N. 8 – 2009 – Tradizione-Romana

 

Antonino Campanella

Università di Palermo

 

Brevi riflessioni su D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.).

Profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa e locuzioni

sostanzialmente equivalenti nella riflessione giurisprudenziale romana tra il I sec. a.C. e il III d.C.

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa e obiettivi dell’indagine. – 2. La menzione di taberna instructa nelle fonti: Cicero, pro Cluentio, 63.178; D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad ed.) e D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.). – 3. Profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa. – 4. Espressioni “equivalenti” a taberna instructa: l’«instrumentum negotiationis». – 4a. L’instrumentum fundi. – 4b. Le espressioni: ‘armare vel instruere navem’ (D. 14.1.1.8), ‘instruere navem’ (D. 4.9.7.4; D. 14.2.6; D. 42.5.26), ‘adhibere qualesquales (nautas) ad instruendam navem’ (D. 4.9.7.4). – 5. Brevi considerazioni conclusive.

 

 

1. – Premessa e obiettivi dell’indagine

 

La presente indagine trae spunto da un noto frammento attribuito dai compilatori a Ulpiano e inserito per la sua valenza definitoria nel titolo ‘De verborum significatione’ dei Digesta:

 

D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.): ‘Instructam’ autem tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat.

 

Il breve testo offre molteplici spunti di riflessione, alcuni dei quali colti e sviluppati dalla dottrina, altri invece non debitamente considerati.

In particolare, il recente dibattito dottrinale relativo alla taberna instructa, arricchitosi di contributi attenti ai profili economici e «imprenditoriali[1]» ad essa sottesi, ne ha indicato le differenze, di natura soprattutto qualitativa, con l’espressione taberna cum instrumento[2], tracciandone le linee di sviluppo essenziali nella riflessione giurisprudenziale romana, che trova nel pensiero di Ulpiano[3] la puntualizzazione più matura.

Alcuni Autori, inoltre, ne hanno sottolineato la notevole affinità - insieme alla locuzione «instrumentum negotiationis[4]» - con la nozione di azienda enunciata nel codice civile italiano all’art. 2555[5], dedicando qualche riferimento, seppur breve, al problema, che con terminologia moderna diremmo, di inquadramento giuridico[6] della taberna instructa.

È un argomento, quest’ultimo che per la complessità e le rilevanti implicazioni anche di ordine metodologico, necessiterebbe una specifica trattazione, la quale non è possibile né opportuna in questa sede.

La nostra intenzione, dunque, è quella di concentrare l’attuale indagine su due aspetti, tra loro strettamente connessi.

Da un lato, vogliamo svolgere alcune osservazioni sui profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa, i quali riteniamo potranno esserci utili per riflettere su un secondo aspetto - solo accennato in alcuni contributi della dottrina – e cioè che la taberna instructa non sia la sola espressione nelle fonti ad indicare un complesso di ‘res et homines ad negotiationem parati’.

Siamo convinti, infatti, che ne ricorrano altre che siano “sostanzialmente equivalenti” alla nozione di taberna instructa, tramandataci in D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.).

In particolare, questo secondo punto impone subito alcune precisazioni, necessarie a evitare i facili fraintendimenti che un simile accostamento potrebbe ingenerare.

Per “espressioni equivalenti” a taberna instructa, infatti, vogliamo indicare le più rilevanti locuzioni ricorrenti nelle fonti che, a nostro sommesso avviso, rinviano a una “realtà fenomenica equivalente”, da un punto di vista sostanziale, a quella richiamata dalla nozione tramandataci in D. 50.16.185, condividendo con essa un nucleo minimo, costituito dall’organizzazione di res et homines predisposta per l’esercizio di una negotiatio[7].

L’indagine, tuttavia, non potrà prescindere dalla considerazione del significato, della portata e delle implicazioni che ciascuna locuzione assume nello specifico contesto in cui è inserita.

