N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Pietro Cerami
Università
di Palermo
Radici romane dei
«principios básicos»
del «código
modelo» di procedura penale
per l’America latina*
Sommario: 1. Premessa – 2. Ruolo e valore dei «principios
básicos». – 3. Le
radici romane dei «principios básicos». –
4. Il principio «nulla poena sine
praevio iudicio». – 5. Il
diritto ad un «equo processo»: il principio della parità
d’armi (aequa condicio) ed il principio della terzialità e
dell’imparzialità del giudice. – 6. Segue: il principio della
presunzione d’innocenza. – 7. Segue: il principio
dell’inviolabilità della difesa. – 8. Riflessioni conclusive.
Nel
suo intervento di apertura del Congresso internazionale su «Un
“Codice Tipo” di procedura penale per l’America
latina», svoltosi a Roma l’11 sett. 1991, Giovanni Conso definì
il Código Tipo o Modelo, varato nel maggio del 1988, come
«una operazione di civiltà socio-politica più ancora che di
civiltà giuridica»[1],
sottolineandone, al tempo stesso, la sua specifica natura di «Codice di
princìpi»[2].
Natura, questa, che non risulta affatto scalfita neppure nei casi in cui il Código
Modelo formula soluzioni dettagliate, dal momento che quest’ultime
risultano puntualmente integrate da alternative, che hanno l’evidente
scopo di consentire ampie possibilità di scelta[3].
Sotto
questo profilo, bisogna convenire che l’intero “Código”
può essere effettivamente qualificato come un «Codice di
princìpi», anche se occorre riconoscere, al tempo stesso, che un
ruolo ed un valore particolare rivestono, nel contesto generale del “Código”,
i sette articoli del primo Titolo, che enunciano, in piena sintonia con la
stessa rubrica del titolo “Principios básicos”, i
princìpi generali del processo penale[4].
Ciò
posto, s’impone ora, in via preliminare, una breve riflessione sul ruolo
ed il valore che i princìpi generali, contenuti nel Titolo I «Principios
básicos», assumono nell’ordito generale del Código
Modelo.
I
‘principios básicos’, nella misura in cui enunciano
princìpi generali in tema di garanzie processuali dell’imputato,
svolgono un ruolo non dissimile da quello di analoghi enunciati contenuti in
Carte costituzionali ed in Convenzioni internazionali[5],
e, segnatamente, negli articoli 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4
novembre 1950 ed integrata da successivi Protocolli, e soprattutto – con
specifico riguardo alla giurisdizione penale – dagli articoli 2,3 e 4 del
Procollo 7, firmato a Strasburgo il 22.11.1984.
Parlo
di ruolo non dissimile, ma non certo identico, in considerazione del fatto che
il Código Modelo non ha – come è stato, a ragione,
osservato[6]
- «alcuno strumento a protezione, ma un solo modo per imporsi : la
bontà, il fascino delle sue soluzioni».
In forza, appunto, della
bontà e del fascino delle soluzioni del “Código Modelo”,
i principios básicos si risolvono e si concretano in autentiche
linee-guida di politica processual-penalistica per i Paesi dell’America
Latina. Una eloquente conferma, in tal senso, ci è offerta dal recente
Nuovo Codice di procedura penale del Cile.
Ma se
i principios básicos del Código Modelo si
risolvono, sotto il profilo del ruolo, in una “summa
sovrannazionale” di linee-guida per i legislatori dell’America
Latina, il loro intrinseco valore si concreta, a ben riflettere, in una vera e
propria summa di direttive
ermeneutiche[7]
in vista di una oculata gestione interna dei diversi sistemi codicistici, che
possa essere duttilmente finalizzata all’unificazione del diritto.
Ho
già premesso (supra, § II) che i primi sette articoli del Código
Modelo enunciano princìpi generali in tema di garanzia
dell’imputato.
Specificamente,
l’art. 1, la cui rubrica suona «judicio previo»,
enuncia due princìpi fra loro complementari: il diritto al processo ed
il diritto ad un equo processo.
