per modo che
costituirebbero traccia del regime classico una serie di passi in cui si parla
di actiones come di entità
concettuali distinte dagli interdicta[4],
laddove sarebbe frutto di alterazioni testuali tutta una serie di altri testi,
in cui questa terminologia tende a sovrapporsi[5].
Di qui
la critica alla dottrina che tendeva ad una posizione meno drastica[6],
riconoscendo come, già nel diritto classico, fossero presenti spunti per
ritenere che, almeno in determinati contesti, actio ed interdictum
tendessero quanto meno ad una certa sovrapponibilità
pratico-applicativa: del resto, pur dopo la diffusione dei risultati cui era
pervenuto l’Albertario, anche il Lenel[7],
a proposito dell’interdictum de
superficiebus, tendeva sul punto ad una certa cautela.
Ora, a
prescindere dalla possibilità, evidentemente innegabile, che a volte il
ricorso alla terminologia ‘actio’
per ‘interdictum’, nelle
fonti a nostra disposizione, sia davvero il frutto di alterazioni testuali,
è da dirsi che questa impostazione così netta è stata
accolta dalla dottrina successiva come pienamente persuasiva:
l’Albertario, nell’inserire il proprio studio su actio e interdictum nella silloge delle proprie ‘kleine
Schriften’[8],
rilevava come negli anni successivi alla sua pubblicazione – vale a dire
tra il 1912 e il 1946 – l’impostazione da lui suggerita fosse stata
comunemente accolta[9];
né, nelle più recenti analisi, sembrano potersi scorgere
prospettive critiche in merito[10].
E
tuttavia, un ripensamento dei problemi posti dalla procedura interdittale, a
mio parere, s’impone[11]:
non tanto perché si voglia negare che nella ‘Geistesart’
giustinianea fossero ravvisabili spunti a favore di questa impostazione, quanto
perché il disegno storico che la sottende – e, comunque,
l’argomentazione delle Istituzioni imperiali – sembra indicare
alcuni dati per una ricostruzione in parte più articolata.
Entriamo,
quindi, in medias res e consideriamo,
innanzitutto, uno dei testi-chiave che la dottrina consolidata, dalla ricerca
dell’Albertario all’esposizione che figura nel recente Manuale del
Kaser, ora riveduta dallo Hackl[12],
pone al centro della propria ricostruzione. Si tratta di
I. 4.15.8 De ordine et veteri exitu interdictorum supervacuum est
hodie dicere: nam quotiens extra ordinem ius dicitur, qualia sunt hodie omnia
iudicia, non est necesse reddi interdictum, sed perinde iudicatur sine
interdictis, atque si utilis actio ex causa interdicti reddita fuisset.
Il
passo è normalmente considerato, come si accennava, prova indiscutibile
della riconducibilità degli interdicta
del ius antiquum ad un’actio utilis. Questa lettura, nondimeno,
lascia a mio parere alcune aporie, forse tuttora irrisolte. Al riguardo,
è però il caso di tenere sin d’ora presente la parafrasi
teofilina al testo in esame:
Theoph. 4.15.8 (E.C. Ferrini,
482, lin. 8-16) TÕ
perˆ tÁj t£xewj kaˆ toà ¢potelšsmatoj
perittÒn ™sti s»meron lšgein. 'Epˆ g¦r
tîn extraordinariwn
dikasthr…wn (Ðpo‹a s»merÒn ™sti) p£nta
t¦ dikast»ria oÜk ™stin ™p£nagkej intérdicta kine‹sqai, ¢ll¦ d…ca toÚtwn
™ggumn£zetai t¦ dikast»ria, utilias ¢gwgÁj ¢ntˆ tîn interdictwn ™ggumnazomšnhj. OÙkoàn oÛtwj
e‡wqš tij Ðr…zesqai: «Óti Ðr…zomai kat£ sou utilian ¢gwg¾n æj ¢pÕ toà Salvianiu interdictu, À æj ¢pÕ toà ‘unde vi’ interdictu, ½goun ˜tšrou tinÒj».
L’antecessor
esaminava lo stesso problema posto da I. 4.15.8: non occorre mobilitare –
spiegava Teofilo – gli antichi interdicta
in un sistema che si basa sulle regole progressivamente configuratesi
nell’ambito della procedura extra
ordinem; in vece dell’interdetto, la stessa tutela si avrà
ricorrendo ad un’actio utilis.
Nell’edere actionem, pertanto,
l’attore avrà cura di specificare che l’actio (utilis) mobilitata
è quella corrispondente, ad esempio, all’interdictum Salvianum, od all’unde vi, o comunque a qualsiasi altro previsto dalla legge[13].
Vediamo ora in che cosa consistano le segnalate
aporie.
Innanzitutto, il iudicare sine interdictis, nell’esposizione del testo
istituzionale, è equiparato all’actio utilis con il ricorso ad una sorta di finzione, quale
è, indubbiamente, il contenuto della frase atque si – fuisset. Il passo, dunque, non equipara, tout court, come comunemente si ritiene,
gli interdicta alle actiones utiles; piuttosto, la
proposizione introdotta da atque si
– una comparativa suppositiva, strutturata come protasi
dell’irrealtà[14]
– afferma, a ben vedere, che «si giudica egualmente senza interdetti, come se
fosse stata concessa un’azione utile». La rilevata
peculiarità dell’esposizione dipende, con evidenza,
dall’impossibilità di ricondurre la tutela interdittale ad uno
specifico rimedio individuabile nel ‘catalogo’ delle actiones previste dalla legge: e,
d’altro canto, le Istituzioni imperiali tacciono del tutto sul punto nel
titolo I. 4.6 de actionibus. Non
si tratta, dunque, di uno di quei casi in cui l’esposizione si polarizza
sul ricordo di una riforma imperiale ad
hoc[15],
probabilente mai sentita necessaria, a livello giuspolitico, su questa materia: I. 4.15.8 esprime, semmai, una
disciplina normativa radicata nella storia che informa e sottende
l’ordinamento giustinianeo.
In questa prospettiva ben si comprende il
significato della lezione teofilina: egli, parafrasando I. 4.15.8, parla senza
problemi di un ™ggumn£zein riferito ad una ‘utilia ¢gwg»’,
sicché è da ritenersi che, dal suo punto di vista di insegnante,
il problema dovesse impostarsi nel senso che la tutela interdittale si
delineava, ai suoi tempi, come una procedura in fin dei conti equivalente a quella
di una qualsiasi azione utile; equivalenza che, però, come si è
detto, non risulta in termini inequivoci sul piano dogmatico-classificatorio.
Né sarebbe casuale, a questo punto, la stessa qualificazione di queste actiones esperibili pro interdictis come ‘utiles’,
dato che, nella tradizione scientifica che gli ambienti scientifici e didattici
giustinianei adoperavano, con questa terminologia si indicava, già nella
riflessione classica, uno di quei rimedi che si davano al di fuori dei presupposti per
cui la tutela era normalmente concessa[16].
Di qui, riterrei, la differente prospettazione che
emerge tra il testo ufficiale delle Istituzioni, in cui questa tendenziale
equivalenza emerge in termini ipotetici, e la lezione dell’antecessor, in cui, fors’anche per
ragioni pratiche di semplificazione di una questione ritenuta espressamente
superflua, emerge invece de plano.
In buona sostanza, I. 4.15.8, specie se confrontato
con la corrispondente parafrasi teofilina, non offre, contrariamente a quanto
normalmente si ritiene, alcuna certezza, ed anzi introduce significativi
margini di problematicità, che giustificano un riesame della questione.
A tal fine, sembra interessante muovere i primi
passi della nostra indagine da
Impp.
Diocl. et Max. AA. et CC. Pompeiano C. 8.1.3 Incerti iuris non est, orta
proprietatis et possessionis lite prius possessionis decidi oportere
quaestionem competentibus actionibus, ut ex hoc ordine facto de dominii
disceptatione probationes ab eo qui de possessione victus est exigantur. Interdicta autem licet in extraordinariis iudiciis
proprie locum non habent, tamen ad exemplum eorum res agitur (a. 293).
Non
interessa, in questa sede, soffermarci sul principio affermato nella prima
parte del rescriptum – inerente
alla priorità della lite possessoria su quella petitoria[17]
– quanto, piuttosto, sulla seconda: parte della dottrina[18],
infatti, non ritiene riferibile alla cancelleria di Diocleziano il tratto interdicta autem – res agitur che,
piuttosto, proprio per la sua coerenza con I. 4.15.8, non potrebbe essere il
riflesso di un pensiero risalente agli ultimi anni del III secolo, ancora
legato agli schemi del processo per
formulas. In termini ancor più radicali, è stata poi
sostenuta, anche di recente, l’origine giustinianea anche del riferimento
a ‘competentibus actionibus’
che, specie a seguire l’impostazione del Falcone[19],
avrebbe sostituito un originario riferimento agli interdicta ‘uti
possidetis’ e ‘utrubi’.
Esiste, però, il fondato sospetto che il rescriptum di cui discutiamo sia
sostanzialmente epiclassico[20]
e che, al più, la sua seconda parte possa aver subito un qualche
raccorciamento.
Invero, il problema di fondo di cui occorre tener
conto per orientarsi sulla possibilità che il contenuto del nostro rescriptum, nella formulazione
pervenutaci, dipenda o meno una novellazione giustinianea va individuato nel
contesto processuale di riferimento tenuto presente dal rispondente: occorre,
cioè, domandarsi, innanzitutto, se la cancelleria dioclezianea fosse
chiamata a pronunciarsi su una lite instaurata con il ricorso alla procedura
formulare, oppure – quanto mi pare più probabile – con il
ricorso ai più duttili schemi delle cognitiones
epiclassiche, che, come noto, all’epoca tendevano, specie nelle province,
a sostituire integralmente le ormai obsolete conceptiones verborum pretorie, che sarano abolite radicitus appena una cinquantina
d’anni più tardi[21].
Al riguardo, specie per quanto concerne il problema
dell’ipotizzata sostituzione di un originario riferimento agli interdicta con l’espressione competentibus actionibus, optare per
quest’ultima possibilità consentirebbe una soluzione conservativa.
E difatti, l’incertum ius che
il richiedente doveva aver allegato configura un dubbio de iure della parte di cui la cancelleria nega l’esistenza,
ma che si giustifica perché, con ogni probabilità, la lite doveva
essere stata instaurata come una cognitio
extra ordinem: se, quindi, l’ufficio rispondeva con riferimento a
questo specifico contesto procedurale, la terminologia riscontrata non potrebbe
rappresentare, di per sé, l’esito di una novellazione
giustinianea, ma semmai la normale qualificazione giuridica del rimedio
mobilitato dal possessore.