 

 

2. – La menzione di taberna instructa nelle fonti: Cicero, pro Cluentio, 63.178; D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad ed.) e D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.)

 

Delineate le direttive fondamentali della ricerca è, ora, il caso di iniziare la trattazione muovendo da un dato che emerge dalle fonti a noi pervenute, e cioè che la locuzione taberna instructa è riportata in esse solamente tre volte.

In ordine cronologico, la prima citazione è contenuta nel seguente passo della pro Cluentio di Cicerone:

 

Cic., pro Cluent. 6.178: Redditur Oppianico Nicostratus, Larinum ipsa proficiscitur cum suis maerens, quod iam certe incolumen filium fore putabat, ad quem non modo verum crimen, sed ne ficta quidem suspicio perveniret et cui non modo aperta inimicorum oppugnatio, sed ne occultae quidem matris insidiae nocere potuissent. Larinum postquam venit, quae a Stratone illo venenum antea viro suo datum sibi persuasum esse simulasset, instructam ei continuo et ornatam Larini medicinae exercendae causa tabernam dedit.

 

Sul finire dell’età repubblicana, a poco più di un secolo dall’emanazione dell’editto de institoria actione[8], la menzione di una taberna instructa (et ornata) medicinae exercendae causa’ costituisce un aspetto di non poca rilevanza poiché, come afferma Ligios[9], questo dato «rafforza la supposizione che anche altri giuristi oltre a Ulpiano si siano occupati della nozione di ‘taberna instructa’, benché gli indizi che consentono di seguire questa tesi siano, se così si può dire, soltanto indiretti».

Va precisato, tuttavia, che Cicerone nel brano appena riportato sembra riferirsi ad un locale attrezzato per l’esercizio professionale dell’attività medica e non precisamente ad un complesso di beni e di uomini organizzato per lo svolgimento di una negotiatio.

Gli altri due riferimenti espliciti alla taberna instucta sono contenuti in due brani, entrambi appartenenti al ventottesimo libro dei commentari ad edictum di Ulpiano.

Il primo testo è il seguente:

 

D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad ed.): Sed et cum fullo peregre proficiscens rogasset, ut discipulis suis, quibus tabernam instructam tradiderat, imperaret, post cuius profectionem vestimenta discipulus accepisset et fugisset, fullonem non teneri, si quasi procurator fuit relictus: sin vero quasi institor, teneri eum. Plane si adfirmaverit mihi recte me credere operariis suis, non institoria, sed ex locato tenebitur[10].

 

Il frammento riguarda il caso in cui un tintore (fullo)[11], partendo per un viaggio abbia lasciato uno dei suoi apprendisti[12], ai quali aveva affidato la taberna instructa (‘quibus tabernam instructam tradiderat’), a capo degli altri discipuli. Costui, dopo la partenza del fullo, fugge con le vesti che gli erano state consegnate: il fullo, si afferma nel responso, sarà responsabile nei confronti dei clienti derubati soltanto se colui che aveva posto a guida dei discipuli rivestiva la qualifica di ‘institor’, mentre, se costui era un ‘procurator’, il fullo non sarebbe stato responsabile[13].

La responsabilità del fullo era in ogni caso indiscussa se egli avesse concluso il contratto avente ad oggetto il lavaggio delle vesti e avesse rassicurato il cliente circa l’affidabilità dei suoi operai: in questo caso poteva essere convenuto in giudizio con l’actio ex locato e non con l’actio institoria. 

Il testo, come sottolinea Miceli[14], «costituisce uno dei luoghi del Digesto più tormentati dalla dottrina romanistica» e presenta molteplici spunti di riflessione, ora sul tema dei rapporti tra le figure di institor e procurator[15], ora sulla classicità  e i limiti di applicazione dell’actio ad exemplum institoriae (o quasi institoria)[16]. L’aspetto che per noi risulta maggiormente interessante, riguarda il tema della presunta paternità labeoniana del brano, la quale, se dimostrata, costituirebbe ulteriore prova della risalenza alla giurisprudenza del primo sec. d. C. della riflessione sulla nozione di taberna instructa.

