N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università
di Foggia
Considerazioni in tema di actio utilis rescissa
capitis deminutione
Sommario: 1. Osservazioni
preliminari. – 2. La
finzione descritta in Gai 4. 38. – 3. La classificazione di Gai 4.
38. – 4. L’esposizione
parallela di Gai 3.84. – 5. La mancata defensio del debitore inadempiente.
– 6. Actiones ficticiae e actiones utiles. – 7. Rescissione della capitis deminutio e in integrum restitutio. – 8. Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.1: il testo edittale. – 9. L’affermazione
di permanenza della naturalis obligatio
in Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.2.
– 10. L’antitesi
tra i creditori anteriori e quelli successivi alla capitis deminutio. – 11. L’esclusione
della menzione diretta della naturalis
obligatio in Gai. 4 ad ed. prov.
D. 4.5.8.
L’argomento
dell’actio utilis rescissa capitis
deminutione non è nuovo agli studiosi della materia, visto
l’ampio spazio ad esso dedicato nelle trattazioni relative alla capitis deminutio[1],
alle obbligazioni naturali[2],
alla capacità patrimoniale del filius
familias[3],
alle azioni fittizie[4]
e, più in generale, alle finzioni giuridiche[5].
I testi – per la verità non particolarmente numerosi – che
trattano di tale rimedio processuale sono stati sottoposti, nell’ambito
di ricerche circoscritte, a severe indagini e verifiche. Tuttavia, forse
proprio la stessa settorialità e specificità dei lavori ha
indotto gli interpreti a proporre risultati senz’altro da accogliere[6],
ma che lasciano ancora in piedi – ad una visione complessiva
dell’argomento – qualche interrogativo irrisolto, stimolando
l’interesse al compimento di una nuova indagine apposita.
In
particolare, il sospetto nasce dalla circostanza che la concessione ai
creditori di tale azione da parte del pretore nei confronti del soggetto che
subisce la capitis deminutio dopo
aver posto in essere un’obbligazione nascente da contratto viene, sia pur
indirettamente, collegata alla sopravvivenza dell’obbligazione da questi
assunta prima di tale evento, l’obbligazione c.d. originaria, come obligatio naturalis. Ma questo assunto,
peraltro oggi ormai largamente maggioritario in dottrina, non sempre è
stato adeguatamente supportato da elementi pregnanti e soddisfacenti, anche e
soprattutto in considerazione del fatto che nel caso di specie vi è, a
conti fatti, una coercibilità del vincolo, ma esclusivamente in via
indiretta, sul piano del diritto onorario, grazie alla concessione da parte del
pretore dell’actio ficticia, e
per questa ragione mi sembra opportuno riproporre l’intera tematica ad un
nuovo vaglio critico.
La
ricerca non può che prendere le mosse da un inquadramento di base
dell’argomento, così come ce lo fornisce Gaio nel paragrafo 4.38
delle sue Institutiones, a
conclusione di un’analitica e dettagliata trattazione sulle fictiones all’interno del processo
formulare (4.34-38)[7],
che il giurista afferma essere di un altro genere, da un punto di vista
qualitativo (habemus adhuc alterius
generis fictiones)[8],
rispetto a quelle trattate nei paragrafi precedenti (4.31a-33)[9],
tradizionalmente denominate in dottrina come
fictae legis actiones[10]:
in particolare, la finzione dell’esperimento della legis actio per pignoris capionem a favore del publicanus[11]
e la negazione dell’esistenza di una finzione per l’esperimento
della legis actio per condictionem[12],
per le quali – sole – abbiamo notizie certe, vista la grossa lacuna
del paragrafo 31 [13]:
Leggiamo,
dunque, il testo:
Praeterea aliquando fingimus adversarium nostrum capite deminutum
non esse. Nam si ex contractu nobis obligatus obligatave sit et capite
deminutus deminutave fuerit, velut mulier per coemptionem, masculus per adrogationem,
desinit iure civili debere nobis, nec directo[14]
intendi potest sibi dare eum eamve oportere; sed ne in potestate eius sit ius
nostrum corrumpere, introducta est contra eum eamve actio utilis rescissa
capitis deminutione, id est in qua fingitur capite deminutus deminutave non
esse.
La fictio contenuta nel passo è
quella di considerare come non avvenuta la capitis
deminutio dell’avversario qualora l’evento si sia verificato
dopo che la persona si sia obbligata con un terzo attraverso un contratto[15]:
ed al riguardo vengono elencate le ipotesi specifiche della donna conventa in manum tramite coemptio e del paterfamilias che si sia dato in
adrogatio[16].
L’esigenza di concedere detta azione nasce dalla circostanza che in
entrambi i casi i soggetti cessano iure
civili di debere nei confronti
del creditore che, in considerazione di ciò, non può più
affermare directo l’esistenza a
suo favore di un dare oportere[17].
Ma poiché non è possibile che il debitore (o la debitrice)
possano, con un proprio atto di volontà, pregiudicare irrimediabilmente
le pretese dei creditori, per questa ragione è stato consentito loro di
poterlo (o di poterla) ugualmente convenire in giudizio attraverso un’actio utilis rescissa capitis deminutione,
cioè un’azione nella quale – è proprio Gaio che viene
a ripeterlo ancora una volta – si finge che il debitore non sia stato capite deminutus.
Diversi
sono gli elementi che emergono dal passo, ed è opportuno procedere con
ordine.
In
primo luogo non vi sono dubbi sulla circostanza che la capitis deminutio alla quale si fa riferimento sia quella minima[18],
vale a dire quella che, come afferma lo stesso giurista in modo assai generico
in Inst. 1.162[19],
avviene cum et civitas et libertas
retinentur, sed status hominis commutatur[20],
dove i casi ivi espressamente riportati[21]
sono quelli di coloro i quali vengono adottati, che fanno una coemptio, della costituzione in mancipio, e degli emancipati[22];
tenendo comunque ben presente per questi ultimi che ciascuna mancipatio spezzava i vincoli agnatizi
con la famiglia di origine[23].
Ed al riguardo può anche essere utile rilevare che, pur facendo il
giurista antonino espressamente riferimento all’adoptio, l’espressione non può che essere comprensiva
dei due casi dell’adrogatio e
dell’adoptio in senso stretto[24],
risultando così in perfetta sintonia con l’affermazione più
generale contenuta in Gai 1.98 [25];
ed inoltre si deve aggiungere che senz’altro capitis deminutio vi era[26],
oltre che nel caso della conventio in
manum attuata tramite coemptio della
donna, pure nel caso in cui questa veniva attuata attraverso l’usus (ormai all’età di Gaio
un mero ricordo storico[27])
o la confarreatio (peraltro una
cerimonia diventata rarissima, che sopravviveva a stento, e praticata soltanto
per certi casi di matrimonio, quando era necessario raggiungere attraverso di
essa degli scopi specifici[28]);
in qualunque modo, infatti, la donna ricadeva sotto la manus, comunque si spezzavano i legami agnatizi con la sua
famiglia di origine.
Dunque,
la capitis deminutio minima comporta
un mutamento nella situazione familiare[29];
anche se, al contrario, com’è noto, non ogni mutamento della
condizione familiare implica una capitis
deminutio minima[30].
In effetti, perché questa si verifichi, è necessario che la permutatio status[31]
ad essa collegata coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi preesistenti[32],
con la conseguente perdita di tutti quei diritti che alla stessa si ricollegano[33].
Ma ciò che caratterizza questa capitis
deminutio rispetto alla maxima e
alla media è che, a differenza
di quelle che incidono negativamente sulla libertà e sulla cittadinanza,
nella capitis deminutio minima non
sempre l’estinzione dei vincoli agnatizi comporta effetti svantaggiosi
per chi la subisce. In alcuni casi gli effetti non comportano conseguenze di
particolare rilevanza, anzi sono del tutto indifferenti. Si pensi all’adoptio in senso stretto o alla conventio in manum della donna alieni iuris, dove i soggetti
interessati mantengono la stessa condizione preesistente di persone alieni iuris: solo, passano da una familia ad un’altra. In altri
casi, come quelli dell’emancipatio
o della diffarreatio, dove il capite deminutus, da alieni iuris che era, diventa sui iuris, gli effetti sono addirittura vantaggiosi
per chi vi incorre. Sono solo tre, invece, i casi in cui si possono verificare
– almeno in linea teorica – effetti svantaggiosi per il capite deminutus, pur diversificati tra
loro: vale a dire quelli dell’adrogatio,
della conventio in manum di una donna sui iuris, e della costituzione in mancipium[34].
Acquisiti
tali elementi, si può concentrare l’attenzione su Gai 4.38. In
esso vi è un esplicito riferimento al verificarsi dell’estinzione
delle obbligazioni nascenti da contratto per due soli casi di capitis deminutio minima, vale a dire
quello della donna che compie la conventio
in manum tramite coemptio e
quello del paterfamilias che si
dà in adrogatio: ed in
relazione al primo caso menzionato è del tutto evidente come, pur in
mancanza di una precisa specificazione da parte del giurista, il riferimento
non possa che essere alla donna sui iuris[35].
A
fronte di tale elencazione si pone però un problema interpretativo.
È necessario comprendere se la classificazione gaiana sia meramente
esemplificativa, senza escludere la possibilità di altri casi di
estinzione dei rapporti obbligatori per capitis
deminutio minima oltre quelli ivi espressamente richiamati, oppure abbia
carattere esaustivo. A favore della prima ipotesi potrebbe deporre la presenza,
per introdurre i due casi della donna conventa
in manum e dell’adrogatus,
dell’avverbio velut, spesso
utilizzato dal giurista nel suo manuale come introduttivo di esempi[36].
Ma, a ben guardare, come ha di recente osservato la Longo[37],
seppure il più normale impiego del vocabolo sia in funzione
esemplificativa[38],
nel caso di specie il velut sembra
assumere una funzione diversa, non potendo non essere messo in relazione
all’aliquando, che è
l’avverbio con il quale prende l’avvio il discorso gaiano: e
così il giurista, dopo aver premesso che all’actio utilis rescissa capitis deminutione si ricorre in certi casi,
attraverso il successivo velut (da intendersi questa volta nel
suo significato di “ovverossia”) indicherebbe più specificamente
quali siano questi casi. D’altro canto, un simile impiego lessicale non
costituisce nelle Istituzioni un caso isolato, ma è riscontrabile anche
in diversi altri luoghi[39],
talora in relazione, oltre che all’aliquando,
anche all’interdum (nel suo
significato di “talvolta”)[40].
Ma vi
è di più. Quelli riportati da Gaio sono gli unici casi di capitis deminutio minima nei quali il civis passa volontariamente da una
condizione di sui iuris ad una
condizione di alieni iuris[41]:
e dunque gli unici casi nei quali, qualora il soggetto abbia assunto in
precedenza, avendone la piena capacità, un’obbligazione attraverso
un contratto, non può più risponderne perché la capitis deminutio nella quale è
incorso ha modificato in peius la sua
condizione giuridica, andando ad incidere profondamente su di essa, e
togliendogli ogni autonomia patrimoniale; e né di questa obbligazione
possono risponderne il pater o il
titolare della manus, in quanto
entrambi gli aventi potestà non possono farsi carico di un’obbligazione
assunta dal sottoposto in un momento anteriore rispetto a quello in cui si
è costituito il rapporto potestativo, essendo del tutto estranei al
rapporto obbligatorio stesso. L’obbligazione, pertanto, si estingue, ed i
creditori sono impossibilitati ad esercitare l’azione diretta che nasce
dal negozio sia nei confronti del capite
deminutus sia nei confronti del suo avente potestà.
È
allora di tutta evidenza come la concessione ai creditori – altrimenti
inevitabilmente pregiudicati da un atto volontario del debitore di
sottoposizione all’altrui potestas
successivo alla stipulazione del contratto – dell’actio utilis rescissa capitis deminutione
consenta al pretore, come sempre spinto da ragioni equitative, di superare le
preclusioni insite nel rigido ius civile,
eludendo così il «principio di irresponsabilità del
debitore»[42];
e questo grazie all’uso della fictio,
collocata nell’intentio della
formula[43],
con la quale si considera che il debitore o la debitrice capite deminutus deminutave non esse[44],
vale a dire grazie alla supposizione che la
capitis deminutio non sia mai avvenuta[45],
e dunque che non si sia mai verificato alcun mutamento del loro status[46].
Detta
finzione, chiaramente negativa a differenza di quelle che il giurista antonino
aveva elencato in precedenza nella sua trattazione[47],
come tutte le altre finzioni, «non vuol cambiare la realtà dei
fatti, né occultarla»[48],
e si limita ad operare in campo processuale (è inequivoco l’uso,
in apertura del passo, del termine adversarius),
con esclusivo riguardo alla legittimazione passiva del convenuto[49],
favorendo – di conseguenza – attraverso questo rimedio non il
soggetto privo della ‘condizione’ attribuitagli[50],
ma piuttosto i creditori che hanno interesse ad ottenere un’azione nei
suoi confronti[51].
Soprattutto, si deve considerare che attraverso di essa non vengono in
discussione né l’adrogatio
né la coemptio, che rimangono
sempre valide ed efficaci, ma solo – e limitatamente al piano del diritto
pretorio – la conseguenza di quegli atti, vale a dire l’avvenuta capitis deminutio, che viene considerata
come del tutto irrilevante. Anzi, per meglio dire, una tale irrilevanza viene
circoscritta alla sola estinzione per diritto civile dell’obbligazione
validamente assunta dall’arrogato o dalla donna prima dell’adrogatio o della coemptio, per l’esclusiva salvaguardia e tutela dei diritti
dei creditori[52].
Ora,
tutta questa impostazione potrebbe apparire difficile da conciliare con il
riconoscimento al filius familias da
parte della giurisprudenza – così ammesso dalla dottrina
maggioritaria – della capacità di obbligarsi pro se già alla fine dell’età repubblicana[53]
o al massimo al I sec. del principato[54].
Ed in effetti tale è apparsa in particolare da ultima alla Longo la
quale, nel suo apprezzabile tentativo di spostare tale riconoscimento al
diritto giustinianeo, ha obiettato che se il filius familias fosse stato già in età classica
capace di assumere obbligazioni pro se
non si sarebbe potuta spiegare l’estinzione iure civili dei debiti dell’adrogatus – ormai anche lui potestati subiectus – e soprattutto
l’impossibilità di convenirlo in giudizio per le obbligazioni
assunte quando era sui iuris[55].
Non mi sembra però di poter condividere fino in fondo le
perplessità della studiosa siciliana. È infatti opportuno
considerare che l’estinzione del debito contrattuale è un effetto
esclusivo della capitis deminutio nella
quale è incorso il debitore[56]:
pertanto, anche ammessa e riconosciuta detta capacità,
l’intervento del pretore – che in ragione dell’aequitas rende ai creditori l’azione
quasi id factum non sit – trova
la sua ragione di principio in quella estinzione, del tutto inevitabile.
D’altro canto, si deve pure aggiungere che nell’editto in discorso
l’adrogatus si trova sullo
stesso piano logico della donna sui iuris
conventa in manu, la cui incapacità ad obbligarsi per contratto non
è mai stata messa in discussione da alcuno: il che fornisce un ulteriore
elemento per svincolare del tutto l’avvenuta estinzione del debito
contrattuale dalla capacità o meno di assumere obbligazioni pro se da parte del capite deminutus.
Per
essere meglio compreso, il passo in esame deve essere letto insieme ad un altro
passo dello stesso manuale gaiano, il 3.84. Qui, sia pur in una diversa
prospettiva, si trova un’esposizione parallela dell’argomento
affrontato in 4.38:
Ex diverso quod is debuit, qui se in adoptionem dedit quaeve in
manum convenit, non transit ad coemptionatorem aut ad patrem adoptivum, nisi si
hereditarium aes alienum fuerit. Tunc
enim quia ipse pater adoptivus aut coemptionator heres fit, directo tenetur
iure; is vero, qui se adoptandum dedit quaeve in manum convenit, desinit esse
heres. De eo vero quod proprio nomine eae personae debuerint, licet
neque pater adoptivus teneatur neque coemptionator, et ne ipse quidem, qui se
in adoptionem dedit quaeve in manum convenit, maneat obligatus obligatave, quia
scilicet per capitis deminutionem liberetur, tamen in eum eamve utilis actio
datur rescissa capitis deminutione; et si adversus hanc actionem non
defendantur[57], quae
bona eorum futura fuissent, si se alieno iuri non subiecissent, universa
vendere creditoribus praetor permittit.
I due
passi si integrano fra loro. L’argomento trattato dal giurista in questa
sede è quello, già avviato nel paragrafo 3.82[58],
delle successioni universali dette inter
vivos, così come riconosciute dall’interpretatio prudentium[59],
che dipendono non già dalla morte, ma dalla capitis deminutio della persona sui
iuris cui si va a succedere, e che costituiscono la «conseguenza
logica e necessaria dell’ordinamento giuridico-patrimoniale romano
intorno alla famiglia»[60].
In un contesto siffatto, Gaio affronta il problema dell’uomo che si
dà in adozione – e qui è chiaro il riferimento non
all’adoptio in senso stretto ma
all’adrogatio[61]
– e della donna sui iuris che
fa la coemptio, precisando che i
debiti contratti in precedenza da detti soggetti non si trasferiscono in capo
al coemptionator o al pater adoptivus[62],
a meno che non si tratti di debiti risultanti da un’eredità che
è stata già deferita all’adottato o alla donna (hereditarium aes alienum[63]),
perché in questo caso lo stesso pater
adoptivus o il coemptionator
diventano eredi e subentrano nella delazione[64],
e quindi sono tenuti in maniera diretta[65].
D’altro canto, aggiunge il giurista, sia chi si è dato in adozione
sia la donna conventa in manum
cessano di essere eredi[66].
Ne deriva che, al di là del caso dei debiti riconducibili
all’eredità deferita nel suo complesso, per gli altri debiti
contratti da tali soggetti a proprio nome (quod
proprio nomine eae personae debuerint) non possono essere tenuti né
il pater adoptivus né il coemptionator; e neppure chi si è
dato in adozione[67]
o la donna conventa in manum
rimangono obbligati in quanto – ovviamente – sono stati liberati a
causa dell’intervenuta capitis
deminutio[68],
anche se comunque viene concessa ai creditori nei loro confronti un’actio utilis rescissa capitis deminutione.
E se i sottoposti non vengono difesi in quest’azione, il pretore consente
che vengano venduti in blocco quei beni che sarebbero stati loro, se non si
fossero assoggettati al potere altrui.
Pertanto,
dei debiti ereditari rispondono direttamente il padre adottivo o il coemptionator[69],
in quanto si trasmette loro il titolo di heres,
che qualifica e ne legittima l’assunzione, mentre i debiti propri
dell’adrogatus o della donna sui iuris che in manum convenit si estinguono. Sebbene però i debiti
contratti in precedenza dal capite
deminutus fossero ormai estinti, non potendo questi rimanere obbligato a
seguito dell’intervenuta capitis
deminutio, che ha su di lui un effetto liberatorio, i creditori potevano
trovare ugualmente una tutela ai propri interessi, anche se diversa da quella
della quale avrebbero potuto godere se non fosse intervenuta la capitis deminutio.
Il
rapporto negoziale, infatti, pur non trovando più idonea e opportuna
tutela sul fronte dell’azione diretta, trovava comunque un’adeguata
tutela in quella apprestata dal pretore in via utile, attraverso la statuizione
dell’irrilevanza sul piano del ius
honorarium del fatto estintivo sopravvenuto. Di modo che risulta innegabile
l’esistenza di meccanismi processuali che rendono coercibile, sia pure
sotto un piano e un profilo differente da quello del ius civile, l’adempimento di un dovere che non può
trovare più il suo fondamento in un oportere.
E, d’altro canto, mi sembra che anche qui in fondo la logica del discorso
gaiano sia tutta tesa al versante della tutela processuale del rapporto.
Una
conferma si può trovare pure nell’interesse da parte del giurista
alla fase successiva a quella dell’accertamento dei diritti, vale a dire
quella dell’autorizzazione alla vendita in blocco dei beni passati al
titolare della potestas in caso di
mancata defensio dei convenuti
nell’actio utilis intentata
contro l’adrogatus o la donna conventa in manum[70],
così che i creditori potessero conseguire il soddisfacimento dei propri
crediti in conformità della sentenza emanata[71].
Ciò
posto, un problema si impone all’attenzione. Il debitore, pur essendo
legittimato passivamente all’azione intentatagli dai creditori grazie
alla fictio che considerava come non
avvenuta la capitis deminutio nella
quale era incorso, e quindi per questo in grado di comparire autonomamente in
quel determinato giudizio, in realtà, se si prescinde dalla finzione,
che opera limitatamente a questo fine, si trova nella condizione giuridica di alieno iuri subiectus; e quindi, in
quanto tale, è giuridicamente privo di un proprio autonomo patrimonio
con il quale poter rispondere nei confronti dei creditori in caso di esecuzione
coatta a seguito di condemnatio; e,
ad ogni buon conto, viene coperto dallo “scudo” della patria potestas o della manus maritalis.
L’assenza
di un autonomo patrimonio, dunque, potrebbe rischiare di rendere irrealizzabile
per i creditori la fase della missio in
possessionem e della conseguente bonorum
venditio[72],
a meno che questi non volessero attendere l’eventuale uscita dalla potestas per il figlio o dalla manus per la donna, essendo tale
momento l’unico nel quale si può agire contro di loro in via
esecutiva[73].
Ecco perché il pretore non si può limitare a concedere a tutela e
nell’interesse dei creditori l’actio
utilis rescissa capitis deminutione, ma deve anche necessariamente e
più concretamente consentire, ancora manente
potestate, l’esecuzione su quel patrimonio che il soggetto divenuto alieni iuris aveva prima della capitis deminutio[74],
e che – ovviamente – sarebbe rimasto a lui se avesse conservato la
preesistente qualifica di sui iuris,
in modo che con quel patrimonio, e solo nei limiti di quello, il pater fosse tenuto a rispondere dei
debiti della persona che era venuta ad assoggettarsi volontariamente alla sua potestas[75].
In altre parole, deve fornire ai creditori contro il debitore, sia pur
attraverso strade e percorsi diversi, lo stesso strumento che questi avrebbero
avuto qualora non fosse intervenuta la capitis
deminutio[76].
Ne deriva
che la vendita in blocco deve essere intesa con riferimento ai soli beni che
sarebbero spettati al capite deminutus.
Difatti, dopo la rescissione della capitis
deminutio, che costituisce il presupposto per poter consentire una separatio bonorum rispetto al patrimonio
del titolare della potestas, sia la proscriptio sia la venditio si compiono sotto il nome dello stesso soggetto nei cui
confronti era stata intentata l’azione, vale a dire sotto il nome del capite deminutus stesso. Anche se,
è bene precisare, dal tenore del passo mi sembra non potersi dubitare
che, comunque, da quel complesso di beni che sarebbe appartenuto al figlio se
non vi fosse stata la permutatio status
si dovesse escludere – nel caso in cui vi fossero, oltre ai debiti
personali, anche dei debiti ereditari – la stessa massa ereditaria, ormai
acquisita per successione all’adrogator,
nei confronti del quale i creditori avevano l’azione diretta[77],
senza, di contro, poter partecipare al concorso intentato a seguito della
vittoria nell’actio utilis rescissa
capitis deminutione.
Da un
lato, dunque, una separatio bonorum
nei confronti dei creditori dell’adrogator,
dall’altro nei confronti dei creditori ereditari dell’adrogatus; e, tutto ciò detratto,
la sopravvivenza di un patrimonio costituito a garanzia dei creditori, sul
quale gli stessi potevano soddisfare in maniera efficace le proprie pretese
pregresse, nonostante il fatto che i beni fossero ormai passati, per successio, al titolare della potestas[78].
A
conferma di quanto osservato si può richiamare un altro passo delle
Istituzioni di Gaio, 4.80:
Haec ita de his personis, quae in potestate ‹sunt›, sive ex contractu sive ex
maleficio earum ___________. quod vero ad eas personas quae in manu mancipiove
sunt ‹___›, ita ius dicitur, ut cum ex contractu earum agatur, nisi
ab eo cuius iuri subiectae sint in solidum defendantur, bona quae earum futura
forent, si eius iuri subiectae non essent, veneant. sed cum rescissa capitis deminutione cum iis imperio
continenti iudicio agitur,___________.…[79].
Il
brano, estremamente lacunoso, e comunque di per sé non particolarmente
chiaro, conclude l’esposizione gaiana sulle conseguenze patrimoniali in
caso di sottoposizione alla potestas
da parte dei figli e degli schiavi. In particolare, in esso si fa riferimento
alle persone che si trovano in manu o
in mancipio, e si afferma che quando
si vuole agire in base a quanto da loro contrattato, nel caso in cui queste non
vengano difese in solidum dalle persone
al cui potere sono assoggettate, devono essere venduti i beni che sarebbero
stati loro in futuro, se non fossero state sottoposte a quel potere. Il
discorso poi continua con un riferimento alla rescissione della capitis deminutio, racchiuso
nell’ablativo assoluto rescissa
capitis deminutione, il cui riferimento è più delicato e
difficile da comprendere a causa dello stato in cui ci è pervenuto il
manoscritto veronese, del quale nella pagina 219, dopo veneant, sono leggibili solo pochissime parole.
Nel
complesso, le interpretazioni del testo proposte dalla dottrina non sono state
univoche. In particolare il Solazzi ha rilevato come, in mancanza di una
precisa specificazione temporale, non vi siano nel passo elementi per
comprendere con sicura certezza a quali contratti il giurista faccia
riferimento nel suo discorso, se a quelli conclusi posteriormente alla capitis deminutio o a quelli conclusi
anteriormente[80].
Il dubbio, però, potrebbe apparire inconsistente. A rigor di logica,
infatti, non appare verosimile, seguendo in questo l’autorevole
riflessione del Lenel[81],
che si possa ipotizzare una rescissione della capitis deminutio per crediti sorti posteriormente all’evento
modificativo dello status. Sulla base
di questa premessa, pertanto, il discorso svolto da Gaio in 4.80, tutto
incentrato sulle persone che sono in manu
o in mancipio, ben potrebbe
integrarsi con quello avviato in modo più analitico nei paragrafi 3.84 e
4.83 dello stesso manuale, andandolo a completare[82].
Nel paragrafo in esame, infatti, viene richiamata l’attenzione sulla
disciplina inerente i debiti contratti dalla
uxor in manu (in un momento anteriore alla modifica del suo status), e la stessa disciplina viene
estesa, ai soli fini delle modalità della missio in possessionem, anche al caso delle personae in mancipio[83].
Ora,
anche in questo passo – tutto impostato, a differenza dei precedenti,
sulla fase esecutiva del procedimento – il presupposto è la
rescissione della capitis deminutio:
e, in caso di mancata defensio del
debitore inadempiente da parte dell’avente potestà su di lui, il
pretore consente ai creditori di vendere tutto il patrimonio che sarebbe stato
dei convenuti se non si fossero assoggettati al potere altrui; così
concedendo loro, come si è già detto in precedenza, lo stesso
strumento processuale che avrebbero avuto se il debitore non avesse subito la permutatio status. È però
il caso di fare al riguardo una piccola precisazione. La fictio che qui si descrive nel dettaglio non è una vera e
propria fictio formulare o, per
meglio dire, una fictio in senso
tecnico: più semplicemente il pretore, nell’individuare i beni
oggetto della venditio, finge una
situazione irreale, che è quella dell’avvenuta della separazione
tra i due patrimoni, in modo da poter consentire al bonorum emptor la successione in una sola parte del patrimonio
dell’avente potestà, identificabile in quello che sarebbe stato
dei convenuti se non fossero stati sottoposti all’altrui potere.