In quest’ordine di idee, e di conseguenza,
nulla consentirebbe di affermare l’estraneità della precisazione
di cui discutiamo al quesito posto dal richiedente: in altri termini il rescriptum, che sconta con ogni
probabilità una mera massimazione del suo originario tenore, doveva
essere articolato su due piani, entrambi – come oggi si direbbe –
in rito; ed il rispondente, dopo aver affermato la priorità della quaestio possessionis rispetto alla quaestio dominii, doveva aver ritenuto
necessario chiarire altresì che «quantunque, poi, gli interdetti, a rigore, non
trovino collocazione nel novero dei giudizi straordinari, nondimeno la lite
deve essere trattata seguendone il modello».
Insomma, il richiedente doveva aver allegato che
l’identità di rito – il rito extraordinarium – nella duplice controversia avrebbe potuto
consentire al dominus di vincere in
petitorio, così eludendo del tutto l’ostacolo della tutela
possessoria che, a seguire lo schema classico, incentrato sulla procedura
interdittale, l’avrebbe visto, in ipotesi, soccombente. Ed invece,
quantunque la lis proprietatis et
possessionis sia interamente trattata come un iudicium extraordinarium, la quaestio
possessionis deve essere comunque decisa prioritariamente in base alle competentes actiones: e proprio
perché queste ultime, nella prospettiva della cognitio, veicolano gli interdicta
dell’ordo, il relativo exemplum va comunque, ed
inesorabilmente, rispettato, quantunque, a rigore, si tratti di figure
rientranti nell’ordo iudiciorum
privatorum[22].
Vista in questa prospettiva, la seconda parte della
costituzione non sembra rappresentare un mero adeguamento normativo a I.
4.15.8, in quanto non si afferma che gli interdicta
sono equiparati sic et simpliciter ai
iudicia extraordinaria, ma che semmai
essi costituiscono un exemplum da
seguire anche se la lite sia trattata come un giudizio straordinario: la
costituzione in esame sembra, quindi, presupporre un ordinamento che, ancora,
adoperi l’ordo iudiciorum
privatorum come punto di riferimento del processo civile.
Insomma, il nostro rescriptum sarebbe, a questo punto, di centrale importanza storica,
in quanto il legislatore estenderebbe espressamente il modello – non
altro – di un rimedio formalmente previsto dall’ordo al rito adoperato extra ordinem, così creando una
vera e propria fusione tra rimedi previsti dall’ordo e regole procedurali ormai proprie dei iudicia extraordinaria classici: in buona sostanza, l’exemplum interdictorum avrebbe
costituito una sorta di ‘ponte’ tra figure dell’ordo e cognitio postformulare[23].
Se ciò è vero, conseguenza forse
più rilevante di questa fusione è, per corollario, la devoluzione
della procedura interdittale agli organi che giudicavano nelle cognitiones classiche: le strutture del
rito, evidentemente, potevano prestarsi all’emanazione ed al controllo di
un ordine inteso come il provvedimento di un funzionario imperiale investito di
un ufficio giurisdizionale, così da sostituire progressivamente lo
schema formulare classico, costituito dall’emanazione dell’ordine
pretorio e dal conseguente accertamento della sua fondatezza o meno, con formula arbitraria o per sponsionem[24].
Del resto, che l’interdictum,
richiesto davanti al praeses provinciae
– e, quindi, in aree culturali notoriamente meno legate agli schemi del
processo formulare –
rientrasse in un cognoscere
risultava chiaro, nel medesimo contesto diacronico, sia alla cancelleria di
Valeriano e Gallieno, sia a quella di Diocleziano e Massimiano[25].
Ma proprio dal punto di vista della progressiva integrazione
dell’exemplum interdictorum all’interno
della cognitio, e quindi alla
configurazione dei presupposti processuali per l’emanazione ed il
controllo di un ordine giurisdizionale diverso da una sententia disponiamo, almeno a mio parere, di una testimonianza
importante.
E difatti, una specifica connessione con quanto
leggiamo in C. 8.1.3 – che, quindi, non sarebbe frutto di una
novellazione – è a mio parere ravvisabile nel contesto di una
un’epigrafe su bronzo che, tuttora, continua a sollevare numerosi
interrogativi. Mi riferisco alla Tavola di Esterzili:
Imp. Othone Caesare Aug. cos.
XV k. Apriles / Descriptum et recognitum ex codice ansato L. Helvi Agrippae
procons(ulis) quem propulit (i.e. protulit) Gn. Egnatius / Fuscus scriba
quaestorius in quo scriptum fuit it quod infra scriptum est tabula V
c(apitibus) VIII / et VIIII et X. III Idus Mart. L. Hevius Agrippa
proco(n)s(ul) caussa cognita pronuntiavit: / (5) “Cum pro
utilitate publica rebus iudicatis stare conveniat et de caussa Patulcensi/um M.
Iuventius Rixa, vir ornatissimus, procurator Aug(usti) saepius
pronunt<i>averat fi/nes Patulcensium ita servandos esse ut in tabula
ahenea a M. Metello ordinati / essent ultimoque pronuntiaverit Galillenses
frequenter retractantes controver/sia(m) nec parentes decreto suo se castigare
voluisse sed respectu clementiae
optumi / (10) maximique principis contentum esse edicto admonere ut
quiescerent et rebus / iudicatis starent et intra k. Octobr(es) primas de
praediis Patulcensium decederent vacuamque possessionem traderent; quodsi in
contumacia perseverassent, se in auctores / seditionis severe animadversurum;
et postea Caecilius Simplex, vir clarissi/mus, ex eadem caussa aditus a
Galillensibus dicentibus tabulam se ad eam rem / (15) pertinentem ex tabulario
principis adlaturos, pronuntiaverit humanum esse / dilationem probationi dari
et in k. Decembres trium mensium spatium dederit in/tra quem diem, nisi forma
allata esset, se eam quae in provincia esset secuturum; / ego quoque, aditus a
Galillensibus excusantibus quod nondum forma allata esset, in / k. Februarias
quae p(roximae) f(uerunt) spatium dederim et moram (i)llis possessoribus
intellegam esse iucun/ (20) dam: Galil(l)enses ex finibus Patulcensium
Campanorum quos per vim occupaverint intra k. / Apriles primas decedant: quod
si huic pronuntiationi non optemperaverint, sciant / se longae contumaciae et
iam saepe denuntiata(e) animadversioni obnoxios / futuros”. In consilio
fuerunt M. Iulius Romulus leg(atus) pro pr(aetore), T. Atilius Sabinus q(uaestor)
/ p(ro) pr(aetore), M. Stertinius Rufus f(ilius), Sex. Aelius Modestus, P. Lucretius Clemens, M. Domitius / (25)
Vitalis, M. Lusius Fidus, M. Stertinius Rufus. Signatores Cn. Pompei
Ferocis, L. Aureli / Galli, M. Blossi Nepotis, C. Cordi Felicis, L. Vigelli Crispini,
C. Valeri Fausti, M. Luta/ti Sabini, L. Coccei Genialis, L. Ploti Veri, D.
Veturi Felicis, L. Valeri Pepli.
Il provvedimento del governatore della Sardegna[26],
il proconsole L. Elvio Agrippa, databile al 13 marzo del 69, definisce, caussa cognita, una controversia insorta
tra le popolazioni rurali sarde dei Galillenses
e dei Patulcenses. L’interesse
che presenta per la giusromanistica è molteplice: basti pensare alla
configurazione di una motivazione[27],
che, come noto, in dottrina non è considerata un obbligo giuridico[28],
e sembrerebbe qui sommariamente esposta più che altro, forse, per
ragioni di opportunità politica collegate al controllo del territorio,
nonché all’individuazione delle parti, considerate alla stregua di
persone giuridiche[29].
Ma quanto qui maggiormente interessa è
costituito dalla tecnica processuale adoperata per la repressione della vis e l’emanazione ed il controllo
dell’ordine di sgombero e reintegrazione dei Patulcenses nella vacua
possessio dei loro praedia,
tenuto conto di un accertamento, già precedentemente intervenuto, dei
confini dei territori dei due gruppi rurali. Per interpretare correttamente la
fonte occorre peraltro aver chiaro il dipanarsi dell’intera vicenda, che
va distinta in tre diversi momenti: la trattazione davanti a M. Iuventius Rixa,
quella davanti a Caecilius Simplex e, infine, quella davanti a L. Helvius
Agrippa.
Emerge, innanzitutto, che il governatore Rixa aveva
più volte stabilito che i confini tra i due gruppi dovevano essere
rispettati come già stabiliti, oltre un secolo prima, da M. Metello; ma
che i Galillenses, opponendosi
sistematicamente, non avevano mai eseguito il provvedimento, qualificato come decretum, con il quale, con ogni
probabilità, si disponeva lo sgombero. Da ultimo, il governatore emana
un edictum intimando a questi ultimi
di quiescere e rispettare la
decisione di merito sui fines; di decedere praediis Patulcensium e di vacuam possessionem tradere,
prospettando, in caso di inadempienza, una severa animadversio. L’opposizione dei Galillenses, però, viene riproposta davanti al nuovo
governatore, Caecilius Simplex, che concede loro un termine per esibire la tabula conservata a Roma contenente, a
loro dire, l’esatta determinazione dei fines da loro sino a quel momento contestati. Infine, la controversia
prosegue anche davanti a L. Helvius Agrippa, che concede l’ennesima ed
ultima dilazione ma, scaduto il termine, caussa
cognita dispone senz’altro lo sgombero, minacciando nuovamente
l’animadversio.
La connessione, segnalata dallo Schipani[30],
tra questo provvedimento e la procedura interdittale, segnatamente quella degli
interdetti de vi e de vi armata, mi pare esatta. Se,
infatti, non si può escludere che, nelle vicende processuali antecedenti
alla decisione di Elvio Agrippa, si fossero intrecciate, al di fuori di un
rigoroso giudizio di priorità dell’una sull’altra, le vie
della tutela possessoria e di quella petitoria[31],
tenuto conto altresì del fatto che la sua pronuncia non viene mai
qualificata come sententia, laddove
quella, come vedremo analoga, di M. Iuventius Rixa è qualificata come edictum, e, quindi, come provvedimento
assunto nell’esercizio della iurisdictio,
il modello che il governatore sembra tener presente mi pare accostabile ad una
figura sincretistica tra l’interdictum
unde vi e il de vi armata: da un lato, infatti, non
v’è traccia dell’exceptio
vitiosae possessionis, che nel diritto classico connota comunque il primo
rimedio; dall’altro, non v’è nemmeno traccia di un
riferimento ad homines coacti armative,
che connota il secondo[32].