Il secondo dei due frammenti ulpianei che menziona la taberna instructa, è quello inserito dai compilatori, come già detto, per la sua valenza definitoria nel titolo ‘De verborum significatione’ dei Digesta:

 

D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.): Instructam’ autem tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat.

 

Dei tre brani che contengono la locuzione taberna instructa, quello appena citato è di certo il più rilevante ai fini della ricostruzione della nozione in esame. È la sola definizione[17] a noi pervenuta[18] e quasi certamente è il risultato di un lungo percorso di elaborazione giurisprudenziale del quale in questa sede non è possibile né opportuno ricostruire le singole tappe[19].

Ulpiano fornisce la sua definizione nel quadro della trattazione dell’actio institoria, alla quale sarebbe dedicata, secondo la ricostruzione del Lenel[20], l’ultima parte del ventottesimo libro dei commentari ad edictum.

Il giurista severiano avverte che per aversi propriamente una taberna instructa, è necessario in primo luogo un complesso di res et homines[21] (‘quae et rebus et hominibus…constat’).

In secondo luogo sottolinea la rilevanza dell’attività di predisposizione di quei beni, consistente nell’instructio, e cioè in quel “momento statico”, preliminare e preparatorio rispetto all’exercitio negotiationis, indicato nel brano attraverso il ricorso a una voce del verbo paro (‘paratis’).

Infine il terzo elemento è rappresentato dal particolare scopo per cui quel complesso viene organizzato e cioè per lo svolgimento di una negotiatio (‘ad negotiationem’)

Si tratta di un dato particolarmente importante, poiché è proprio nella destinazione che l’organizzazione di res et homines trova la propria connotazione e forse, ma l’argomento meriterebbe di essere approfondito, il proprio elemento unificante.

Le precisazioni appena svolte ci permetteranno di verificare la presenza nelle fonti di espressioni equivalenti a taberna instructa, espressioni cioè che al pari di quella rimandano alla stessa realtà fenomenica, indicando un’organizzazione di cose e uomini predisposta per lo svolgimento di una negotiatio. 

 

 

3. – Profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa

 

A questo punto è nostra intenzione svolgere alcune osservazioni sui profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa, dai quali riteniamo di poter desumere suggerimenti utili alla prosecuzione della nostra ricerca.

La definizione fornita da Ulpiano mostra innanzitutto una certa «elasticità»[22].

Per cogliere questo profilo occorre fare alcune premesse.

Si tenga presente, come già detto, che Ulpiano definisce la taberna instructa in sede di commento all’editto de institoria actione e, in particolare, secondo la ricostruzione fatta da Lenel, nell’ultima parte del libro XXVIII ad edictum, dedicata alla trattazione dell’actio institoria.

La definizione in esame, sempre secondo l’autorevole ricostruzione del Lenel, segue quella relativa al termine taberna[23], che leggiamo in D. 50.16.183 (Ulp., 28 ad ed.):

 

Tabernae appellatio declarat omne utile ad habitandum aedificium, non ex eo quod tabulis cluditur.

 

Emerge subito la diversità di prospettiva considerata dal giurista severiano. Il termine taberna, la cui etimologia deriverebbe, secondo alcuni autori antichi[24] da ‘trabs’, secondo altri[25] da ‘tabula’, indicava – come emerge anche dal brano di Ulpiano – un luogo destinato ad abitazione e per di più un’abitazione per poveri[26], un ‘vile quoddam et subitarium aedificium’[27].

In alcuni frammenti, invece, taberna indica la sede per l’esercizio di una negotiatio[28].

Assolutamente diverso, invece, è il profilo tecnico-giuridico che la locuzione taberna instructa assume nel contesto della formula edittale.

Con essa Ulpiano indica un’organizzazione di res e di homines destinata all’esercizio di una negotiatio.