C’è
infine un elemento sul quale occorre soffermarsi, sia pur brevemente. Mentre
nel paragrafo 3.84 si afferma che la venditio
ha luogo si…non defendantur[84],
in 4.80 al presupposto della mancata difesa da parte degli aventi
potestà (unici e soli arbitri, iure
civili, della situazione patrimoniale dei sottoposti) viene aggiunto anche
un ‘in solidum’. Ora,
contro tale specificazione ha preso posizioni il Solazzi, sostenendo che la sua
presenza all’interno del testo rappresenterebbe una nota «superflua
ed ingenua» in quanto, non essendo quella ivi descritta un’azione
adiettizia, e «rivolgendosi direttamente contro il capite deminutus, abbraccia il solidum,
onde è inutile scrivere che la difesa ha da essere in solidum»[85].
Non mi
sembra di poter condividere fino in fondo le obiezioni dell’illustre
studioso. Nonostante sia evidente che l’in solidum defendere possa far riferimento solo al pagamento o alla
garanzia dell’intero ammontare del debito, e che questa somma avrebbe
costituito comunque necessariamente l’oggetto dell’esecuzione[86],
anche a prescindere dall’ulteriore precisazione fatta in questa sede dal
giurista – non potendosi nel caso di specie configurare una realizzazione
del credito finalizzata ad una sola porzione del debito – un simile
chiarimento non appare incompatibile con un contesto quale è quello di
un manuale istituzionale.
Naturalmente,
è assai probabile, come afferma l’Albanese, che con tale
meccanismo si sia voluto evitare che il titolare della potestas su chi è divenuto alieni iuris, astenendosi dall’intervenire, possa consentire
l’esecuzione personale sul sottoposto per un negozio concluso quando non
esisteva ancora quella condizione[87].
Ma
torniamo al discorso dal quale abbiamo preso le mosse, richiamandolo
sinteticamente nelle sue linee essenziali. Nei paragrafi 4.38, 3.84 e 4.80 del
suo manuale istituzionale Gaio descrive la fictio
che suppone come non avvenuta la capitis
deminutio del debitore passato volontariamente dalla condizione personale
di sui iuris a quella di alieni iuris, in modo da consentire ai
creditori, i cui diritti erano sati resi vani dalla permutatio status, di poterlo ugualmente convenire in giudizio
attraverso un’actio utilis rescissa
capitis deminutione, nonostante l’attuale inesistenza in capo al
sottoposto di un vincolo obbligatorio che possa tradursi in un oportere processuale.
Dunque,
la fictio inserita come clausola
all’interno della formula è l’elemento che consente di
ricondurre le azioni che la contengono[88]
– individuandole e caratterizzandole – alla più generale
categoria delle actiones ficticiae,
frutto di un sapiente lavoro della giurisdizione pretoria che, operando con il
sostegno della giurisprudenza, tenta di superare il dualismo normativo tra ius civile e ius honorarium[89]:
da un lato, mitigando i rigori del ius
civile, dall’altro, “imitando” situazioni tutelate
civilisticamente, sussumendo quelle che non vi erano ricomprese sul piano del
diritto onorario[90].
Ed il dato reale viene disatteso in ragione dell’aequitas: ma questa è una giustificazione troppo nota per
insistervi ulteriormente[91].
Occorre
allora soffermarsi, sia pur in maniera sintetica, atteso l’ampio spazio
dedicato all’argomento dalla più recente letteratura, su tali actiones, o per meglio dire – come
più frequentemente meglio denominate nella letteratura moderna, pur
senza adeguato supporto testuale – sulle formulae ficticiae[92],
la cui peculiarità è data proprio dal tipo di struttura, che ne
costituisce la loro stessa caratterializzazione.
Sotto
un profilo strettamente grammaticale, la fictio
contenuta nella formula viene espressa nell’intentio mediante la protasi di un periodo ipotetico di terzo
grado, e cioè dell’irrealtà, che contiene un verbo al
congiuntivo imperfetto o piuccheperfetto[93],
a cui è correlata un’apodosi dello stesso tipo[94],
così da poter autorizzare il giudice[95]
a comportarsi nella sua decisione o come se un determinato fatto o una
determinata circostanza non accaduti nella realtà fenomenologica si
fossero verificati, o come se un determinato fatto o una determinata
circostanza realmente accaduti in quella stessa realtà non si fossero
mai verificati, oppure a fingere direttamente esistente un effetto o una
qualificazione giuridica che consenta di tutelare una fattispecie civilistica[96].
Le
finzioni, dunque, possono essere di due tipi: l’uno, nel quale la
finzione ha ad oggetto un fatto giuridico (il che può, ovviamente,
coinvolgere pure problemi di qualificazione giuridica); l’altro, che
finge direttamente l’esistenza di un effetto o di una qualificazione giuridica[97].
Un esempio del primo tipo di fictio
può essere il possesso prolungato per il tempo necessario
all’usucapione (descritto in Gai 4.36: si anno possidet); del secondo tipo la qualifica di erede (in Gai
4.34-35: si heres esset), o la
qualifica di cittadino romano (in Gai 4.37: si
civis esset) od anche la non subita capitis
deminutio (in Gai 4.38: si capite
deminutus deminutave non esset)[98].
Non si può, dunque, in considerazione di ciò, concordare con il
Bianchi quando afferma che la fictio
può cadere sempre e solo su degli elementi fattuali («o che come
tali sono percepiti»), che tra l’altro, a suo parere, tra i diversi
elementi, sono «gli unici suscettibili di essere retrodatati»[99].
A parte le riserve di fondo sull’impostazione dello studioso[100],
anche su quest’ultima considerazione mi sembra di poter esprimere qualche
perplessità. A stretto rigore, anzi, appare più difficile
configurare la retrodatazione di un evento fattuale che di una qualificazione
giuridica. Mentre il primo è legato alla realtà fenomenologica,
la cui deformazione temporale implica un vero e proprio processo di alterazione
del dato reale, la seconda, in quanto risultato di una creazione logica,
può essere indipendente da ogni circostanza temporale.
Sul
versante della struttura della formula, le actiones
ficticiae, ispirate al ius civile,
dovevano essere necessariamente adattamenti di formulae in ius conceptae[101],
non potendosi ravvisare il funzionamento della fictio per le formulae in
factum conceptae[102],
e soprattutto adeguate motivazioni che potessero spingere il pretore a creare
finzioni in factum[103]:
né, d’altro canto, sono riscontrabili nelle fonti testimonianze
che consentano di spingersi verso ipotesi differenti[104].
Alle actiones ficticiae si affiancano quelle
con trasposizione di soggetti[105]
e le actiones con formulae in factum. E tutte e tre le azioni si possono collocare
all’interno della più generale categoria delle actiones honorariae, delle quali
rappresentano i tre modelli fondamentali[106],
in contrapposizione a quella delle actiones
iuris civilis.
Ciò
detto, v’è da osservare che Gaio in 4.38, a conclusione della sua
trattazione sulle fictiones
qualifica, senza possibilità di equivoci, l’actio rescissa capitis deminutione come un’actio, oltre che ficticia, al tempo stesso anche
utilis: ed una tale qualifica è attestata pure in 3.84.
Ma la
portata delle actiones utiles
è, rispetto a quella delle actiones
ficticiae, molto più complessa da inquadrare, così da
risultare molto discussa e discutibile[107].
Il Volterra ha collocato dette azioni, insieme a quelle ficticiae e a quelle in
factum, tra le formulae iuris
honorarii[108]:
ma, come osserva il Talamanca, non sembra che una tale categoria possa
riferirsi ad una precisa caratteristica nella costruzione formulare delle
azioni onorarie[109].
Esse, secondo una convinzione ormai abbastanza radicata in dottrina[110],
sono utiles in quanto adattate alla
tutela di un caso diverso da quello originariamente previsto attraverso
l’estensione analogica in via pretoria del campo di applicazione di
un’azione già nota al diritto esistente[111],
trovando questa la sua origine in una lex,
in una disposizione edittale o in un’altra fonte del diritto. E, in
quanto derivanti dall’adattamento di un’azione – seguendone
anche, nei limiti del possibile, il regime – normalmente sono decretali:
ciò non esclude, però, la configurabilità di actiones utiles edittali, nel caso in
cui le stesse azioni avessero, nel corso del tempo, fornito buona prova nella
prassi giudiziaria.
Ovviamente,
dette azioni sono in netta antitesi alle actiones
directae[112],
vale a dire quelle nate per tutelare specificamente un determinato rapporto
giuridico, e che costituiscono (o, per meglio dire, possono costituire) il
modello da allargare per le azioni utili[113];
contrapposizione che però è stata oggetto di qualche
perplessità tra gli studiosi[114],
soprattutto in considerazione del fatto che, per altro verso, l’actio directa viene talvolta opposta in
contesti differenti in modo significativo ad altri tipi di azioni, come la noxalis, la contraria o quella ad
exhibendum, mentre l’actio utilis viene opposta all’actio vulgaris od anche a quella inanis[115].
Il
Sotty ha tentato di superare l’impiego del sintagma actio utilis nel senso appena espresso di estensione di
un’azione, al di là del suo campo di applicazione, fissato dal
diritto civile o dal diritto pretorio, in qualunque modo questa estensione
avvenga, considerando invece una tale azione come la sola che consentirebbe di
rendere efficiente, utilis in questo
senso, la relativa condanna, a differenza di quelle date inutilmente, che non
giungono, di fatto, alla condanna[116].
Detta ipotesi, indubbiamente suggestiva, appare però scarsamente
convincente, trovando troppo tenui riscontri testuali: ragion per cui è
preferibile continuare a seguire l’opinione tradizionalmente accolta.
Fatte
queste premesse, è necessario chiarire quale sia, più in
generale, il rapporto esistente tra l’actio
ficticia e l’actio utilis:
in primo luogo, pur potendosi convenire sulla circostanza che le actiones ficticiae costituiscano,
numericamente, la maggior parte delle actiones
utiles[117],
non si può affermare, contrariamente a quanto sostenuto dal
Valiño[118],
influenzato nella sua opinione da un pensiero del D’Ors[119],
che tra actiones ficticiae ed actiones utiles vi sia una totale
coincidenza di concetti e di termini, a tal punto da poter essere utilizzati
sinonimicamente[120].
Se
difatti si tiene per fermo che le actiones
ficticiae siano adattamenti di
formulae in ius conceptae[121],
accogliendo una tale prospettiva unificante, risulterebbe impossibile
ricondurre la qualificazione utilis
alle actiones con formulae in factum conceptae. Invece,
com’è agevolmente dimostrabile, la qualifica utilis era data in taluni casi, oltre che alle actiones ficticiae, anche ad altre categorie di azioni, quali
quelle con formula in factum concepta, o quelle con trasposizione di soggetti
o altrimenti adattate[122].
Questo elemento, di per sé stesso fondato su una arbitraria
delimitazione del campo di applicazione delle actiones utiles, è sufficiente ad escludere che una tale
qualifica – o quella analoga di actio
ad exemplum o data ad exemplum[123]
– possa essere perfettamente coincidente con la categoria delle formulae ficticiae, essendo la stessa
qualifica actio utilis certamente
più ampia e articolata[124].
Dunque, non tutte le actiones utiles
sono anche ficticiae, essendo le ficticiae solo una specie di quelle utiles.
Ciò
chiarito, bisogna ora fare il ragionamento opposto, e tentare di comprendere se
tutte le actiones ficticiae siano al
tempo stesso anche utiles. E qui
sorgono le maggiori difficoltà.
Qualche
dubbio ingenera al proposito la trattazione gaiana, dalla quale non si
può trarre alcun indizio incontrovertibile. Difatti, non vi sono
elementi per affermare con sicura certezza se nella prospettiva del giurista
antonino l’aggettivazione utilis
riguardi la sola fictio descritta per
ultima in 4.38 od anche tutte quelle considerate nei paragrafi immediatamente
precedenti. A favore della prima ipotesi si poneva il Sotty[125],
la cui opinione è rimasta però quasi del tutto isolata[126],
ritenendo che la qualifica utilis, la
cui menzione esplicita si trova solo con riferimento al caso del debito
contratto dal capite deminutus in un
momento antecedente alla sua permutatio
status, non potesse che riferirsi al caso ivi descritto, con la necessaria
e logica conseguenza che tutte le altre formulae
ficticiae descritte in 4.32-37 non fossero al tempo stesso anche utiles.
Diversamente,
il Falcone ha sostenuto in modo convincente che, essendo il blocco espositivo
gaiano fortemente compatto, pur trovandosi la qualifica utilis solo alla fine dell’elencazione, una tale qualifica
non dovesse ritenersi applicabile solo a quel caso in cui è espressamente
menzionata, vale a dire quello descritto nel paragrafo 4.38, ma anche a tutte
le altre formule in precedenza richiamate, compresa quella con trasposizione di
soggetti in favore del bonorum emptor
trattata nel paragrafo 35 [127].
Infatti, ad una ulteriore riflessione, da un punto di vista terminologico si
deve osservare che c’è una perfetta simmetria e compattezza
espositiva tra il fingitur capite deminutus deminutave non esse del
paragrafo 4.38 ed il fingitur rem
usucepisse del paragrafo 36, così come con il civitas Romana peregrino fingitur del paragrafo 37 [128],
che porta a non distaccare l’ipotesi trattata nel paragrafo 38 da quelle
trattate nei paragrafi precedenti, che sono senza dubbio actiones ficticiae.
Seguendo
un diverso percorso argomentativo, la Furia era giunta a conclusioni non
dissimili, sostenendo in primo luogo che per il diritto romano classico non si
poteva accogliere il significato di ‘utilmente data’ attribuita dal
Sotty all’actio utilis, e
precisando al contempo che se alcune
formulae ficticiae non erano al tempo stesso denominate utiles è solo perché
ognuna di queste aveva di per sé un proprio nome specifico[129];
d’altro canto, se si considera pure che l’actio Publiciana – che tra l’altro è proprio
l’azione che il Sotty richiama specificatamente a sostegno della sua
ipotesi – viene definita da Paolo in 1 ad ed. praet. D. 44.7.35 come un’azione data ad exemplum vindicationis (qualifica che,
come si è detto, è analoga a quella di utilis), per indicarne il suo specifico meccanismo, sembrerebbe
potersi confermare che la circostanza della sua non menzione da parte
dell’autore delle Institutiones non
sia probante per escludere aprioristicamente una tale qualifica anche per le
altre actiones in precedenza
descritte.
Per
altro verso, pochi anni fa il Mercogliano ha assunto posizioni particolarmente
estreme[130].
Traendo spunto proprio dal richiamato paragrafo 4.38, lo studioso napoletano ha
invece congetturato che la fictio
‘si capite deminutus deminutave non
esset’ ivi descritta, essendo un’actio utilis, nonostante il dato testuale, che la qualifica al
tempo stesso ficticia e utilis, non sembra invece poter
configurare un’azione fittizia, così affermando, più in
generale, la diversità e l’autonomia delle actiones ficticiae rispetto alle actiones utiles: nella sua particolare prospettiva, dunque, le actiones ficticiae non potrebbero essere
al contempo anche utiles.
L’argomento addotto non mi appare però decisivo, non ravvisandosi
ostacoli logici per ritenere che un’actio
utilis possa essere al tempo stesso fittizia: a tal proposito, quindi,
ritengo possa ritenersi ancora soddisfacente il punto di vista tradizionale,
che non ne esclude una possibile coincidenza. Se si considera, infatti, che
l’aggettivazione utilis non sta
ad indicare, a differenza di quella ficticia,
una particolare costruzione formulare, ma è piuttosto un termine
generico che indica un insieme di mezzi processuali che ricomprende al suo
interno diverse tipologie[131],
tra le quali, appunto, le actiones ficticiae,
ogni dubbio sembra fugarsi.
In
conclusione, considerata nel suo complesso, la trattazione gaiana sulle fictiones appare, in linea con quanto
sostenuto dal Falcone, un blocco unitario, così escludendosi di poter
dedurre da questa una contrapposizione tra l’actio rescissa capitis deminutione, che è anche utilis, e le altre actiones ficticiae ivi
menzionate, che invece non lo sarebbero. D’altro canto, riesce difficile
pensare che Gaio, in una sede qual è quella di un manuale istituzionale,
anziché evidenziare a chiare lettere la diversità strutturale tra
l’ultima azione menzionata e le precedenti, l’abbia fatta passare
quasi sotto silenzio, limitandosi ad una fugace qualificazione di una sola di
esse.
C’è
ancora un ultimo aspetto del dettato gaiano che bisogna trattare, ed è
l’utilizzo in 4.38 e in 4.80 del termine rescissa per considerare irrilevante per diritto pretorio la capitis deminutio subita dal debitore[132].
Il Betti ha attribuito ad esso un valore tecnico, identificando tra le formulae utiles quelle che,
caratterizzate da una fictio, possono
definirsi «rescissoriae in
largo senso»[133]:
vale a dire quelle nelle quali in forza della rescissione pretoria i
contendenti convengono di doversi prescindere dal fatto o dallo stato di fatto
dichiarato irrilevante, considerandolo ancora in vita. Si verificherebbe in tal
modo, secondo l’illustre studioso, un fenomeno di reviviscenza del
rapporto dal punto di vista del diritto pretorio, che sussume nella propria
sfera quella determinata fattispecie, concedendo, su domanda del privato,
un’azione pretoria corrispondente.
Similmente,
seppur sotto un piano e un profilo diverso, anche Paolo in 41 ad ed. D. 37.1.6.1 utilizza lo stesso
termine, occupandosi nel caso di specie della rescissione della stessa capitis deminutio, ma questa volta in relazione alla concessione della bonorum possessio secundum tabulas (unde
liberi) al figlio emancipato[134]:
Bonorum possessionis beneficium multiplex est: nam quaedam
bonorum possessiones competunt contra voluntatem, quaedam secundum voluntatem
defunctorum, nec non ab intestato habentibus ius legitimum vel non habentibus
propter capitis deminutionem. quamvis enim iure civili deficiant liberi, qui
propter capitis deminutionem desierunt sui heredes esse, propter aequitatem
tamen rescindit eorum capitis deminutionem praetor. legum quoque tuendarum
causa dat bonorum possessionem.
La
parte del testo che qui interessa è solo quella nella quale si afferma
che il pretore, come sempre mosso dall’aequitas, in considerazione dell’eccessivo rigore della legge
delle XII tavole in materia di successione intestata[135],
rescinde la capitis deminutio minima
conseguente all’emancipatio, in
modo da poter considerare i liberi,
che non sono non più – ovviamente – sui heredes, ancora nella potestà immediata
dell’ereditando al momento della sua morte, e dunque in una posizione
analoga a quella dei sui. Non mi
sembra, però, di poter concordare con il Robbe quando afferma che nel
caso di specie la finzione è duplice[136].
Verosimilmente, invece, fingendosi come non avvenuta la capitis deminutio[137],
la considerazione che i liberi (ormai
divenuti sui iuris[138])
fossero ancora in potestà del de
cuius al momento della sua morte era solo una necessaria e logica
conseguenza di questa finzione.
Grazie
a questa fictio (la c.d. fictio suitatis[139]),
dunque, si attribuiva al figlio, o eventualmente a chi succedeva in locum di lui, la successione
ereditaria intestata: ed è da rilevare come, nel caso preso in considerazione
da Paolo, a differenza di quello del quale ci stiamo occupando, la rescissione
operi a vantaggio esclusivo del soggetto che subisce la capitis deminutio.
Tornando
al caso del quale si sta trattando, è evidente il ruolo decisivo giocato
dalla rescissione della capitis deminutio:
ed in ragione di ciò è opportuno comprendere il meccanismo in
base al quale questa veniva concretamente attuata.
In
dottrina è stato sostenuto che la sua operatività fosse collegata
al meccanismo dell’in integrum
restitutio. Senonché, è stato altresì osservato che in
D. 4.5.2.1, dove la disposizione edittale viene riportata testualmente da
Ulpiano – un testo del quale è opportuno occuparsi in un momento
successivo[140]
– non vi è alcuna menzione diretta o indiretta di un simile
meccanismo. Non mi sembra però che detta mancanza possa spingere a
revocare in dubbio la genuinità sostanziale del passo, come ha sostenuto
invece il Carrelli[141],
avvalendosi anche dell’autorevole opinione critica del Lenel[142],
anche in considerazione del fatto che nessun accenno alla restitutio vi è pure nel manuale gaiano, che si limita a
parlare al riguardo di estinzione iure
civili dei debiti del capite
deminutus e di actiones utiles[143].
Piuttosto che leggere nel passo ulpianeo poco persuasivi tentativi di
interpolazione, o ipotizzare nel manuale gaiano scritti o, quanto meno,
sottintesi concetti o parole di cui non v’è traccia alcuna, appare
preferibile mantenere fermo il dettato testuale delle diverse testimonianze,
scevro così com’è da ogni collegamento diretto tra la
rescissione della capitis deminutio e
l’in integrum restitutio[144].
Detta prospettiva consente un esame meno condizionato da conclusioni alle quali
dover necessariamente giungere.
Ai
fini del discorso da articolare, è sufficiente ricordare che l’in integrum restitutio è un
provvedimento del pretore – a cui Paolo attribuisce un fondamento magis imperii quam iurisdictionis[145]
– il quale concede a richiesta dell’interessato l’azione come
se un determinato fatto giuridico che avrebbe avuto come effetto
l’estinzione di un diritto soggettivo non fosse mai avvenuto,
ripristinando integralmente la situazione giuridica soggettiva compromessa da
quel fatto. La maggior parte delle restitutiones
sono previste in un apposito capo dell’editto[146],
nello specifico il decimo – del quale, peraltro, non si conosce la sua
antichità – e tra di esse si può riscontrare una struttura
comune sotto diversi profili.
Più
in generale, per quanto riguarda il versante delle modalità attraverso
le quali si attuava l’in integrum
restitutio c’è un dibattito ancora aperto tra gli studiosi. I
problemi sono, infatti, diversi. Il primo riguarda la necessarietà o
meno della causae cognitio in tutti i
casi di applicazione dell’istituto[147].
Secondo una parte della dottrina, peraltro abbastanza risalente, ma che ha
trovato consenso assai ampio, l’in
integrum restitutio era quasi sempre pronunziata causa cognita, salvo alcune eccezioni, tra le quali, appunto,
proprio la capitis deminutio[148], in cui il rimedio sarebbe stato
concesso direttamente, in maniera completamente anomala rispetto alla struttura
normale dell’istituto[149].
In senso contrario si è mosso il Carrelli[150],
il quale ha invece affermato che la causae
cognitio costituiva un presupposto essenziale per ogni caso di applicazione
della restitutio in integrum: e la
sua ipotesi è stata sostanzialmente ripresa, con nuovi spunti critici,
dal Cervenca[151],
che ha ritenuto un ostacolo insormontabile alla possibilità di
qualsivoglia deroga al meccanismo ordinario soprattutto il dettato del notissimo
frammento di Modestino, tratto dall’ottavo dei dodici libri pandectarum, e riportato in D.
4.1.3[152],
della cui sostanziale genuinità – almeno nella sua prima parte
– non sembra potersi dubitare[153],
dove, con un’affermazione di apparente portata generale, la causae cognitio viene ritenuta un
passaggio essenziale per tutte le restitutiones[154]:
questa, infatti, continua il testo, sarà diretta ad accertare la “iustitia”[155]
delle singole “causae” di
restitutio, ed anche la
veridicità o meno delle dichiarazioni rese dal richiedente. Occorre
però al riguardo considerare la circostanza che un richiamo esplicito ad
essa lo si rinviene non in tutte, ma solo in alcune clausole edittali in tema
di in integrum restitutio.
Altro,
e forse ancor più arduo problema, sul quale la dottrina è ancora
divisa, è quello di comprendere il funzionamento della procedura di in integrum restitutio, vale a dire
individuare la sua forma e le sue caratteristiche: non è infatti agevole
ricostruire con sicura certezza se questa fosse stata sempre suddivisa in due
fasi ben distinte, la prima delle quali, svolgentesi esclusivamente davanti al praetor, e diretta ad accertare la
fondatezza della ragione per cui era stata chiesta, si andava a concludere con
un decretum (restitutionis) pretorio, emesso causa
cognita, da cui sarebbe dipesa la rescissione dell’atto o del negozio
impugnato[156],
e la seconda, subordinata alla prima, attuabile nell’ipotesi di
inosservanza del decretum,
consistente in un vero e proprio iudicium,
chiamato iudicium rescissorium, attraverso
il quale far valere – in via ordinaria – le conseguenze pratiche
della rescissione[157],
oppure se, come appare più probabile, il praetor concedesse direttamente all’interessato l’actio rescissoria, senza un apposito decretum, che avrebbe invece emesso solo
in alcuni casi, soprattutto in materia amministrativa o penale[158].
Difatti, come è stato osservato dai sostenitori di quest’ultima
ipotesi, in primo luogo sono ben pochi i testi che attestano in maniera
esplicita l’esistenza di tale decretum[159]:
e, d’altro canto, non si può aderire all’osservazione
contraria che la sua menzione potrebbe essere stata soppressa nella maggior
parte dei casi dai compilatori giustinianei[160],
in quanto certamente gli stessi, più che sopprimerla, meglio
l’avrebbero sostituita con il termine sententia[161].
Peraltro, un esame approfondito di quei pochi testi in cui l’in integrum restitutio viene concessa a
mezzo decretum porta a considerare
che la parte più cospicua non riguarda il caso in cui alla concessione
stessa doveva seguire l’instaurazione dell’actio rescissoria. Inoltre, si deve pure aggiungere che non ci
è pervenuto alcun testo contenente una frase del tipo “postulare decretum in integrum restitutionis”:
circostanza assai anomala a voler ammettere che la postulatio dell’interessato fosse diretta ad ottenere un decretum. Al contrario, sono ben
più numerosi i testi nei quali l’in integrum restitutio appare accordata direttamente, senza
decreto, per mezzo della sola actio
rescissoria[162].
Ora,
in un contesto siffatto – caratterizzato da ricostruzioni
tutt’altro che omogenee – sul piano teorico si deve convenire sulla
circostanza che le notizie intorno alla rescissione sul piano del diritto
pretorio della capitis deminutio e al
suo diretto collegamento con l’in
integrum restitutio sono assai limitate.
Ne fa
menzione, infatti, solo un passo attribuibile a Paolo, collocato in D. 4.1.2,
che i compilatori hanno utilizzato, posizionandolo in immediata successione ad
un passo di Ulpiano tratto dall’undicesimo libro del commentario ad edictum, per concluderlo, in modo da
completare l’elencazione delle cause più antiche di in integrum restitutio ivi menzionate. I
due passi sono concatenati, e vanno letti in stretto collegamento tra loro:
Ulp. 11 ad ed. D.
4.1.1: Utilitas huius tituli non eget commendatione, ipse enim se ostendit. nam
sub hoc titulo plurifariam praetor hominibus vel lapsis vel circumscriptis
subvenit, sive metu sive calliditate sive aetate sive absentia inciderunt in
captionem
Paul. 1 sent. D. 4.1.2: sive per status mutationem aut iustum errorem.
Nel
passo di Ulpiano vengono enumerate, quali cause che danno luogo ad in integrum restitutio,
l’età, il metus, il dolus, l’absentia. La capitis
deminutio, invece, viene riportata nel frammento successivo, insieme al giusto
errore, che peraltro non è contemplato da nessuna clausola edittale[163].