Due brevi considerazioni in merito potrebbero forse
contribuire a meglio configurare il problema, comunque destinato a rimanere
aperto.
Innanzitutto, non possiamo escludere che questa
forma di vis – vale a dire
quella, qualificata, del de vi armata
– fosse stata ritenuta implicita nella circostanza che lo spossessamento
violento, cui fa riferimento il governatore, era stato perpetrato non
già da un singolo individuo, ma da una collettività di persone,
i Galillenses, individuati nella loro
‘soggettività’. Questo gruppo rurale, infatti, era stanziato
nell’attuale Gerrei, ed aveva invaso le terre del basso Flumendosa,
spogliando della relativa possessio
la comunità dei Patulcenses,
agricoltori che sfruttavano la ricca fertilità di quei luoghi sin dalla
originaria determinazione dei rispettivi fines,
databile agli ultimi anni del II secolo a.C.: vi aveva proceduto, come
dimostrano le più recenti ricerche, proprio il M. Metello ricordato
nella fonte[33].
Per altro verso, la configurazione dell’ordine del proconsole potrebbe
far della nostra testimonianza un viatico assai antico verso la configurazione
dell’interdictum momentariae
possessionis: si tutelerebbe la momentaria
possessio pervasione violata cui farà riferimento CTh. 2.4.6 = C.
8.1.4 (a. 406).
Al riguardo, è tuttavia da dirsi che un
confronto eccessivamente dogmatico con i modelli processuali, classici
così come postclassici, a noi noti appare forse poco fruttuoso, non
tanto perché si tratta di un processo provinciale, ma soprattutto perché
lo stesso si è svolto in una provincia
particolare,
È, quindi, difficile pensare che i primi
proconsoli inviati a Carales, Cn. Cecilius Simplex e L. Helvius Agrippa
appunto, abbiano pensato di delineare forme e figure di provvedimenti,
nell’ambito della loro plenissima
iurisdictio[36],
meno ‘drastici’ di quelli che si può immaginare come
previgenti, tenuto conto, con ogni probabilità, dei rischi connessi con
le note difficoltà politiche che conseguivano alla successione di
Nerone, che imponevano un saldo controllo di una provincia tanto importante per ragioni strategiche ed economiche
quanto ‘difficile’[37].
Forse non a caso, del resto, l’eventuale mancata esecuzione della
pronuncia da parte della popolazione intimata è accompagnata dalla
prospettazione, come del resto già aveva fatto il prefetto, M. Iuventius
Rixa, di una repressione criminale, nelle forme notoriamente poco garantiste
dell’animadversio, non
più nei confronti degli auctores
seditionis, ma nei confronti della comunità collettivamente
considerata[38].
Tenuto conto, in questo particolare contesto
storico e politico, del già intervenuto accertamento dei confini, caussa cognita il governatore emana un
ordine di rentegrazione – reciperandae
possessionis – della popolazione dei Patulcenses, considerata evidentemente il soggetto vi deiectus: «Galillenses» – ordina il proconsole – «ex finibus Patulcensium Campanorum quos per vim occupaverint intra k.
Apriles primas decedant». Analoga configurazione, del resto, deve
ravvisarsi nell’edictum di M.
Iuventius Rixa, che aveva ordinato ai Galillenses
di quiescere (quanto presuppone, a
mio parere, una valutazione della vis
già in questa fase della vicenda[39]),
di praediis decedere e di vacuam possessionem tradere: «ut quiescerent» – aveva
intimato Rixa – «et rebus iudicatis starent et intra k.
Octobres primas de praediis Patulcensium decederent vacuamque possessionem
traderent».
Torniamo
ora alla rilevata connessione tra
In
tutto questo si assiste, quasi di conseguenza, ad una permeazione tra la
procedura extra ordinem e l’exemplum interdictorum: se, infatti, si
considera che l’iniziativa processuale in concreto davanti ad Elvio Agrippa era stata assunta, seppur
solamente ai fini di un ulteriore rinvio, dai Galillenses, vale a dire la parte intimata e, quindi, soccombente
(«ego quoque, aditus a
Galillensibus excusantibus quod nondum forma allata esset, in k. Februarias
quae proximae fuerunt spatium dederim et moram illis possessoribus intellegam
esse iucundam»), la duttilità della procedura adottata deve
aver consentito alla controparte, i Patulcenses,
di formulare a sua volta la richiesta di reintegra, o quanto meno di
insistervi: il provvedimento, insomma, sembra consentirci di presupporre non
solo un verosimile dipanarsi della procedura, specie se vista nella sua
globalità, in una successione di udienze davanti all’ufficio del
governatore[40],
ma altresì, e soprattutto, un qualcosa di analogo – non altro
– ad una sorta di ‘Widerklage’, con cui i Patulcenses si sarebbero opposti
all’ennesimo rinvio, ottenendo, contrariamente all’istanza della
controparte, piena tutela. Si tratta di una possibilità che sembra quasi
rappresentare una proiezione del modello del rapporto tra sponsio e restipulatio
che connota, sul piano dell’accertamento della legittimità
dell’ordine, la procedura interdittale classica a noi nota: anche da
questo punto di vista, quindi, è plausibile pensare che il processo sia
stato condotto dall’ufficio del proconsole con il rispetto dell’exemplum interdictorum all’interno
di uno schema processuale proprio della cognitio
extra ordinem.
In definitiva, quindi, che gli schemi processuali
propri delle controversie extra ordinem
accogliessero nel loro seno, nella prassi provinciale[41],
il modello degli interdicta,
quantunque previsti dall’ordo,
doveva essere una prospettiva da tempo consolidata a livello di prassi, che
come tale, del resto, sembra trattata dalla cancelleria dioclezianea nel
momento in cui la stessa la riconosce formalmente come praticabile. Tutto
questo, ad ogni modo, non significa riconoscere l’equiparazione tra
interdetti ed azioni: molto più semplicemente, gli interdetti rappresentano
un modello da seguirsi anche se l’azione è trattata come un
giudizio straordinario.
Ad ogni modo, difficilmente la soluzione di Diocl.
et Max. C. 8.1.3 può aver risolto definitivamente simili problemi;
semmai, ne deve aver posti di nuovi. Consideriamo, infatti, gli argomenti di
CTh. 2.4.6 = C. 8.1.4, nelle due redazioni pervenuteci:
Impp. Arc., Hon. et Theod.
AAA. Aemiliano p.u. CTh. 2.4.6 Si quis debiti, quod ex fenore vel mutuo data
pecunia sumpsit exordium vel ex alio quolibet titulo in litterarum obligationem
facta cautione translatum est seu fideicommissi dirigat actionem aut
momentariam possessionem pervasione violatam vel quodlibet interdictum
efflagitet seu inofficiosum arguat testamentum vel tutelae seu negotiorum
actionem intendat, ruptis denuntiationum ambagibus inter ipsa cognitionum
auspicia rationem exprimere ac suas allegationes iubeatur proponere,
denuntiatione et temporum observatione remota, quam in ceteris civilibus
causis, quarum tamen aestimatio centum solidorum summam excedat, volumus
custodiri (a. 406).
Impp.
Arc. et Hon. AA. Aemilio p.u. C. 8.1.4 Si quis quodlibet interdictum
efflagitet, ruptis veteribus ambagibus inter ipsa cognitionum auspicia rationem
exprimere ac suas adlegationes iubeatur proponere (a. 406).
La nostra costituzione, ‘massimata’ da
Giustiniano ma conservata in ben più ampia argomentazione dal Teodosiano[42],
mostra che sulla procedura interdittale la cancelleria aveva registrato –
venuti meno, con Costantino e Costante, gli schemi verbali del processo formulare[43]
– opacità ed anomalie: e tuttavia, ruptis denuntiationum ambagibus, l’attore deve
senz’altro esprimere la propria difesa inter ipsa cognitionum auspicia, proponendo in tale contesto le sue
allegationes. In questa prospettiva,
il legislatore mette sullo stesso piano il dirigere
actionem per un debitum, per un fideicommissum, per la momentaria possessio pervasione violata;
l’efflagitare quodlibet interdictum;
l’arguere inofficiosum testamentum;
l’intendere actionem negotiorum
gestorum e tutelae.
Sicché, se gli interdetti sono oggetto di un
efflagitare – vale a dire
richiedere con urgente necessità il provvedimento previsto dalla legge
– la procedura è la stessa delle ceterae causae: con l’abolizione del processo formulare, gli interdicta non sono più immediatamente
distinguibili, se non sul piano della loro storia, da qualsiasi altro rimedio
giurisdizionale, stante la tendenziale assimilazione delle regole procedurali.
Per chi convenga, a questo punto, sulla datazione pregiustinianea del De actionibus[44],
a questa grande linea di tendenza dovrà pure ascriversi il ricordo, in de act. 33 e 34, di specifici interdicta.
Resta ora da vedere se ed in quale misura gli interdicta, tra il V e il VI secolo,
possano o meno dirsi assimilati, da qualsiasi punto di vista, alle actiones, come ritiene la dottrina
tuttora dominante.
Occorre brevemente riesaminare, al riguardo, i
problemi posti dalla summa divisio
delle actiones che, secondo l’esposizione
di I. 4.6.1, è tra azioni in rem
ed azioni in personam. Si tratta,
invero, di una prospettiva di un certo interesse, ove si consideri che, nel
prosieguo della trattazione di I. 4.6, i commissari imperiali non affrontano
mai il tema della tutela interdittale, come invece ci saremmo attesi una volta
accolta, come è communis opinio
in dottrina, l’idea della perfetta riconduzione degli interdicta alle actiones nella cultura giustinianea.
Invero, almeno a mio avviso, le tracce di una vera
e propria parificazione tra actio ed interdictum, in questo contesto, sono
assai labili: oltre I. 4.15.8, da cui abbiamo preso le mosse, almeno a seguire
l’esposizione delle Istituzioni imperiali si può tener conto di
un’altra sola occorrenza. Dobbiamo, quindi, esaminare
I. 4.15 pr. Sequitur, ut
dispiciamus de interdictis seu actionibus, quae pro his exercentur. Erant autem
interdicta formae atque conceptiones verborum, quibus praetor aut iubebat
aliquid fieri aut fieri prohibebat. Quod tum maxime faciebat, cum de possessione
inter aliquos contendebatur.
Né qui, né in I. 4.15.8, almeno a mio
parere, le Istituzioni si esprimono nel senso che gli interdicta – di cui si ricorda l’originaria struttura
formulare – siano actiones:
molto più semplicemente, le fonti sinora esaminate depongono più
che altro per ritenere che gli interdicta
rappresentassero forme di tutela che, per la (come vedremo parziale)
identità dello svolgimento processuale, dovevano essere assimilate, sul
piano del rito, alle actiones.