Il
primo, comunemente espresso con il brocardo ‘nulla poena sine praevio
iudicio’, implica l’idea della pura e semplice ritualità
legale del procedimento: «Nadie podrá ser condenado, penado o sometido a una
metida de seguridad y corrección, sino después de una sentencia
firme, obtenida por un procedimiento regular».
Si
tratta di un principio che affonda le radici – come avrò modo di
precisare (infra, § IV) – nell’art. 39 della Magna Charta
e, soprattutto, nell’istituto romano della provocatio ad populum.
Il secondo principio postula che il procedimento risponda
a taluni essenziali requisiti predisposti a tutela dell’imputato: «llevado
a cabo conforme a las disposiciones de este Código, con observancia
estricta de las grarantías previstas para las personas, y de las
facultates y los derechos del imputado».
Si
tratta, in particolare, di garanzie che affondano le radici – come
vedremo (infra, § V) – nell’esperienza processuale
dell’antica Roma e, segnatamente, nel sistema processuale delle quaestiones
perpetuae e nella correlata elaborazione tecnica della retorica
giudiziaria: pubblicità dell’intero procedimento; assoluta ed
effettiva parità d’armi fra accusatore ed accusato (aequa
condicio); inutilizzabilità di prove precostituite o di iudicia
iam facta; terzietà ed imparzialità del giudice; presunzione
d’innocenza dell’imputato.
Gli
articoli 2 e 3, contrassegnati rispettivamente dalle rubriche «juez
imparcial» e «tratamiento del imputado como inocente»,
esplicitano due requisiti fondamentali dell’equo processo, già
insiti nella seconda parte del primo comma dell’art. 1, nel punto in cui
si prescrive – come ho gia precisato - che il procedimento sia conforme a
las disposiciones previstas de esto Código.
Alla
presunzione d’innocenza – o, meglio, in base al più pregnante linguaggio del Código[8],
al tratamiento del imputado como inocente, sino alla sentenza definitiva
– si collega il canone ermeneutico (art. 7 : interpretación de
la ley) dell’interpretazione restrittiva delle norme limitative della
libertà personale: «Sin perjuicio de lo previsto en el art. 3, será
interpretada restrictivamente toda disposición que limite el ejercicio
de un poder conferido a quienes intervienen en el procedimiento».
Costituiscono, in fine, corollari del diritto ad un equo
processo gli enunciati dell’art. 4 (unica persecución),
secodo cui «nadie debe ser perseguido penalmente más de una vez
por el mismo hecho»; dell’art 5 (defensa), secondo cui
«es inviolable la defensa en el procedimiento» e
dell’art. 6 (calidad de imputado), secondo cui «las
facultades que las leyes fundamentales del Estado y este Código otorgan
al imputado puede hacerlas valer la persona a quien se le stribuye
partecipación en un hecho punible, desde el primier acto del
precedimiento dirigido en su contra hasta su finalización».
Il
brocardo «nulla poena sine praevio iudicio», al pari della
locuzione inglese «due process of Law», nella misura in cui
sottende l’idea della pura e semplice ritualità legale[9],
si limita a proclamare il diritto di ogni persona a non subire una condanna
“senza processo”, a prescindere dal “tipo” di
procedimento giurisdizionale in concreto adottato.
L’origine
di tale principio viene comunemente additata nell’art. 39 della Magna
Charta inglese, che sancisce che «nessun uomo libero arrestato o
imprigionato, multato o danneggiato in alcun modo, e non si metta la mano su lui, se non in
virtù di un giudizio legale dei suoi pari, conformemente alla legge de
Paese».
La
connessione storica fra il principio in questione e l’art. 39 della Magna
Charta è certamente fuori discussione. E’ da precisare,
però, che il nostro principio affonda le sue più remote radici
storiche nell’istituto romano della provocatio ad populum,
configurata dai giuspubblicisti dell’antica Roma come il principale praesidium
libertatis[10],
in forza del quale, in seguito all’abolizione del Regnum, il
cittadino poteva opporsi ai più gravi provvedimenti coercitivi del
magistrato (fustigazione e connessa pena capitale; multe superiori a certi
limiti) con la rituale richiesta di un regolare processo dinanzi
all’assemblea popolare.