Se da
una lato la provenienza del passo dalle
Sententiae[164]
potrebbe far sorgere qualche dubbio sull’affidabilità per il
diritto classico della testimonianza contenuta nel Digesto[165],
dall’altro vi è invece un forte indizio a favore della connessione
dell’azione rescissoria con la restitutio
in integrum: difatti, nella ricostruzione dell’editto pretorio
proposta dal Lenel l’edictum de capite (de)minutis si doveva trovare
proprio sotto il titolo de in integrum
restitutionibus; e certamente sotto questo stesso titolo è stato
commentato da Paolo e da Ulpiano, insieme alle altre cause di in integrum restitutio. Il che non
può non avere una sua rilevanza ai fini di una corretta valutazione del
prospettato collegamento.
Sotto
diverso profilo, si deve comunque considerare che, ammettendo nel caso di
specie il verificarsi della rescissione attraverso il meccanismo della restitutio in integrum, in essa si vanno
a riscontrare delle profonde anomalie rispetto alla struttura normale delle
altre azioni rescissorie conseguenti alla stessa restitutio. In primo luogo, come si è già detto,
nelle esigue testimonianze che ci sono pervenute manca del tutto ogni
riferimento all’esistenza di una
causae cognitio preliminare alla concessione della formula. Inoltre, come
attesta Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.5, si
tratta di un iudicium perpetuum e
trasmissibile agli eredi, essendo esperibile sia dagli eredi del creditore che
avverso gli eredi del debitore:
Hoc iudicium
perpetuum est et in heredes et heredibus datur[166].
Al
contrario, i iudicia rescissoria
derivanti da restitutio devono essere
invocati, a pena di decadenza, entro un anno da quando vi è la
possibilità di richiederli. Sono espliciti in tal senso Paul. 1 ad ed. praet. D. 44.7.35 pr.:
In honorariis actionibus sic esse definiendum Cassius ait, ut
quae rei persecutionem habeant, hae etiam post annum darentur, ceterae intra
annum. honorariae autem, quae post annum non dantur, nec in heredem dandae
sunt, ut tamen lucrum ei extorqueatur, sicut fit in actione doli mali et
interdicto unde vi et similibus.
e, pur
se riferibile espressamente alla c.d. restitutio
in integrum ob fraudem, esperibile dal curator
bonorum o dagli stessi creditori frodati nei confronti del terzo che avesse
consapevolmente acquistato in frode ai creditori del proprio dante causa, Ulp.
66 ad ed. D. 42.8.1 pr.:
Ait praetor:
“…intra annum, quo experiundi potestas fuerit [actionem dabo]
<in integrum restituam>[167].
Non mi
sembra però che in un siffatto quadro generale queste singole anomalie
possano aprioristicamente impedire di considerare quella prevista dall’edictum de capite (de)minutis solo come
un’ipotesi di restitutio in
integrum: semmai, appare più verosimile considerarla come
un’ipotesi a sé stante[168].
D’altro canto, è ragionevole pensare con il Lauria che «in integrum restituere indica soltanto
il fine a cui il rimedio è rivolto», e che «quindi, l’i.i.r. non ha forme proprie»,
esplicandosi anche (o “nascondendosi” anche) in taluni casi, mediante
la concessione di actiones ficticiae,
in altri di eccezioni[169].
Ed in effetti uno di questi casi ben potrebbe essere l’actio utilis rescissa capitis deminutione.
Come
si è già accennato in precedenza, un punto di riferimento
importante – del quale non ci siamo fino ad ora ancora occupati –
è la nota testimonianza ulpianea che riporta la disposizione edittale
relativa all’actio utilis rescissa
capitis deminutione:
Ulp. 12 ad ed. D.
4.5.2.1: Ait praetor: ‘Qui quaeve, posteaquam quid cum his actum
contractumve sit, capite deminuti deminutae esse dicentur, in eos easve
perinde, quasi id factum non sit, iudicium dabo’.
Il
contenuto del testo non è differente da quello dei passi gaiani
sull’argomento, in quanto non sembra potersi dubitare che
l’espressione perinde quasi id factum non sit ivi riportata faccia riferimento alla
finzione della non avvenuta capitis
deminutio minima del debitore (o della debitrice) sotto il profilo del diritto
onorario, in modo da consentire al pretore di rendere ai creditori
l’azione contro questi soggetti per vedere soddisfatto il loro credito.
In
primo luogo, da un punto di vista formale, è opportuno considerare che
se da un lato tutte le diverse ipotesi di capitis
deminutio minima vengono ricondotte in una sintetica formula
d’insieme (qui quaeve…capite
deminuti deminutae…), senza alcuna specificazione di quelle
effettivamente rientranti nell’ambito della previsione edittale,
dall’altro vi è un analitico e dettagliato riferimento
sia ai capite deminuti che alle capite deminutae[170]:
ed esso appare certamente ridondante in quanto, come si legge in Ulp. 1 ad ed. D. 50.16.1, l’espressione
‘si quis’ ricomprende al suo interno sia l’uomo che la
donna:
Verbum
hoc ‘si quis’ tam masculos quam feminas complectitur.
Probabilmente
allora una tale formulazione dell’editto non è casuale, ma serve a
richiamare l’attenzione sia sul caso di capitis deminutio minima più specifico dell’uomo,
vale a dire l’adrogatio, sia su
quello più specifico della donna, vale a dire la coemptio, verificandosi i quali i creditori rischiano di vedere le
loro pretese irrimediabilmente compromesse dal comportamento del debitore. Ed
al riguardo può giovare il confronto con il dettato di Gai 3.84, dove
vengono distinte e specificate dettagliatamente – com’è
più consono ad una sede quale è quella di un manuale
istituzionale – precedute ogni volta dal qui o dal quaeve, le
ipotesi particolari alle quali l’editto in discorso potrebbe alludere[171],
nonché con il dettato di Gai 4.38[172].
Tali passi, infatti, assai verosimilmente ricalcano lo stesso schema espositivo
dell’editto pretorio e ne confermano le ipotesi ivi previste.
Nessuna
notizia fornisce invece D. 4.5.2.1 in ordine alla datazione dell’azione in
discorso: motivo per il quale la sua ricostruzione può essere tentata
solo in via indiretta. A tal fine, pertanto, appare fondamentale cercare di
stabilire il rapporto tra l’actio
utilis rescissa capitis deminutione e gli altri rimedi processuali attraverso
i quali il pretore interviene a favore dei creditori di un soggetto passato
dalla condizione di sui iuris a
quella di alieni iuris.
L’attenzione
si deve allora concentrare su di un passo di Ulpiano, tratto dal dodicesimo
libro ad edictum, in D. 15.1.42:
In adrogatorem de
peculio actionem dandam quidam recte putant, quamvis Sabinus et Cassius ex ante
gesto de peculio actionem non esse dandam existimant.
Il
giurista discute dell’ambito di applicabilità dell’actio de peculio. Secondo
l’opinione dei quidam (assai
verosimilmente i Proculiani), alla quale egli stesso aderisce apertamente, e
che sembra essere quella poi effettivamente prevalsa, essa può essere
concessa contro l’adrogator
anche per i debiti contratti ex ante
gesto (anteriori, cioè, all’adrogatio, quando non esisteva ancora un peculio); invece secondo
Sabino e Cassio, vissuti quasi due secoli prima di Ulpiano, e quindi certamente
più legati ad uno schema tipico della stessa azione, una tale
possibilità è esclusa. Diversi sono i dati che emergono dal
passo.
In
relazione alle motivazioni che spingono Sabino e Cassio a rifiutare
l’ampliamento dell’actio de
peculio, esse – in mancanza di qualsivoglia esplicita precisazione
– non possono che andarsi a ricercare nei presupposti necessari alla sua
concessione[173]:
vale a dire l’esistenza effettiva di un peculium, il compimento da parte del servo o del filius, al quale è stato
assegnato il peculium stesso, di un
atto negoziale causa peculiari, o rem peculiari agendo, nonché
l’esercizio della potestà da parte del pater o del dominus al
momento della conclusione del negozio[174].
Ora, mentre per la mancanza del primo di questi requisiti si può
facilmente ovviare, considerando il patrimonio dell’adrogatus (o eventualmente quello della donna conventa in manum) passato all’avente potestà come un peculium[175]
– in quanto, in fondo, il problema è solo temporale, legato alla
sua utilizzabilità per l’ex
ante gesto – appare un po’ più difficile (sebbene non
impossibile) conciliare con la disciplina dell’actio de peculio i restanti due, essendo il debito sorto in un
momento in cui mancava la potestas
dell’arrogatore su questi soggetti. D’altro canto, come si è
già detto, in linea generale non possono andare a gravare sul nuovo dominus obbligazioni contratte dal suo
sottoposto in un momento precedente a quello dell’acquisto della potestas e sotto un diverso titolare.
Evidentemente
però, malgrado le prospettate difficoltà ed incertezze, nella
prassi è prevalsa l’opinione dei quidam, i quali ammettevano che il creditore potesse – sulla
base del presupposto dell’effettiva esistenza di un patrimonio da
considerarsi come peculium –
esperire, in modo alternativo e cumulativo, con l’actio utilis rescissa capitis deminutione anche l’actio de peculio: probabilmente trovando
una giustificazione nel più generale principio dell’arricchimento[176],
che in un certo qual modo consentiva di sopperire alla mancanza delle
caratteristiche intrinseche di quell’actio.
Preme al riguardo sottolineare la circostanza che, pur avendo il filiusfamilias contratto
l’obbligazione in una condizione diversa da quella attuale, comunque la
persona che si è obbligata rimane la stessa, nonostante la permutatio status che ha subito
successivamente alla sua assunzione; inoltre, si deve altresì
considerare che il peculio tiene sempre le veci del patrimonio del sottoposto[177],
così da poter essere utilizzato per soddisfare i suoi debiti, in
qualunque tempo contratti[178].
Ora,
acclarato che il fine comune ad entrambe le azioni è quello di tutelare il
creditore di un soggetto passato dalla condizione di sui iuris a quella di alieni
iuris, è palese la diversità strutturale delle due azioni. La
prima, infatti, è concessa al creditore direttamente contro il proprio
debitore divenuto alieni iuris,
ottenendone la condanna come se fosse ancora un soggetto sui iuris, in modo da lasciare integra la struttura originaria
dell’obbligazione assunta, senza coinvolgere nel rapporto processuale il
titolare del potere, del tutto estraneo al rapporto obbligatorio. La seconda
– certamente meno pratica ed agevole della prima – è data
invece al creditore contro il
paterfamilias del debitore ridotto ad alieni
iuris, in considerazione di un patrimonio esistente presso di lui quale
peculio, come una massa autonoma e distinta[179], così coinvolgendolo in prima
persona con riferimento alla sua responsabilità ex causa peculiari.
Sotto
diverso profilo, la circostanza che nel passo si discuta
dell’allargamento della portata di un’actio oltre il caso per cui era sorta, dimostra che essa era
già utilizzata nel suo schema-tipo in un periodo di poco anteriore ai
tempi di Sabino e Cassio, come nuova azione introdotta per sanzionare la
responsabilità del pater o del
dominus.
A
questo punto, si è giunti all’argomento che interessa maggiormente
ai fini dell’indagine proposta, vale a dire l’ipotesi sulla
datazione dell’actio utilis
rescissa capitis deminutione, condotta attraverso il rapporto cronologico
tra le due azioni alle quali si è fatto riferimento. Ed al riguardo
diverse sono state le proposte degli studiosi.
Il
Dessertaux[180]
ha accennato, sia pur di sfuggita, ad un’anteriorità dell’actio utilis rescissa capitis deminutione
rispetto all’actio de peculio:
la prima, infatti, sarebbe sorta quando nessun tipo di tutela era ancora
apprestato al creditore del capite
deminutus. Successivamente, in maniera maggiormente articolata, è
giunta alle stesse conclusioni la Furia[181].
Il Di
Lella invece – in un discorso teso a dimostrare la non anteriorità
delle formulae ficticiae rispetto
alla prima età classica, sulla base del presupposto che l’editto de capite minutis trovasse riscontro
nella capacità del filius familias
di contrarre obbligazioni proprio nomine
e di essere convenuto in giudizio, stando al dettato di Gai. 3 ad ed. prov. D. 44.7.39 [182],
ex omnibus causis, allo stesso modo
del pater familias[183]
– ha concluso nel senso dell’anteriorità dell’actio de peculio rispetto all’actio ficticia, collocando
quest’ultima molto più in avanti nel tempo, in un periodo
successivo alla riforma giudiziaria di Augusto[184].
Ma questa ipotesi non può essere condivisa. Appare infatti assai
difficile ipotizzare che fino all’epoca del contrasto giurisprudenziale
di cui è menzione in D. 15.1.42, risalente alla metà del I secolo
d.C., non fosse stato apprestato alcun tipo di tutela in favore di detto
creditore. D’altro canto, come ha osservato correttamente la Longo,
è più plausibile ipotizzare che i giuristi, dopo la concessione
pretoria dell’actio utilis rescissa
capitis deminutione, avessero voluto rendere più completa la tutela
del creditore, consentendogli attraverso l’esperimento dell’actio de peculio uno strumento
più idoneo qualora il patrimonio dell’adrogatus non fosse stato sufficiente a coprire i debiti: ed
è dunque abbastanza convincente la conclusione della studiosa siciliana,
secondo la quale il primo rimedio poteva essere già stato previsto
dall’editto al momento dell’introduzione del secondo[185].
Si deve pure aggiungere che la clausola edittale poteva seguire – come
spesso accadeva – una consolidata prassi decretale: il che sposterebbe
ancora più indietro nel tempo la sua effettiva originaria utilizzazione.
In
seguito, anche il Bianchi si è pronunziato a favore
dell’introduzione della clausola edittale sul finire
dell’età repubblicana, sia «pur con una tolleranza all’incirca
di una cinquantina di anni», affermando altresì la più
recente creazione di tale fictio
rispetto alle altre menzionate da Gaio nel suo manuale: ipotesi che potrebbe
trovare conferma nella collocazione del rimedio all’ultimo posto
nell’articolata esposizione in materia del giurista antonino[186].
In
definitiva, delle prospettate congetture, appare più verosimile quella
dell’anteriorità dell’actio
ficticia rispetto a quella de peculio.
Peraltro, merita anche rimarcare il riferimento, nel testo edittale riportato
testualmente in D. 4.5.2.1 (ait praetor),
all’espressione actum contractumve,
che richiama alla mente la dissertazione su atto e contratto che si rinviene
nel noto passo di Ulpiano tratto dall’undicesimo
libro ad edictum e conservato in D. 50.16.19, nel quale il giurista
severiano riferisce il pensiero di Labeone sul significato di alcune categorie
impiegate per designare l’attività negoziale[187].
Sicché non è affatto escluso che Labeone distinguendo,
all’interno degli accordi che il sistema riconosce come idonei a produrre
effetti obbligatori, la categoria dell’atto, che raccoglie quegli
accordi, quali ad esempio la stipulatio
ed il mutuo, che riescono a produrre effetti solo in quanto accompagnati dalla
consegna della res, dalla pronuncia
dei verba o dall’uso delle litterae, da quella del contratto, che
invece raccoglie in sé gli accordi che producono i soliti effetti solo
perché impongono alle parti lo scambio di due prestazioni[188],
nel formulare la definizione dell’atto e quella del contratto avesse
avuto davanti a sé, se non proprio l’editto de capite minutis, quanto meno le sue disposizioni più
importanti; di conseguenza, se la prospettiva fosse corretta, tali disposizioni
potrebbero datare tra la fine della Repubblica e l’inizio
dell’Impero, pur convenendosi sulla circostanza che esse debbano essere
comunque successive alla morte di Cicerone, che non le menziona affatto nelle
sue opere[189].
D’altro canto, una simile ipotesi potrebbe trovare conforto, da un lato,
nell’obiettiva considerazione che le parole actum e contractum
compaiono solo in questo editto, e dall’altro nella circostanza che lo
stesso Lenel appare dubbioso nel ricondurre la definizione labeoniana alla
clausola edittale ‘quod metus causa
gestum erit’[190].
Né
a diverse soluzioni può spingere il raffronto con l’ulteriore
azione concessa dal pretore al creditore nel caso in cui il debitore, dopo aver
contrattato, abbia subito invece una capitis
deminutio maxima o media. Di tale
azione ci informa Ulp. 12 ad ed. D.
4.5.2 pr.:
Pertinet hoc edictum ad eas capitis deminutiones, quae salva
civitate contingunt. ceterum sive amissione civitatis sive libertatis amissione
contingat capitis deminutio, cessabit edictum neque possunt hi penitus
conveniri: dabitur plane actio in eos, ad quos bona pervenerunt eorum.
In
questi altri casi di capitis deminutio
il creditore, per tutelare il proprio diritto, venuta meno la tutela prevista
dall’editto (cessabit edictum),
ha invece a sua disposizione uno specifico rimedio, che è un’actio adversus eos ad quos bona pervenerunt,
esperibile direttamente contro coloro che hanno acquistato i beni dal debitore,
senza dover ricorrere ad alcuna finzione[191].
È di tutta evidenza la diversità sia sul piano strutturale che su
quello effettuale di tale azione rispetto a quella ficticia. L’actio
utilis rescissa capitis deminutione è infatti concessa contro lo
stesso debitore, mentre l’altra contro il soggetto che ne ha acquistato i
beni.
Il
Lenel ha motivato una tale diversità in considerazione del fatto che detta
azione è prevista solo nell’editto del pretore urbano, che
è colui il quale ius dicit inter
cives, e dunque l’unica ipotesi di
capitis deminutio che vi poteva rientrare era quella che aveva luogo salva civitate[192]:
ma già l’Eisele aveva osservato come tale editto avesse in altre
occasioni toccato anche ipotesi in cui si verificava la perdita della
cittadinanza e della libertà[193].
Dunque, resta da chiedersi come mai il praetor
urbanus non avesse ritenuto di estendere nel proprio editto la stessa
costruzione della fictio anche ai
casi di capitis deminutio maxima o media, posto che si tratta, già
ad una prima approssimazione, di tre situazioni che trovano un comune
denominatore nella cessazione iure civili
di un oportere. Si è allora
addotta la circostanza, su cui v’è dottrina consolidata[194],
dell’anteriorità della
capitis deminutio minima rispetto alle altre due, e di una iniziale
unitarietà della nozione – a prescindere poi dalla distinzione in
modi, a seconda delle cause – rispetto alla successiva triplice costruzione
giustinianea[195]:
così che il pretore, avendo davanti a sé solo casi di capitis deminutio minima, si sarebbe
preoccupato di tutelare nel suo editto esclusivamente i due casi del debitore
che si sia dato in adrogatio o della
debitrice conventa in manum, concedendo al creditore
ingiustamente penalizzato dal peggioramento della condizione personale del
debitore un’azione non particolarmente ardita[196].
In ragione di ciò, pertanto, avrebbe creato un sistema che mantiene
vitale l’obbligazione primitiva, lasciando fermo attraverso una finzione
il debitore originario, senza coinvolgere nel rapporto processuale[197]
un terzo soggetto, estraneo al rapporto obbligatorio, quale può essere
l’arrogante o il coemptionator.
Più in avanti nel tempo, invece, aggiungendosi a quella iniziale altre e
più complesse ipotesi di capitis
deminutio (e soprattutto formalizzandosi dette ipotesi), di importanza e
graduazione diversa tra loro, lo stesso pretore – attenendosi come sempre
ad un più generale principio di equità, secondo il quale chi
subentra nell’attivo di un soggetto non può non sopportarne anche
il passivo – si sarebbe spinto oltre, coinvolgendo direttamente nel
rapporto processuale il titolare del potere sul soggetto divenuto alieni iuris malgrado questi, non avendo
contratto egli stesso l’obbligazione, fosse un soggetto del tutto
estraneo al rapporto obbligatorio.
Non
è chi non veda la vicinanza di questa azione, come tutte quelle concesse
adversus eos ad quos bona pervenerunt,
con l’actio de peculio, avendo
sia quest’ultima che le altre come legittimato passivo un soggetto
estraneo al rapporto obbligatorio, che è sempre colui il quale ha
acquistato i beni del debitore. Inoltre, tutte queste azioni sono ispirate da
un medesimo principio comune, quello dell’arricchimento, di più
recente creazione rispetto agli altri principi ispiratori dei rimedi pretori.
Il che potrebbe costituire un ulteriore indizio a favore
dell’introduzione successiva di queste stesse azioni – in tempi e
momenti non necessariamente coincidenti tra loro – rispetto all’actio utilis rescissa capitis deminutione[198].
Mettendo
a questo punto da parte l’actio ad
eos quos bona pervenerunt, esperibile per fattispecie diverse da quella in
esame, resta ancora da considerare un ultimo aspetto. L’actio utilis rescissa capitis deminutione,
pur essendo anteriore rispetto all’actio
de peculio, rimane ancora in piedi e vitale, quanto meno all’epoca
del Principato, e ad essa si continua ad affiancare[199].
Si lascia così al creditore la scelta di poter utilizzare, a seconda
della consistenza del patrimonio sul quale potersi rivalere, un’azione
fittizia nei confronti del debitore originario, che rimane sempre quella
principale, oppure un’azione diretta nei confronti di chi aveva acquistato
la potestas sul debitore[200].
Ed al riguardo, mi sembra che non si ponga qui un problema di concorso tra le
due azioni se non elettivo, nel senso che, scelta l’una, non si
può esperire l’altra[201]:
è indubbio, nel caso di specie, il verificarsi della consumazione
processuale, in considerazione del fatto che entrambe le azioni, pur nella loro
differente struttura, tendono a risarcire lo stesso danno, che trova la sua
origine nel contratto posto in essere tra le parti prima della capitis deminutio del debitore. In
questo caso, infatti, a prescindere dalla diversità formale e
strutturale delle due azioni, a conti fatti, quella che il creditore fa valere
nei confronti del debitore è sempre l’azione contrattuale, che di
quelle stesse azioni costituisce la base in senso sostanziale.
Della
nota testimonianza ulpianea che riporta la disposizione edittale relativa
all’actio utilis rescissa capitis
deminutione merita particolare attenzione il paragrafo 2:
Ulp. 12 ad ed. D.
4.5.2.2: Hi qui capite minuuntur ex his causis, quae capitis deminutionem
praecesserunt, manent obligati naturaliter: ceterum si postea[202],
imputare quis sibi debebit, cur contraxerit, quantum ad verba hius edicti
pertinet. sed interdum, si contrahatur cum his post capitis deminutionem, danda
est actio. et quidem si adrogatus sit, nullus labor: nam perinde obligabitur ut
filius familias.
Soffermiamoci
per ora sulla prima parte del passo, la cui lettura non lascia spazio a dubbi
di sorta: in essa, in maniera assai concisa, e con una formulazione tale da
apparire quasi una regola generale[203],
il giurista severiano afferma la permanenza della naturalis obligatio a seguito della capitis deminutio per quelle cause che la precedono. Ma la
genuinità delle parole manent
obligati naturaliter è stata revocata in dubbio dalla dottrina
maggioritaria[204],
la quale si è interrogata sul senso di un’affermazione di
permanenza della obligatio naturalis,
che a prima vista sembrerebbe lasciare ipotizzare una situazione di
continuità, senza modificazione alcuna nella sua sostanza, rispetto alla
situazione precedente a quella della capitis
deminutio del debitore.
Non
ritengo, però, che una simile impostazione possa essere appieno
condivisa. Certo, è fuori di ogni dubbio – da un lato – che
prima della capitis deminutio sia
l’adrogatus sia la donna conventa in manum, in quanto personae sui iuris, si obbligassero iure civili, e – dall’altro
– che la capitis deminutio comportasse
la perdita della preesistente condizione civilistica di sui iuris, con ogni relativa conseguenza sul piano familiare e
patrimoniale: presupposto sul quale si muove tutta l’impostazione gaiana
dell’argomento. In Gai 3.84 si ritrova lo stesso verbo manere, ma preceduto dal ne, che sembrerebbe porre il discorso su
di un piano diametralmente opposto a quello di D. 4.5.2.2[205]:
il giurista antonino nega infatti che colui il quale si è dato in
adozione e la donna conventa in manum
rimangano obbligati, in quanto la capitis
deminutio nella quale sono incorsi li ha liberati[206].
In altre parole, egli afferma che la permutatio
status ha reso non coercibile attraverso un meccanismo processuale diretto
l’adempimento di un dovere, così negando ogni tipo di continuità
tra i due momenti e le due situazioni. D’altro canto, fa da pendant a questa affermazione quella
contenuta nello stesso manuale in 4.38 dove, a seguito della cessazione iure civili dell’obbligazione,
viene stigmatizzata la cessazione del dare
oportere[207],
e dunque della cogenza dell’adempimento inerente al rapporto
obbligatorio.
Un
tentativo per superare l’empasse
nel quale si rischierebbe di ricadere è stato compiuto, già agli
inizi del secolo scorso, dal Gradenwitz[208],
il quale ha proposto la sostituzione del richiamo alla naturalis obligatio del capite
deminutus con la menzione dell’efficacia iure praetorio dell’obbligo[209].
Il giurista classico, dunque, avrebbe scritto, al posto di manent obligati naturaliter, qualcosa come iure honorario debent, o iure
honorario manent debitores. Va da sé che, accogliendo detta
sostituzione, il concetto di naturalis
obligatio andrebbe ad identificare un obbligo non più valido per il ius civile, ma pienamente efficace per
il ius praetorium: di modo che la
sopravvivenza dell’obbligo sarebbe effetto
dell’azione accordata dal pretore. In altri termini, l’ipotesi
tende a sottolineare l’esistenza di un dovere ancora coercibile
attraverso un rimedio processuale, sia pure indiretto. D’altro canto, sul
piano teorico, è necessario pure tenere in giusta considerazione il
fatto che la qualifica di obligatio
naturalis per un obbligo pretorio sarebbe insostenibile per un giurista
classico, e che al tempo stesso sarebbe invece perfettamente consona alla
mentalità dei Bizantini[210].
V’è da dire che la proposta dello studioso tedesco ha influenzato
largamente la dottrina successiva trovando, nel corso del tempo, vasti consensi[211].
Ma a
questo punto, per una migliore comprensione del contenuto del passo in esame,
prima di esaminarlo integralmente, è opportuno richiamare
l’attenzione su Scaev. 1 resp.
D. 46.1.60, largamente utilizzato dai sostenitori della prospettata ipotesi,
che lo hanno considerato come una falsariga sulla quale si potrebbe essere
mosso Ulpiano:
Ubicumque reus ita liberatur a creditore, ut natura debitum
maneat, teneri fideiussorem respondit…
Si
tratta di un testo che, in considerazione della materia trattata da Scevola nel
primo libro dei responsa, potrebbe
assai verosimilmente riferirsi nell’originale palingenetico, insieme a D.
44.7.30[212],
alla capitis deminutio minima[213]:
motivo per il quale ha suscitato un certo interesse tra gli studiosi ai fini
della ricostruzione della problematica in discorso. D’altro canto, è stato anche affermato da autorevole
dottrina che esso potrebbe ben rappresentare uno sviluppo del pensiero
giulianeo in tema di naturalis obligatio
facente capo a persone alieni iuris[214].
Il
dato che emerge dal passo, di non facile interpretazione, soprattutto nella sua
seconda parte[215],
è la permanenza di una valida fideiussio
a seguito della liberazione del debitore, rimanendo a suo carico un natura debitum[216]. Peraltro, è appena il caso di
osservare che lo stesso regime è attestato in numerosi testi riferibili
alla capitis deminutio maxima o media del debitore principale, ove non vi è questione
dell’eventuale persistenza di un debito naturale dell’obbligato
stesso[217].
Da un
punto di vista formale, è da rilevare come non sia a posto l’ubicumque: dinfatti, il vocabolo sembra
piuttosto il frutto di una generalizzazione compilatoria in sostituzione di una
soluzione concreta prospettata per la singola fattispecie che il giureconsulto
aveva preso in considerazione. Ed in dottrina è stata considerata
congettura convincente pure quella della sostituzione della menzione dell’obligatio naturalis rispetto
all’efficacia iure praetorio
dell’obbligo stesso[218].