Del resto Teofilo, parafrasando I. 4.15 pr., si
esprimeva affermando che, una volta esaminata la tematica delle ¢gwga…, delle
paragrafa…
e delle replicationes, è consequenziale discorrere anche degli interdicta, ½toi – prosegue l’antecessor – tîn
¢gwgîn, a†tinej e„j t£xin tîn interdíctwn
kinoàntai. Forme, quindi, che sul piano
espositivo non vengono discusse insieme con le ¢gwga…, ma risultano delineate brevemente in una
prospettiva che tende in una certa misura alla residualità, quasi
l’imponesse la completezza dell’informazione istituzionale, che
appare polarizzata sulle modalità della tutela possessoria, da
ritenersi, con ogni probabilità, il tema realmente a cuore nella
descrizione dell’istituto.
In altri termini, la cultura giuridica del VI
secolo prende atto del fatto che già ab
antiquo – e, quindi, ancora nella vigenza dell’ordo iudiciorum privatorum, come
testimonia Diocl. et Max. C. 8.1.3 nonché, a mio parere, i provvedimenti
documentati nella Tavola di Esterzili – l’exemplum interdictorum aveva fatto il suo ingresso
all’interno della procedura propria dei iudicia extraordinaria;
considerato, però, che nel 534 tutti i processi seguono ‘de
principe’ questo schema, risulta del tutto inutile discutere de ordine et veteri exitu interdictorum.
Risulta inutile, cioè, discutere dell’ordo e dell’exitus: del riferimento, cioè, all’ordo del ius antiquum, che creava problemi alla cancelleria dicolezianea,
costretta a precisare che il ricorso al rito dei iudicia extraordinaria non consentiva di derogare al modello della
procedura interdittale disciplinata dall’ordo; e dell’exitus,
vale a dire del provvedimento da adottarsi, ormai riconducibile ad un
provvedimento del giudice, seppur emesso, con ogni probabilità, a
seguito di una cognizione sommaria (summatim
cognoscere) che consente al suo interno quella verifica di
legittimità – affidata, nello schema classico, ad un procedimento
a sé stante – in cui emanazione e controllo dell’ordine non sono più distinguibili.
In definitiva, sul piano della genesi storica di
questa tutela avrebbe ragione il Collinet ad osservare che l’actio utilis giustinianea altro non
sarebbe se non l’esito della procedura formulare di accertamento di
legittimità dell’ordine pretorio, che avveniva con azione
arbitraria o per sponsionem[45];
questo non significa, tuttavia, equiparazione per omnia tra actio e interdictum, ma solo presa d’atto
di come quell’exemplum che
s’inseriva, ancora nella vigenza dell’ordo, nel iudicium
extraordinarium non sia più percepibile come tale, ma divenga un
procedimento ormai autonomo; procedimento che, peraltro, ha in sé la sua
storia, ostativa al riconoscerlo, ‘tout court’, come una vera e
propria actio.
Si comprende, quindi, come nel più maturo
contesto delle Isituzioni imperiali I. 4.15.8 escluda espressamente (non est necesse reddi interdictum…) che il giudizio presupponga, quale prius logico, un qualcosa di analogo
all’ordine magistratuale del ius
antiquum, quanto cioè il Betti riconduceva ad un «precetto amministrativo»[46],
seppur rilevante, a suo avviso, come una finzione nell’ottica delle
Istituzioni imperiali: come riconosceva il Bruns discutendo del nostro passo,
è da dirsi, piuttosto, che, specie a seguire l’andamento
complessivo del testo, l’azione utile è data al fine di ottenere
il provvedimento lato sensu
cautelare, non già per opporvisi (…sed perinde iudicatur sine interdictis)[47]. Per questa ragione, in definitiva, nel VI secolo
si giudica senza interdetti, come se in loro vece l’ordinamento avesse
previsto azioni utili ex causa interdicti,
dato che, quasi paradossalmente, non esiste una norma imperiale – a parte
i vari cenni che, nel Digesto come nelle Istituzioni, hanno evidentemente forza
di legge – che statuisca formalmente un’equiparazione.
Ma solo questa è la via, priva di una vera e
propria connotazione dogmatica, che porta gli antecessores – e, quindi, l’esposizione delle
Istituzioni imperiali – a considerare gli interdetti come assimilati ad actiones: per individuare la
‘via’ della giustizia cautelare, essi ricorrono alla storia e,
quindi, alla tradizione culturale e pratica dell’azione utile classica
per delineare la parziale sovrapponibilità del rito della procedura
interdittale – che comunque si connota, come si accennava, per alcune
peculiarità imposte dalla tendenziale funzione cautelare della tutela[48]
– a quello che governa lo
svolgimento dell’actio mota.
In definitiva, essi non sono riducibili in alcun
modo, sul piano dogmatico, alla summa
divisio tra azioni reali e azioni personali che esaurisce la categoria
delle azioni esaminata in I. 4.6. A questo proposito appare necessario
procedere ad un breve esame di un testo importante, confluito nel Digesto, che
confermerà con evidenza quanto sinora ipotizzato. Esaminiamo, quindi,
D. 43.1.1.3 (Ulp. 67 ad ed.):
interdicta omnia licet in rem videantur concepta, vi tamen ipsa personalia
sunt.
L’Albertario[49]
congetturava l’origine emblematica di questa frase, attribuita dai
compilatori ad Ulpiano. In realtà, nulla dimostra con certezza che la in rem conceptio cui fa riferimento il
passo rappresenti un’alterazione sostanziale dell’originaria
argomentazione del giurista.
Ciò non significa, tuttavia, che il testo
non ponga problemi. Se, infatti, il ricorso alla terminologia ‘concipere’ – basti pensare
alla contrapposizione tra certa verba
e concepta verba in Gai 4.29-30
– può costituire un indizio di classicità, rappresenta
indubbiamente un problema la riconoscibilità di un in rem concipere con riferimento alla struttura formulare dei
singoli ordini interdittali, che non sono riducibili allo schema formulare
delle azioni reali, connotate dall’indicazione, nell’intentio, della res oggetto del diritto senza indicazione del nome del convenuto,
che compare solo nella condemnatio.
La diversità, rispetto alla struttura delle vere e proprie actiones in rem, è dunque
autoevidente: il che ci impone l’arduo compito di dare un significato
all’espressione adoperata dal giurista, se vogliamo orientarci, come qui
si propone, in chiave tendenzialmente conservativa.
Al riguardo, si può osservare come
l’ordine pretorio classico risulti di volta in volta emanato non
già nei confronti del soggetto che sia parte di un rapporto giuridico
inteso come correlazione tra dovere e potere, ma di chiunque ponga in essere
una condotta incidente sulla materiale disponibilità una res, vietando od imponendo, in conseguenza, un
determinato comportamento (interdicta
omnia licet in rem videantur concepta…); allo stesso tempo,
l’emanazione dell’ordine espone l’intimato a specifiche
conseguenze coercitive, inconfigurabili a carico del convenuto in
un’azione reale (…vi tamen
ipsa personalia sunt).
Se ciò è vero, una prospettiva come
quella in esame, tutto sommato, sarebbe compatibile con una discussione che
presupponga l’attualità pratica – non solo didascalica[50]
– della conceptio verborum
formulare.
In definitiva, la configurazione
dell’interdetto, anche per un giurista classico, può ben apparire
in una certa misura ‘ibrida’ a fronte della distinzione, di per
sé classica, tra azioni reali e azioni personali adottata dai commissari
giustinianei, che ovviamente seguivano la summa
divisio delle actiones di Gai
4.1-3[51]
e, quindi, una tradizione culturale assai forte nell’esperienza romana[52].
Di qui, inoltre, l’improbabilità – non altro – che
essi inserissero espressamente ex novo
una precisazione che avrebbe finito per precludere qualsiasi possibilità
di classificare gli interdetti all’interno della dicotomia delle actiones di I. 4.6.1: appare,
cioè, più verosimile che gli ambienti culturali giustinianei, nel
corso dei lavori funzionali alla compilazione dei Digesta, abbiano trovato nei testi a loro disposizione questa
specifica indicazione, e che poi non l’abbiano soppressa perché
essa non costituiva, in ogni caso, una prospettiva in stridente contraddizione
con la sistematica che avrebbero successivamente delineato a livello di
esposizione degli elementa.
Per concludere sul punto, sia o meno classico
questo tratto del libro LXVII dell’ad
edictum, in cui forse si può ravvisare, al più, la
rielaborazione di un’idea classica con il ricorso alla terminologia
– verosimilmente giustinianea – denunziata dall’Albertario[53],
è chiaro che la scelta dei compilatori delle Istituzioni di non trattare
degli interdicta tra le actiones – e, quindi, in I. 4.6
– si giustifica nell’ambito di una ben precisa difficoltà
dogmatica, quale è l’impossibilità, chiara nel passo in
esame, di ricondurli alle due grandi categorie concettuali in cui si risolve la
dicotomia delle actiones intese
– siano esse, almeno nell’ottica degli antecessores, personali o reali, quantunque ciò crei
all’interprete attuale una certa difficoltà[54]
– come ius persequendi iudicio quod
sibi debetur (I. 4.6 pr.).
In altri termini, anche se il rito è ormai
lo stesso dell’actio, gli
interdetti non sono né azioni reali, né azioni personali: o
meglio, per la struttura sono reali, per la vis
sono personali. Il che, evidentemente, non risolveva il problema; sicché
l’aver conservato questo testo, se classico, o l’averlo inserito ex novo sarebbe, per la cultura
giustinianea, indifferente. Sul piano tecnico, il rito che governa actio e interdictum è, almeno per grandi linee, il medesimo; sul
piano dogmatico, però, l’interdictum
non è classificabile tra le actiones:
ed in questo le Istituzioni non contraddicono affatto D. 43.1.1.3, ma
ciò non prova a favore dell’interpolazione.
Quasi per corollario, a questo punto, gli
interdetti non rientrano nella summa
divisio di I. 4.6.1[55],
ma ne hanno una propria, che si risolve in una tricotomia: I. 4.15.1 afferma,
infatti, che la summa divisio
interdictorum – distinta, quindi, dalla summa divisio delle actiones
– è nel senso che aut
prohibitoria sunt aut restitutoria aut exhibitoria.
In quest’ordine di idee, tuttavia, dobbiamo
pur sempre giustificare la problematica assimilazione di I. 4.15.8 che, non
dimentichiamolo, si muove in una logica espositiva che non equipara nella
realtà le due categorie di rimedi, ma afferma, piuttosto, che si procede
sine interdictis come se la legge
avesse previsto, in luogo di essi, un’azione utile ex causa interdicti: quanto, in definitiva, appare compendiato
nell’inscriptio – di cui
mi pare veramente supervacuum
discutere sulla possibilità o meno di un’interpolazione, dato che
tutte le inscriptiones dei tituli del Digesto sono interamente
dovute ai compilatori[56]
– del titolo di D. 43.3, de
interdictis sive extraordinariis actionibus, quae pro his competunt.