Una simile definizione, lo ribadiamo, sembra essere il risultato di un lungo percorso di elaborazione giurisprudenziale[29] – come attesta l’espressione ‘sic accipiemus’ – sul quale ci siamo solo brevemente soffermati, trattandosi di un argomento che meriterebbe un’autonoma e più ampia trattazione.

Ci preme invece rilevare che la definizione ulpianea di taberna instructa, così come formulata, risulta perfettamente speculare rispetto al significato ormai assunto, in età classica avanzata, dal binomio institor-negotiatio.

E, infatti, come è stato chiaramente messo in luce da numerosi contributi della dottrina che si sono occupati della questione, dall’originaria accezione di institor come preposto a una taberna in cui si svolge una negotiatio - consistente nell’emptio-venditio di merces - si registra, a partire soprattutto dall’ultima età repubblicana, una notevole estensione grazie al lavorìo della giurisprudenza[30]. Il risultato finale di tale estensione coincide con l’idea che l’institor sia il soggetto preposto a qualsivoglia negotiatio[31], esercitata in una sede diversa dalla taberna[32], o addirittura senza sede alcuna.

E, infatti, le negotiationes fondate sulla praepositio institoria erano esercitate non solo nelle tabernae, ma anche in edifici diversi come le insulae[33], gli horrea[34], le officinae[35], oppure si praticavano all’aperto[36].

La definizione di taberna instructa, tramandataci in D. 50.16.185 è tale da poter essere riferita perfettamente a qualunque tipologia di negotiatio il cui esercizio rientrava, per i profili di responsabilità, nel campo di applicazione dell’actio institoria[37].

Consiste proprio in questo l’«elasticità» della definizione che stiamo esaminando, in quella sua formulazione perfettamente speculare al significato del binomio institor-negotiatio, affermatosi in piena età classica.

Non intendiamo con ciò sostenere che la nozione di taberna instructa rappresentasse per i giuristi romani un modello riferibile a ogni contesto, oltre i limiti dell’ambito di applicazione dell’actio institoria, oltre i limiti cioè che naturalmente le erano imposti all’interno di un sistema giuridico di tipo casistico-giurisprudenziale, legato ad una struttura formulare tipizzata.

In effetti, la riflessione della giurisprudenza romana intorno alla taberna instructa è legata all’esigenza di indagare quando una taberna fosse tale, poiché soltanto a partire da quel momento il preposto sarebbe diventato un institor e il preponente responsabile per l’attività da quest’ultimo realizzata con i terzi contraenti-clienti nei limiti della praepositio.

Detto questo, a noi sembra che dall’esame di D. 50.16.185 si possa evincere un altro importante profilo della definizione ulpianea di taberna instructa e cioè la sua notevole «ampiezza».

In essa, infatti, non si fa menzione né dell’instrumentum, né della merx, né di altri elementi specifici, ma solo genericamente di ‘res et homines’ senza precisazioni ulteriori.

Tale formulazione ampia risulta legata quasi in chiave strumentale rispetto all’«elasticità» di cui si è discusso, perché rende adattabile la definizione in esame alle varie tipologie di negotiationes che trovano nella praepositio institoria la propria base giuridica.

Certamente diversa è la questione delle difficoltà interpretative che una simile formulazione implica, nel momento in cui si voglia precisarne il contenuto e specificare a cosa si riferisse concretamente Ulpiano con i termini res e homines.

 

 

4. – Espressioni “equivalenti” a taberna instructa: l’«instrumentum negotiationis»

 

Intendiamo a questo punto concentrare la nostra attenzione sulle locuzioni “equivalenti” alla nozione di taberna instructa.

Come recenti studi in dottrina[38] hanno dimostrato, la locuzione taberna instructa non sarebbe la sola nelle fonti con cui si fa riferimento all’organizzazione di ‘res et homines ad negotiationem parati’.