Ma tutto ciò appare poco soddisfacente.
Ci si
deve allora porre su di un piano diverso. Pur senza in questa sede voler e
poter prendere posizioni più generali sulla complessa tematica della obligatio naturalis, sulla quale ha
lungamente indugiato la dottrina romanistica, anche e soprattutto in
considerazione delle «antinomie apparentemente inestricabili»
presentate dai testi della compilazione giustinianea in materia[219],
che per la loro «frammentaria disparità», se non proprio
contradditorietà, escludono ormai del tutto la possibilità di
ricondurla ad una nozione unitaria ed organica, da un punto di vista
concettuale non vi sono motivi sostanziali di dubbio per escludere che Ulpiano
potesse riconoscere come obligatio
naturalis, in contrapposto a civilis[220], quella che residua, in modo
affievolito, dopo la capitis deminutio
del debitore[221].
Si
potrebbe, allora, provare ad interpretare il
manent che si legge nel testo di Ulpiano nel senso di riconoscere la
sopravvivenza dell’obbligazione primitiva dopo la permutatio status, ma sotto una forma diversa, estranea al ius civile, essendo venuto meno a
seguito dell’estinzione l’elemento civile dell’obbligazione,
vale a dire l’azione che ne deriva[222].
L’obbligazione che residua, in questo caso, viene detta dai giuristi
classici, sulla scia di Giavoleno, al quale si deve la sua prima elaborazione
concettuale[223],
naturale per due motivazioni, una di carattere negativo e l’altra di
carattere positivo. La prima, che trova il suo presupposto nell’assenza
di coercibilità del vincolo, mancando lo strumento per far valere
giudizialmente in via diretta l’aspettativa del creditore, e la seconda
nella presenza di elementi materiali, o di fatto, «che fonderebbero
l’esistenza di una obbligazione avente piena efficacia se non vi fosse di
ostacolo uno specifico principio di diritto»[224]:
ostacolo che qui, è evidente, è individuabile nella capitis deminutio minima, che comporta
l’incapacità giuridica di uno dei soggetti del rapporto
obbligatorio, in considerazione del suo passaggio da persona sui iuris a alieno iuri subiecta.
Si
deve pure aggiungere che una tale accezione di obligatio naturalis con riferimento a casi di obbligazioni al loro
sorgere pienamente coercibili, rimaste successivamente comunque “vive e
vitali”, anche se prive di coercibilità a seguito
dell’operare di cause civili di estinzione, non la si ritrova nel solo
caso della capitis deminutio minima[225].
Essa è attestata, sparsa qua e là in singoli testi del Digesto,
risalenti in maniera diretta o indiretta sino a Giuliano[226],
di provenienza tra l’altro non sempre sicura, anche in altri casi –
per la verità tra loro assai disparati – quali quelli relativi ad
obblighi perduranti dopo la consunzione processuale, in particolare a seguito
della litis contestatio[227]
e della sentenza di assoluzione ingiusta[228],
oppure quello della confusio tra
soggetto attivo e passivo del rapporto obbligatorio[229],
o ancora quelli di obbligazioni valide per ius
civile, ma paralizzabili iure praetorio
da exceptio[230],
quali l’obbligo ex mutuo del filius familias[231]
e l’obbligo invalido in base all’editto quod quisque suis in alterum statuerit, in relazione agli atti
illegali dei magistrati che avevano il compito di ius dicere[232].
In
definitiva, la naturalis obligatio
che residua in modo affievolito dall’obligatio
civilis dopo la capitis deminutio
del debitore è configurabile come un’obbligazione che –
richiamando al proposito la nota distinzione tra Schuld e Haftung formulata in
tempi ormai molto lontani dalla dottrina pandettistica – ha ancora in
sé il momento essenziale della Schuld, attinente alla struttura
intrinseca della obbligazione primitiva; tuttavia ad essa, essendo venuta meno
per motivazioni di vario genere la possibilità di realizzare la coazione
diretta dell’adempimento attraverso un meccanismo processuale di
accertamento e di condanna, e dunque di realizzare l’aspettativa del
creditore, non è più correlata l’Haftung.
Così
congetturata, l’obligatio naturalis,
mantenendo fermo il debito primario – inteso come debito pagabile ma non
esigibile[233]
– non solo non è in contrasto con la concessione al creditore
dell’actio ficticia, ma ne può addirittura diventare un ottimo supporto
concettuale.
Per
una migliore comprensione della parte iniziale del testo in esame – un
testo, è bene precisarlo, particolarmente tormentato – è
opportuno esaminarlo integralmente. All’affermazione della permanenza
dell’obligatio naturalis per
quelle cause anteriori alla permutatio
status, segue una contrapposizione con le cause ad essa successive[234]:
in tal caso, chi avrà concluso un contratto con un capite deminutus dovrà imputare a sé stesso di averlo
fatto, non potendosi avvalere del disposto dell’editto. Ma talvolta, si
aggiunge, occorre concedere l’azione; nessuna difficoltà, continua
ancora il testo, se taluno sia stato arrogato, poiché da questo momento
si obbligherà come un figlio in potestà.
Il
primo punto da affrontare è l’antitesi iniziale. Ad una prima
lettura, la differenza tra coloro i quali hanno stipulato un contratto prima o
dopo la capitis deminutio sembra
ravvisarsi in una migliore protezione dei primi, che soli possono godere del
beneficio della restitutio in integrum
e del logico completamento della missio
in bona. La posizione di questi, dunque, sembrerebbe privilegiata rispetto
a quella dei creditori successivi, svantaggiati nella possibilità di
vedere realizzato il loro credito: ed il privilegio, secondo quanto è
stato sostenuto in dottrina, risulterebbe espresso da Ulpiano in termini di obligatio naturalis[235].
Occorre
invece procedere ad una lettura più attenta. Ed a tal proposito,
preliminarmente, è necessario definire l’ambito esatto del
discorso del giurista severiano. A parere del Cornioley i creditori successivi
ai quali si fa riferimento nel testo sono quelli che hanno stipulato
nell’ignoranza del cambiamento di status
del debitore, credendo per errore che egli godesse della piena capacità
della quale godeva prima della capitis
deminutio[236]:
ma non mi sembra che il testo autorizzi una simile lettura. In mancanza di
qualsivoglia specificazione appare, infatti, più verosimile ipotizzare
che detti creditori fossero consapevoli del cambiamento di status del debitore. Fermo restando, però, che la situazione
di svantaggio per costoro sarebbe, in definitiva, esclusivamente in termini di
non potersi avvalere del beneficio previsto dall’editto, così come
invece concesso ai creditori anteriori. Ed una conferma di ciò si
può rinvenire nell’espressione quantum
ad verba huius edicti pertinet, che va a restringere il campo
dell’affermazione all’ambito di applicabilità
dell’editto, senza voler rappresentare una generale situazione di svantaggio
per tali creditori.
D’altro
canto, si deve considerare che i potestate
subiecti – in considerazione del loro status patrimoniale, che esclude l’esistenza di un autonomo
patrimonio su cui i creditori si possano rivalere – non erano tenuti a
rispondere direttamente per gli atti di natura obbligatoria compiuti con un
estraneo: ma, sul presupposto dell’esistenza di un peculio, di questi ne
rispondevano, grazie alla previsione delle azioni pretorie adiettizie, ed in
particolare quella de peculio, gli aventi
potestà su di loro al momento della conclusione del negozio. Inoltre, la
giurisprudenza classica, documentata a partire da Giavoleno, si era comunque
adoperata per il progressivo riconoscimento di un vincolo da parte dei sottoposti – considerando che alla base
del rapporto obbligatorio vi fosse anziché un vinculum iuris un vinculum di
diverso tipo, quale appunto, quel
vinculum aequitatis[237],
di natura etico-morale[238],
che ad esso si può andare a giustapporre, situato sul piano dell’honestum e governato dai valori
dell’aequum e della fides – qualificato, seppur
impropriamente, “per abusionem”[239],
come debere[240], «fondato sulla pura e semplice
realtà delle cose»[241],
ed espresso in termini di naturalis
obligatio. Così, queste fattispecie obbligatorie, nelle quali una
delle parti si trovava ad essere un potestati
subiectus, riuscivano comunque ad avere una loro rilevanza giuridica
autonoma[242].
Proseguendo
nella lettura del testo, dopo l’antitesi tra la posizione dei creditori
anteriori e di quelli successivi alla capitis
deminutio si afferma che talvolta a questi ultimi si può concedere
l’azione: e il caso riportato nello specifico è quello
dell’arrogato, che a partire dal momento della permutatio status si obbliga come un figlio in potestà. Ma
l’affermazione nel suo complesso non è in particolare sintonia con
la predente, se non proprio in contraddizione con essa. Ciò non
giustifica una sua aprioristica totale eliminazione, come insiticia[243].
Al contempo, però, non si può negare che essa sia il risultato di
un’opera di confusione e di accorciamento da parte, con ogni
probabilità, dei compilatori giustinianei sull’originale ulpianeo,
che lo rendono, allo stato, di assai difficile utilizzazione[244].
Ed in ragione di ciò occorre tentare di delimitare i confini dell’intervento.
In
questa prospettiva, il Savigny ha provato a ricondurre l’ipotesi alla
quale il giurista avrebbe fatto originariamente riferimento, poi soppressa dai
compilatori, a quella del contratto concluso da colui il quale era stato filius familias durante la mancipii causa[245]:
in tal caso, dove l’altro contraente avrebbe normalmente dovuto
ricondurre al proprio comportamento il danno subito, potendosi informare
dell’attuale situazione giuridica del debitore, avrebbe potuto invece
ottenere la restituzione – una restitutio
ob iustum errorem[246]
– qualora l’ignoranza fosse stata a lui non imputabile. Una simile
interpretazione, accolta peraltro in epoca abbastanza risalente da diversi
studiosi[247],
troverebbe conforto nel generico riferimento che si rinviene nel testo alla capitis deminutio, differente da quello
ben circostanziato della previsione edittale, circoscritta ai soli due casi
dell’adrogatio e della conventio in manum. Si deve, tuttavia,
considerare che l’editto di cui è menzione restituisce al creditore
un’azione che già aveva in precedenza: al contrario, ammettendo
detta ipotesi, il pretore verrebbe a concedergli un’azione mai avuta in
precedenza, in quanto è fuori di ogni dubbio l’incapacità
dell’emancipato ad obbligarsi ex
contractu. E, comunque, appare difficilmente configurabile la previsione
esplicita del caso – veramente assai particolare – di un creditore
che avesse stipulato un contratto in una situazione talmente transitoria e di
breve durata quale è quella del filius
familias in mancipio in attesa di arrivare all’emancipatio[248].
Il che fa sorgere qualche perplessità sulla sua attendibilità,
mancando, tra l’altro, nel testo ogni supporto testuale in tal senso.
D’altro
canto, il punto cruciale del passo ulpianeo non è, a mio parere, questo
tratto, potendosi in un certo qual modo considerare, nei casi espressamente
previsti dall’editto, l’ipotesi della concessione sporadica –
così come evidenziato dall’interdum
– al creditore di detta azione, anche successivamente al verificarsi
della capitis deminutio del debitore.
La
parte del testo che suscita maggiori perplessità e dubbi è
infatti la sua parte finale. L’adrogatus
risulterebbe, allo stesso modo del filius
familias, capace di obbligarsi per i debiti assunti post adrogationem, mentre resterebbe ferma la sua mancanza di
responsabilità per quelli ante
adrogationem, quando ancora, peraltro, non era sottoposto alla
potestà dell’adrogator.
Si
potrebbe allora congetturare che i compilatori giustinianei, avendo trovato
nella parte iniziale del testo un riferimento all’adrogatus[249],
anche – non è da escludersi – insieme a quello della donna conventa in manum, espresso nei termini
della sussistenza a loro carico di una obligatio
naturalis, nonostante l’estinzione dell’obligatio civilis a seguito della capitis deminutio, lo abbiano poi riportato anche nella sua parte
finale, senza preoccuparsi di raccordarlo alle argomentazioni immediatamente
precedenti, così rendendolo, in definitiva, del tutto indecifrabile
rispetto al contesto generale[250].
Resta
da menzionare un’ultima testimonianza, spesso utilizzata dalla dottrina,
nonostante i suoi termini incerti, a favore della configurabilità
dell’obbligazione del capite
deminutus come obligatio naturalis,
in connessione con la problematica delle conseguenze della capitis deminutio. Si tratta di Gai 4 ad ed. prov. D. 4.5.8:
Eas obligationes, quae naturalem praestationem habere
intelleguntur, palam est capitis deminutione non perire, quia civilis ratio
naturalia iura corrumpere non potest. Itaque de dote actio, quia in bonum et
aequum concepta est, nihilo minus durat etiam post capitis deminutionem.
Nel
passo, oggetto di aspre e severe critiche da parte di illustri studiosi[251],
si afferma che quelle obbligazioni che si ritengono avere una prestazione
naturale non si estinguono a seguito della capitis
deminutio, perché la civilis
ratio non può intaccare i diritti fondati sulla natura[252].
In tale prospettiva, l’actio de
dote, poiché è stata concepita in bonum et aequum, rimane inalterata anche a seguito
dell’avvenuta capitis deminutio.
Preliminarmente,
è appena il caso di rilevare come il principio civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest ivi affermato
sia sostanzialmente coincidente, anche se leggermente abbreviato nella
terminologia[253],
con il ‘topos’ che si
rinviene in Gai 158 [254],
poi riproposto anche in Inst. Iust. 1.15.3 [255],
a proposito della giustificazione della persistenza della cognatio (naturalis) nonostante
l’avvenuta capitis deminutio[256].
Il che potrebbe fornire qualche rassicurazione sulla mano che ha forgiato la
struttura essenziale del passo, nonostante i forti sospetti di alterazione che
gravano su di esso.
Ciò
posto, è opportuno tentare di comprenderne la sua struttura essenziale.
In primo luogo, non è chiaro se il riferimento che si rinviene nel passo
sia alla capitis deminutio del
debitore o a quella del creditore, né vi sono elementi esterni per
poterlo desumere in altra maniera[257].
Potrebbe, invece, essere assai verosimile il riferimento alla sola capitis deminutio minima, attesa nel
contesto giustinianeo la trattazione esplicita del brevissimo paragrafo
seguente[258],
strettamente allacciato al precedente, relativa alla capitis deminutio minima della donna creditrice[259].
Dunque,
vi è un obbligo per il marito di restituire la dote e tale obbligo
è inestinguibile per capitis
deminutio minima[260].
Prospettiva, questa, che consentirebbe di ipotizzare l’esistenza di
obblighi riconosciuti dal ius naturale[261],
pienamente efficaci in quanto forniti di azione: uno dei quali sarebbe,
appunto, quello di restituire la dote[262].
Ma
quello che maggiormente qui interessa, e che ridimensiona fortemente ai nostri
fini il valore del passo gaiano, è che in esso non vi è la
menzione diretta della persistenza di un’obligatio naturalis, bensì di una praestatio naturalis[263],
vale a dire del suo oggetto[264].
Ciò posto, nel caso di specie la qualifica di naturalis emerge in modo differente da come emerge in D. 4.5.2.2[265],
e per questo il piano logico delle due testimonianze è differente. Ma
soprattutto, come osserva il Talamanca[266],
il principio affermato in D. 4.5.8 non si può estendere – in
materia di obbligazioni – al di là dell’actio rei uxoriae, che è l’esempio ivi immediatamente
appresso riportato (ovviamente sostituito dai giustinianei, da un punto di
vista esclusivamente formale, con l’actio
de dote), in quanto actio in bonum et
aequum concepta[267],
e che durat post capitis deminutionem[268]:
il che esime da ogni indebito tentativo di generalizzazione della stessa.
Orbene,
in quest’ottica, nel caso di specie si può escludere con un buon
margine di verosimiglianza ogni menzione diretta da parte di Gaio – che
pure si riconnette in altre occasioni per questa tematica all’ordine di
idee giulianeo[269]
– alla naturalis obligatio, ed
il riconoscimento, almeno in questi termini, della persistenza e soprattutto
della coercibilità del vincolo obbligatorio, invece sicuramente
attestata per il caso del debito contratto dal capite deminutus in un momento antecedente alla sua permutatio status.
[1] Al
riguardo, a prescindere dalle trattazioni generali che più hanno segnato
la tematica della capitis deminutio,
quale schema concettuale di probabile elaborazione giurisprudenziale, hanno affrontato
in particolare l’argomento in discorso F.
Dessertaux, Études sur la
formation historique de la capitis deminutio I, Dijon 1909, II, Paris 1919
e 1926, III, Paris 1928, al quale si rinvia per un’ampia e dettagliata
bibliografia precedente; U. Coli,
Capitis deminutio, Firenze 1922, ora
in Scritti di diritto romano I,
Milano 1973, 153 ss.; R. Ambrosino,
Il simbolismo della capitis deminutio,
in SDHI 6, 1940, 39 ss.; C. Gioffredi, Caput, in SDHI 11, 1945,
301 ss.; M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio, in
Iura 1952, 48 ss.; M. Bretone, s.v. Capitis deminutio, in NNDI
2, 1958, 917 ss.; R. Panero
Gutiérrez, Observationes
sobre el sentido originario de la capitis deminutio, Barcelona 1976; Id., Capitis deminutio y capite deminutus, in Estudios R. Yanes 2, Burgos 2000, 175 ss.; B. Albanese, Capitis
deminutio, in Studi in onore di A.
Arena, I, Padova 1981, 33 ss., in una sostanziale riproposizione del suo
pensiero espresso in precedenza in Le
persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 311 ss.
[2] La
categoria dell’obligatio naturalis
ha dato luogo ad una bibliografia sterminata. Accenno qui, senza alcuna pretesa
di completezza, solo ai più importanti contributi che possono risultare
utili ai fini dell’indagine proposta: H.
Siber, Naturalis obligatio, in
Gedenkschrift Mitteis, Leipzig 1926,
1 ss.; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, Roma
1928, rist. anast. Roma 2002, II, 45 s.; J.
Vážný, Naturalis
obligatio, in Studi Bonfante IV,
Milano 1930, 131 ss.; C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e
degli istituti giuridici romani, Milano 1937; E. Albertario, Corso di
diritto romano. Le obbligazioni.
Parte generale, III, Milano 1938, 41 ss. (riprodotto, senza alterazioni
sostanziali, nella riedizione del 1947); V.
De Villa, Studi sull’obligatio
naturalis, in Studi Sassaresi 17,
1939-40, 30 ss.; E. Nardi, In tema di confini dell’obbligazione
naturale, in Studi Parmensi 5,
1955, 1 ss. (= Studi De Francisci 4,
Napoli 1956, 574 ss.); A. Burdese,
La nozione classica di naturalis
obligatio, Torino 1955; Id., Dubbi in tema di naturalis obligatio, in
Studi Scherillo 2, Milano 1972, 485
ss.; Id., La naturalis obligatio nella più recente dottrina, in Studi Parmensi 32, Parma 1983, 45, ora
in Miscellanea romanistica, Madrid
1994, 195 ss.; F. Senn, Les obligations naturelles. La leçon de la Rome antique, in RH 36, 1958, 151 ss.; G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis, Milano 1962; Id., Lenti progressi in tema di obligatio naturalis, in Labeo 12, 1966, 375 ss.; P. Cornioley, Naturalis obligatio. Essai sur l’origine et l’evolution de la
notion en droit romain,
thèse Genève 1964; L.
Labruna, Naturalis obligatio
(rec. a Longo, op. cit.), in Labeo
10, 1964; Id. (rec. a
Cornioley, op. cit.,) in Iura 16,
1965, 413 ss.; G. Broggini, rec.
a Longo e a Cornioley, in SDHI 31,
1965, 362 ss. ora, col titolo Obligatio
naturalis, in Coniectanea. Studi di
diritto romano, Milano 1966, 510 ss.; G.
Scherillo, Le obbligazioni
naturali, in AG 175, fasc. 1-2,
1968, 3 ss.; M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, Das altrömische, das vorklassische und
klassische Recht, 2a ed., München 1971, 480 ss.; P. Didier, Les obligations naturelles chez les derniers Sabiniens, in RIDA 19, 1972, 245 ss.; A. Mantello, Beneficium servile - debitum naturale, Sen de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav. 2 ex post. Lab.),
Milano 1979; M. Talamanca, s.v. Obbligazioni (storia) a) dir. rom., in ED. 29, Milano 1979, 59 ss. Cfr. pure,
più recenti, P.L. Landolt,
Naturalis obligatio and bare social duty,
Köln-Weimar-Wien 2000; H. Honsell,
Naturalis obligatio, in Iuris vincula. Scritti in onore M. Talamanca
IV, Napoli 2001, 367 ss., e S. Longo, Naturalis obligatio, in Handwörterbuch der antiken Sklaverei,
Stuttgart 2008, 1 ss.
[3]
Particolarmente rilevanti sono i lavori in materia di S. Solazzi, Studi
sull’actio de peculio I, Actio
de peculio contro venditore e compratore, in BIDR 17, 1905, 208 ss., ora in Scritti
di diritto romano I, Napoli 1955, 178 ss.; E. Valiño, La
capacidad de las personas in potestate en derecho romano, in Revista del derecho notarial 57-58,
1967, 99 ss.; I. Buti, Studi sulla capacità patrimoniale dei
servi, Napoli 1976; F. Lucrezi,
Senatusconsultum Macedonianum, Napoli
1992, e soprattutto di S. Longo, Filiusfamilias se obligat? Il problema della
capacità patrimoniale dei filiifamilias, Milano 2003.
[4] Mi
riferisco in particolare, oltre alle trattazioni dedicate all’interno
degli studi sul processo formulare, all’ancora fondamentale contributo di
S. Riccobono, Formulae ficticiae a Normal Means of Creating New Law, in TR 9, 1929, 3 ss. (cfr. anche Id., Corso di diritto romano II,
Formazione e sviluppo del diritto romano dalle XII tavole a Giustiniano,
Milano 1933-34, 211 ss.); e ai più recenti contributi di L. Di Lella, Formulae ficticiae. Contributo allo studio della riforma giudiziaria di
Augusto, Napoli 1984; R. Sotty,
Les actiones qualifiées
d’utiles en droit classique, in Labeo
25, 1979, 139 ss. (del quale non ho potuto consultare la
dissertazione Recherches sur les utiles
actions. La notion d’action utile en droit romain classique,
Clermond-Ferrand 1977), e F. Mercogliano, Actiones ficticiae. Tipologie e datazione,
Napoli 2001.
[5] Per la
letteratura, anche su questo argomento molto ampia al proposito, mi limito a
rinviare, oltre all’approfondita analisi di G. Demelius, Die
Rechtsfiktion in ihrer geschichtlichen und dogmatischen Bedeutung. Eine
juristische Untersuchung, Weimar 1858, rist. Frankfurt am Main 1968, che
per primo ha individuato la genesi della fictio
nell’ambito del diritto sacro, alle più recenti monografie di E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo
arcaico all’epoca augustea, Padova 1997; F. Todescan, Diritto e
realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Padova 1979; W. Iser, The Fictive and the Imaginary, London 1993, e E. Dieni, Finzioni canoniche. Dinamiche del “come se” tra diritto
sacro e diritto profano, Milano 2004. Cfr. anche K. Hackl, Sulla
finzione nel diritto privato, in Studi
Biscardi I, Milano 1982, 245 ss.; T. Giaro,
Die Fiktion des eigentilichen
Eigentümers, in Au-delà
des frontières. Mélanges W. Wolodiewicz 1, Warsawa 2000, 277
ss.; M. Bretone, Finzioni e formule nel diritto romano,
in Materiali per una storia della cultura
giuridica, 31.2, 2001, 295 ss. e, tra le raccolte di studi, Le finzioni del diritto, a cura di F.B.
D’Usseaux, Annali Genova,
Milano 2002, ove si può anche rinvenire una interessante raccolta dei
testi in materia.
[6] Questa
settorialità ha caratterizzato anche, in fondo, i più specifici
contributi di C. Furia, Gai 3.84; 4.38 e la collocazione originaria
dell’editto de capite minutis, in SDHI
53, 1987, 110 ss., e di A. D’Ors,
Sobre el edicto de capite minutis (EP§ 41), in Estudios en homenaje al professor Francisco Hernandez-Tejero,
Madrid 1992 (pubbl. 1994), 127 ss.
[7] Delle
finzioni proprie del processo formulare, su cui si può rinvenire una
complessiva analisi in M. García
Garrido, Sobre los verdaderos
limites de la ficcion en derecho romano, in AHDE 27-28, 1957-58, 305 ss., e Id.,
De nuevo sobre las supuestas ficciones
jurisprudenciales, in Iuris vincula
cit., IV, 55, il quale ne evidenzia l’ampia portata, Gaio descrive per
prima (in 4.34), senza alcuna pretesa esaustiva – così come
sembrerebbe indicare il veluti ad
apertura della trattazione, spesso utilizzato all’interno del manuale in
funzione esemplificativa – e senza alcuna generale preliminare
introduzione dell’argomento, quella con cui si consente al bonorum possessor di agire ficto se erede per far valere pretese
sia in rem che in personam, e di essere convenuto in giudizio; a questa segue nel
paragrafo successivo quella concessa al bonorum
emptor che, come il bonorum possessor
(similiter, ingiustamente ritenuto un
glossema da G. Beseler, Textkritische Studien, in ZSS 53, 1933, 47), è carente di legittimazione sia attiva che passiva,
denominata actio Serviana, attraverso
la quale il bonorum emptor viene
considerato (ovviamente sotto il profilo processuale) come erede del debitore
defunto. Quest’ultima è da utilizzarsi in alternativa all’azione
con trasposizione di soggetti, probabilmente più risalente, chiamata
invece Rutiliana, dovuta al pretore
Publio Rutilio, che in un certo qual modo, pur avendo una finalità
sostanzialmente analoga alla Serviana,
costituisce un mutamento di prospettiva in un contesto dedicato alle fictiones. Nel paragrafo 4.36 segue la
trattazione dell’actio Publiciana
– la cui finzione in essa contenuta è certamente la più
nota tra le finzioni pretorie – concessa, come variante della rei vindicatio, a tutela di chi avesse
ricevuto in base ad una iusta causa
una res mancipi attraverso una
semplice traditio e ne avesse perso
il possesso prima di averla usucapita, dove con l’espressione fingitur rem usucapisse si vuole fare
riferimento alla finzione che l’attore abbia usucapito quella determinata
res “si anno possidet”
(è appena il caso di sottolineare che in relazione a questa affermazione
C.A. Cannata, Profilo istituzionale del processo romano, II, Il processo formulare, Torino 1982, 2.86
nt. 6, considera che Gaio abbia commesso un grave errore nel fingere
l’usucapione: ma v. contra M. Talamanca, Il riordinamento augusteo del processo privato, in Gli ordinamenti giudiziari di Roma
imperiale. Princeps e procedure dalle leggi giulie ad Adriano, Atti Copanello 5-8 giugno 1996, a cura
di F. Milazzo, Napoli 1999, 111 nt. 193, il quale invece afferma che
dell’errore non è data alcuna prova). Negli ultimi due paragrafi,
infine, Gaio passa a trattare «questioni, che con terminologia moderna,
definiremmo di stato» (così E.