Nella
sua peculiare natura di praesidium libertatis la provocatio,
lungi dal costituire un mezzo di impugnazione di una decisione magistratuale
(per totale assenza di un procedimento giurisdizionale e di una correlata e
conseguente sentenza), si risolveva in un atto di opposizione
all’esercizio arbitrario del potere
coercitivo del magistrato, il cui effetto era dato dal passaggio dalla
fase dell’esercizio del potere di polizia alla fase
dell’accertamento giurisdizionale.
Dal
diritto al processo, sotteso alla regola ‘nulla poena sine praevio
iudicio’, occorre distinguere – come ho già anticipato (supra,
§ III) – il diritto ad un processo equo, intendendo per processo
“equo” – o “giusto”, in base ad una diffusa, ma
infelice formulazione; ovvero, con terminologia inglese, “fair trial”[11]
– un processo contraddistinto da un insieme di requisiti e garanzie di
contesto: contraddittorio e parità d’armi fra le parti
processuali; terzietà ed
imparzialità del giudice (giudice giusto); pubblicità
dell’intero procedimento; inutilizzabilità di prove e giudizi
precostituiti (iudicia iam facta); presunzione d’innocenza
dell’accusato sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente
accertata.
Si
tratta di requisiti e garanzie connesse, in linea di massima, al rito
accusatorio, al quale è improntato lo stesso Código Modelo.
Dico
“in linea di massima”, perché occorre evitare il pericolo di
assolutizzare ed enfatizzare la contrapposizione fra “rito
accusatorio” e “rito inquisitorio”.
La
complessa e variegata esperienza storica registra infatti, da un lato, garanzie
sorte nel contesto di processi di tipo inquisitorio (infra, § VIII)
e documenta, dall’altro, l’astrattismo del cosiddetto
“purismo accusatorio”[12].
Ma
c’è di più: la prima consapevole formulazione ed
elaborazione dei princìpi dell’equo processo è stata
effettuata nell’antica Roma ad opera della retorica giudiziaria, proprio
al fine di distinguere, nell’ambito del sistema accusatorio delle quaestiones
perpetuae (giurie popolari presiedute da un quaesitor – praetor
o iudex quaestionis di rango edilizio -, in veste di semplice moderatore delle
parti), due fondamentali articolazioni schematiche: iudicia aequa (processi
equi) e iudicia iniqua (processi non equi).
E’,
in proposito, da precisare che il sistema eminentemente accusatorio delle quaestiones
perpetuae – affermatosi fra il II ed il I secolo a. C. – era
contraddistinto da due essenziali princìpi organizzativi:
a) l’attribuzione
della funzione giudicante ad un collegio di giurati scelti dalle parti
(accusatore ed accusato) sulla base di un precostituito elenco ufficiale (album
iudicum);
b) il
conferimento del potere di promuovere e sostenere l’accusa ad un qualsiasi
privato cittadino, in rappresentanza della collettività (quivis de
populo), nel ruolo specifico di parte
processuale (accusator rei publicae causa).
Orbene,
riflettendo sulla prassi processuale delle quaestiones perpetuae, la
retorica giudiziaria osservò che la pura e semplice terzietà
(intesa come mera alterità fisica) del collegio giudicante, la
pubblicità degli atti, la presenza di un quivis de populo in
veste di accusatore rei publicae causa non erano da soli sufficienti a
garantire il necessario equilibrio degli opposti interessi delle parti processuali (accusato ed
accusatore).
Da qui
la puntuale elaborazione di una rigorosa ‘definitio aequorum
iudiciorum’[13],
intendendo ed assumendo il termine ‘definitio’ nel
significato tecnico-retorico di determinazione e distinzione di categorie nel
contesto di uno stesso fenomeno giuridico-retorico; nel nostro caso,
nell’ambito della variegata tipologia dei processi penali: iudicia
aequa e iudicia iniqua.