Noi vogliamo prendere spunto proprio da quelle indagini per svolgere ulteriori considerazioni e rimarcare taluni aspetti che ci sembrano degni di particolare rilievo.

Concentriamo dunque la nostra attenzione proprio sulla locuzione «instrumentum negotiationis» e sul frammento dal quale tale locuzione è stata ricavata dalla dottrina.

Si tratta del seguente brano dei commentari ad Sabinum di Paolo:

 

D. 33.7.13 pr. (Paul., 4 ad Sab.): Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici, item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum negotiationis nomen sit, etiam institores.

 

Partendo da un responso di Nerazio[39], secondo il quale anche gli institores (‘etiam institores’) fanno parte del legato dell’instrumentum tabernae cauponiae, Paolo precisa[40] che per affrontare la questione bisogna preliminarmente verificare se non vi sia differenza tra l’instrumentum di una taberna cauponia e l’instrumentum di una caupona[41].

Per Paolo, infatti, la differenza esiste ed è rilevante, perché da un lato con l’espressione instrumentum tabernae cauponiae si indicherà, precisa il giurista severiano, l’instrumentum del locale dell’albergo; dall’altro con instrumentum cauponae, l’instrumentum impiegato per lo svolgimento di una negotiatio (nel nostro caso per l’esercizio di una caupona).

Come si può ben notare, l’espressione «instrumentum negotiationis» non compare esplicitamente nel passo, ma la si ricava da questo, poiché Paolo menzionando l’instrumentum cauponae, vuole indicare con ‘caupona’ una specifica negotiatio (‘cum negotiationem nomen sit’).

L’«instrumentum negotiationis» non trova collocazione all’interno della classica distinzione[42] tra instrumentum personae e instrumentum rei. Lo aveva ben intuito Dell’Oro[43] affermando: «si è affacciata addirittura nelle fonti la possibilità, come nel caso dell’instrumentum cauponae, che l’instrumentum non abbia alcun addentellato né con un soggetto né con un oggetto e che quindi sia riferito ad una destinazione del tutto autonoma».

La destinazione in questione è la stessa che abbiamo rilevato a proposito della definizione di taberna instructa, dove è indicata con la proposizione finale ‘ad negotiationem’.

La considerazione per lo svolgimento di una negotiatio non assume certo un valore secondario e si riflette addirittura sulla determinazione dell’oggetto stesso del legato.

Risulta chiaro dal passo appena esaminato che Paolo con il termine ‘instrumentum’ seguito dal nome identificativo di una specifica ‘negotiatio’ indichi proprio l’insieme di res e di homines ‘ad negotiationem parati’.

Riteniamo tuttavia che l’espressione instrumentum cauponae usata da Paolo non sia la sola che possa essere intesa come «instrumentum negotiationis».

Un valore equivalente assumono, a nostro avviso, le locuzioni ‘instrumentum tabernae cauponae’ e ‘instrumentum tabernae’ utilizzate da Nerazio rispettivamente nei brani riportati in D. 33.7.13pr. e in D. 33.7.23.

Nel primo caso, come ci riferisce Paolo, Nerazio afferma che nel legato di instrumentum tabernae cauponiae sono ricompresi anche gli institores (‘etiam institores’), termine il cui significato edittale-giurisprudenziale era certamente noto a Nerazio.

L’espressione ‘instrumentum tabernae’ compare invece nel seguente brano del libro secondo dei Responsa di Nerazio:

 

D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.): Cum quaeratur, quod sit tabernae instrumentum, interesse, quod genus negotiationis in ea exerceri solitum sit.[44]

 

Il giurista afferma che se si vuol conoscere quale sia l’instrumentum di una taberna occorre considerare quale ‘genus negotiationis’[45] vi si svolga e cioè, in senso economico-giuridico, quale settore di attività sia esercitato e organizzato dal negotiator[46].

E proprio il rinvio al genus negotiationis dimostra che il quesito verteva sulla determinazione non di un semplice «instrumentum loci», bensì di un vero e proprio «instrumentum negotiationis».