Bianchi, Fictio iuris cit.,
304): vale a dire la finzione di attribuzione della cittadinanza romana per lo
straniero (la c.d. fictio civitatis
descritta in 4.37), che gli conferisce legittimazione processuale sia attiva
che passiva nei casi di controversia con un cittadino romano, permettendogli
così l’esercizio di un’azione penale, o consentendo
l’esperibilità delle diverse azioni nei suoi confronti, come nel
caso dell’actio furti (nec
manifesti). Il discorso si conclude in 4.38 con la trattazione relativa
alla rescissione della capitis deminutio
del debitore, che qui si vuole affrontare nello specifico. Ora, in una visione
complessiva dell’esposizione gaiana sull’argomento, appare
opportuno richiamare il giudizio di G.
Falcone, Appunti sul IV
commentario delle Istituzioni di Gaio, Torino 2003, 111 s., il quale, non
mancando preliminarmente di osservare come l’illustrazione di tali fictiones, e dunque di versioni
elaborate di formule (tra cui anche quelle con trasposizione di soggetti),
preceda le nozioni-base su ogni singolo segmento della formula, esposte e
spiegate successivamente nei paragrafi a partire dal 39 (109 ss.) – ma,
d’altro canto, il quarto commentario di Gaio è certamente rispetto
agli altri il meno ordinato nel metodo di esposizione – considera
l’ordine interno all’elencazione dei paragrafi dal 34 al 38 ben
calibrato dal giurista nell’ottica di una contrapposizione tra leges e creazioni edittali.
[8]
Sull’impiego da parte di Gaio del termine genus in relazione a classificazioni non rigorose v. in particolare
M. Talamanca, Lo schema genus-species nelle sistematiche
dei giuristi romani, in Colloquio
italo-francese “La filosofia greca e il diritto romano”, 2,
Roma 1977, 267 nt. 734.
[9] C. Gioffredi, Aspetti della sistematica gaiana, in Nuovi studi di diritto greco e romano, Roma 1980, 259, richiama
l’attenzione sulla circostanza che il discorso gaiano sulle actiones ficticiae sia, in fin dei
conti, un «argomento importante anche dal punto di vista del diritto
materiale, perché consente di valutare l’ampiezza
dell’apporto dato dal diritto pretorio al ius civile».
[10] Dette fictae legis actiones, in fondo,
costituiscono una sorta di passaggio dal processo per legis actiones a quello formulare, e vengono definite nel paragrafo
10 dello stesso libro come quelle quae ad
legis actionem exprimuntur: ma i termini precisi della distinzione rispetto
a quelle che sua vi ac potestate constant
sono abbastanza oscuri e discussi, a causa della lacuna del manoscritto
veronese, che costituisce l’unica fonte sulla quale poter fare
affidamento, mancando peraltro nelle Istituzioni imperiali, attraverso le quali
si potrebbe tentare un’integrazione del passo, ogni riferimento a detta
forma di processo. In relazione alle stesse, le cause per cui si sono venute a
creare le formulae ficticiae in esse
– non sempre – contenute sono state minuziosamente esaminate di
recente da M. Talamanca, Il riordinamento augusteo cit., 103 ss. Cfr. pure, con riferimento al
problema specifico della distinzione tra le finzioni operata da Gaio, A. Biscardi, Une categorie d’actions negligée par les romanistes: les
actions formulaires quae ad legis actiones exprimuntur, in TR 21, 1953, 310 ss.; A. Magdelain, Gaius IV 10 et 33: naissance de la procedure formulaire, in TR 59, 1991, 239 ss. (= Naissance de la
procedure formulaire, in De la
Royauté et du Droit de Romulus à Sabinus, Roma 1995, 156
ss.); E. Bianchi, Le actions, quae ad legis actiones
exprimuntur in Gaio. Una
nuova ipotesi sulla “catégorie d’actions negligée par
les romanistes”, in Collana della Rivista
di diritto romano, Atti del convegno
di studio Pontignano (Siena, 2001), in <http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/attipontignanobianchipdf>.
Per un quadro complessivo del “Gedankengang” di Gai 4.30-33 si veda
C.A. Cannata, Introduzione ad una rilettura di Gai 4.30-33,
in Sodalitas. Studi A. Guarino 4,
Napoli 1984, 1869 ss.
[11] La fictio pignoris capionis è trattata
da Gaio nel paragrafo 4.32. Su di essa v. in particolare le trattazioni
specifiche di G. Pugliese, Gai 4.32 e la pignoris capio, in Mélanges P. Meylan, Lausanne
1963, 279 ss., ora in Scritti giuridici
scelti, I, Napoli 1985, 319 ss., Id.,
Qualche nuova osservazione sulla pignoris
capio dei pubblicani e Gai 4. 32, in Collatio iuris romani, in Études H. Ankum, Amsterdam, 1995,
58 ss., ora in Scritti giuridici
(1985-1995), Napoli 2007, 885 ss.; T.
Spagnuolo Vigorita, Lex portus
Asiae. Un nuovo documento sull’appalto delle imposte, in I rapporti contrattuali con la pubblica
amministrazione nell’esperienza storico-giuridica, Torino 17-19 ottobre
1994, Napoli 1997, 113 ss.; L.
Maganzani, I poteri di autotutela
dei publicani nel monumentum Ephesenum (lex portus Asiae), in MEP 3, 2000, 129 ss., Ead., La pignoris capio dei publicani dopo il declino delle legis actiones,
in Cunabula iuris. Studi G. Broggini,
Milano 2002, 181 ss., e Pubblicani e
debitori d’imposta. Ricerche sul titolo edittale de publicanis, Torino
2002, tutti con ampia e dettagliata bibliografia precedente.
[12] La
constatazione è nel paragrafo 4.33 delle Istituzioni. Qui, come osserva M. Talamanca, Il riordinamento augusteo cit., 138, l’inesistenza della fictio condictionis non è
collegata all’abolizione di un determinato modus agendi, ma trova invece il suo fondamento nel fatto che
l’actio certae creditae pecuniae
e la condictio certae rei formulari
non avevano bisogno di una fictio di
tal genere. E, d’altro canto, è bene sottolineare che la fictio pignoris capionis di Gai 4.32,
che poi è l’unica di cui abbiamo il tenore letterale, è
concepita in praeteritum: …ut quanta pecunia olim, si pignus
captum esset, id pignus is a quo captum erat luere deberet, tantam pecuniam
condemnetur.
[13] Si
è tentato di vedere in questa lacuna una trattazione relativa
all’impiego della legis actio per
pignoris capionem in materia di
damnum infectum: fra i più recenti cfr. B. Albanese, Gai 4.31 e
il lege agere damni infecti, in AUPA
31, 1969, 5 ss., ora in Scritti giuridici
I, Palermo 1991, 649 ss.; G. Falcone,
Sulle tracce del lege agere damni infecti,
in AUPA 43, 1995, 521 ss.; dai quali
ha poi preso le mosse G. Gulina, Lege agere damni infecti e pignoris capio.
Esegesi e logica di Gai., 4.31, in Riv.
Dir. Rom. 6, 2006, ‹http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano>. Ma v.
contra le osservazioni di M. Talamanca, Il riordinamento augusteo cit., 115 s.
[14] Non mi
sembra di poter seguire la proposta che risulta dall’editio minor di David di leggere qui, come pure in 3.84, derecto.
[15] I
debiti nascenti da delitto, viste le loro diverse caratteristiche strutturali,
seguivano invece una strada differente, potendo essere esperite dai creditori
direttamente contro chi ha acquistato la potestà sul colpevole le azioni
nossali, in base al noto principio ‘noxa
caput sequitur’. Cfr.
al riguardo Gai 4.77: …Ex diverso
quoque directa actio noxalis esse incipit. Nam si pater familias noxam
commiserit, et is se in adrogationem tibi dederit aut servus tuus esse
coeperit, <quod> quibusdam casibus accidere primo commentario tradidimus,
incipit tecum noxalis actio esse quae ante directa fuit.
[16]
Difatti, attraverso questo tipo di adoptio
il soggetto che veniva adrogatus ricadeva
sotto la patria potestas dell’adrogator e assumeva la qualità
di filius familias: è
esplicito in tal senso il dettato di Gai 1.99. Inoltre, dello stesso effetto vi
è notizia indiretta anche in
Gai 1. 107.
[17]
Comunemente in dottrina la capitis
deminutio minima viene indicata, nei casi specifici sicuramente attestati
dell’adrogatio e della conventio in manum della donna sui iuris, come un modo di estinzione
delle obbligazioni: cfr., a titolo paradigmatico, E. Betti, Istituzioni
di diritto romano, II.1, Padova 1960, 486 s., in collegamento con
l’ipotesi di un’originaria intrasmissibilità passiva delle
obbligazioni.
[18]
L’unica opinione divergente è quella di M. Voigt, Das ius
naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, III, Leipzig
1858-1876, rist. Aalen 1966, 685 ss., rimasta però isolata.
[19]
Sottolinea la genericità dell’affermazione gaiana anche M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 77.
[20] Gai
1.162: Minima est capitis deminutio, cum
et civitas et libertas retinetur, sed status hominis commutatur; quod accidit
in his qui adoptantur, item in his quae coemptionem faciunt, et in his qui
mancipio dantur quique ex mancipatione manumittuntur; adeo quidem, ut quotiens
quisque mancipetur aut manumittatur, totiens capite deminuatur. Cfr. pure
Paul. 2 ad Sab. D. 4.5.11, Tit. Ulp.
11.13 e Inst. Iust. 1.16.3, dove detta capitis
deminutio viene definita semplicemente come status mutatio.
[21] F. Dessertaux, Études cit., I, 18, ritiene completa l’elencazione
gaiana degli eventi che provocano capitis
deminutio minima; a differenza di quanto afferma B. Albanese, Capitis
deminutio cit., 42 nt. 17; seguito anche da L. Di Lella, Formulae
ficticiae cit., 182 nt. 152, il quale li considera invece solo esempi
salienti, in considerazione della sua locuzione introduttiva (quod accidit), la cui struttura è
simile in tutti i tre paragrafi che descrivono in modo non esaustivo le diverse
capitis deminutiones. Personalmente,
mi sembra di poter condividere l’opinione dell’Albanese per la
semplice circostanza che altri casi di
capitis deminutio possono facilmente trovare un riscontro testuale o essere
ipotizzati con un certo margine di verosimiglianza: ad esempio, Gaio tace della
diffarreatio la quale, seppur nella
sua rarità, deve considerarsi tra gli eventi che comportano una capitis deminutio minima, non essendovi
dubbio alcuno che in questo caso la donna non sia più loco filiae rispetto al marito, e dunque
si sia estinto ogni vincolo agnatizio con la famiglia di questi. Ed è
anche facile supporre che vi fosse
capitis deminutio nella remancipatio
dalla manus, come atto inverso alla coemptio: in tal senso cfr. P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Roma 1925, rist. Milano 1963, 168.
[22] Tali
ultimi due casi non sono invece menzionati in Tit. Ulp. 11.13, dove il
riferimento è solo all’adoptio
e alla conventio in manum.
[23] E
questo è ovvio, altrimenti, come osserva correttamente B. Albanese, Capitis deminutio cit., 42 nt. 17, si sarebbe venuta a creare
l’assurda situazione di appartenere contemporaneamente a due diversi
gruppi agnatizi, vale a dire quello del pater
emancipante e quello del titolare del mancipium.
[24] Per la
verità, c’è una vecchia, e sotto alcuni profili, suggestiva
ipotesi formulata da M. Cohn, Beiträge zur Bearbeitung des römischen Rechts, I.2, Berlin 1880, 108, 118; F. Eisele, Beiträge
zur römischen Rechtsgeschichte. Zur Natur und Geschichte der capitis
deminutio, Freiburg und Leipzig, 1886, 180; ripresa successivamente da M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio cit., 81; i quali intendono il
testo come se Gaio avesse scritto qualcosa come his qui adrogantur, in quanto nell’adoptio in senso stretto la capitis
deminutio minima risulterebbe dal passaggio attraverso il mancipium e non dall’adoptio stessa. Pur nella consapevolezza
che l’adoptio in senso stretto ha,
ai fini della capitis deminutio, la
sua prima causa nel passaggio attraverso il mancipium,
ritengo però che Gaio non possa non aver inteso il termine che nel suo
significato più ampio, precisando comunque in un passaggio successivo un
principio incontestabile qual è quello appena espresso: in tal senso
già F. Dessertaux, Études cit., I, 20 e 36. V. pure
Id., Études cit., II, 258, dove lo studioso francese ribadisce
senza mezzi termini che nell’adoptio
in senso stretto è ciascuno degli atti, e non l’adozione stessa,
che comporta capitis deminutio.
[25] Gai 1.98: Adoptio autem duobus modis fit, aut
populi auctoritate, aut imperio magistratus, veluti praetoris. Nello
stesso duplice senso, inoltre, il termine è utilizzato in Tit. Ulp.
11.13.
[26] Non
c’è infatti ragione alcuna per accogliere quanto sembra affermare
in senso contrario H. Krüger,
Geschichte der capitis deminutio,
Breslau 1887, 79.
[27] Gai 1.111: … Sed hoc totum ius partim
legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est.
[28] Gai 1.112:…Quod ius etiam nostris temporibus in usu est; nam flamines maiores, id
est Diales Martiales Quirinales, item reges sacrorum nisi ex farreatis nati non
leguntur; ac ne ipsi quidem sine confarreatione sacerdotium habere possunt.
Sull’influenza dei due SC, uno dell’11 a.C., e
l’altro del tempo di Tiberio, che privarono la confarreatio di quasi tutte le conseguenze giuridiche, cfr. B. Albanese, Le persone cit., 318 nt. 17; L.
Messina, Le lacune di Gai
1.136-137, in Sodalitas. Scritti in
onore di A. Guarino, II, Napoli 1984, 817 nt. 7; C. Fayer, La familia
romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote, II, Roma
2005, 208 nt. 60.
[29] Come
mette in rilievo U. Coli, Capitis deminutio cit., 193, la dottrina
è sostanzialmente concorde nell’intendere la familia come quella communi
iure.
[30] È bene precisare con F.C. Savigny, System
des heutigen römischen Rechts, II, Berlin 1840-49, trad. it. V.
Scialoja (Sistema del diritto romano
attuale), Torino 1888, 75, come, in effetti, la capitis deminutio minima operasse unicamente sul piano del diritto
privato.
[31] Qui,
come in seguito, faccio riferimento al termine permutatio, utilizzato da Gaio in Inst. 1.159 e in 4 ad ed.
prov. D. 4.5.1, poi riproposto anche in P.S. 1.7.2, nonostante nelle fonti,
tra le quali una dello stesso manuale gaiano, 1.162, si trovino utilizzati
indifferentemente anche i termini
commutatio e commutari (Est autem capitis deminutio, prioris status
commutatio) o mutatio e mutari (Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.9.4, Paul.
1 sent. D. 4.1.2, P.S. 3.6.29, Tit.
Ulp. 11.13, C.I. 7.16.28).
[32] In tal
caso, infatti, si estingue il rapporto giuridico di adgnatio, come testimonia inequivocabilmente Gai 1.158: Sed agnationis quidem ius capitis
deminutione perimitur, cognationis vero ius eo modo non commutatur, quia
civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest.
Nello stesso senso v. pure Gai 3. 21,27 e 51; Tit. Ulp. 27.5, 28.9, Iul. 27 dig. D. 38.7.1, Pomp. 4 ad
Sab. D. 38.8.5, Pomp. 10 ad Q. Muc.
D. 38.16.11, Ulp. 12 ad Sab. D.
38.17.1.8, Inst. Iust. 3.4.2, 3.5.1 e 3.10.1).
[33] Ad
esempio, non può certo parlarsi di capitis
deminutio nel caso in cui un servo diviene libero e cittadino sui iuris, o nel caso in cui sempre un
servo viene adottato e diventa libero, civis
e alieni iuris, non avendo i servi
vincoli agnatizi che possano estinguersi.
[34] Si
potrebbe, a dire il vero, anche configurare il caso dell’adozione e della
conventio in manum di una donna alieni iuris, qualora il passaggio
nella nuova famiglia implichi per il capite
deminutus anche un peggioramento nel rango domestico: in tal senso cfr. B. Albanese, Capitis deminutio cit., 43.
[35] Cfr. Gai 3.104: Praeterea inutilis est stipulatio, si ab eo stipuler qui iuri meo
subiectus est, item si is a me stipuletur. Servus quidem et qui in mancipio est et
___l_________s et quae in manu est non solum ipsi, cuius iuri subiecti
subiectaeve sunt, obligari non possunt, sed ne alii quidem ulli. Sulle diverse integrazioni del passo cfr. S. Longo, Filiusfamilias
se obligat cit., part. 86, la quale – ponendosi in contrasto con un
orientamento dottrinale concorde nel riconoscere al filius familias la capacità di obbligarsi iure civili verso terzi già in
epoca classica – non ritiene che la lacuna possa essere ricostruita con
la sola menzione della filia familias,
così come proposto dallo Stundemund, e seguito in maniera incondizionata
da tutti gli editori delle Institutiones
di Gaio, e propone invece, oltre che sulla base di argomentazioni di carattere
generale, anche sulla base di precise valutazioni sotto il profilo
paleografico, l’integrazione delle parole ‘filius filiaque familias’.
[36] In tal
senso F. Carrelli, D. 4.5.2.1 e la causae cognitio nella
restitutio in integrum adversus capite deminutos, in SDHI 2, 1936, 142 nt. 12, il quale motiva la sua opinione anche
sulla circostanza che Gaio abbia menzionato nel passo solo la coemptio e non le altre ipotesi di conventio in manum. Non mi sembra
però che l’argomento sia convincente, rappresentando fra
l’altro la coemptio la forma di
conventio in manum ormai più
utilizzata al suo tempo.
[38] Non ne
dubita affatto R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di
Gaio. Omissioni e rinvii, Napoli 1979, 78, sulla base di un’accurata ricerca
nel lessico delle Istituzioni di Gaio.
[39] Si
veda, ed esempio, Gai 4.155, dove l’unica fattispecie che legittima il
ricorso all’interdictum de vi
armata è il compimento della deiectio
con l’uso di armi: Interdum tamen
etsi eum vi deiecerim, qui a me vi aut clam aut precario possiderit, cogor ei
restituere possessionem, velut si armis eum vi deiecerim; nam propter
atrocitatem delicti in tantum patior actionem, ut omni modo debeam ei
restituere possessionem…
[40] Sul
punto v. anche, sempre di S. Longo,
Naturalis obligatio e debitum servi in
Gai 3.119 a, in Iura 46, 2000, 56
nt. 16.
[41] Cfr.
in tal senso B. Albanese, Capitis deminutio cit., 63, il quale
esclude che una tale disciplina possa essere applicata ad altre ipotesi di capitis deminutio minima.
[43] In
effetti, la fictio non è una
clausola autonoma della formula, di per sé “individuabile”,
ma solo un elemento dell’intentio:
e con il termine fictio, dunque, si
fa riferimento a qualcosa che si finge, ma non certo ad una pars formulae. Sull’argomento cfr. più
approfonditamente C.A. Cannata, Profilo istituzionale cit., 84, il
quale osserva pure che, naturalmente, la circostanza che si finge è
espressa nei concepta verba, anche se
tale espressione comporta tutto un particolare tenore dell’intentio.
[44]
L’espressione fingitur capite
deminutus deminutave non esse è ritenuta da E. Bianchi, Fictio
iuris cit., 335, “ellittica”, ma comunque equivalente a quella
di ‘se alieno iuri non subicere’.
[45] M. Lupoi, Metafore giuridiche e finzioni: la parola data, in Le finzioni del diritto cit., 161,
rileva come nel caso di specie, più che di una finzione, si debba parlare
piuttosto di una contro-finzione (che viene distinta, a sua volta,
dall’anti-finzione). Lo studioso, partendo dal presupposto che
l’adozione – eguagliando l’adottato al figlio legittimo, non
essendo l’adottato figlio nel mondo reale ma solo in quello giuridico
– sia essa stessa una finzione, che nell’equiparazione può
produrre effetti non desiderati, afferma che attraverso la contro-finzione
è possibile evitare che tutta la disciplina giuridica della fattispecie
originaria sia mutuata da quella equiparata. In questa prospettiva ciò
significa che la finzione radicata su una metafora già di per sé
conduce alla equiparazione, e che la contro-finzione paralizza in parte questo
effetto. Mi sembra, però, di poter escludere che l’adozione
(così come, d’altro canto, la stessa conventio in manum) possa essere considerata una finzione
giuridica in senso proprio, mancando in essa l’elemento sostituente e
quello sostituito propri di ogni fictio:
tutt’al più, in questo caso si può intendere la finzione
come uno scostamento dalla ‘realtà naturale’, che riguarda
solo l’effetto dell’equiparazione della posizione di soggetti
estranei alla familia a quella dei
figli.
[46] O.
Lenel, Das
Edictum perpetuum, 3a ed., Leipzig 1927, rist. anast. Aalen
1985, 118, ha ricostruito così, con certezza, la formula edittale: SI PARET NS NS CAPITE DEMINUTUS NON ESSET,
TUM SI NM NM AO AO….DARE OPORTERET, IUDEX NM NM AO AO NM NM AO
AO…C.S.N.P.A. Come rileva al proposito M. Talamanca, s.v.
Processo civile (dir. rom.) in ED. 36, Milano 1987, 58 nt. 411, data la
struttura della formula, nel caso di specie bisogna presupporre che la
circostanza a base della fictio fosse
pacifica tra le parti, in modo da non dover essere lasciata
all’accertamento del giudice.
[47]
Laddove la finzione riguardava sempre un elemento positivo: che lo straniero
sia cittadino romano, che sia decorso il tempo per l’usucapione, che un
soggetto che non ha la qualifica di erede sia tale. Del resto, è appena
da ricordare che la fictio romana
conosceva solo «deux angles d’attaque», vale a dire non vi
erano finzioni giuridiche che non fossero affermative o negative: in tal senso
cfr. Y. Thomas, Fictio legis. L’empire
de la fiction romaine et ses limites médievales, in Droits. Révue francais de théorie
juridique, 21, 1995, 22.
[48] È
quanto a giusta ragione osserva C.A.
Cannata, Finzioni, in Le finzioni del diritto cit., 47. In
particolare, lo studioso precisa che «l’ordine del pretore al
giudice di applicare norme relative ad un caso diverso non è mascherato
facendo apparire il caso diverso». D’altro canto, «scopo
generale della finzione processuale era quello di realizzare
l’applicazione analogica di regole proprie di una situazione A ad una
situazione B, che si vuole considerare analoga ad A, ma che l’interprete
del sistema non potrebbe considerare analoga».
[49] Anche
sotto questo profilo vi è una differenza di questa finzione rispetto a
quelle menzionate da Gaio in precedenza, che invece avevano ad oggetto sia la
legittimazione passiva che quella attiva del soggetto interessato.
[50] Al
quale soggetto, pertanto, non viene consentita la proposizione di alcuna azione
nei confronti dei terzi.
[51]
D’altro canto, è lo stesso Gaio stesso a mettere in risalto la
differenza, introducendo la trattazione della finzione di 3.84 con un praeterea, mentre le precedenti finzioni
erano state tutte introdotte, quasi a volerle parificare tra loro, in qualche
misura, con un ripetuto item. In tal
senso v. C. Furia, Gai 3.84 cit., 121 s.; E. Bianchi, Fictio iuris cit., 328 e 334; G.
Falcone, Appunti sul IV commentario
cit., 112, il quale osserva pure che l’item accorpa tra loro tutti esempi di actiones per le quali si sottolinea la matrice legislativa (nostribus legibus). Lo stesso studioso
sicilano, fra l’altro, ritiene improbabile che il differente incipit del paragrafo possa trovare la
sua spiegazione semplicemente in chiave cronologica, essendo tra le diverse fictiones quella che rescinde la capitis deminutio la più recente,
come invece propone, anche se prudentemente, E. Bianchi, op. cit., 266 e 327.
[52] In tal
senso U. Robbe, La hereditas iacet e il significato della
hereditas in diritto romano, Milano 1975, 169 s.
[53]
Così come, tra gli altri, si legge nei manuali di V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 14a ed., Napoli 1966 rist. 1991, 58;
M. Talamanca, Istituzioni cit., 122; A.D. Manfredini, Istituzioni di diritto romano, Torino 2000, 93, 428; D. Dalla - R. Lambertini, Istituzioni di diritto romano, 2a ed.,
Torino 2001, 85. V. pure, senza ulteriori specificazioni, e con qualche
perplessità, V. Giuffrè,
Il diritto dei privati
nell’esperienza romana. I principali gangli, 3a ed., Napoli 2002, 90.
[54] Cfr.
in particolare B. Albanese, Le persone cit., 275; M. J. García Garrido, Derecho privado romano. I. Instituciones, 2a ed., Madrid 1982,
453; C.A. Cannata, Corso di Istituzioni di diritto romano,
Torino 2001, 55.
[56] In
relazione a ciò, F. Dessertaux,
Études II cit., 305, osserva a
ragione che l’estinzione dei debiti non è una conseguenza dei
principi generali, ma è per la prima ed unica volta un effetto proprio
della capitis deminutio.
[57] Nel
manoscritto veronese si legge defendatur,
ma gli editori concordano per defendantur,
data la concordanza con i plurali eorum
e subiecissent.
[58] Gai 3.82: Sunt autem etiam alterius generis successiones, quae neque lege XII
tabularum neque praetoris edicto, sed eo iure <quod> consensu receptum
est introductae sunt. È di tutta evidenza l’analogia del congegno
fondamentale di tali successioni con quello delle successioni mortis causa, pur escludendosi
l’assimilazione totale tra le due fattispecie, visto che in quelle inter vivos le conseguenze inerenti alla
successione ereditaria sono in taluni casi attenuate, in altri completamente
escluse dall’applicazione dei principi di diritto familiare, essendo
l’acquisto del patrimonio del tutto subordinato all’acquisto di una
potestà familiare.
[59] Per la
verità, si potrebbero leggere le parole eo iure, quod consensu receptum est sia come direttamente allusive
alla formazione consuetudinaria dell’istituto, sia
all’attività di elaborazione dei giuristi, che attribuiscono
giuridicità alla prassi: ed al riguardo cfr. H.L.W. Nelson-U. Manthe, Gai
Institutiones III, 1-87. Text und Kommentar, Berlin 1992, 200. È
certo, però, che qualsivoglia ipotesi si decida di accogliere, si deve
comunque riconoscere per tali successioni la mancanza di una matrice
legislativa.
[61]
D’altro canto, già nel paragrafo precedente il giurista antonino
aveva specificato, avviando il raffronto con il caso della donna conventa in manum, che la trattazione
riguardava il caso del paterfamilias
che si dava in adozione. Il passo è il 3.83: Etenim cum pater familias se in adoptionem dedit mulierve in manum convenit, omnes eius res
incorporales et corporales, quaeque ei debitae sunt, patri adoptivo
coemptionarive adquiruntur, exceptis his quae per capitis deminutionem pereunt,
quales sunt ususfructus, operarum obligatio libertinorum quae per iusiurandum contracta est, et lites
contestatae legitimo iudicio. Sul passo cfr. in particolare A. Torrent, La adrogatio en el sistema de las sucesiones universales inter vivos,
in RIDA 14, 1967, 447 ss.
[62] In
questo modo ci si trova in perfetta coerenza con il principio del ius civile che impedisce
l’impoverimento del paterfamilias a
seguito dell’operato dei sottoposti. In tal senso cfr., tra gli altri, G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., con la collaborazione di F.
Sitzia e L. Vacca, Torino 1991, 390, il quale accoglie l’opinione in
precedenza espressa da G. Mandry,
Das gemeine Familiengüterrecht mit
Ausschluss des ehelichen Güterrechts I, Tübingen 1871, 170, 176,
340, e successivamente ripresa da P.
Bonfante, Corso di diritto romano,
VI, Le successioni. Parte generale,
Roma 1930, rist. Milano 1974, 30 s.