Al riguardo, una specifica giustificazione pratica,
come abbiamo avuto modo di accennare a proposito della lettura teofilina di I.
4.15.8, sembra riscontrabile nell’ambito del più ampio problema
dell’editio actionis, che sembra
implicare, come ora immediatamente vedremo, una ben precisa radice classica.
Consideriamo, infatti,
D. 44.7.37 pr.-1 (Ulp. 4 ad
ed.) Actionis verbo continetur in rem, in personam: directa, utilis:
praeiudicium, sicut ait Pomponius: stipulationes etiam, quae praetoriae sunt,
quia actionum instar obtinent, ut damni infecti, legatorum et si quae similes
sunt. Interdicta quoque actionis verbo continentur. (1) Mixtae sunt actiones,
in quibus uterque actor est, ut puta finium regundorum, familiae erciscundae,
communi dividundo, interdictum uti possidetis, utrubi.
Questo passo, tratto dal commentario ulpianeo alla
rubrica edittale de edendo[57],
è in parte sospettato dall’Albertario.
E tuttavia, non si può esser certi
dell’atetesi suggerita da questo Autore, secondo il quale sarebbe
interpolato il tratto interdicta quoque
– continentur nel § 37 pr. nonché il riferimento
all’interdictum uti possidetis e
utrubi nel successivo: al riguardo,
sarebbe significativo, a Suo avviso, lo «spostamento» operato dai compilatori –
dal titolo D. 13.1 de edendo al
titolo D. 44.7 de obligationibus et
actionibus, indice di generalizzazione – così come la
terminologia ‘edere interdictum’
per ‘reddere interdictum’[58].
Pur non potendosi negare il verosimile intendimento
sistematico dei compilatori, l’argomentazione, che evidentemente si fonda
su indici meramente formali, non sembra decisiva. Se classico, infatti, il
testo non affermerebbe affatto l’equiparazione dell’actio all’interdictum: molto più semplicemente, come già
suggeriva il Gandolfi[59],
Ulpiano si limiterebbe a chiarire che il termine ‘actio’ con cui si designano, dal punto di vista dell’edere, le singole forme di tutela
promesse nell’editto, si deve intendere anche l’interdictum. Se, cioè, qua quisque actione agere volet, eam edere
debet[60],
chi chiede l’interdictum ha
l’onere di indicare alla controparte i dati essenziali che consentano
l’instaurazione di un adeguato contraddittorio in iure, strumentale alle scelte difensive previste
dall’ordinamento. Da questo (limitato e particolare) punto di vista,
insomma, non vi sarebbe alcuna differenza tra le vere e proprie actiones, gli interdicta e le stipulazioni pretorie.
Se a questo punto si passa all’esame del
§ 37.1, non può che sorgere un’ulteriore aporia, che si
aggiunge alle altre già evidenziate nella prima parte della ricerca.
Come mai, infatti, l’esposizione delle Istituzioni imperiali sulla
categoria dell’actio con causa mixta non ricorda l’interdictum uti possidetis e l’utrubi, che figurano nel passo del
Digesto? Consideriamo, al riguardo,
I. 4.6.20 Quaedam actiones
mixtam causam optinere videntur tam in rem quam in personam. Qualis est
familiae erciscundae actio, quae competit coheredibus de dividenda hereditate:
item communi dividundo, quae inter eos redditur, inter quos aliquid commune
est, ut id dividatur: item finium regundorum, quae inter eos agitur qui
confines agros habent. In quibus tribus iudiciis permittitur iudici rem alicui
ex litigatoribus ex bono et aequo adiudicare et, si unius pars praegravari
videbitur, eum invicem certa pecunia alteri condemnare.
L’Albertario non procedeva, come credo invece
si debba, a confrontare I. 4.6.20 con D. 44.7.37.1, ed espungeva di
conseguenza, come si è detto, il riferimento ai due interdicta indicati nel passo del Digesto[61].
Innanzitutto, tra le due impostazioni sembra
differente, ad una prima ricognizione, il modo di pensare lo schema concettuale
dell’actio mixta: per il testo
del Digesto, sono mixtae le azioni in quibus uterque actor est; per le
Istituzioni, hanno mixta causa le azioni
che si configurano tam in rem quam in
personam, sicché da questo punto di vista l’opzione presuppone
comunque la summa divisio di I.
4.6.1, che rileva sul piano della coesistenza, in un solo rimedio,
dell’uno come dell’altro elemento caratterizzante i due genera actionum. In quest’ottica,
peraltro, l’esposizione delle Istituzioni – da tenersi distinta da
quella sul problema dello scopo pratico del rimedio, di cui si parla in I.
4.6.18 – era incentrata sul rapporto tra adiudicare e condemnare;
e, tenuto conto di questa angolazione, non ravviserei un abisso tra le due
letture.
Se, cioè, a seguire D. 44.7.37.1, chi
è attore rispetto alla res
è anche convenuto necessario e predeterminato dallo specifico rapporto
che connota la fattispecie, e viceversa, sicché l’uno e
l’altro sono attori (e, quindi, convenuti), questa peculiarità
semplicemente si risolve, nelle Istituzioni, nel rapporto tra il rem alicui adiudicare, in cui si ravvisa
il (mixtam) causam optinere in rem, e l’invicem certam pecunia alteri condemnare, in cui si ravvisa il (mixtam) causam optinere in personam. Insomma, il Digesto e le Istituzioni
esaminano la medesima problematica, seppur da un diverso punto
d’osservazione.
In secondo luogo, appare evidente un dato a mio
avviso alquanto significativo: le Istituzioni leggono la mixta causa in tre specifiche actiones
(le prime tre indicate nel passo attribuito ad Ulpiano), non anche nei due
interdetti richiamati nel § 37.1. Sarebbe singolare, a questo punto,
pensare che il riferimento all’uti
possidetis ed all’utrubi
sia frutto di un’interpolazione del discorso di Ulpiano, specie se si
considera che i primi tre rimedi sono qualificati come actiones, gli ultimi due sono un interdictum, senza che ciò vada a contraddire
l’impostazione che emerge nel § 37 pr., in cui, limitatamente
all’edere, il termine actio comprende l’azione in rem e in personam; quella directa e
quella utilis; il praeiudicium; le
stipulationes praetoriae; gli interdicta.
In realtà, quindi, non sembra assurdo
pensare che anche il § 37.1 possa essere classico, e che, sempre
nell’ottica della struttura formulare, Ulpiano pensasse non solo ai tre iudicia tenuti presenti dalle
Istituzioni imperiali, ma anche ai due interdetti duplici, in cui
l’ordine del magistrato giusdicente – cioè il ‘vim fieri veto’ – si
rivolgeva, come noto, ad entrambi i contendenti, sicché uterque actor est.
L’ulteriore aporia, a questo punto, è
evidente: se nel VI secolo l’attore doveva definire actionem dichiarando nel libellus – a voler esemplificare seguendo una delle ipotesi
fatte in D. 44.7.37.1 – «Ðr…zomai
kat£ sou utilian ¢gwg¾n æj ¢pÕ toà ‘uti possidetis’ interdictu», la
prospettiva che il Digesto offriva ben avrebbe potuto rappresentare
l’occasione per discutere di interdicta
nel titolo de actionibus; e
tuttavia, il manuale preferisce limitare la categoria di queste azioni,
considerate allo stesso tempo in rem
e in personam, ai tre rimedi
costituiti dalla finium regundorum e
dai due giudizi divisori, la familiae
erciscundae e la communi dividundo.
Nemmeno questo profilo, evidentemente, consentiva alla ‘Geistesart’
giustinianea di superare la difficoltà dogmatica posta dalla summa divisio tra azioni in rem ed azioni in personam, anche perché, in fin dei conti, mentre i tre iudicia di I. 4.6.20 sono allo stesso tempo
in rem e in personam, D. 43.1.1.3 stabiliva piuttosto, per gli interdicta, un principio diverso, dato
che interdicta omnia licet in rem
videantur concepta, vi tamen ipsa personalia sunt: non si tratta,
cioè, di rimedi in cui coesistono i momenti caratterizzanti i due genera actionum (che, infatti, in I.
4.6.20 vengono poi autonomamente individuati, pur se nella loro concomitanza,
nel rapporto tra adiudicare / condemnare),
ma di un vero e proprio ‘ibrido’, che ha la struttura
dell’azione reale, ma la forza di quella personale.
I presupposti per un’equiparazione puramente
pratica tra actio e interdictum, dal punto di vista
meramente procedurale, troverebbero a questo punto un nucleo già nella
riflessione classica, formatasi sui dati tecnici del processo formulare: se
l’edere riguardava allo stesso
modo qualsiasi forma di tutela concessa dal magistrato giusdicente, nella
procedura giustinianea l’identità di rito impone
l’identificazione della tutela anche ove si ricorra ad un interdictum, che quindi va qualificato
in base ai nomina iuris del ius antiquum. Nel definire actionem,
dunque, l’attore deve indicare la causa
della sua pretesa, la ‘via’ della giustizia, che si risolve di
necessità in un’actio ex
causa interdicti; actio che viene
qualificata come ‘utilis’,
pur senza una ben precisa consapevolezza concettuale.
E tuttavia, di qui all’equiparazione
dogmatica dell’azione all’interdetto, alla quale probabilmente
l’esperienza giuridica romana non giunse mai, il passo è forse
troppo lungo. Nelle Istituzioni imperiali, la trattazione delle actiones non contempla, come abbiamo
più volte rilevato, la procedura interdittale: l’equiparazione ha
valenza meramente terminologica, come già probabilmente l’aveva
per i giuristi del III secolo, ed è conseguenza, tra il V e il VI
secolo, di un dato di rilevanza puramente pratica. Mi riferisco alla
circostanza che l’interdetto rappresenta semplicemente un exemplum da seguirsi pur
all’interno di processi condotti con il ‘nuovo rito’: la
cancelleria dioclezianea, pur riconoscendo come l’interdictum fosse una tutela prevista dall’ordo, prescriveva che il suo modello
fosse seguito anche ove la res fosse trattata con il ricorso alle più
duttili forme delle cognitiones
classiche, lasciando quindi ad un giudice, funzionario imperiale,
l’intera cognizione della lite, sia possessoria sia petitoria.