In
questa prospettiva rilevano – oltre alla pubblicità
dell’intero procedimento, al contraddittorio ed alla terzietà
dell’organo giudicante, essenziali requisiti-presupposti del rito
accusatorio – i seguenti ulteriori princìpi, espressamente
individuati dalla retorica giudiziaria romana ed oggi oggetto di approfondita analisi da parte della
Corte europea dei diritti dell’uomo[14]:
rimozione di prove e giudizi precostituiti; aequa condicio delle parti;
imparzialità del giudice; presunzione d’innocenza
dell’accusato.
Una
prima ed irrinunciabile regola di un equo processo presuppone ed esige –
come ebbe modo di precisare nel
Una
seconda regola, strettamente connessa alla prima, postula – oltre alla
terzietà, intesa come alterità fisica fra giudice e parti –
l’equidistanza e la imparzialità del collegio giudicante.
Il
giudice, in quanto organo super partes, deve essere non soltanto
separato in modo netto dalle parti, ma deve anche essere equidistante dalle
stesse, sì da poter decidere in modo imparziale (da giudice non
sospetto), sulla base delle sole prove legittimamente fornite dalle parti.
In
particolare, per Cicerone non sarebbe ravvisabile una effettiva equidistanza
dell’organo giudicante nel caso in cui fosse attribuito all’accusatore un ruolo preminente
e determinante nella costituzione del collegio giudicante[17].
E’
da precisare, in proposito, che se l’equidistanza attiene ai profili
ordinamentali della vicenda giudiziaria, l’imparzialià investe
anche – e soprattutto – il profilo psicologico-ideologico
dell’organo giudicante, nel senso che l’imparzialità dipende
non soltanto dall’impiego di congrui criteri organizzativi, ma anche
dall’effettiva capacità di colui che è chiamato a giudicare
di essere autenticamente super partes: capace di rimuovere, in
conformità ad essenziali ed irrinunciabili canoni etico-deontologici,
pregiudizi, passioni, ostilità. Per Cicerone può essere
qualificato giudice autenticamente imparziale soltanto colui che sia capace di
condannare anche chi non odia e di assolvere anche chi odia[18].
Una
terza e non meno correlata regola presuppone ed esige l’aequa condicio
– o parità d’armi, ai sensi della giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo[19]
- fra le parti processuali.
Specificamente,
l’aequa condicio comporta:
a) che le
parti (accusatore ed accusato) abbiano la stessa facoltà di provare ed
argomentare;
b) che le
parti abbiano altresì il medesimo status processuale.
Infatti,
nel caso in cui l’accusatore possa disporre – assieme ai diritti
dell’accusa (ius accusationis) – anche del potere inerente
alla titolarità di una carica magistratuale (vis potestatis)[20],
l’aequa condicio fra le parti sarebbe del tutto travolta, con il
conseguente ed irreparabile slittamento del procedimento verso il versante
dell’iniquum iudicium.
Fra i
princìpi cardini dell’aequum iudicium la retorica
giudiziaria romana – e, segnatamente, Cicerone – annovera anche la
presunzione d’innocenza dell’accusato-imputato.
Secondo
Cicerone la presunzione d’innocenza implica e comporta:
a) che
l’accusa non possa essere configurata, in sé e per sé, come
una precondizione della condanna. Si fisserebbe, infatti, un iniquo principio
nel caso in cui si ritenesse che l’asserzione dell’accusatore possa valere come pregiudizio nei
confronti dell’accusato[21];
b) che
incombe sull’accusatore l’onere di provare la colpevolezza
dell’accusato.
Conseguentemente, qualora si
ponesse a carico dell’accusato – o, meglio, del suo difensore
– l’onere di provare l’innocenza, si andrebbe incontro ad una
plateale inversione dell’onere della prova.
Nei
processi e nelle istruttorie criminali si deve, infatti, accertare –
secondo Cicerone – non già se l’accusato dimostri la sua
innocenza, bensì se è fondata l’accusa[22].
Da qui
l’assurdità logico-processuale di ritenere colpevole
l’accusato a prescindere da oggettive e concordanti prove e da scrupolosi
riscontri, sulla base di pure e semplici accuse o, al più, di incoerenti
e strumentali testimonianze[23].