[64] Sul
problema del trapasso all’adrogator
della qualità di heres cfr. in
particolare G. Gandolfi, Ipse pater adoptivus aut coemptionator heres
fit, in SDHI 21, 1955, 910 ss.
[65]
Risponde infatti ad un principio generale la circostanza che essi, in quanto
eredi, siano tenuti dei debiti ereditari senza distinzione.
[66] E. Betti, In iure cessio hereditatis, successio in ius e titolo di heres, in Studi in onore S. Solazzi, Napoli 1949,
98 nt. 20, ritiene impropria la locuzione desinit
esse heres che si trova nel passo e la intende invece come desinit vocari ad hereditatem.
[67] Mi
sembra una chiara svista tipografica quella di C. Furia, Gai 3.84
cit., 111, che parla al proposito dell’adrogator. Non riesco invece a comprendere la lettura del passo
gaiano dalla stessa proposta (poi testualmente riportata senza alcuna
osservazione anche da E. Bianchi,
Fictio iuris cit., 332 nt. 377) nel
senso di permanenza dell’obbligazione assunta in capo ai soggetti che
hanno subito una capitis deminutio,
mancando, peraltro, in questa sede, ogni riferimento ad una sua eventuale
persistenza come obligatio naturalis.
Mi sembra, infatti, che per il modo in cui l’affermazione è stata
formulata dall’autrice, essa vada ad urtare contro il dato testuale, che
invece è chiaro e non lascia spazio ad una interpretazione diversa da
quella dell’estinzione iure civili
dell’obbligazione.
[68]
D’altro canto, è appena il caso di rilevare che la capitis deminutio non comporta solo
l’estinzione per ius civile dei
rapporti giuridici passivi inerenti alla persona, come l’obligatio, ma anche di quei rapporti
attivi che abbiano carattere strettamente personale quali l’ususfructus, l’operarum obligatio liberti per iusiurandum
contracta, o le lites contestatae
legitimo iudicio. In tal senso cfr. Gai 3.83, riportato supra, nt. 61.
[69]
Un’assunzione di debiti che altro non è se non l’obligari hereditati di cui parlano anche
Iul. 42 dig. D. 28.1.12, Ulp. 1 ad
Sab. D. 29.2.5 pr., Ulp. 6 ad Sab.
D. 29.2.6 pr. e 4, Paul. 2 ad Sab. D.
29.2.22, e Mod. lib. sing. de heurem.
D. 29.2.50.
[70] La venditio era preceduta,
com’è ovvio, da una missio
in bona, che non era contemplata nel più generale titolo edittale
“quibus ex causis in possessionem
eatur”, e che O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 117 ss.,
422, ha inserito in quello “de
restitutionibus”.
[71] La defensio del debitore capite deminutus si poteva realizzare o
attraverso il pagamento diretto della somma da parte del titolare del potere su
di lui, o con la garanzia da parte
dello stesso che quella determinata somma sarebbe stata pagata.
[72]
È quanto osserva, in un discorso di più ampio respiro, F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum cit., 78.
[74] In
dottrina si è affermato che la clausola della missio fosse un completamento necessario dell’editto
concernente la concessione dell’azione ai creditori: in tal senso tra gli
altri cfr. G. Mandry, Das Gemeine Familiengüterrecht
cit., II, 346 ss; O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., § 42,
95; P.F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, 4a ed., Paris 1929, 197; F. Dessertaux, Contribution à l’étude de l’edit, in NRH 36, 1912, 434 e nt. 3; G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis cit., 162.
[75] Da un
punto di vista pratico si può pensare, come ha fatto rilevare B. Biondi, Diritto ereditario cit., 24, a qualcosa di simile a quello che accadeva
per il beneficio dell’inventario.
[76] Cfr. M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio cit., 82, ed E. Bianchi, Fictio iuris cit., 331.
[77] In tal
senso v. già S. Solazzi, Gai 3.84 e le obbligazioni dell’erede,
in Labeo 4, 1958, 7 ss., ora in Scritti di diritto romano cit., VI, 61.
[78] La
sopravvivenza di questo patrimonio è, dunque, il risultato di un abile
congegno pretorio che, come osserva E.
Betti, In iure cessio hereditatis
cit., 599 s., «risponde all’interesse dei creditori con maggiore precisione
ed elasticità di quanto non potrebbe rispondervi una successio nei debiti, col collocare i
creditori di fronte ad un nuovo debitore».
[79] Per le
integrazioni del passo cfr., per tutti, P.
Krüger, Gai Institutiones ad
Codicis Veronensis apographum Stundemundianum novis curis auctum, in Collectio librorum iuris anteiustiniani,
4a ed., a cura di P. Krüger-Th. Mommsen-G. Stundemund, I, Berolini 1899,
178, e la letteratura ivi citata.
[81] O.
Lenel, Das
Edictum perpetuum cit., 422 ss. Diverse considerazioni hanno
orientato il Lenel in questa direzione. In primo luogo, perché
altrimenti non si riuscirebbe a ravvisare alcuna valida motivazione per
stabilire un regime diverso per la donna in
manu e il libero in causa mancipi
rispetto a quello che vige per i figli e per i servi; inoltre, deporrebbe in
senso contrario il dettato di Gai 3.104, che afferma l’incapacità
di obbligarsi sia per la donna in manu
sia che per chi si trova in mancipium.
Da ultimo, la donna in manu sarebbe
in questa maniera libera di sperperare tutti i beni portati al marito, senza
che questi avesse possibilità alcuna di impedirglielo.
[82] Mi
sembra decisamente collocarsi in tale prospettiva pure F. Mercogliano, Formulae
ficticiae cit., 44 e nt. 157. Pongono in stretto contatto tra loro i tre
testi gaiani anche E. Bianchi, Fictio iuris cit., 338 s. e L. Di Lella, Formulae ficticiae cit., 183 e nt. 156.
[83] In
senso contrario S. Solazzi, Il concorso dei creditori nel diritto romano,
I, Napoli 1937, 108 ss.
[84] Nel senso che il procedimento
è quello della normale bonorum
venditio che si concede nel caso di indefensio
del debitore.
[85] S.
Solazzi, Il concorso dei creditori,
I cit., 110 s. Il Solazzi aggiunge pure, a sostegno della sua ipotesi, che in
3.84 Gaio scrive solo si…non
defendantur, senza l’aggiunta dell’in solidum.
[86] Mi
sembra anche opportuno precisare che, non essendovi una taxatio, è proprio il momento dell’esecuzione quello
nel quale vi è il restringimento della responsabilità del pater nei limiti del patrimonio che
sarebbe stato del sottoposto se non avesse subito una permutatio status.
[88] In
margine, in generale, è appena il caso di rilevare che nella letteratura
giuridica romana manca ogni tentativo di definire la fictio. Come però osserva M.
Bretone, Finzioni e formule
cit., 311, possiamo considerarla implicita, stando comunque attenti a non
confonderla con la fictio retorica,
di cui Quintiliano (5.10.95-99), riassunto da Giulio Vittore (403 Halm = 43,
14-28 Giannini-Celentano) è il massimo interprete. Peraltro, a tal
proposito, non si può non considerare Ulp. 45 ad ed. D. 50.5.8.4, dove è netta, oltre che dichiarata,
l’antitesi – che si estende certamente oltre il suo ambito
particolare – tra la veritas e quod quis finxit. E ciò che pro vero adseveratur è da
considerare come falsum e si
contrappone alla veritas in P.S.
5.25.3 (Coll. 8.6.1).
[89]
Sottolinea in particolare la ragione del rilevante numero di finzioni pretorie
nella coesistenza tra i due sistemi, l’uno più formalistico,
l’altro più flessibile, J.
Glemp, De conceptu fictionis iuris
apud Romanos, Pont. Univ. Lat. 1974, 48. V. pure nella stessa prospettiva S. Pugliatti, s.v. Finzione (dir. rom.), in ED.
17, Milano 1968, 662 ss.; F. Todescan,
Diritto e realtà cit., 77.
Inoltre, sull’argomento deve essere menzionato altresì G. Grosso, Riflessioni su ius civile, ius gentium, ius honorarium nella dialettica
tra tecnicismo-tradizionalismo giuridico e adeguazione allo sviluppo economico
e sociale in Roma, in Studi G.
Donatuti I, Milano 1973, 439 ss., ora in Scritti storico giuridici I, Torino 2000, 935 ss.
[90] L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana, trad. it. R. Orestano,
Milano 1938, 154, al riguardo afferma che «il pretore si appoggia
interamente all’azione civile. Se manca nel fatto un presupposto
essenziale del ius civile, egli ne
finge semplicemente la presenza».
[91] Rinvio
qui a E. Bianchi, Fictio iuris cit., 345 ss. e part. nt.
401, e a M. Bretone, Finzioni e formule cit., 298 s., il
quale rileva pure come il legame tra l’aequitas e la fictio sia
un motivo ricorrente nella riflessione giuridica dell’età
intermedia e della prima epoca moderna. Aggiungo solo un’efficace
osservazione di G. Bertachini, il
quale nel suo Repertorium precisa che
“fictio cessat, ubi aequitas cessat”.
[92] In
effetti, nelle fonti si riscontra solo l’espressione ficticiae actiones, peraltro solo una volta in maniera esplicita, in
Tit. Ulp. 28.12 – un testo sempre considerato al riparo da sospetti di
alterazione, anche nella fase più interpolazionistica degli studi
– a proposito dei bonorum
possessores: Hi, quibus ex
successorio edicto bonorum possessio datur, heredes quidem non sunt, sed
heredis loco constituuntur beneficio praetoris. Ideoque seu ipsi agant seu cum his
agatur, ficticiis actionibus opus est, in quibus heredes esse finguntur. D’altro canto, è
bene rilevare che è anche assai raro nelle fonti l’uso
dell’aggettivo ficticius, che
si ritrova, oltre al passo appena richiamato, solo in C.I. 1.5.10 pr., in
relazione ad una emptio. Di contro,
è invece frequentemente attestato, ed in particolar modo in Gaio, le cui
Istituzioni costituiscono il riferimento principale per la comprensione
dell’argomento, e dove entrambe le espressioni difettano totalmente,
l’uso del termine fictio e del
verbo fingere – del quale fictio è sostantivo derivato
– in senso formulare (cfr. VIR,
II, Berolini 1933, 828 e 889 ss., sub his
vocibus). È ovvio, però, che nei testi della compilazione
giustinianea sia scomparso ogni accenno alle fictiones formulari, al pari di tutte le allusioni ai problemi di
tecnica formulare. Quanto al significato etimologico di tali lemmi,
appartenenti al patrimonio indoeuropeo comune, che esprimono all’inizio
il modellare l’argilla, e poi successivamente sono stati estesi al
plasmare, trasformare, creare, supporre, inventare, simulare, rinvio a A. Walde-J. Hoffmann, Lateinisches
Ethymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg 1938, 3 a ed., 501 s., s.v. fingo, e a A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine, Paris 1959, 235 s., s.v. fingo,
e, sotto un profilo più strettamente giuridico, a R. Leonard, in PW, VI, Stuttgart 1909,
22770 s., s.v. fictio.
[93] Naturalmente,
vi è una differenza rispetto alle ordinarie azioni civili, in cui
nell’intentio il verbo compare
invece all’indicativo. Al riguardo, come osserva G. Aricò Anselmo,
Sequestro omittendam possessionis causa, in AUPA 40, 1988, 304, l’indicativo, che è il modo
dell’obiettività, è utilizzato quando il giudice
«deve accertare se esiste un
presupposto (non indicato nella formula ovvero indicato nella demonstratio) al quale far risalire alla
stregua del diritto civile la necessità che N.N. dia ad A.A.»,
mentre invece il congiuntivo, che è il modo della possibilità,
è utilizzato «quando il giudice deve valutare se esisterebbe un presupposto al quale far
risalire la necessità ora detta o l’altra, che la cosa sia
dell’attore ex iure Quiritum,
qualora fosse vero un certo presupposto, tenendo per vero il quale gli si
impone di compiere la sua valutazione. In pratica, tra il giudice e la materia
da giudicare si frappone il diaframma di una finzione, passando attraverso il
quale l’esame del giudice è costretto a deviare dal normale
criterio di obiettività».
[94] Questo
perché, in effetti, il fatto oggetto della fictio nella realtà non si è verificato.
D’altro canto, come osservava H.
Vahinger, Die Philosophie des
Als-ob, Leipzig 1914, 2a ed., 171 ss., una delle caratteristiche
fondamentali della finzione è proprio la sua contraddizione con la
realtà. Sull’irrealtà del fatto ammesso nella fictio v., da ultimo, F.M. Silla, La cognitio sulle libertates fideicommissae, Padova 2008, 138 e nt.
4, in una breve ma lucida analisi della contrapposizione tra il meccanismo
della fictio e quello
dell’analogia.
[95]
È opportuno sottolineare che l’ordine proviene dal magistrato
giusdicente ed è diretto al giudice: difatti, «alla finzione
processuale corrisponde un ordine, quindi un atto precettivo, ma emanato in
funzione di un disegno normativo». Si esprime così C.A. Cannata, Finzioni cit., 46.
[97] In tal
senso v. M. Talamanca, s.v. Processo civile cit., 56 nt. 397. V.
pure R. Dekkers, La fiction juridique. Étude de droit
romain et de droit comparé, Paris 1935, 39 nt. 1; C.A. Cannata, Profilo istituzionale cit., 84, che distingue tra circostanze di
fatto o di diritto.
[98] Ma,
come si è già detto, la fictio
può anche avere ad oggetto un effetto di diritto, scaturente da una legis actio, come ad esempio nel caso
del si pignus captum esset, descritto
in Gai 4.32.
[99] E. Bianchi, Fictio iuris cit., 338 e 343. È però il caso di rilevare
come lo stesso Bianchi, pur senza aderire integralmente all’ipotesi
secondo la quale le fictiones
pretorie potevano ricadere indifferentemente su elementi fattuali o giuridici,
in una pagina precedente dello stesso lavoro (337), aveva comunque ammesso che
l’oggetto delle finzioni pretorie potesse essere, a seconda dei casi,
differente. Cfr. pure, contrario all’opinione espressa da E. Bianchi, F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 84.
[100] Nel
formulare tali riserve mi avvalgo dell’autorità di B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt am Main, 1987, 1, 2a ed.,
182 ss. (§67), il quale osservava come tutte le finzioni esposte da Gaio
in 4.34-38, piuttosto che situazioni fattuali, avessero ad oggetto rapporti
giuridici.
[101] F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 76, parla di «azioni modellate,
anziché simulate», richiamando anche N. Dumont-Kisliakoff,
La simulation en droit romain, Paris 1970, 23 ss.
[102] Non si
capisce, infatti, come potrebbe funzionare la fictio né per quanto riguarda un’estensione edittale
né per quanto riguarda un’estensione decretale di tali formulae.
[103] In tal
senso già si sono espressi O.
Lenel, Das Edictum perpetuum
cit., 183, e V. Scialoja, Procedura civile romana. Esercizio e difesa dei diritti, Roma
1936, 335. All’argomento dedica anche un buono spazio J. Glemp, De conceptu fictionis cit., 54, il quale ravvisa
nell’impedimento ad un’actio
in factum con formula ficticia
non solo ragioni logiche, ma anche ragioni che si pongono su di un piano
storico. Una ricca bibliografia sul punto, riassuntiva delle diverse opinioni
formulate dagli studiosi, si può trovare in A. Dos Santos Justo, A
fictio iuris no Dereito Romano (Actio ficticia). Época
clásica, in Universidade de Coimbra. Boletim de la
Faculdade de Direito, 32, 1989, 92 ss. Da ultimi, sulla circostanza
che le formule fittizie dovessero essere necessariamente in ius conceptae, cfr. E.
Bianchi, Fictio iuris cit.,
264 nt. 217; F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 64 s.; S. Longo, Filiusfamilias se obligat cit., 116 nt. 52.
[104] Non
è casuale, tra l’altro, che le formule riportate da Gaio in
4.34-38 siano tutte in ius conceptae.
[105] La
terminologia di questa categoria di azioni non è, com’è
noto, romana, mancando per essa nelle fonti una denominazione precisa. Per
indicarla in dottrina sono state utilizzate anche espressioni analoghe, quale
ad esempio, in modo meno preciso, formule con trasposizione di condanna. Cfr.,
al riguardo, la discussione in M. Kaser,
Das römische Zivilprozessrecht,
2a ed. (bearb. K. Hackl), München 1996, 262, tra
“Subjektswechsel” e “Subjektsumstellung”.
[106] Ognuna
di queste actiones, veri e propri
procedimenti di estensione giuridica, ha una propria peculiarità. Le
prime, come si è visto, considerano ai fini della sentenza circostanze esistenti
o mancanti; le seconde indicano in una persona diversa dal titolare del
rapporto fatto valere in giudizio il destinatario della condemnatio; le ultime sono invece quelle nelle quali, mancando un
rapporto di ius civile cui potersi
appoggiare, veniva enunciato non un rapporto giuridico, ma un semplice fatto o
atto. In tal senso cfr. G. Pugliese, Il processo formulare I, Lezioni a.a. 1947-48, Milano 1963,
116, il quale mette in risalto come la contrapposizione sotto il profilo del
fondamento tra actiones civiles e actiones honorariae – che sono, a
conti fatti, tutte le azioni esercitate mediante un processo formulare –
consista in primo luogo nel fatto che le actiones
civiles “spettavano”,
mentre quelle honorariae venivano
“date”, ricalcando, in fondo, la contrapposizione tra ius civile in senso ampio e ius honorarium.
[107] Per la
verità, anche se statisticamente l’aggettivazione utilis in senso attributivo del termine
(rispetto al denominativo di una classe) si ritrova più spesso con
riferimento alle actiones (o alle formulae), non mancano però nelle
fonti testimonianze di altri mezzi giudiziari, quali gli interdicta o in particolar modo le exceptiones, qualificate anch’esse come utiles. Su queste ultime cfr. in particolare G. Nicosia, Exceptio utilis, in ZSS
75, 1958, 251 ss., ora in Silloge,
Scritti 1956-1996, Catania 1998, 67 ss.; E.
Betancourt, Sobre las exceptiones
llamadas utiles, in AHDE 50,
1980, 703 ss. Sull’argomento v. pure G. Wesener, Nichtediktale Einreden, in
ZSS 112, 1995, 109 ss. In generale, sull’aggettivazione utilis, anche se in un’ottica
più protesa al versante delle azioni, cfr. G. Bortolucci, Actio
utilis, Modena 1909, e R. Dekkers,
Les actions utiles en droit romain
classique, in RUB 41, 1936, 237
ss.
[109] M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano cit., 318. Lo studioso aggiunge,
inoltre, che «un’actio
è utilis quando si tratta di
un’azione edittale, la quale, civile od onoraria che sia, venga data al di
fuori dei presupposti previsti per la sua concessione, ma codesta qualifica
nulla dice circa il modo in cui l’azione edittale veniva adattata al caso
concreto».
[111]
Così L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana
cit., 163. Si potrebbe aggiungere, richiamando G. Nicosia, Exceptio
utilis cit. 101, che «anche terminologicamente l’attributo utilis richiama l’idea di
un’utilizzazione, di un adattamento in via utile di uno schema
preesistente. E l’orientamento generale della dottrina è in tal
senso. In questa prospettiva, D.
Mantovani, Le formule del processo
privato romano. Per la didattica delle Istituzioni di diritto romano, 2a
ed., Padova 1999, 33, afferma che nelle actiones
utiles «l’aggettivo serve ad indicare che la formula di
un’azione-base, prima inservibile per un determinato scopo, è resa
utile da un adattamento».
[112]
Così come ha messo in evidenza M.
Kaser, Das römische
Zivilprozessrecht cit., 251 nt. 20. Si deve pure aggiungere che A. Guarino, Diritto privato romano, 17.8, distingue, seppur cautamente, tra le
azioni “rettilinee” (le
actiones directae), e quelle c.d. “di ripiego” (nelle quali o
si ha la trasposizione di soggetti, o la finzione di un requisito civilistico,
o l’imitazione estensiva di un’actio).
Sul tema cfr. pure I. Alibrandi, Delle azioni dirette ed utili, in Giornale di giurisprudenza teorico-pratica
I, 1870, 129 ss., n.v. (= Opere
giuridiche e storiche, I, Roma 1896, 149 ss.).
[113] Potrebbe
essere superfluo sottolineare che l’actio
è utilis solo quando vi
sia espansione di un’azione e non nel caso di una creazione ex novo da parte del pretore di una
nuova azione: il che comporta, ovviamente, anche il profilo dell’estensione
del regime sostanziale.
[114] Ampia
e dettagliata bibliografia si può rinvenire in F. Mercogliano, Actiones
ficticiae cit., 48, il quale esamina singolarmente i passi più
significativi nei quali la contrapposizione tra azioni directae e utiles emerge
in maniera ancora più netta che in Gai. 3.84: si tratta di Pap. 4 resp. D. 23.4.26.3, Ulp. 9 ad ed. D. 3.3.27.1, Ulp. 4 ad ed. praet. D. 44.7.37 pr. e di Paul.
1 sent. D. 3.5.46.1. Cfr. pure,
altrettanto significativo, Pap. 16 resp.
D. 48.23.3.
[115] In particolar
modo, con riferimento a quest’ultima aggettivazione, l’actio utilis, in contrapposizione
all’actio inanis, per la quale mancano le condizioni di esperibilità,
sta ad identificare un’azione esperibile o esperita efficacemente.
[116]
È l’ipotesi, assolutamente fantasiosa, di R. Sotty, Les actions
qualifiées d’utiles cit., 139 ss., il quale vi ravvisa anche
una contrapposizione simmetricamente inversa del dare utilem actionem al denegare
actionem, in quanto in questo caso attraverso la concessione di un’azione
altrimenti destinata all’insuccesso il pretore costringe il convenuto a
cooperare (V. pure Id., Recherches sur les utiles actions cit.,
381 ss., 611 ss.). Su quest’ultimo tema v. per tutti A. Metro, La denegatio actionis, Milano 1972, 92 ss.
[120] Su questo
aspetto mi sembra di poter concordare con R.
Sotty, Les actions
qualifiées d’utiles cit., 140 ss. Sul punto v. anche C. Furia, Gai 3.84 cit., 123.
[121]
Più cautamente, sia pur con diverse angolazioni, anche G. Wesener, Utiles actiones in factum, in
Studi E. Betti 4, Milano 1962, 493 ss.; W.
Selb, Formulare Analogien in
actiones utiles und actiones in factum am Beispiel Julians, in Studi A. Biscardi 3, Milano 1982, 315
ss.; G. Thielmann, Actio utilis und actio in factum zu den
Klagen im Umfeld der lex Aquilia, in Studi
A. Biscardi 3 cit., 2, 295 ss., collegano detta qualifica solo alle formulae in ius conceptae.
[122] In tal
senso non hanno dubbi M. Talamanca, Processo civile cit., 62, e G. Pugliese, Istituzioni cit., 331 s. Pure E.
Betti, Diritto romano I, Parte generale, Padova 1935, 519,
riconduceva alle actiones utiles i
due meccanismi della fictio e della
trasposizione di soggetti, «l’una col ricollegare le conseguenze
proprie di una data fattispecie ad una fattispecie stimata analoga,
l’altra col deviarle in capo ad una persona diversa alterando il valore
dell’intentio quale premessa
della condemnatio». Nella
stessa prospettiva si muove anche G.
Nicosia, Institutiones. Profili di
diritto privato romano I, Catania 1997, 174 s. (in senso conforme Id.,
Nuovi profili istituzionali essenziali di diritto romano, 2a ed., Catania
2002, 90), il quale afferma che il sintagma actio
utilis talora ricorre «per indicare precisamente un’actio nella cui formula compare una fictio, talora in senso più
generico, in riferimento ad altri adattamenti o estensioni». Cfr. inoltre
C.A Cannata, Profilo istituzionale cit., 131.
[123]
Difatti, entrambe le espressioni, pur mettendo in rilievo profili diversi,
esprimono la stessa realtà processuale: ed in tal senso cfr. in
particolare M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht
cit., 238. G. Finazzi, Ricerche in tema di negotiorum gestio,
II.1. Requisiti delle actiones negotiorum
gestorum, Cassino 2003, 446 nt. 259, precisa che «mentre con actio utilis si insiste sulla funzione
di fornire un mezzo processuale idoneo, con
actio ad exemplum si pone l’accento sul modello al quale tale mezzo
è ispirato e dunque è improbabile che le due terminologie
integrassero fenomeni diversi dal punto di vista della tecnica
formulare». Su dette azioni v. soprattutto G. Wesener, Actiones ad
exemplum, in ZSS 75, 1958, 220,
il quale sottolinea come non le si possa inquadrare in una categoria unitaria,
e che la loro caratteristica sia quella di essere «nachgebildete
Klagen». Lo stesso studioso afferma inoltre che queste stesse azioni
andrebbero a loro volta distinte da quelle strutturate con il termine quasi, sulle quali v. più
approfonditamente Id., Zur Denkform des quasi in der römischen
Jurisprudenz, in Studi Donatuti
3, Milano 1973, 1387 ss. Per l’uso dell’avverbio quasi cfr. pure, nello specifico, in un
costante confronto tra antico e moderno, K.
Hackl, Von “quasi” im
römischen zum “als ob” im modernen Recht, in Rechtsgeschichte und Privatrechtsdogmatik,
Heidelberg s.d. ma 1999, 117 s. e T.
Giaro, L’art de comparer le
cas, in SDHI 60, 1994, 522 ss.
Altre considerazioni in A. Lovato,
Studi sulle disputationes di Ulpiano,
Bari 2003, 273 ss.
[124] Una
rapida scorsa ai passi contenuti nel Digesto nei quali compare in tal senso
l’aggettivazione con riferimento ad un’actio può essere sufficiente ad accogliere questo
orientamento: cfr. Ulp. 9 ad ed. D.
3.3.27.1, Paul. 1 sent. D. 3.5.46
(47).1, Ulp. 15 ad ed. D. 5.3.13.10,
Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.13 pr., Ulp. 4 ad ed. praet. D. 44.7.37 pr., Pap. 16 resp. D. 48.23.3. V. pure Coll. 10.7.8 e
Inst. Iust. 4.3.16.
[126] In
senso conforme si può richiamare solo R.
Stolmar, Actio utilis. Grundlagen,
Wesen, Voraussetzungen, Anwendungen, Wirkungen. I. Die genesis der utilis actio
aus der Celsinischen Durchgangstheorie, Sindelfingen 1984, passim;
Id., Die formula der actio utilis, Sindelfingen 1992, 47 ss.
[128]
Peraltro, anche la compattezza tra il ficto
se herede del paragrafo 34, relativo al bonorum
possessor, e del paragrafo 35, relativo al bonorum emptor, appare perfettamente coordinata in uno schema
espositivo unitario.
[131] In tal senso cfr. anche P. Collinet, La nature des actions, des interdits et des exceptions dan
l’oeuvre de Justinien, Nemours 1947, 451.
[132]
È bene anche sottolineare come il verbo rescindere non sia particolarmente ricorrente nel lessico gaiano:
infatti, oltre che nei tre passi qui richiamati, lo si ritrova nelle Institutiones solo altre due volte, in
1.46 e in 2.143. Cfr. P. Zanzucchi,
Vocabolario delle Istituzioni di Gaio,
Milano s.d. ma 1910, rist. anast. Torino 1961, 102, ed i nuovi supporti
informatici.
[134] Sui
due passi cfr. pure S. Di Paola, Contributi ad una teoria della
invalidità e della inefficacia in diritto romano, Milano 1966, 58
ss.
[135] Cfr.