In definitiva, la contrapposizione netta suggerita
dall’Albertario, tuttora seguita dalla dottrina maggioritaria, può
essere condivisa solo in parte, nel senso che il problema appare articolarsi in
una pluralità di prospettive culturali e pratiche difficilmente
riconducibili ad una sequenza storica così lineare. È difficile,
cioè, che abbia un reale fondamento l’idea secondo cui il diritto
classico avrebbe sistematicamente ed in qualsiasi contesto contrapposto le actiones agli interdicta, mentre il diritto giustinianeo avrebbe attratto questi
ultimi nell’area concettuale e pratica delle prime.
Se è vero, infatti, che nel diritto della
Compilazione gli interdicta rientrano
nell’ambito della nozione (procedurale) dell’actio mota e, quindi, la loro mobilitazione si risolve nel rapporto
tra kine‹n ed ™ggumn£zein
(Theoph. 4.15 pr. e 4.15.8)[62],
sul piano dogmatico non emerge alcuna prova di una sovrapposizione tra actio ed interdictum da questo specifico punto di vista: anzi,
l’esposizione istituzionale mostra chiaramente che le due tipologie di
tutela erano concettualmente distinte e davano luogo, quasi di conseguenza, ad
autonomi procedimenti classificatori.
In quest’ordine di idee, non può
dirsi, quindi, che l’interdictum
sia – come l’actio
– un ius persequendi iudicio quod
sibi debetur, come si legge nella definizione di I. 4.6 pr. che, almeno
nell’ottica giustinianea, tende a riferirsi tanto alle azioni personali
quanto a quelle reali; il che è come dire, sul piano sostanziale, che il
possesso, per la cui tutela esisteva, in ultima analisi, la procedura
interdittale, rimane nettamente distinto dalla proprietà, un ius inteso in senso soggettivo: per
tutelare una situazione possessoria, si mobilita un’actio utilis ex causa interdicti, che evidentemente non può
considerarsi né actio in rem, né actio in personam ed è concettualmente estrinseca tanto alla
definizione di I. 4.6 pr. quanto all’intera trattazione delle actiones, che su quella dicotomia si
basa; per tutelare la proprietà, la rei
vindicatio o
In buona sostanza, nel VI secolo la relativa
identità procedurale rappresenta un denominatore comune alle due
tipologie di tutela, evidentemente estrinseco, però,
all’impostazione della questione sul piano delle categorie concettuali:
assimilazione sotto alcuni profili che, ad ogni modo, doveva avere radici
sufficientemente solide tanto nell’esperienza classica, quanto in quella
postclassica. La storia, da questo punto di vista, non sembra mostrare quelle
nette cesure che la dottrina facente capo all’Albertario ritiene di poter
individuare.
Da un primo punto di vista, infatti, niente
consente di escludere che già Ulpiano tendesse ad interpretare il
termine actio in un’ottica
generalizzante per quanto concerne il limitato e specifico problema della
disciplina dell’edere actionem,
che, nel caso degli interdicta, era
connotata dal fatto che la conceptio verborum
formulare, percepita probabilmente come in qualche modo analoga al modello
delle formulae delle azioni in rem, implicava poi la vis delle azioni in personam.
Da un secondo punto di vista, quindi, si assiste ad
un’ulteriore evoluzione pratico-applicativa del problema dell’edere actionem, nel senso che la
cancelleria imperiale, tra il III e il IV secolo, ha ben presente che la
procedura interdittale è riconducibile all’ordo e, quindi, alla forma
edicti perpetui; e tuttavia, ammette – formalizzando con forza di
legge, con ogni probabilità, una prassi provinciale – che gli
interdetti, una volta mobilitati con il ricorso alla cognitio, dovessero pur
sempre rappresentare un exemplum
inderogabile, quanto implica l’immediata ricaduta pratica della
priorità della decisione sulla quaestio
possessionis rispetto alla pretesa petitoria (C. 8.1.3).
Venuto meno formalmente, nel 342, il processo
formulare, a seguito della sostanziale decadenza di quei meccanismi di tutela,
la cui inadeguatezza alle esigenze economico-sociali doveva essere fortemente
sentita da tempo, l’equiparazione in rito è tendenzialmente
completa, pur nella peculiarità del summatim
cognoscere che connota la procedura. Tra il IV e il V secolo, e cioè
quando si delinea, come si accennava, una tendenziale commistione tra giudizio
petitorio e giudizio possessorio, si pongono le basi per la configurazione di
regole procedurali funzionali ad un qualcosa di assai vicino all’attuale
procedura cautelare, che sembra delineare la funzione pratica del ricorso allo
schema dell’actio utilis ex causa
interdicti giustinianea: non sarà superfluo, in quest’ordine
di idee così fortemente condizionato dall’immanenza del rito,
evidenziare come, in fin dei conti, questa logica appaia pienamente compatibile
con una grande linea di tendenza verso un’evoluzione della concezione
dell’azione in senso processuale; evoluzione, questa, che se non giunge a
sovvertire l’idea classica dell’azione in senso materiale, consente
pur sempre di riconoscere come, nell’esperienza processuale del VI
secolo, i percorsi delle vie della giustizia siano, innanzitutto, un problema
processuale, con tutto quel che ne consegue dal punto di vista del tormentato
rapporto tra potere di agere e
instaurazione del processo.
*
Relazione presentata nel Convegno “Principi generali e tecniche operative
del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C”, Parma, 18-19 luglio 2009.
[1] La cui
definitiva configurazione è ora confluita nel IV volume degli Studi: cfr. E. Albertario, ‘Actiones’
e ‘interdicta’, in Studi
di diritto romano, IV, Eredità
e processo, Milano, 1946, 117 ss. (cfr. già Contributi allo studio della procedura civile giustinianea: 1.
‘Actiones’ e ‘interdicta’, in RISG, LII, 1912, 13 ss., a sua volta rielaborazione di una nota
esegetica, ‘Actio’ e ‘interdictum’,
edita a Pavia nel 1911, cui non mi è stato possibile accedere). La
letteratura formatasi nel XIX secolo sul problema degli interdicta è indicata da L. Capogrossi Colognesi, voce Interdetti, in Enc. dir.,
XXI, Milano, 1971, 927 s., e discussa via via nel corso della trattazione
dell’Autore.
[2] ‘Notae ad lib. XLIII, tit. I,
Dig.’ (in J. Cuiacii
‘Opera omnia’, II, editio
altera Pratensis, 1859, col. 643); ‘Paratitla
in lib. XLIII, tit. I, Dig.’ (ivi, col. 491).
[3] K.R. von Czyhlarz, Lehrbuch der Institutionen des römischen Rechtes, XI-XII ed.,
Wien-Leipzig, 1911, 384; cfr. E. Albertario,
‘Actiones’, cit., 119.
[4] D.
3.3.35.2 (Ulp. 9 ad ed.); D. 3.3.39
pr. (Ulp. 9 ad ed.); D. 8.5.6.1 (Ulp.
17 ad ed.); D. 8.6.25 (Paul. 5 sent.); D. 43.4.3.2 (Ulp. 68 ad ed.); D. 43.16.1.32 (Ulp. 69 ad ed.); D. 43.16.1.48 (Ulp. 69 ad ed.); D. 43.17.1.4 (Ulp. 69 ad ed.); D. 44.2.14.3 (Pomp. 31 ad Sab.): cfr. il primo § dello
studio di E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 117 s.
[5] Cfr.,
in particolare, secondo questa ricostruzione (E. Albertario, ‘Actiones’,
cit., 123 ss., limitandoci al § 4 dello studio dell’Autore), D.
9.2.43 (Pomp. 19 ad Sab.); D.
42.2.6.2 (Ulp. 5 de omn. trib.); D.
43.18.1 pr. (Ulp. 70 ad ed.); D.
4.7.3.2 (Gai. 4 ad ed. prov.); D.
12.2.3.1 (Ulp. 22 ad ed.); D. 44.7.35
pr. (Paul. 1 ad ed.); D. 5.3.40.2-4
(Paul. 20 ad ed.); D. 39.2.18.15
(Paul. 48 ad ed.); D. 19.1.13.12
(Ulp. 32 ad ed.); D. 43.24.22 pr.
(Ven. 2 interd.); D. 43.24.15.2 (Ulp.
71 ad ed.); D. 44.7.9 (Paul. 9 ad Sab.); D. 43.24.13.1 (Ulp. 71 ad ed.); D. 43.24.3 pr. (Ulp. 71 ad ed.); D. 43.24.5.11-12 (Ulp. 71 ad ed.); D. 18.2.4.4 (Ulp. 28 ad ed.); D. 43.24.11.10 (Ulp. 71 ad ed.); D. 7.1.13.2 (Ulp. 18 ad Sab.); D. 19.1.7.1 (Pomp. 5 ad Sab.); D. 43.8.39.2 (Ulp. 68 ad ed.); D. 3.3.40 pr. (Ulp. 9 ad ed.); Arc. et Hon. C. 8.2.3. In
particolare, l’Autore (E. Albertario,
op. cit., 143 ss.) riteneva alterati
alcuni testi (ritenuti dallo studioso di centrale importanza) che, tuttavia,
come vedremo, sono probabilmente classici: cfr. D. 44.7.37 pr.-1 (Ulp. 4 ad ed.), su cui l’Albertario si
soffermava nel § 5, e D.
43.1.1.3 (Ulp. 67 ad ed.), indagato
nel § 6. Di entrambi avremo modo di discutere nel prosieguo della ricerca.
[6] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 119 ss., criticava, in particolare,
O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II, Leipzig, 1901, 1001, nt. 2; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, II, Firenze, 1908, 31 e 74; G.F. Puchta, Cursus der Institutionen, nach dem Tode des Verfassers beforgt von
P. Krüger, X ed., I, Leipzig, 1893, 508 ss. e 571.
[7] O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’. Ein
Versuch zu seiner Wiederherstellung3, Leipzig, 1927, 476 s.
[9] Con
riferimento, in particolare, a A. Berger,
voce ‘Interdictum’, in RE, IX, Stuttgart, 1916, 1611 s.; E. Costa, Profilo storico del processo civile romano, Roma, 1918, 112 s.; B. Biondi, ‘Summatim cognoscere’, in BIDR, XXX, 1921, 252, nt. 2; S. Perozzi,
Istituzioni di diritto romano2,
II, Roma, 1928, 102; F. De Martino,
La giurisdizione nel diritto romano,
Padova, 1937, 234 s.; L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana,
tradotte da R. Orestano sull’ed. tedesca interamente riveduta e ampliata
dall’Autore, Milano, 1938, 326 e nt. 42, dove si parla, in adesione alla
dottrina dell’Albertario, di «equiparazione giustinianea di
interdetto e actio»; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, X ed. (rist. corr.
dell’edizione di Torino, 1946, a cura di G. Bonfante e G. Crifò,
con una prefazione di E. Albertario e una nota di G. Crifò), Milano,
1987, 112. Sul punto, cfr. anche A. Biscardi,
La protezione interdittale nel processo
romano, Padova, 1938, 16 e nt. 5; S. Riccobono,
‘Interdictum’ –
‘Actio’. Ulp. LXIX ad Ed. fr. 1 § 4-9 D. 3,17 – Gai.