Ho
già anticipato (supra, § III) che il Código Modelo
annovera fra i corollari del diritto ad un equo processo il principio della
inviolabilità della difesa in ogni fase del procedimento.
Le
radici romane di questo principio sono marcate ed inequivocabili.
L’accusato-imputato
poteva difendersi o personalmente (causam dicere[24])
– ed era la norma – ovvero per mezzo di un patrocinatore (causam
agere[25]).
Con riferimento a questa seconda ipotesi
occorre precisare che era regola fondamentale del foro romano che
nessuno, ancorchè d’infima condizione, fosse privato del diritto
alla difesa tecnica[26].
L’incidenza
e la valenza di questa regola era, anzi, tale da non escludere, in via di
principio, la designazione, in determinati casi, di un difensore di ufficio: patronus
causae publice constituere (Cic., pro Murena 2.4).
Speculare
al “diritto di difesa”, riconosciuto all’imputato, era il
“dovere di difesa” gravante sul patrocinatore. Per
quest’ultimo il dovere di difesa non veniva meno neppure in caso di
flagranza[27]
o di situazioni giudiziare pittosto compromesse. Al patrocinatore incombeva pur
sempre l’obligo di adoperare tutti i possibili ‘remedia ac
perfugia causarum’ (rimedi e sotterfugi delle cause)[28],
in mancanza dei quali sarebbe stato sostanzialmente eluso il ius patrocinii.
Ma
c’è di più: il dovere di difesa, che rappresenta il
più tipico e qualificante praeceptum
della deontologia forense, non veniva mai meno – secondo Cicerone –
neppure nei confronti dei propri nemici[29]
e degli avversari dei propri amici[30].
In
ogni caso, presupposto e requisito fondamentale del diritto di difesa è
la piena libertà di prova. Una eventuale limitazione del diritto di
prova si tradurrebbe, infatti, fatalmente in una limitazione del diritto di
difesa. Risultato, questo, che non può, in particolare, non realizzarsi
nel caso in cui l’interrogatorio dell’accusato venga utilizzato
come un vero e proprio mezzo di prova. Il che era tutt’altro che
infrequente nella prassi romana delle quaestiones extraordinariae[31] ed è, peraltro, ravvisabile
proprio nella fattispecie dell’ampliación de
l’accusación, contemplata nell’art. 309 del Código
Modelo[32].
Il
discorso fin qui svolto credo confermi, in modo evidente, i limiti del
“purismo accusatorio”. Ma mi sembra opportuno sottolineare,
altresì – come ho già anticipato (supra, § V)
-, che la complessa e variegata esperienza storica registra forme e
princìpi di garanzia che sono stati enucleati e formalizzati, per la
prima volta, nel contesto di processi di tipo fondamentalmente inquisitorio.
Significativa
ed emblematica mi sembra, in tal senso, la prassi delle cognitiones
imperiali, affermatasi a Roma nei primi due secoli del principato.
Sotto la guida dei grandi giuristi
del 1° e del 2° secolo d. C. la cancelleria imperiale elaborò
infatti, per mezzo di rescritti, una serie di cospicue misure di garanzia, che
hanno assunto valenza paradigmatica nello sviluppo storico del processo penale:
a) divieto
di condannare sulla base di semplici sospetti, in considerazione del fatto che
è preferibile che rimanga impunito l’illecito penale di un
colpevole, piuttosto che venga condannato un innocente[33];
b) divieto
di domande capziose o suggestive nel corso dell’interrogatorio[34]:
divieto espressamente formulato nell’art. 46 del Código Modelo[35]:
c) divieto
di condannare sulla base della sola confessione dell’imputato, che non
risulti adeguatamente supportata da ulteriori e concordanti prove[36];
d) commisurazione
dell’efficacia probatoria delle testimonianze alla personalità ed
alla condotta morale dei singoli testimoni[37].
Tutto
ciò prova ampiamente che in materia di equo processo assume particolare
e decisivo rilievo non tanto .- o non solo – la specifica tipologia del
“rito” (accusatorio o inquisitorio), quanto piuttosto un complesso
di requisiti e di garanzie finalizzati, nel loro insieme, a rendere credibile e
concreto tanto il ruolo super partes del giudice, quanto l’aequa
condicio (o parità d’armi, nel linguaggio della Corte di
Strasburgo) fra le parti del rapporto processuale, sotto il duplice profilo del
rispettivo status processuale e delle corrispettive strategie
probatorie.