Gai 3.18. Hactenus lege XII tabularum finitae
sunt intestatorum hereditates. quod ius quemadmodum strictum fuerit, palam est
intellegere, e Gai 3.25: Sed hae
iuris iniquitates edicto praetoris emendatae sunt.
[137] La fictio, come osserva P. Voci, Diritto ereditario romano, I, Milano 1960, 181, certamente si
trovava nell’editto pretorio. In tal senso cfr. O. Lenel, Das Edictum
perpetuum cit., 343, il quale propone la seguente ricostruzione della
clausola: …his qui in poteste
morientis fuerunt fuissentve si capite deminuti non essent…
[138]
D’altro canto, occorre comunque considerare che doveva necessariamente
trattarsi di soggetti divenuti sui iuris
e rimasti tali, in quanto diversamente la potestà finta, che deriva
dalla rescissione della capitis deminutio,
sarebbe andata ad urtare contro quella reale del padre adottivo.
[139] In
relazione alla quale è fondamentale Gai 3.26: nam liberos omnes, qui legitimo iure deficiuntur, vocat ad hereditatem,
proinde ac si in potestate parentis mortis tempore fuissent, sive soli sint
sive etiam sui heredes, id est qui in potestate patris fuerunt, concurrant.
Il passo, per essere meglio compreso, deve essere confrontato con il paragrafo
immediatamente successivo: Agnatos autem
capite deminutos non secundo gradu post suos heredes vocat, id est non eo gradu
vocat, quo per legem vocarentur, si capite deminuti non essent; sed tertio
proximitatis nomine; licet enim capitis deminutione ius legitimum perdiderint,
certe cognationis iura retinent. Itaque si quis alius sit qui integrum ius agnationis
habebit, is potior erit, etiamsi longiore gradu fuerit.
[142] O. Lenel, Das
Edictum perpetuum cit., 117 n. 4. In tal senso anche A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 129. A parte la costruzione del passo con il
presente (sit) al posto
dell’imperfetto (esset), cui lo
stesso Lenel non sembra dare particolare peso, non mi sembra che vi possano
essere dubbi sulla riferibilità dell’inciso, da un punto di vista
logico, al di là della genericità che risulta dall’id, più a capite deminuti deminutave esse dicentur che ad actum contractumve.
[143]
Diversamente, ma senza alcun supporto testuale, G.E. Longo, Ricerche
sull’obligatio naturalis cit., 160, il quale sostiene invece che Gaio
desse conto della restitutio
contenuta nell’editto.
[145] Paul.
1 ad ed. D. 50.1.26 pr.-1: Ea, quae magis imperii sunt quam iurisdictionis, magistratus municipalis
facere non potest. Magistratibus municipalibus non permittitur in integrum
restituere aut bona rei servandae causa iubere possideri aut dotis servandae
causa vel legatorum servandorum causa. In definitiva, Paolo attribuisce
all’in integrum restitutio
natura mista, fondandola prevalentemente sull’imperium piuttosto che sulla iurisdictio:
motivo per il quale detto rimedio, insieme alle missiones in possessionem e alle stipulationes pretoriae è estraneo ai poteri dei magistrati
municipali. Nella stessa prospettiva si pone pure Ulpiano, il quale in 1 ad ed. D. 2.1.4 afferma: Iubere caveri praetoria stipulatione et in
possessionem mittere imperii magis est quam iurisdictionis. Sui due testi
e, più in generale, sul problema degli atti magis imperii quam iurisdictionis, v. in particolare G. Pugliese, Il processo formulare cit., 70 ss. Cfr. inoltre F. Fabbrini, Per la storia della restitutio in integrum, in Labeo 13, 1967, 201 ss.
[146] Tra
queste cause si possono menzionare il
metus, il dolus malus, la minore
età, il falsus tutor, l’absentia rei publicae causa, l’alia iusta causa, l’alienatio iudicii mutandi causa facta,
la fraus creditorum.
[147] Non vi
sono invece dubbi sul senso da attribuire all’espressione cognitio causa – o meglio alla sua
forma assoluta causa cognita –
con riferimento al pretore come valutazione discrezionale delle circostanze. A
tal riguardo cfr. R. Martini, Il problema della causae cognito pretoria,
Milano 1960, 44.
[148] Per
una diversa interpretazione si veda B.
Albanese, Capitis deminutio
cit., 64, il quale invece affida alla discrezionalità del pretore,
“causa cognita”, dunque,
la possibilità di convenire in giudizio i capite deminuti.
[149] In tal
senso F.C. Savigny, Sistema cit., II, 89; A. Bethmann-Hollweg, Der römische Civilprozess, II, Bonn 1865, 750; M.
Cohn, Beiträge cit., II,
308, O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte II,
Leipzig 1901, 1084 s.; F. Girard,
Manuel cit., 1128 nt. 7; P. Bonfante, Corso I cit., 171; M. Lauria,
Iurisdictio, in Studi Bonfante II, cit., 513; più di recente, R. Martini, Il problema della causae cognitio cit., 74 ss.
[150] F. Carrelli, D. 4.5.2.1 cit., 141 ss.; Id. Decretum e sententia nella restitutio in
integrum, in Ann. Bari 1, 1938,
130 e nt. 1.
[151] G. Cervenca, Studi vari sulla restitutio in integrum, Milano 1965, part. 9.
Peraltro, lo stesso studioso giunge alla conclusione (21) che ogni qual volta
nelle fonti si parla di “postulare
in integrum restitutionem” questo equivalga, in fondo, al “postulare cognitionem (de in integrum restitutione)”.
[152] D.
4.1.3: Omnes in integrum restitutiones
causa cognita a praetore promittuntur, scilicet ut iustitiam earum causarum
examinet, an verae sint, quarum nomine singulis subvenit.
[153] In tal
senso cfr. in particolare F. Carrelli,
D. 4.5.2.1 cit., 146, Id., Decretum e sententia cit., 123 nt. 1; R. Orestano, Ius
singulare e privilegium in diritto romano, in Ann. Macerata 12-13
(1939), 62 nt. 3; M. Lemosse, Cognitio. Étude sur le rôle du
juge dans l’instruction du proces civil antique, Paris 1944, rist.
anast. Roma 1971, 202 ss.; G.
Cervenca, Studi vari cit., 17
s.
[154] Su
posizioni opposte è invece R.
Martini, Il problema della causae
cognitio cit., 74 ss., il quale ritiene che l’affermazione di
Modestino dovesse essere stata formulata diversamente, riguardando solo la restitutio dei minori, e che fosse stata
poi generalizzata dai compilatori, o quanto meno, che fosse stata inserita in
un discorso, a noi non conosciuto e non conoscibile, che avesse una portata
più limitata e comunque diversa da quella che poi ha avuto.
[155] Sul
significato di iustitia v., in
generale, A. Carcaterra, Iustitia nelle fonti e nella storia del
diritto romano, Bari 1951.
[156] Questa
prima fase era stata denominata dalla dottrina più antica, con
un’espressione ormai abbandonata, data la mancanza di ogni supporto
testuale, iudicium rescidens.
[157] Tale
ipotesi è stata sostenuta in particolare da E. Carrelli, Decretum e
sententia cit., 129 ss. (del quale v. pure L’actio Publiciana rescissoria, in SDHI 3, 1937, 20, e Sul
beneficium restitutionis, in SDHI
4, 1938, 7) sulla scorta di un’opinione avanzata da G.C. Burchardi, Die Lehre von Wiedereinsetzung in den vorigen Stand,
Göttingen 1831, 454 ss., ed accolta principalmente da J. Duquesne, Cicéron “Pro Flacco” chap. 30-32 et l’in
integrum restitutio, in Annales de
l’Univ. de Grenoble, 1908, 33 ss.; E.
Levy, Zur nacklassischen in
integrum restitutio, in ZSS 86,
1951, 362 ss., ora in Gesammelte
Schriften I, Köln Graz 1963, 446; M.
Kaser, Römisches Privatrecht,
3a ed., München-Berlin 1964, 322. Da queste ipotesi si discosta di poco
quella di L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana
cit., 243, secondo il quale il magistrato avrebbe talvolta affidato
l’indagine ad un iudex, che
avrebbe deciso nel c.d. iudicium rescidens
la sussistenza o meno degli estremi per la restituzione.
[158] Dopo
una prima apertura in tal senso da parte di O.
Karlowa, Römische
Rechtsgeschichte cit., II, 1090 ss., secondo il quale il pretore accordava
la restitutio solo concedendo
l’actio rescissoria (o
un’exceptio), senza ammettere
alcun decretum; l’ipotesi
è stata sostenuta in maniera più pervicace da M. Lauria, Iurisdictio cit., 514 ss., e seguita dalla maggior parte della
dottrina. In tal senso v., tra gli altri, G.
Impallomeni, Studi sui mezzi di
revoca degli atti fraudolenti nel diritto romano classico, Padova 1958, 46
ss.; M. Amelotti, Actiones perpetuae e actiones temporales
nel processo formulare, in SDHI
22, 1956, 185 ss., ora in Scritti
giuridici, a cura di L. Migliardi Zingale, Torino 1996, 371; G. Cervenca, Studi vari cit., 27 ss.
[159] Si
tratterebbe, nello specifico, di soli quattro testi giuridici: Ulp. 6 ad ed. D. 3.1.1.10, Mod. 2 resp. D. 4.4.29.2, Scaev. 1 resp. D. 4.4.47.1 e C.I. 2.39.2.
Inoltre, qualche accenno ad un decretum
di restitutio si ritrova nella Pro Flacco di Cicerone, in 21.49 e
31.76, e in 32.77-78, con riferimento a casi di applicazione della procedura
nelle provincie.
[161] Al
contrario, i passi che nominano una sententia
di in integrum restitutio sono pochi
ed insospettabili: in tal senso G.
Cervenca, Studi vari cit., 27
s. e nt. 66.
[162] Fra
questi, sono particolarmente significativi Ulp. 9 ad ed. D. 3.3.39.6 e Gai. 3 ad
ed. prov. D. 3.3.46.3. Altri riferimenti testuali più specifici si
possono trovare in G. Cervenca, Studi vari cit., 48 ss.
[163] Sul
punto cfr. P. Voci, L’errore nel diritto romano,
Milano 1937, 244 ss. Di contro, v’è anche da rilevare come in
nessuno dei due passi vi sia menzione, ad esempio, dell’alienatio iudicii mutandi causa facta,
che invece è prevista dall’editto.
[164] Cfr.
P.S. 1.7.2: Integri restitutionem praetor
tribuit ex his causis, quae per metum dolum et status permutationem et iustum
errorem et absentiam necessariam et infirmitatem aetatis gesta esse dicuntur.
[165] Sulla
non classicità delle Pauli
Sententiae, ormai comunemente ammessa in dottrina, v. in particolare D. Liebs, Römische Jurisprudenz in Africa. Mit Studien zu den
pseudopaulinischen Sentenzen, Berlin 1993, 28 ss.
[166] Non
è da condividere l’ipotesi di F.
Carrelli, D. 4.5.2.1 cit., 95
ss., che attribuisce a Paolo l’enorme errore di chiamare iudicium una restitutio in integrum. Sul punto cfr. C. Furia, Gai 3.84 cit.,
128.
[167] Sul
passo, ed in particolare sulla sua non previsione originaria di
un’azione, cfr. G. Impallomeni,
Studi sui mezzi di revoca cit., 12
ss.
[168] Mi
avvalgo dell’autorità di F.C.
Savigny, Sistema cit., II, 2,
85 nt. n. il quale, basandosi sui
pochi testi pervenutici, ammette nel caso di specie la configurabilità
di una restitutio in integrum, anche
se “anomala”: ed infatti, la considera molto diversa, per esempio,
da quella dei minorenni.
[170] Mette
in risalto, seppur rapidamente, l’analiticità della formulazione
del testo edittale E. Bianchi, Fictio iuris cit., 335.
[171] Gai
3.84: Ex diverso quod is debuit qui se in adoptionem dedit, quaeve in manum convenit…ed
ancora, nello stesso passo, più avanti:…et ne ipse quidem qui
se in adoptionem dedit, quaeve in
manum convenit, maneat obligatus
obligatave, quia scilicet per capitis deminutionem liberetur, tamen in eum eamve utilis actio datur
rescissa capitis deminutione…
[172] Gai
4.38: deminutus deminutave
fuerit, velut mulier per coemptionem, masculus per
adrogationem…introducta est contra eum
eamve utilis actio.
[173] Su
tali presupposti cfr. in particolare l’approfondita disamina di M. Miceli, Sulla struttura formulare delle actiones adiecticiae qualitatis,
Torino 2001, 229 ss.
[174]
Mentre, infatti, la responsabilità nossale è ambulatoria, nel
senso che è strettamente legata allo schiavo o al figlio, e lo segue in
tutte le vicende potestative successive, quella sanzionata dall’actio de peculio è strettamente
collegata al soggetto che esercita il rapporto potestativo al momento della
conclusione del negozio, permanendo in capo ad esso indipendentemente dalle
modifiche nei rapporti potestativi.
[175] In tal
senso, a ragione, F. Dessertaux, Études cit., II, 352, il quale in
considerazione di ciò ravvisa pure, in un certo senso, un effetto
retroattivo dell’adrogatio.
D’altro canto, una simile interpretazione potrebbe trovare un utile
supporto in Pomp. 7 ad Sab. D.
33.8.7: Si quis creditori suo adrogandum
se dederit et egetur de peculio cum adrogatore, idem puto dicendum, quod de
herede dicitur. La testimonianza, che ammette l’esperibilità
dell’actio de peculio per un
credito anteriore all’arrogazione, ha un suo particolare interesse, in
quanto è da considerare come questo giurista, pur essendo un sabiniano,
attraverso tale affermazione potrebbe dimostrare, in fondo, di condividere la
dottrina proculiana, effettivamente poi prevalsa.
[176] Su
tale principio v. in particolare H.
Niederländer, Die
Bereicherungshaftung im klassischen Recht, Weimar 1953, e M.
Talamanca, In tema di azioni di
arricchimento, in AG 146, 1964,
33 ss. V. anche, in ambiti più specifici, i più recenti
contributi di L. Labruna, Rescriptum divi Pii. Gli atti
del pupillo sine tutoris auctoritate,
Napoli 1962; K. Misera, Der Bereicherungsgedanke bei der Schenkung
unter Ehegatten, Köln Wien 1974; S.
Heine, Condictio sine datione. Zur Haftung aus ungerechtfertiger
Bereicherung im klassischen römischen Recht und zur Entstehung des
Bereicherungsrechts im BGB, Berlin 2006; J.D.
Harke, Geschäftsführung
und Bereicherung, Berlin 2007.
[177] Cfr. Ulp. 2 disp. D.
15.1.32 pr.: …quod ubicumque est
veluti patrimonium intuetur. Cfr. pure Inst. Iust. 4.6.10.
[178] S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio cit., 179 nt. 52, richiama al
proposito Paul. 4 ad Plaut. D.
15.1.47.6, dove si afferma che ciò che si è detto per la vendita
si deve applicare a qualsiasi mutamento del dominium:
…quia quasi patrimonium liberi
hominis peculium servi intellegitur, ubicumque esset.
[179] Al
riguardo
B. Albanese, Capitis deminutio cit., 64 nt. 81,
rileva come tale idea si nota già in Cic. Top. 23, dove il patrimonio della uxor in manu è considerato come una specie di dote.
Peraltro, detta idea sarà portata alle sue estreme conseguenze nel
diritto giustinianeo, rimanendo la titolarità dei bona in capo allo stesso adrogatus.
[182] D. 44.7.39: Filius
familias ex omnibus causis tamquam pater familias obligatur et ob id agi cum eo
tamquam cum patre familias potest.
[183]
Dunque, la convenibilità del filius
familias sarebbe da intendere anche per le obbligazioni da delitto. Sul
problema cfr. B. Albanese, Le persone cit., 275 nt. 314.
[184] L. Di Lella, Formulae ficticiae cit., 184 ss. In senso conforme
all’ipotesi del Di Lella v. pure F. D’Ippolito, Tagliacarte, in Labeo 30, 1984, 380 s. e F.
Salerno, Dalla consecratio alla
publicatio bonorum, Napoli 1990, 209.
[187] Si
deve concordare con F. Gallo, Eredità di Labeone in materia
contrattuale, in Atti del Seminario
sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 7-9 aprile 1987),
I, Milano 1988, 41 ss., ora in Le
dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese,
Padova 2006, 142, il quale, nonostante opinioni differenti, esclude che i
riferimenti al gestum possano essere
attribuibili a Labeone o ad Ulpiano.
[188]
È la prospettiva convincente di L.
Garofalo, Contratto, obbligazione
e convenzione in Sesto Pedio, in Le
dottrine del contratto cit., part. 346 ss. (=Studi per Giovanni Nicosia, IV, Milano 2007, 15 ss.), il quale
sottolinea come quella dell’atto e del contratto siano «due
categorie in relazione di contiguità». Se, dunque, si prova a
leggere da questa angolazione anche il testo edittale al quale si fa
riferimento, non appare condivisibile l’opinione di A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 129, secondo il quale l’endiadi actum contractumve sarebbe riferibile ai
debiti non contrattuali e a quelli propriamente contrattuali.
[189] In tal
senso F. Dessertaux, Études cit., I, 75 nt. 2, e II,
304, 356; Id., Contribution a l’étude de
l’edit cit., 425 ss. Lo studioso francese dubita però che
l’editto di cui era a conoscenza Labeone, che egli definisce
“primitivo” per distinguerlo da quelli posteriori, avesse la stessa
portata di quello inserito da Salvio Giuliano nell’editto perpetuo. V.
pure M. Voigt, Das ius naturale cit., 683 ss. e nt.
1137.
[191] Sulla
sostituzione da parte dei compilatori della perifrasi “eos ad quos bona pervenerunt” al
posto del sector cfr. F. Salerno, Dalla consecratio alla publicatio bonorum cit., 208.
[194] In tal
senso in particolare U. Coli, Capitis deminutio cit., 158 ss.; F. Dessertaux, Capitis deminutio cit., 86 ss.; da ultimo B. Albanese, Capitis
deminutio cit., 35 nt. 6. Va comunque segnalata anche la differente
opinione di M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio
cit., 48 ss., 53 ss. e 85 ss.; Id.,
Das römische Privatrecht,
München 1971, 271, il quale sostiene invece che storicamente capitis deminutio sarebbe stata solo
quella consistente nella perdita della cittadinanza e della libertà.
L’illustre studioso avrebbe trovato, tra l’altro, conferma alla sua
ipotesi, alla quale non fornisce però alcun supporto attendibile, nella
congettura che prima dell’introduzione dell’editto de capite
deminutis la conventio in manum e
l’adrogatio non avrebbero
comportato capitis deminutio.
[196] Si
deve al riguardo comunque considerare che tra le diverse fictiones riportate nell’elencazione gaiana questa è
sicuramente la più ardita, denotando, rispetto alle altre, il più
alto grado di astrazione: così E.
Bianchi, Fictio iuris cit.,
336.
[197] Per la
verità, C. Furia, Gai 3.84 cit. 119, parla
indifferentemente di coinvolgimento del terzo nel «rapporto
obbligatorio». A me sembra, invece, più corretto distinguere le
due situazioni, e parlare in questo caso di rapporto processuale.
[198] Anche
qui non mi sembra di poter concordare con C.
Furia, op. loc. cit., la quale
invece ipotizza la contemporanea introduzione delle due azioni.
[199] Non
lasciano spazio ad una interpretazione differente i passi di Gaio in precedenza
richiamati, che la descrivono in questo modo.
[200] S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio cit., 178 ss., non dubita affatto
della possibilità per il creditore, una volta introdotta l’actio de peculio, di ricorrere
indifferentemente all’actio
ficticia contro il proprio debitore o all’actio de peculio contro l’avente potestà su di lui
qualora la sua pretesa creditoria non avesse potuto trovare soddisfazione. Cfr.
pure B. Albanese, Capitis deminutio cit., 64.
[201] Rimane
invece dubbiosa C. Furia, Gai 3.84 cit., 120, la quale peraltro mette
in evidenza come nessun cenno alla concorrenza delle azioni esiste
nell’opera di E. Levy, Die Konkurrenz der Aktionen, II, Berlin
1964.
[202]
Osserva P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 122, nt. 11,
che qui la frase è ellittica, mancando il verbo della subordinata
ipotetica introdotta dal si.
[203] Anche
se, come fa rilevare M. Talamanca,
s.v. Obbligazioni cit., 62 nt. 434,
il suo impiego è «chiaramente finalizzato al contesto topico della
discussione, dal quale qualsiasi estrapolazione può risultare soggetta
ad estrema cautela».
[204] In tal
senso O. Gradenwitz, Natur und Sklave bei der naturalis obligatio,
in Festgabe T. Schirmer,
Königsberg 1900, 31; H. Siber, Naturalis obligatio cit., 10; S. Perozzi, Istituzioni cit., II, 45 e nt. 1; E. Albertario, A
proposito di naturalis obligatio, in
AG 102, 1929, 239, ora in Studi cit. 3, Milano 1936, 68; G.
Segré, Obligatio, obligare,
obligari nei testi della giurisprudenza classica e al tempo di Diocleziano,
in Studi Bonfante III, cit., 605 nt.
312, ora in Scritti vari di diritto
romano, Torino 1952, 392 nt. 314; J.
Vážný, Naturalis
obligatio cit., 172; W. Flume, Studien zur Akzessorietät der
römischen Bürgschaftsstipulationen, Weimar 1932, 99 nt. 2; V. De Villa, Studi cit., 55 ss., 135 nt. 15; F.
De Martino, Le garanzie personali
dell’obbligazione, I, Roma
1940, 96 nt. 2; M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio
cit., 48; A. Burdese, La nozione
classica cit., 112 ss; Id., Dubbi cit., 508, e, più in
generale, Id., Manuale di diritto privato romano, Torino 1975, 611 nt. 6 (v. anche Id., La naturalis obligatio cit., 220, dove sembra cambiare
l’opinione espressa in precedenza, affermando che la frase potrebbe
essere genuina); P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I, Le garanzie personali, Padova 1962, 80; S. Longo, Filius familias se obligat cit., 130 s. Ne sostengono invece la
classicità J.A.C. Thomas, Naturalis obligatio pupilli, in Sein und Werden im Recht,
Festgabe für von U. Lubtow, Berlin
1970, 475 s.; G.E. Longo, Ricerche cit., 151 ss., e P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 120
ss. Da ultima, L. DI CINTIO,
L’obbligo del pupillo tra naturalis obligatio e vinculum aequitatis,
in SDHI 74, 2008, 480 s., si pone su
di un piano differente. L’autrice non ritiene infatti che il termine naturaliter debba necessariamente
riferirsi alla obligatio per il solo
fatto di essere vicino al verbo obligari,
e attribuisce ad esso un valore autonomo, ricavandone in definitiva, in maniera
non persuasiva, che in D. 4.5.2.2 non si parlasse di obbligazioni naturali.
[205] Non ravvisa invece alcun
contrasto tra le due affermazioni A.D.
Manfredini, rec. a S. Longo cit., in
Iura 55, 2004-05, 256.
[206] Gai
3.84: …et ne ipse quidem, qui se in
adoptionem dedit quaeve in manum convenit, maneat obligatus obligatave, quia
scilicet per capitis deminutionem liberetur….
[207] Gai
4.38: …desinit iure civili debere
nobis, nec directo intendi potest sibi dare eum eamve oportere…
[209]
Diversamente G. Broggini, Obligatio naturalis cit., 381, il quale
con eccessiva disinvoltura ipotizza che il riferimento di Ulpiano fosse
limitato alle obbligazioni naturali pregresse alla permutatio status, nel senso che queste (e solo queste)
continuassero a sussistere, non potendo un istituto civilistico quale è
la capitis deminutio distruggere un
diritto di credito naturale.
[210]
Può essere interessante al riguardo la lettura di uno squarcio dello
scholio 3 al passo corrispondente dei Basilici, 46.2.1 (Ed. Scheltema-Holwerda,
Groningen-Gravenhage, 1965, B VII, 2737) nel quale si afferma che il pretore
interviene a sanzionare un obbligo fondato sul ius naturale: lšgei
dš Ð OÙlpianÒj, Óti oƒ k£pitij
Øpost£ntej deminout…ona kaˆ tucÕn e„j
qšsin ˜autoÝj ™pidedwkÒtej, ØpŸr
mŸn tîn prÕ tÁj k£pitij deminout…onoj
sunallagm£twn mšnousi fusikîj e„j ÐlÒklhron
™necÒmenoi: tù g¦r politikù nomJ
teqn£nai dokoàsi. kaˆ di¦ toàto d…dwsin
e„j ÐlÒklhron kat\ autîn tÕn ∙eskissÒrion
tÚpon Ð pra…twr, ™peid¾ kat¦ fÚsin
™nšcontai. tù dš fusikù dika…J
pantacoà sunršcein Ð pra…twr e‡wqe.
[211] In tal senso, sostanzialmente,
H. Siber, Naturalis obligatio cit., 10; E.
Albertario, Naturalis obligatio cit.,
57 ss.; F. Pringsheim, rec. a Siber, in ZSS 46, 1926, 355; J. Vážný, Naturalis obligatio cit., 170 ss.; V. De Villa, Studi cit., 30 ss.; A.
Burdese, La nozione classica
cit., 111 ss., Id., Dubbi in tema di naturalis obligatio,
508 ss.
[212] Scaev. 1
resp.: Servus effectus non idcirco, quod postea indulgentia principali
libertatem consecutus est, redisse dicitur in obligationem creditorum.
[213] Cfr. O. Lenel, Palingenesia cit., II, 292 nt.1, il quale propende per il suo
inserimento nel titolo de capite minutis
oppure in quello del SC. Velleiano. In senso conforme v. pure, tra gli altri, H. Siber, Naturalis obligatio cit., 10; V.
De Villa, Studi cit., 55; A. Burdese, La nozione classica cit., 131; M.
Talamanca, s.v. Obbligazioni
cit., 64 nt. 448.
[215]…cum vero genere novationis transeat
obligatio, fideiussorem aut iure aut exceptione liberandum. Al
riguardo, cfr. M. Talamanca, rec.
a P. Sturm, Stipulatio Aquiliana. Textgestalt und Tragweite der aquilianischen
Ausgleichsquittung im klassischen römischen Recht, München 1972, in BIDR 76, 1973, 305 ss.
[216] In
relazione all’utilizzo dell’espressione natura debitum, o di quelle altre sentite come tendenzialmente
equivalenti a quella di naturalis
obligatio (o naturaliter obligari),
quali naturale debitum, o natura debere, in realtà, come
osserva M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 59 ss., resta ancora
da vedere se alla diversità dell’espressione possa corrispondere o
meno «un’eventuale, seppur non esclusiva, specializzazione
semantica».
[217] Cfr.
in tal senso M. Talamanca, s.v. Fideiussione: a) parte storica, in ED. 17, Milano 1968, 335 s., il quale
mette in risalto la differenza tra la motivazione del perdurare della
responsabilità del fideiussor
in caso di capitis deminutio minima
del reus, o di altre capitis deminutiones dello stesso. Nel
primo caso, infatti, essa va ricercata nella
naturalis obligatio del capite
deminutus, da ancorarsi o meno all’actio ficticia rescissa capitis deminutione, concessa in questo
caso dal pretore; nelle altre capitis
deminutiones, invece, deve essere ricercata nella circostanza che la capitis deminutio non comporta
l’estinzione dell’obbligazione del debitore principale. Non hanno
trovato, infatti, rispetto a quest’ultima affermazione, riscontro i
tentativi di dimostrazione in contrario di W.
Flume, Studien cit., 95 ss.,
nonostante l’adesione di F. De
Martino, Le garanzie personali cit.,
148.