Nella prospettiva dell’instrumentum tabernae, considerata da Nerazio, la negotiatio rappresenta il quid pluris - cioè uno degli elementi che connotano la definizione riportata in D. 50.16.185 - sul cui significato nel linguaggio dei giuristi romani la dottrina si è più volte espressa[47].

Alla luce di queste considerazioni, possiamo ora meglio comprendere il senso in cui intendiamo l’equivalenza tra le locuzioni taberna instructa e «instrumentum negotiationis».

Infatti, nonostante in D. 33.7.13pr. Paolo si occupi dell’instrumentum cauponae con riferimento alla materia dei legati, tuttavia, nel precisare l’opinione di Nerazio, il giurista severiano sottolinea la circostanza che l’instrumentum legato dal testatore servisse o meno per lo svolgimento di un’attività qualificabile in termini di negotiatio. E la circostanza non è di poco rilievo, poiché influisce proprio sulla determinazione dell’oggetto del legato.

A un «instrumentum negotiationis» pare riferirsi, come già abbiamo accennato, anche Nerazio con le locuzioni instrumentum tabernae – in D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.) e instrumentum tabernae cauponiae – in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.).

Nel primo caso per il rinvio effettuato dal giurista al genus negotiationis, nel secondo, invece, per aver ricompreso nel relativo legato anche gli institori (‘etiam institores’).

Dunque, sulla base di quanto abbiamo detto, ci sembra di poter affermare che anche se i due giuristi romani si occupano degli exempla appena visti di «instrumentum negotiationis» in un contesto differente rispetto a quello relativo alla trattazione della taberna instructa, tuttavia, nel trattarne dimostrano di tenere in considerazione un dato “equivalente” a quello che risulta dalla definizione ulpianea di taberna instructa e cioè, come detto, un complesso di res et homines ad negotiationem parati.

 

 

4a. – L’instrumentum fundi

 

A questo punto è nostra intenzione verificare la presenza nelle fonti di ulteriori exempla di «instrumentum negotiationis», oltre all’instrumentum tabernae, (nonché all’instrumentum tabernae cauponiae di D. 33.7.13pr.) cui fa riferimento Nerazio in D. 33.7.23, e all’instrumentum cauponae, citato da Paolo nel brano riportato in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.).

In particolare vogliamo occuparci, ma solamente per gli aspetti connessi alla presente indagine, dell’instrumentum fundi[48].

Di quest’ultimo la giurisprudenza romana si occupa prevalentemente in materia di legati. E proprio ai legati aventi ad oggetto l’instrumentum (o l’instructus), i compilatori hanno dedicato un autonomo titolo settimo “De instructo vel instrumento legato” del libro trentatré dei Digesta.

Al suo interno è riportata una lunga serie di frammenti concernente le dispute dei giuristi in merito all’inclusione nel legato d’instrumentum fundi di questo o quel bene, di questo o quel soggetto.

Più che su quelle controversie, però, in questa sede vogliamo soffermarci specificamente su un dato che ci sembra degno di rilievo: a partire dall’epoca di Sabino, la giurisprudenza romana ricomprende nel legato dell’instrumentum fundi sia res che homines.

Il dato risulta già nella più antica definizione dell’instrumentum fundi a noi conosciuta, formulata da Sabino nei suoi libri ad Vitellium e riportata da Ulpiano in un passo dei commentari ad Sabinum.

Il testo[49] è il seguente:

 

D. 33.7.8 pr.-1 (Ulp., 20 ad Sab.): In instrumento fundi ea esse, quae fructus quaerendi, cogendi, conservandi gratia parata sunt, Sabinus libris ad Vitellium evidenter enumerat. Quaerendi, veluti homines, qui agrum colunt, et qui eos exercent, praepositive sunt his; quorum in numero sunt vilici, et monitores: praeterea boves domiti, et pecora stercorandi causa parata, vasaque utilia culturae; quae sunt aratra, ligones, sarculi, falces putatoriae, bidentes, et si qua similia dici possunt. Cogendi, quemadmodum torcularia, corbes, falcesque messoriae, falces foenariae, quali vindemiatorii, exceptoriique, in quibus uvae comportantur. Conservandi, quasi dolia, licet defossa non sint, ut cuppae.   