IV, 155, in Festschrift
P. Koschaker, II, Weimar, 1939, 373 e 380 s.
[10] Cfr. essenzialmente P. Collinet,
La nature des actions des interdits et
des exceptions dans l’œuvre de Justinien, Paris, 1947, 479 ss.; J. de Malafosse, L’interdit ‘momentariae possessionis’. Contribution
à l’histoire de la protection possessoire en droit romain, Toulouse, 1947 (rist.: Roma, 1967), 75
s.; G.I. Luzzatto, Il problema d’origine del processo
‘extra ordinem’, I, Premesse
di metodo. I cosiddetti rimedi pretori, Bologna, 1965, 143 s.; G. Provera, Lezioni sul
processo civile giustinianeo, I-II, Torino, 1989, 427 ss., in particolare
450 s. e 472 s., sino alla recente esposizione di
M. Kaser, K. Hackl, Das römische
Zivilprozeßrecht, 2a ed., München, 1996, 637 s. Per uno sguardo alla communis
opinio nella manualistica, cfr. quindi V. Arangio-Ruiz,
Istituzioni di diritto romano, 14a
ed., Napoli, 1960, 157; E. Volterra,
Istituzioni di diritto privato romano,
Roma, rist. anast. 1993, 264; G. Pugliese,
con la collaborazione di F. Sitzia e L. Vacca, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., Torino, 1991, 791 s.
[11] Cfr.,
del resto, la prudente posizione assunta nella ricerca di L. Solidoro Maruotti, La tutela del possesso in età costantiniana, Napoli, 1998,
127 s.
[12] E. Albertario,
‘Actiones’, cit., 118 s.;
M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, cit., 638 e nt. 17.
[15] Si
pensi, ad esempio, alla riforma giustinianea della donazione obbligatoria (Imp.
Iustinianus A. Iuliano pp. C. 8.53.35.5-5e, a. 530, tenuta presente in I.
2.7.2, su cui cfr. l’analisi di R. Lambertini,
I. 2.7.2: un problematico raccordo tra
effetti della donazione e della compravendita in diritto giustinianeo, in Labeo, XLIX, 2003, 72 ss., nonché
Id., In tema di ‘iusta causa traditionis’, in ‘Fides’
‘Humanitas’ ‘Ius’. Studii in onore di L. Labruna,
IV, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 2752 ss.), oppure, sempre
a titolo esemplificativo, alla riforma giustinianea in tema di foolrma del
documento (Imp. Iustinianus A. Menae pp. C. 4.21.17, a. 528, tenuta presente in
I. 3.23 pr., su cui cfr., per tutti, M. Talamanca,
voce Vendita, I. - Vendita in generale, a) diritto romano, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 467 ss., in particolare 469 ss.).
[19] G. Falcone, Ricerche sull’origine dell’interdetto ‘uti
possidetis’, in AUPA, XLIV,
1996, 115 s., in adesione a E. Albertario,
‘Actiones’, cit., 115
ss., in particolare 152 e G. Segré,
Studi sul concetto del negozio giuridico
nel diritto romano e nel nuovo diritto germanico, in Scritti giuridici raccolti per iniziativa di colleghi e discepoli in
occasione del XL anno d’insegnamento dell’Autore, I, Roma,
1930, 255, nt. 1.
[20]
Così, a mio avviso esattamente, altra parte della dottrina: cfr. L. Solidoro Maruotti, La tutela, cit., 129 e nt. 46; L. Capogrossi
Colognesi, voce Interdetti,
cit., 920 s. e nt. 90; A. Berger,
voce ‘Interdictum’, cit.,
1704.
[21] Impp. Constant. et Constans AA. Marcellino praesidi
Phoenice C. 2.57(58).1 Iuris formulae
aucupatione syllabarum insidiantes cunctorum actibus radicitus amputentur
(a. 342).
[22] La
logica della cancelleria dioclezianea or ora evidenziata trova altri riscontri
nel medesimo àmbito culturale e pratico, vale a dire gli anni 293-294:
cfr. le fonti indicate da L. Capogrossi
Colognesi, voce Interdetti,
cit., 920, nt. 90, vale a dire Impp. Diocl.
et Max. AA et CC. Latinae C. 8.3.1.1 (a. 293); Idem AA. et CC. Marco C. 8.2.2.
(a. 294); Idem AA. et CC. Alexandro C. 8.4.2 (a. 293); Idem AA. et CC. Hygino
C. 8.4.4 (a. 294); Idem AA. et CC. Hermiano et Hermippo C. 4.49.17 (a. 294?). Sul
punto, cfr. anche A. Berger, voce
‘Interdictum’, cit., 170.
In una diversa prospettiva d’indagine, su C. 8.1.3 cfr. altresì,
esattamente, F. Zuccotti,
Sulla tutela processuale delle
servitù cosiddette pretorie, in Atti del Convegno su «Processo civile e processo penale nell’esperienza
giuridica del mondo antico» in memoria di A. Biscardi (Siena, Certosa di
Pontignano, 13-15 dicembre 2001), in Collana
della RDR,
http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/attipontignanozuccotti.pdf, 168 e
nt. 293.
[23] La
testimonianza di I. 4.15.8 è stata esaminata, in questa prospettiva,
nella relazione di N. Palazzolo, Dalle ‘cognitiones’ alla
‘cognitio’: principe e giuristi verso la costruzione del nuovo
sistema processuale, tenuta in occasione del Convegno internazionale di
diritto romano di Copanello, I Tribunali
dell’Impero (7-10 giugno 2006), di cui tuttavia si attende la
pubblicazione dei relativi atti.
[25] Impp. Valer. et Gall. AA. Messiae C. 8.1.2 Praeses provinciae in eum, qui eiusdem
provinciae non est, nec ex interdicto potest cognoscere (a. 260);
l’anno successivo al rescriptum
in esame – vale a dire C. 8.1.3 – si esprime in questi termini
anche Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. Cyrillo C. 8.6.1 Uti possidetis fundum de quo agitur, cum ab altero nec vi nec clam nec
precario possidetis, rector provinciae vim fieri prohibebit ac satisdatationis
vel transferendae possessionis edicti perpetui forma servata de proprietate
cognoscet (a. 294).
[26] CIL, X, 7852 = FIRA, I2, n. 59; trascrivo e seguo qui, tuttavia, la recente
riedizione proposta da E. Cadoni,
La ‘Tabula’ bronzea di
Esterzili (CIL X, 7852), in
[27] In
merito, cfr. S. Schipani, La repressione della ‘vis’ nella
sentenza di L. Helvius Agrippa del 69 d.C. (Tavola di Esterzili), in
[28] Ma la
questione è oggi riaperta, con interessanti argomenti, alla luce
dell’interessante analisi di M. Marrone,
Contributo allo studio della motivazione
della sentenza nel diritto romano, in Mélanges
en l’honneur de C.A. Cannata, Bâle - Genève - Munich,
1999, 53 ss., in particolare 64 s., nonché Id., Su struttura delle
sentenze, motivazione e “precedenti” nel processo privato romano,
in BIDR, C, 1997 (ma 2003), 37 ss.,
con altra letteratura.
[29] Il
fatto che la fonte attribuisca soggettività a due gruppi rurali che non
sono civitates Romanae (Galillenses e Patulcenses non sono né municipia
né coloniae; su questi
problemi, mi limito ad un rinvio a R. Orestano,
Il “problema delle persone
giuridiche” in diritto romano, I, Torino, 1968, 101 ss.,
nonché a M. Talamanca, Istituzioni, cit., 180), ma civitates Barbariae («si
trattava» – scrive P. Meloni,
La Sardegna, cit., 159 s. –
«di comunità non cittadine, ma sulla base di una struttura di tipo
tribale, probabilmente con un rudimento di organizzazione amministrativa che
consentisse, in qualche modo, di disciplinare l’uso delle terre comuni»:
cfr. peraltro Id., op. cit., amplius 155 ss.; le ipotesi in ordine alle opzioni amministrative
adottate in merito da Roma sono tuttavia, per stessa ammissione
dell’Autore, largamente congetturali) appare di grande interesse. Esse,
evidentemente, potevano agire e resistere in giudizio, probabilmente per il
tramite di un actor
(possibilità attestata, come noto, per municipes e coloni: cfr. G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni, cit., 424).
[31] S. Schipani, La repressione, cit., 137 ss. La tutela petitoria poteva essere
l’actio finium regundorum (che
questo Autore ipotizza nel procedimento davanti a Cn. Caecilius Simplex: ivi,
140; io penserei a M. Iuventius Rixa); per una vicenda analoga, avvenuta in
Corsica e risolta dalla cancelleria di Vespasiano, cfr. R. Zucca,
[33] Per
queste informazioni, cfr. in generale P. Meloni,
La Sardegna, cit., 159-164, con ampia
letteratura; in particolare, A. Boninu,
Per una riedizione della Tavola di
Esterzili (CIL X, 7852), in
[35] Per la
ricostruzione storica, cfr. ancora P. Meloni,
La Sardegna, cit., 139 ss., in
particolare 143 ss.
[36] D.
1.16.7.2 (Ulp. 2 de off. proc.), su
cui cfr. D. Mantovani, Il ‘bonus praeses’ secondo
Ulpiano. Studi su contenuto e forma del ‘de officio proconsulis’ di
Ulpiano, in BIDR, XCVI-XVII,
1993-1994, 244 ss. e, più di recente, C.M. Doria, Tribunali e ordinamento
territoriale: prospettive provinciali (relazione tenuta in occasione del
Convegno internazionale di diritto romano di Copanello, I Tribunali dell’Impero [7-10 giugno 2006], di cui si
attende, tuttavia, la pubblicazione dei relativi atti). Per un quadro
istituzionale del governo provinciale, cfr. A.
Masi, M. Mazza, L’amministrazione
delle province, in Lineamenti di
storia del diritto romano, 2a ed., sotto la direzione di M. Talamanca,
Milano, 1989, 487 ss.; sull’imperium
magistratuale e l’editto provinciale, F.
Càssola, L. Labruna, L’ordinamento
delle province, ivi, 268; M. Talamanca,
Le costituzioni imperiali nel sistema
normativo del principato. Il ‘ius extraordinarium’ e la
‘cognitio extra ordinem’, ivi, 424 (l’Autore escludeva la
possibilità di accertare se l’editto provinciale sia stato
‘codificato’ ai tempi dell’imperatore Adriano come avvenne
per l’editto del pretore urbano e quello degli edili curuli).