[218] In particolare è questa
la ricostruzione di H. Siber, Naturalis obligatio cit., 9 ss.,
seguito da S. Perozzi, Istituzioni cit., 45 nt. 1; V. De Villa, Studi cit.; E. Albertario, A proposito cit., 68 e Id. Corso
cit., 96 ss.; G. Segré, Obligatio cit., 256 e 392 nt. 314; W. Flume, Studien cit., 99 nt. 2; A.
De Martino, Le garanzie personali
cit., 96 nt. 2; A. Burdese, La nozione classica cit., 112 s.: cum reus ita liberatur a creditore, ut iure
honorario debitum maneat. Contra,
v. G. Beseler, Romanistische Studien cit., 321 e 326.
Per altro verso, è singolare l’opinione di P. Frezza, Le garanzie
delle obbligazioni cit., 78, il quale afferma che la naturalis obligatio cui si riferiva qui Scevola è
l’obbligazione da arricchimento.
[219] Sono
le parole con cui si esprime A. Burdese,
Dubbi in tema di naturalis obligatio
cit., 485, richiamando altresì l’attenzione sul pensiero del
Cuiacio in occasione della trattazione della naturalis obligatio pupilli.
[220] Del
resto, quello della naturalis obligatio
è ormai un vero e proprio concetto tecnico che si trova spesso
utilizzato nei passi di Ulpiano: in particolare ha una sua rilevanza in 73 ad ed. D. 20.1.14.1, 47 ad Sab. D. 46.1.8.3, 46 ad Sab. D. 46.2.1.1, o con qualche lieve
variante terminologica, in 15 ad ed.
D. 5.3.25.11, 40 ad Sab. D. 26.8.5
pr., 17 disp. D. 44.7.4, e in 48 ad Sab. D. 45.1.1.2. Così, sono
altrettanto significativi i richiami al debitum
naturale, anche questo nelle sue diverse varianti terminologiche che si
leggono in 15 ad ed. D. 5.3.31.1, 27 ad ed. D. 13.5.1.17, 26 ad ed. D. 12.6.26.12, 29 ad ed. D. 15.1.11.2, 30 ad Sab. D. 16.2.6, e in 16 ad ed. D. 50.16.10.
[221]
È l’opinione di M.
Talamanca, s.v. Obbligazioni cit.,
62. Resta aperto, comunque, ma non solubile, aggiunge lo studioso, il problema
se «la concettualizzazione come obligatio
naturalis sia dipesa da una completa coincidenza di effetti o non
l’abbia, invece, per qualche aspetto marginale, favorita» (nt.
435).
[223] Iav. 2 ex post. Lab. D. 35.1.40.3: Dominus
servo aureos quinque eius legaverat: ‘heres meus Sticho servo meo, quem
testamento liberum esse iussi, aureos quinque, quos in tabulis debeo,
dato’. nihil servo legatum esse Namusa Servium respondisse scribit, quia
dominus servo nihil debere potuisset: ego puto secundum mentem testatoris
naturale magis quam civile debitum spectandum esse, et eo iure utimur.
[225]
Potrebbe ben riferirsi all’obligatio
naturalis del capite deminutus
pure il laconico Ulp. 73 ad ed. D. 20.1.14.1: Ex
quibus casibus naturalis obligatio consistit, pignus perseverare consistit.
In tal senso cfr. M.
Talamanca, s.v. Obbligazioni
cit., 64 nt. 449.
[227] Ulp.
47 ad Sab. D. 46.1.8.3: Et post litem contestatam fideiussor accipi
potest, quia et civilis et naturalis subest obligatio: et hoc et Iulianus
admittit eoque iure utimur. an ergo condemnato reo exceptione uti possit,
quaeritur: nam ipso iure non liberatur. et si quidem iudicati actionis acceptus
non est, sed tantum litis exercitationis, rectissime dicetur uti eum exceptione
posse: si vero acceptus fuerit etiam totius causae, cessabit exceptio. Si
tratta di un testo difficilmente sospettabile nella sua prima parte, ma da
utilizzare con cautela nella seconda. Tra le diverse interpretazioni
dell’inciso et civilis et naturalis
subest obligatio proposte dalla dottrina (tra queste, si deve menzionare
quella di P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 228 ss., che
intende, per giustificare la sua ipotesi di partenza, l’et …et come un aut…aut,
riportandolo al gioco tra iudicium
legitimum e iudicium imperio
continens), la più verosimile è senza dubbio quella di A. Burdese, La nozione classica di naturalis obligatio cit., 120 ss., condivisa
peraltro anche da M. Talamanca
nella sua recensione a P. Sturm cit., 306 nt. 30, a parere del quale il testo
esprime la coesistenza tra il condemnari
oportere come supporto all’obligatio
civilis, ed il residuarsi dell’obbligazione sostanziale come obligatio naturalis. Sul passo
più di recente è tornata G.
Sacconi, Studi sulle obbligazioni
solidali da contratto in diritto romano, Milano, 1973, 32 ss., con
considerazioni che però non convincono appieno. Cfr. pure Ven. 15 stip. D. 46.8.8.1.
[228] Paul.
3 quaest. D. 12.6.60 pr.: Iulianus verum debitorem post litem
contestatam manente adhuc iudicio negabat solventem repetere posse, quia nec
absolutus nec condemnatus repetere posset: licet enim absolutus sit, natura
tamen debitor permanet. similemque esse ei dicit, qui ita promisit, sive navis
ex Asia venerit sive non venerit, quia ex una causa alterius solutionis origo
proficiscitur. Il problema prospettato nel testo è quello di un
debitore che, convenuto in giudizio, adempie dopo la litis contestatio e perdurando il iudicium. Questi, nella medesima fase del processo, non può,
seguendo l’opinione di Giuliano, ripetere il pagato né in caso di
assoluzione, che in quanto ingiusta lascerebbe sussistere un’obligatio naturalis, né tanto
meno in caso di condanna, verificandosi nel caso di specie un’ipotesi
simile a quella di chi promette sive
navis ex Asia venerit sive non venerit sive navis ex Asia venerit sive non
venerit, dove l’adempimento sarebbe comunque irripetibile, in quanto solutio indebiti. Dunque, qui il natura debere del debitore è
chiaramente, come afferma M. Talamanca,
rec. a F. Sturm cit., 305, l’obbligazione originaria, che persiste in
modo affievolito dopo la sentenza assolutoria.
[229] Paul.
4 quaest. D. 36.1.61(59) pr. : Debitor sub pignore creditorem heredem instituit
eumque rogavit restituere hereditatem filiae suae, <id est testatoris>:
cum nollet adire ut suspectam, coactus iussu praetoris adit et restituit: cum
emptorem pignoris non inveniret, desiderabat permitti sibi iure dominii id
possidere, respondi: aditione quidem hereditatis confusa obligatio est:
videamus autem, ne et pignus liberatum sit sublata naturali obligatione. atquin
sive possidet creditor actor idemque heres rem sive non possidet, videamus de
effectu rei. et si possidet, nulla
actione a fideicommissario conveniri potest, neque pigneraticia, quoniam
hereditaria est actio, neque fideicommissum, quasi minus restituerit, recte
petetur: quod eveniret, si nullum pignus intercessisset: possidet enim eam rem
quasi creditor. sed et si fideicommissarius rem teneat, et hic Serviana actio
tenebit: verum est enim non esse solutam pecuniam, quemadmodum dicimus, cum
amissa est actio propter exceptionem. igitur non tantum retentio, sed etiam
petitio pignoris nomine competit et solutum non repetetur. remanet ergo propter
propter pignus naturalis obligatio… Il centro della questione
prospettata nel testo, che è quello che interessa ai fini
dell’indagine proposta, è nel riconoscimento della persistenza del
diritto di pegno, malgrado l’avvenuta estinzione dell’obbligazione
per confusio. Essa dipenderebbe, a
sua volta, dalla persistenza o meno di un’obligatio naturalis, nonostante l’estinzione dell’obligatio civilis.
[230]
Tuttavia, come osserva M. Talamanca,
s.v. Obbligazioni cit., 65 nt. 451, in
questo caso si deve considerare come possa essere inutile andare a ricercare in
un’obligatio naturalis il
supporto alla soluti retentio, in
quanto esiste ancora formalmente l’obligatio
civilis, ancorchè paralizzata dall’exceptio sul piano del diritto onorario.
[231] Paul.
30 ad ed. D. 14.6.10: quia naturalis obligatio manet. È
appena il caso di precisare, data la laconicità del testo a seguito del
raccordo operato dai giustinianei con il testo precedente (Ulp. 29 ad ed. D. 14.6.9.4:…sed et ipse filius, et tamen non repetit,
qui hi demum solutum non repetunt, qui ob poenam creditorum actione liberantur,
non quoniam exonerare eos lex voluit. Quamquam autem solvendo non repetant),
che esso serve a motivare l’irripetibilità del pagato da parte dei
creditori liberati ob poenam creditorum,
tra i quali è da ricomprendersi appunto il filius familias, obbligatosi a titolo di mutuo nonostante il
disposto del SC Macedoniano. V’è da dire, sotto diverso profilo,
che la frase in questione potrebbe non essere stata formulata a proposito di
tale SC, ma con riferimento all’edictum
‘quod cum eo qui in aliena potestate est negotium gestum’, del
quale Paolo si occupava nello stesso libro, in relazione al quale sarebbe
potuto venire in considerazione con maggiore specificità il riferimento
alla naturalis obligatio. In tal
senso A. Burdese, La nozione classica cit., 115 nt. 14; Id., La naturalis obligatio cit., 218, seppur più cauto rispetto
alla posizione espressa in precedenza. Cfr. pure Ven. 2 stip. D. 14.6.18, più circostanziato.
[232] Ulp. 3
ad ed. D. 2.2.3.7: ex hac causa solutum repeti non posse
Iulianus putat: superesse enim naturalem causam, quae inhibet repetitionem.
Si tratta di un caso spesso preso in considerazione dalla dottrina
sull’argomento. Com’è
evidente, però, il testo non menziona espressamente l’obligatio naturalis; quello che in esso
si afferma, invece, è che non è possibile la ripetizione del pagato, esistendo una causa naturale
che vi si oppone. Ora, come ha osservato al riguardo P. Cornioley, Naturalis
obligatio cit., 247 ss., detta naturalis
causa non può essere necessariamente ricondotta ad un tipo di
concettualizzazione che trovi il suo riferimento nella naturalis obligatio: solo giustifica come, nel caso, non si possa
fondare la condictio indebiti sull’esistenza
dell’exceptio. Cfr. pure, più conferente, Pomp. 22 ad Sab. D. 12.6.19 pr.: Si poenae causa eius cui debetur debitor
liberatus est, naturalis obligatio manet et ideo solutum repeti non potest.
Qui, a parte l’esplicito riferimento – sotto forma di un principio
generale – alla permanenza dell’obligatio
naturalis a prescindere dalla liberazione del debitore, il discorso
è diverso in quanto, in linea di principio, comunque questi non sembra
che sia liberato ope exceptionis.
[233]
È quello che si può chiamare “debito puro”, che non
importa una responsabilità ad esso organicamente congiunta, e che si
differenzia dal debito che è, inoltre, esigibile in quanto strettamente
correlato a detta responsabilità: in tal senso v. E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni. II. Struttura dei rapporti d’obbligazione, Milano 1953, 51 s.
[234]
È sicuramente da condividere l’opinione di A. Burdese, Dubbi in
tema di naturalis obligatio cit., 308, a parere del quale il rifermento del
testo è a qualsiasi causa, purchè anteriore alla capitis deminutio del soggetto
obbligato, e non invece, come ritiene P.
Cornioley, Naturalis obligatio
cit., 120 ss., alle fattispecie obbligatorie causali in contrapposizione a
quelle formali. Sulla stessa prospettiva di A. Burdese si pongono anche gli
autori delle diverse recensioni al lavoro dello studioso francese: L. Labruna, in Iura 16, 1965, 413 ss.; G.E.
Longo, in Labeo 12, 1966, 382;
M. Kaser, in ZSS 88, 1966, 468; G.
Broggini cit., 380 s.
[235] In tal
senso in particolare G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis
cit., 156 s. e 173. V., contra, L. Labruna, rec. a Longo cit., 294.
Cfr., inoltre, su posizioni analoghe, G.
Donatuti, rec. a Longo cit., in
BIDR 65, 1962, 316.
[237] Il
termine è di Papiniano, giurista particolarmente incline a questioni di
natura etica, e lo si trova in 28 quaest.
D. 46.3.95.4: Naturalis obligatio ut
pecuniae numeratione, ita iusto pacto vel iureiurando ipso iure tollitur, quod
vinculum aequitatis, quo solo sustinebatur, conventionis aequitate dissolvitur:
ideoque fideiussor, quem pupillus dedit, ex istis causis liberari dicitur. Sul
passo cfr., tra i più recenti, G.
Falcone, Obligatio est iuris
vinculum, Torino 2003, 179 ss., il quale lo utilizza per mettere in risalto
la netta contrapposizione esistente tra i due diversi vincula.
[238] Sulla
valenza da attribuire alle espressioni ‘etico’ e
‘morale’ nell’esperienza giuridica romana cfr. A. Mantello, Un’etica per il giurista? Profili di interpretazione giurisprudenziale
nel primo Principato, in Per la
storia del pensiero giuridico romano da Augusto agli Antonini, a cura di D.
Mantovani, Torino 1997, 170 s.
[239] P. Voci, Le obbligazioni romane I.1, Milano 1969, 20 nt. 53, rende il
termine in italiano con “catacresi”, vale a dire con lo stesso
termine greco con cui si indicava la figura retorica attraverso la quale una
parola veniva utilizzata oltre il suo senso proprio e che i latini rendevano
con abusio.
[240] Cfr.
Iul. 53 dig. D. 46.1.16.4: Naturales obligationes non eo solo
aestimantur, si actio aliqua eorum nomine competit, verum etiam cum soluta
pecunia repeti non potest: nam licet minus proprie debere dicantur naturales
debitores, per abusionem intellegi possunt debitores et, qui ab his pecuniam
recipiunt, debitum sibi recepisse. A questo passo viene normalmente
accostato Ulp. 43 ad Sab. D. 15.1.41: Nec servus quicquam debere potest nec servo
potest deberi, sed cum eo verbo abutimur, factum magis demonstramus quam ad ius
civile referimus obligationem... Su tali passi v. in particolare I. Buti, Studi sulla capacità patrimoniale cit., 239 ss.; A. Mantello, Beneficium servile - debitum naturale cit., 189 ss., il quale
osserva che, pur ritrovandosi in questi testi, come in altri, alcuni spunti
interessanti, pur tuttavia tali richiami «non assurgono mai a canoni
ermeneutici e definitori generali»; S.
Longo, D. 46.1.16.3-4 (e D.
44.7.10): ancora una riflessione, in Fides
Humanitas Ius. Studi in onore di L. Labruna 8, Napoli 2008, 2933 ss. Sulla
non tecnicità e sull’applicazione impropria in relazione a tali
rapporti delle espressioni debere e debitum, come pure del termine obligatio, cfr. G. Segré, Obligatio
cit., 283. Per una lettura del rapporto tra i due passi da un angolo visuale
differente da quello della obligatio
naturalis si veda M. Miceli, Sulla struttura formulare cit., 347 ss.
[241] Utilizzo un’espressione
di A. Mantello, Beneficium servile - debitum naturale
cit., 389 nt. 336.
[242] R. Quadrato, La persona in Gaio. Il problema dello schiavo, in Iura 37, 1986, 19, si esprime in
termini di «mediazione sottile» tra l’assetto normativo
tradizionale e la realtà del subiectus
che di fatto partecipava alla vita commerciale.
[243]
Così G.E. Longo, Ricerche cit., 165, che l’espunge
per intero. Cfr. pure O. Lenel, Palingenesia cit., II, 477 nt. 5, e S. Solazzi, Sulla capacità del filiusfamilias di stare in giudizio, in BIDR 9, 1899, 113 ss., ora in Studi cit., 33 nt. 71.
[245] F.C.
SAVIGNY, Sistema cit.,
II, 2, 85 s. Peraltro, in tale occasione l’illustre studioso si pone in
maniera particolarmente critica nei confronti dell’opinione del Cuiacio, Obs. 7, cap. 11, in Opera
3, Neap. 1758, 173, il quale tenta di spiegare il passaggio, ed in particolare
l’interdum, in questi termini: non esse id perpetuum ut quis post capitis
deminutionem iure civili obligetur, nimirum quia etsi adrogatus vel emancipatus obligetur, ea tamen quae convenit in manum non
obligetur. Il riferimento sarebbe, dunque, al contratto stipulato con una
donna in manum conventa, la quale non
poteva obbligarsi: ed il contraente, che nulla sapeva della manus, avrebbe dovuto ottenere la restituzione. Contro detta ipotesi v. pure S.
Solazzi, Sulla capacità del
filius familias cit., 33 nt. 74 e G.E.
Longo, Ricerche
sull’obligatio naturalis cit., 166 nt. 53.
[246]
Peraltro è pure da considerare che, come si è già detto in
precedenza, detta restitutio non
sembra essere stata mai accordata in
forza di una clausola generale dell’editto, ma solo in qualche caso
particolare, nessuno dei quali vicino a quello in questione: ed in ogni caso,
si tratta di una restitutio ben
distante da quella in questione, in primo luogo per il fatto che è
preceduta da una causae cognitio, e
poi per il fatto che la si deve invocare entro l’anno.
[247] O.
Karlowa, Römische
Rechtgeschichte cit., II, 236 ss.; M. Cohn, Beiträge cit., 329 ss.; G.
Mandry, Das gemeine
Familengüterrecht cit., I , 341.
[248]
Né mi sembra aver spostato di molto i termini della questione F. Dessertaux, Études cit., I, 281 s., con il suo tentativo di
perfezionamento della tesi del Savigny. Difatti, anche se il caso previsto
fosse stato quello di un mancipio prolungato nel tempo, quale per esempio
quello conseguente all’abbandono nossale, resterebbe comunque ugualmente
inspiegabile la previsione da parte del pretore di questo particolare caso,
estremamente differente nella sua tipologia rispetto agli altri dei quali si
stava occupando nel suo editto.
[249]
Così come si ritrova espressamente nello scolio 3 al passo
corrispondente dei Basilici, 46.2.1, dove Stefano fa una parafrasi del discorso
di Ulpiano. Del passo, già riportato alla nt. 211, si riporta nuovamente
la sola parte che qui interessa: lšgei dš Ð
OÙlpianÒj, Óti oƒ k£pitij
Øpost£nt£ntej deminout…ona kaˆ tucÕn
e„j qšsin ˜autoÝj ™pidedwkÒtej.
[250] S. Longo, Filius familias se obligat cit., 130, seguendo la sua particolare
prospettiva, ha provato a sottintendere all’affermazione un naturaliter, che servirebbe a
riportarla al sistema giuridico classico. Ma anche accogliendo una tale
lettura, senza dubbio suggestiva, la sua presenza apparirebbe comunque
superflua ed ingiustificata rispetto alla logica interna del frammento: di modo
che ogni tentativo per il suo salvataggio rischia di risultare del tutto
inutile.
[251] Tra gli altri, più o
meno largamente, sospettano l’alterazione H. Siber, Naturalis
obligatio cit., 16; E. Albertario,
Corso I, cit., 104 ss.; V. De Villa, Studi cit., 60 ss.; M. Kaser,
Die Rechtsgrundlage der actio rei uxoriae,
in RIDA 2, 1949, 548 ss.; E. Levy, Natural law in Roman throught, in SDHI 15, 1949, 21 nt. 159, ora in Gesammelte Schriften I cit., 18 nt. 159; G.E. Longo, Ricerche in
tema di obligatio naturalis cit., 193 ss. Più cauto invece è B. Biondi, Iudicia bonae fidei, in AUPA
1920, 194 e nt. 1, il quale dubita che il principio del passo possa essere
interpolato, utilizzando a conforto anche Pap. 8 quaest. D. 47.12.10, dove con termini uguali a quelli di D. 4.5.8
il giurista severiano afferma che l’actio
sepulchri violati è in bonum
et aequum concepta. A favore dell’interpolazione v. pure F. Pringsheim, Ius aequum und ius strictum, in ZSS
42, 1922, 663.
[252] Non mi
sembra di poter concordare con C.A.
Maschi, La concezione
naturalistica cit., 342, quando afferma che «iura naturalia non è qui un’entità astratta
metagiuridica, ma il diritto pretorio considerato sotto l’aspetto del bonum e dell’aequum». Una critica complessiva all’opinione del
Maschi è quella di E. Albertario,
La critica del fr. 8 D. de capite
deminutis, 4,5, in SDHI 4, 1938, 529 ss., ora in Studi VI, Milano 1953, 237 ss.
Sull’argomento cfr. pure le osservazioni di R. CARDILLI, La nozione giuridica di fructus, Napoli
2000, 191 ss.
[253] Lo rileva
W. Waldstein, Aequitas naturalis e ius naturale, in ‘Aequitas’. Giornate in memoria
di P. Silli. Atti del convegno
Trento. 11 e 12 aprile 2002, a cura di G. Santucci, Padova 2006, 45.
[254] Gai
1.158. Il passo, già riportato supra
alla nt. 32, è celebre. In
esso si afferma che mentre la capitis
deminutio estingue i rapporti di agnazione, lascia invece sussistere quelli
fondati sulla cognatio, in quanto un
principio di diritto civile può corrumpere
gli iura civilia, ma non certo quelli
naturalia. Osserva al riguardo F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C. Il senso del
passato, in Giuristi adrianei,
Napoli 1980, 61, che nel testo gaiano vi è una vera e propria
opposizione, in quanto «il giurista di un secolo che ha scoperto, sotto
il particolarismo giuridico e politico in cui è frammentata la mappa
dell’ecumene, la comune umanità dei loghikà zòa, non può non tradurre la
diversità in opposizione».
[255] Inst. Iust. 1.15.3: Sed adgnationis quidem ius <omnis
modibus> capitis deminutione <plerumque> perimitur: nam adgnatio iuris
est nomen. cognationis vero ius non <omnis modibus> commutatur, quia
civilis ratio civilia quidem iura corrompere potest, naturalia vero non
<utique>. Lo stesso concetto si ritrova, oltre che nel passo
corrispondente della Parafrasi di Teofilo, anche nelle stesse Istituzioni
imperiali, in 3.1.11: …naturalia enim iura civilis ratio
peremere non potest...
[256] M. Bartošek, La concezione naturalistica e materialistica dei giuristi classici,
in Studi Albertario cit., II, 496,
utilizza il concetto espresso nel testo per dimostrare come il ius naturale si trovi in una posizione
privilegiata rispetto al ius civile,
che al primo deve sempre cedere il primo posto, e soprattutto non lo deve mai
ledere. Sui due passi cfr. R. Quadrato, rec. a H. Wagner, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius. Ius gentium und ius
naturale in ihrem Verhältnis zum ius civile, Zutphen 1978, in Iura 29, 1978, 275, e da ultimo E. Stolfi, Al tramonto del ‘diritto naturale classico’, in Fides Humanitas Ius cit., 8, 5430 nt.
24.
[257] Per la
verità, G. Segré, Obligatio cit., 535 nt. 109, ipotizza,
ma senza alcun elemento decisivo a supporto, il riferimento alla capitis deminutio del debitore.
[259] Cfr.
in tal senso A. Burdese, Dubbi in tema di naturalis obligatio
cit., 510. Di differente avviso, ma senza addurre fondati motivi a supporto, P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 137, a parere del quale non
c’è motivo di restingere l’applicazione della regola alla
sola capitis deminutio minima,
oggetto dell’editto del pretore.
[260] Anche
in questo caso può suscitare un qualche interesse per comprendere la
posizione dei compilatori giustinianei la lettura dello Sch. 1 al passo
corrispondente dei Basilici, 46.2.7 (Ed. Scheltema-Holwerda cit., B VII, 2742),
dove l’obbligo di restituire la dote è ricondotto alla obligatio naturalis. Cfr. pure C.I.
5.12.30 pr. (a. 529), nel quale si afferma che…(res dotales) naturaliter in
eius (sc. uxoris) permanserunt dominio...
[261] Sul
passo, ed in particolare sulla problematica del ius naturale ivi connessa, cfr. G.
Nocera, Ius naturale
nell’esperienza giuridica romana, Milano 1962, 97.
[262] In tal
senso A. Burdese, La nozione classica cit., 113. Si deve pure
aggiungere che G. Falcone, Obligatio est iuris vinculum cit., 182
nt. 474, in considerazione del riferimento all’actio che si rinviene nel testo, ritiene che andrebbe valutato il
fatto che «lo stesso Gaio considera in termini di
‘naturalità’ prestazioni coercibili tramite actio e imperniate sul valore
dell’aequum»,
nonché «l’esistenza di un consolidato filone
giurisprudenziale influenzato dalla morale stoica, al quale la predetta
notazione di D. 4.5.8 sembra ricollegarsi, che all’aequum e alla natura riporta
il divieto di arricchirsi a detrimento di altri».
[264] Non
è condivisibile l’opinione di P.
Cornioley, Naturalis obligatio
cit., 137, il quale ritiene che il termine praestatio
sia qui utilizzato nel suo senso originale, etimologico, derivato da pres stare, pressoché sinonimo di obligatio. È poco comprensibile,
invece, l’interpretazione di P.
Bonfante, Istituzioni di diritto
romano, 10a ed., Milano 1987, e Corso
I cit., 127, della naturalis praestatio
come «questione di fatto».
[265] Del
problema si occupa anche A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 128, il quale
però afferma che la qualifica emerge solo in maniera meno chiara, vista
l’ambiguità dell’affermazione di Gaio.
[266] M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 66 nt. 463. Cfr. pure Id., Per la storia
della giurisprudenza romana, in BIDR
80, 1977, 296 nt. 214. Inoltre, lo studioso nella stessa nota della pagina
enciclopedica aggiunge pure che «sarebbe del tutto indebito estendere la
disciplina che si può ricavare dall’uso in questione della
concettualizzazione stessa a tutte le obligationes
naturales iuris gentium, come sembra incline a fare il Cornioley, Naturalis obligatio cit., 134 ss., senza
alcuna base testuale».
[267] Sulla
riconducibilità da parte di Gaio dell’actio rei uxoriae alle actiones
in bonum et aequum conceptae si veda in particolare A. Söllner, Zur
Vorgeschichte und Funktion der actio rei uxoriae, Köln Wien 1969, 146
s.
[268] Tra le
diverse spiegazioni fornite dalla dottrina alla persistenza dell’actio rei uxoriae nonostante
l’avvenuta capitis deminutio
è anche il caso di richiamare l’attenzione su quella di L. Mitteis, Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, Leipzig
1908, I, 61 nt. 65, che la riconduce all’origine pretoria di tale azione,
e su quella di S. Perozzi, Istituzioni cit., I, 517 nt. 1, il quale
invece trova la sua ragione fondante nel motivo procedurale e positivo (quia in bonum et aequum concepta est)
che lo stesso Gaio adduce nel testo in esame.
[269]
È particolarmente indicativo, oltre che formalmente ineccepibile, il
paragrafo 3.119a delle sue Istituzioni, comunemente indicato come testimonianza
certa dell’affermarsi della
naturalis obligatio servi: Fideiussor
vero omnibus obligationibus, id est sive re sive verbis sive litteris sive
consensu contractae fuerint obligationes, adici potest. Ac ne illud quidem interest, utrum civilis an naturalis obligatio sit
cui adiciatur; adeo quidem, ut pro servo quoque obligetur, sive extraneus sit
qui a servo fideiussorem accipiat, sive ipse dominus in id quod sibi debeatur.