* Testo della relazione
tenuta il 29 aprile 2008 presso L’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti
di Palermo.
[1] G. Conso, Intervento di apertura,
in Un “Codice Tipo” di procedura penale per l’America
Latina, a cura di M. Massa - S. Schipani. Univ. di Roma “Tor
Vergata”. Centro interdisciplinare di Studi latinoamercani, Padova, 1994,
3.
[4]
Depongono in tal senso soprattutto gli artt. 230-231. Sul punto G. Conso, Intervento, cit., 6. Sui
Codici Modelli, intesi ed assunti come «formulazione articolata dei
princìpi generali del diritto», v. S. Schipani, in Un “Codice Tipo” di procedura
penale, cit., 13 ss., con lett. (note 4 – 8).
[5] V. praecipue
artt. 9-11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata
dall’O.N.U. il 10 dicembre 1948.
[7] V., in
tal senso, P. Corso, Atti e
funzioni dei soggetti processuali nel «Código procesal
penal», in Un “codice Tipo”, cit., 43, con
esplicito richiamo al contenuto della
Relazione al “Codice Tipo” di procedura penale per
l’America Latina, Roma, 1990, 11-36.
[8] I
concreti riflessi della diversa terminologia del Código sono
colti e sottolineati da P. Corso,
Atti e funzioni, cit., 44 s.
[9] Sul
punto rinvio a quanto ho precisato in «Aequum iudicium» e
«giusto processo». Prospettive romane e moderne, in P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli,
Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea.
Dall’esperienza romana all’esperienza moderna, Torino 2003, 4
ss., con lett. (note 2 e 4).
[10] Livio,
Ab urbe condita (dalla fondazione della città) 3.55.4. Cfr. pure
Liv. 3.45.8, dove la provocatio e l’intercessio tribunizia
vengono qualificate ‘duas arces libertatis tuendae’ (due
baluardi per la difesa della libertà).
[14] Sulla
elaborazione dei princìpi dell’equo processo da parte della Corte
europea dei diritti dell’uomo (CEDU) v. per tutti AA.VV., Procedure
penali d’Europa (Belgio-Francia-Germania-Inghilterra-Italia), Sintesi e
analisi comparatistiche, coordinate sotto la direzione di M. Delmas-Marty,
ediz. italiana a cura di M. Chiavario, Padova 1998, 475 ss.
[15] Cic., pro
Cluent. 1.1-2; 2-6. Sul punto P. Cerami,
G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici,
cit., 6 ss.
[16]
Cicerone afferma, infatti, che qualora i giudici operassero sulla base di prove
e giudizi precostituiti perderebbero non solo l’autorità, ma anche
il nome di giudici (pro Cluent. 2,6).
[18] Cic.,
pro Cluent. 58.159. Sul punto rinvio a quanto ho avuto modo di precisare
in I canoni della deontologia
forense e giudiziaria. Le radici storiche, in P. Cerami, G. Di Chiara,
M. Miceli, Profili
processualistici, cit., 309 s.
[20] Cic., pro
Cluent. 39.94. In proposito Cicerone sottolinea che i giudici della quaestio de peculatu del
[21] Cic., pro
Murena 28,60: «iniquam legem, iudices, et miseram condicionem
instituet periculis hominum, si existimabit iudicium accusatoris in reum pro
aliquo praeiudicio valere oportere» (si fisserà un iniquo
principio, o giudici, ed una condizione umana assai penosa, se si
riterrà che l’affermazione dell’accusatore debba valere come
pregiudizio nei confronti dell’accusato), Cfr. pure Cic., pro Fonteio
10.21.
[22] Cic., pro
Sulla 13.39: «Sed ego in iudiciis et in quaestionibus non hoc
quaerendum arbitror, num purgetur aliquis, sed num arguatur »
(Io ritengo che nei processi e nelle istruttorie criminali si debba accertare
non già se l’imputato dimostri la sua innocenza, bensì se
risulta provata l’accusa). Cfr. pure Cic., pro Cluent. 1,3.