[37]
«Certo» – scrive, al riguardo, P. Meloni, La Sardegna,
cit., 144 – «non doveva allettare l’autorità imperiale
l’idea che un governatore di rango senatorio fosse a capo di una
provincia così vicina all’Italia e così ricca di risorse
granarie da far nutrire eventuali sogni di rivolte e di usurpazioni. Può
essere interessante ricordare che agli inizi del 69, durante la lotta tra
Otone, da poco proclamato imperatore, e Vitellio, che gli contendeva il potere,
[38]
«Quod si huic pronuntiationi non
optemperaverint, sciant se longae contumaciae et iam saepe denuntiatae
animadversioni obnoxios futuros», ammoniva L. Helvius Agrippa;
«quodsi in contumacia perseverassent,
se in auctores seditionis severe animadversurum», aveva già
ammonito M. Iuventius Rixa. Quest’ultimo, quindi, non prospetta una
repressione ‘di massa’, ma l’animadversio nei confronti di chi avesse fomentato la seditio, cioè gli auctores seditionis (tra i quali,
probabilmente, dovevano essere anche l’auctor o gli auctores
legittimati a rappresentare il gruppo in sede processuale). La diversa
configurazione della minaccia di repressione da parte del proconsole, insieme
con un riferimento, questa volta esplicito, alla vis, sembra, quindi, presupporre il suo intendimento di un
‘giro di vite’ più stretto nei confronti dei Galillenses. Difficilmente, del resto,
il governatore avrà visto di buon occhio scorrerie che finivano per
rallentare l’economia agraria della provincia (i Patulcenses erano, come si è detto, una comunità
agricola), fondamentale in chiave strategica e politica; allo stesso tempo,
sarebbe stato inopportuno, fors’anche per esiguità di mezzi,
gestire immediatamente il problema con il ricorso all’uso della forza
(cfr. P. Meloni, La Sardegna, cit., 160 s.; 162). S. Schipani, La repressione, cit., 139 ravvisa piuttosto, in questa forma di
sanzione, peraltro solo prospettata, un tentativo di superare il limite
intrinseco della condemnatio nel
processo formulare classico (che in linea di principio poteva consistere, come
noto, soltanto in una somma di denaro); una volta escluso che questa procedura
fosse impostata in chiave di procedimento per
formulas, io collegherei, invece, la prospettazione dell’animadversio alla perdurante
difficoltà di gestione del territorio (cfr. P. Meloni, La Sardegna,
cit., 162): per l’esecuzione del provvedimento, sarebbe stato sufficiente
procedere manu militari, senza
necessariamente invocare sanzioni criminali.
[40]
Più d’una una davanti a M. Iuventius Rixa, che aveva pronunciato saepius sui fines («saepius
pronuntiaverat fines Patulcensium ita servandos esse ut in tabula ahenea a M.
Metello ordinati essent») ed aveva poi emanato il primo –
chiamiamolo pure così – interdetto («ut quiescerent et rebus iudicatis starent et intra k. Octobres primas
de praediis Patulcensium decederent vacuamque possessionem traderent»);
almeno una seconda davanti a Cn. Caecilius Simplex per il primo rinvio
istruttorio («ex eadem caussa
aditus a Galillensibus dicentibus tabulam se ad eam rem pertinentem ex
tabulario principis adlaturos, pronuntiaverit humanum esse dilationem
probationi dari et in k. Decembres trium mensium spatium dederit intra quem
diem, nisi forma allata esset, se eam quae in provincia esset secuturum»);
un’ulteriore davanti a L. Helvius Agrippa («ego quoque, aditus a Galillensibus excusantibus quod nondum forma
allata esset, in k. Februarias quae proximae fuerunt spatium dederim»),
per il rinvio, in funzione istruttoria, al 1° febbraio del 69, e forse
addirittura un’altra, davanti allo stesso proconsole, in cui si possono
immaginare le doglianze dei Patulcenses
per una condotta con ogni probabilità denunziata come puramente defatigatoria
(«et moram illis possessoribus
intellegam esse iucundam»: vedrei qui la preoccupazione del
proconsole di non indulgere ancora, per l’ennesima volta, ad una
richiesta ormai sentita come sostanzialmente ingiusta; cfr. D. 1.18.19.1 (Call.
1 de cognit.), sed in cognoscendo neque excandescere adversus eos, quos malos putat,
neque precibus calamitosorum inlacrimari oportet: id enim non est constanti et
recti iudicis, cuius animi motum vultus detegit. Et summatim ita ius reddi
debet, ut auctoritatem dignitatis ingenio suo augeat: del passo si è
occupato di recente N. Palazzolo,
Dalle ‘cognitiones’,
cit.), cui avrebbe fatto seguito l’ordine, questa volta perentorio, di
sgombero, emanato il 13 marzo, al 1° aprile del 69.
[41] Di
vivo interesse, al riguardo, quantunque non riconducibile al problema della
tutela possessoria, è del resto il riscontro della testimonianza di P.Euphr. 2, di recente riesaminata da
G.D. Merola, Sull’amministrazione della giustizia nelle province: il
‘P.Euphr.’ 2, in
‘Fides’ Humanitas’ ‘Ius’. Studii in onore di L.
Labruna, V, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 3577 ss., in
particolare 3684 ss.
[45] «La procédure de
l’Interdit» – osservava l’Autore – «et la procédure commune, la
procédure par libelle, et la voie de droit elle-même, l’Interdit, a été
ramenée à la forme d’une simple utilis actio ex causa interdicti»; più precisamente, «au point de vue de son origine historique,
l’action utilis ex causa interdicti
dérive évidemment de la formule que le démandeur
intentait, à l’époque classique, contre l’adversaire
qui violait l’interdit rendu par le magistrat» (così P. Collinet,
La nature, cit., 380, per entrambe le
citazioni testuali); in quest’ordine di idee anche E. Betti, Istituzioni di diritto romano, I, 2a ed., Padova, 1942, 342.
[47] «Es heißt nicht: perinde atque si interdictum redditum
fuisset, also nicht: wie wenn ein
Interdict erlassen wäre, sondern: perinde atque si ex causa interdicti actio
reddita fuisset, also nicht: wie wenn aus dem Grunde des Interdicts, statt
das Recht auf das Interdict selber, eine einfache Klage gegeben wäre. Hieße es: wie wenn ein Interdict erlassen wäre, so wäre die gemeine Meinung
richtig, dann wäre die neue Klage an Stelle
der alten Klage aus dem Interdicte. Aber da es heißt: wie wenn aus der causa des Interdicts eine Klage gegeben
wäre, so kann dies nur bedeuten,
daß man aus der causa des
Interdicts kein Interdict mehr zu fordern braucht, sondern gleich direct klagen
kann. Dann ist mithin die neue Klage an die Stelle der alten Klage auf das
Interdict, nicht aus dem Interdicte getreten. Im Übringen aber soll der Sache nach perinde iudicari» (così, testualmente, C.G. Bruns,
Die Besitzklagen des römischen und
heutigen Rechts, Weimar, 1874, 53 s., seguito da G. Gandolfi, Contributo
allo studio del processo interdittale romano, Milano, 1955, 7 s.).
[48] M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, cit., 638; L. Solidoro Maruotti, La tutela, cit., 127 s., con letteratura.
[51] Sui
problemi posti dal passo gaiano in chiave classificatoria, cfr. per tutti M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi
romani, Roma, 1977 (= Quad. Lincei,
221.2), 242 ss.
[52] Per i
problemi posti dalla dissensio
ricordata da Gai 4.1, cfr. ancora M. Talamanca,
Lo schema, cit., 245, nt. 691.
[53] E. Albertario, ‘Actiones’, cit., 148, che nota criticamente il termine
‘personalia’. Ma si
potrebbe ipotizzare, a ben vedere, un qualcosa di simile: interdicta
[omnia (?)] licet in rem
videantur concepta, vi tamen ipsa [personalia]
<in personam> sunt. In quest’ordine di idee, la
classicità dell’espressione ‘in personam esse’, riferita all’actio, sarebbe comprovata da Gai 4.2; mentre il riferimento ad
‘omnia’ potrebbe essere
frutto di una generalizzazione sì innocua, ma forse non necessara per il
giurista classico. L’alterazione del dettato classico, ove davvero
esistente, sarebbe, in definitiva, solamente formale.
[54]
Invero, la definizione di I. 4.6 pr., che fa riferimento al debere, funziona bene – ma ad
adoperare una dogmatica forse non coincidente, nel rigore che la connota, con il modo di pensare dei giuristi del VI
secolo – solo se riferita all’azione personale, non anche a quella
reale; ed in questo senso, del resto, l’intendeva con ogni
probabilità la fonte delle Istituzioni, che è, come noto, Cels. 3
dig. D. 44.7.51 (sul punto, cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 277): ma nell’intendimento
dell’esposizione delle Istituzioni imperiali, essa è adoperata in
una prospettiva a mio avviso generalizzante, che ricorre al debere per indicare qualsiasi situazione
giuridica soggettiva tutelata dall’azione; del resto, «tanto le actiones in personam quanto quelle in rem costituivano poteri di agire in
giudizio», ed erano esperibili «contro chiunque si trovasse in
contrasto con quelle situazioni soggettive a causa di un rapporto di fatto con
la persona o la cosa che ne era oggetto», sicché la definizione
celsina, «pensasse o no questo giurista alla sola actio in personam, si attagliava altrettanto bene all’actio in rem» (così,
testualmente, G. Pugliese, F. Sitzia, L.
Vacca, Istituzioni, cit., 223,
nonché a p. 336 s. per la diversa prospettiva posta dalla tutela
interdittale).
[62] Sul
punto, sia consentito un rinvio a quanto dico in ‘Intentiones exercere’. Problemi e prospettive in Nov. 112,
in SDHI, LXXIV, 2008, 170 ss., in
particolare 203 ss.
[63] Il
che, evidentemente, ci riporta al complesso problema del rapporto tra ius e dikaion, ed alla configurazione del ius in senso soggettivo in relazione al ‘canone
linguistico’ che, nelle fonti, predica non già il riconoscimento o
meno di un diritto, ma la spettanza o meno di un’actio, tematica, questa, ampiamente indagata da F. Sitzia, “DIKAION-IUS” nelle Novelle giustinianee, in Il diritto giustinianeo fra tradizione
classica e innovazione. «Atti del Convegno di Cagliari, 13-14 ottobre
2000», a cura di F. Botta, Torino, 2003, 1-33.