[23] Cic., pro
Fonteio 10.21: «Etenim si, quia Galli dicunt, idcirco M. Fonteius
nocens existimandus est, quid mihi opus est sapiente iudice, quid aequo
quaesitore, quid oratore non stulto? Dicunt enim Galli; negare non possumus.Hic
si ingeniosi et periti et aequi iudicis has partis esse existimatis ut, quoniam
quidem testes dicunt, sine ulla dubitatione credendum sit, Salus ipsa virorum
fortium innocentiam tueri non potest. » (Se M. Fonteio va considerato
colpevole perché lo dicono i Galli, a che mi serve un giudice saggio,
un’indagine imparziale, un abile avvocato? Infatti lo dicono i Galli, non
lo possiamo negare. Dunque se ritenete che il compito di un giudice d’ingegno, esperto
ed imparziale, sia quello di
credere senza esitazione ad un
fatto perché lo affermano i testimoni, neanche la dea Salute in persona
potrebbe proteggere l’innocenza di tanti gentiluomini).
[25] Cic.,
De oratore 2.24.99; in Verrem (contro Verre) I.13.40; I.12.34; pro
Sulla 3.40; Div. in Caecilium 11.35.
[26] Cic., pro
Murena 4.10: «nemini umquam infimo maiores nostri patronum deesse
voluerunt» (i nostri antenati vollero che nessuno, sia pure
d’infima condizione, rimanesse privo di patrocinatore). Sul punto P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli,
Profili processualistici, cit., 302 ss.
[28] Cic., pro Cluent. 19.51:
«sic pugnavi, sic omni ratione contendi, sic ad omnia confugi, quantum
adsequi potui, remedia ac perfugia causarum ut hoc quod timide dicam consecutus
sim, ne quis illi causae patronum defuisse arbitraretur» (tanto
combattei, tanto contesi con ogni argomento, tanto feci ricorso per quel che
sapevo a tutti i rimedi e sotterfugi delle cause, da ottenere – lo dico
sommessamente – che nessuno potesse mai pensare che in quel processo
fosse venuto meno il patrocinio).
[29] Non a
caso Cicerone difese due suoi personali nemici: Aulo Gabino – che era
stato accusato di corruzione e dal quale era stato espulso, nel
[30] Ne
è prova l’assunzione della difesa di Lucio Murena (accusato di
broglio elettorale) contro Servio Sulpicio Rufo, grande giurista ed intimo
amico dell’Arpinate: Cic., pro Murena 3.6.
[31] Erano
tribunali straordinari contraddistinti dall’attribuzione all’organo
magistratuale, incaricato di quaerere (investigare) in ordine ad
inquietanti episodi di criminalità organizzata o di abusi magistratuali
particolarmente gravi, del compito di ‘cognoscere’
(investigare e promuovere il giudizio) e di ‘stature ac iudicare’
(accertare la responsabilità ed emettere la sentenza).
[32] Sul
punto F. Raffaele Dinacci, L’ampliamento
dell’accusa in dibattimento: spunti interpretativi, in AA VV., Un “Codice Tipo”
di procedura penale, 242 ss.
[33] Il
principio si trova sancito in un rescritto di Traiano, espressamente citato da
Ulpiano: «Sed nec de suspicionibus debere aliquem damnari divus
Traianus rescripsit: satius enim esse impunitum relinqui facinus nocentis quam
innocentem damnari» (D.48.19.5 pr.: Ulp. 7 de off. procos.).
[34] Anche
questo secondo principio è sancito in un rescritto di Traiano, citato da
Ulpiano (D.48.18.1.21: 8 de off. procons.).
[35] In
proposito P. Corso, in Un
“Codice Tipo” di procedura penale, cit., 55, con significativi
raffronti con il Codice italiano del 1988.
([36]
Il principio è stato enunciato in un rescritto dei divi Fratres,
citato da Ulpiano (D.48.18.1.27: 8 de off. procons.).