Quibusdam in regionibus accedunt instrumento, si villa cultior est, veluti atrienses, scoparii: si etiam virdiaria sint, topiarii: si fundus saltus pastionesque habet, greges pecorum, pastores, saltuarii.

 

Si può ben notare come oltre alla menzione delle res[50] più comunemente utilizzate in ciascuna delle tre fasi del ciclo produttivo agricolo, nel brano sono indicati anche una serie di homines, fra questi gli operai agricoli (‘homines qui agrum colunt’), e coloro che ad essi sono preposti (‘qui eos exercent praepositive sunt is’) e cioè i ‘vilici’, figure di vertice dell’organizzazione del fondo e i ‘monitores’, che seguivano da vicino le squadre di schiavi addetti alla coltivazione.

Nella parte finale del frammento, Ulpiano precisa che in certe regioni, se la villa è più appariscente[51] gli ‘atrienses’ (guardaporte), se vi sono giardini i ‘topiarii’ (giardinieri) e se il fondo comprende greggi e boschi, ci saranno allora anche i ‘pastores’ (pastori), i ‘saltuarii’ (guardaboschi), etc.

Il riferimento a res et homines, costituisce solamente uno degli elementi utili per comprendere se con l’espressione instrumentum fundi i giuristi romani abbiamo fatto riferimento a uno specifico «instrumentum negotiationis» e quindi ad un complesso sostanzialmente “equivalente” alla taberna instructa.

La questione appare subito complicata, poiché l’indicazione di tali elementi non è certamente, da sola, sufficiente a dimostrare che l’instrumentum fundi sia una specie di «instrumentum negotiationis».

E non basta nemmeno il riferimento all’organizzazione, pur presente nel brano. Esso si evince dal ‘parata sunt’, riferito a tutti i componenti (‘ea’) indicati dal giurista, ma non sembra avere lo stesso valore dell’organizzazione indicata da Ulpiano ricorrendo ad una voce - ‘paratis’ - dello stesso verbo paro, usato per definire la taberna instructa.

In D. 33.7.8pr., infatti, è diverso lo scopo di tale predisposizione, il quale è costituito dalle attività di coltivazione (‘quaerendi’), di raccolta (‘cogendi’) e di conservazione (‘conservandi’): manca il riferimento allo svolgimento di una negotiatio (o alla presenza di un institor).

Proseguendo nella lettura del titolo “De instructo vel instrumento legato” si nota che il termine negotiatio, ricorre solamente due volte, la prima a proposito dell’instrumentum cauponae e la seconda dell’instrumentum tabernae rispettivamente in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.) e in D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.), brani sui quali ci siamo già soffermati e dai quali si è visto emergere altrettanti esempi di «instrumenta negotiationum»: nessuno che riguardi l’instrumentum fundi però.

A questo punto ci chiediamo se l’assenza del binomio institor-negotiatio - nei numerosi frammenti relativi all’instrumentum fundi – valga ad escludere sempre per ognuno di essi, l’equivalenza sostanziale della locuzione in esame con la taberna instructa e dunque la sua configurabilità come specifico esempio «instrumentum negotiationis».

Non ripetiamo - ma rinviamo a quanto già detto sopra - il discorso circa i limiti, il senso della nostra operazione d’individuazione di espressioni “equivalenti” a taberna instructa, e la necessità che essa sia condotta nel pieno rispetto delle loro differenze e delle loro diverse implicazioni.

Intendiamo, per verificare quell’equivalenza, svolgere a questo punto alcune osservazioni sulla ragione dell’assenza nei frammenti relativi all’instrumentum fundi di un’espressa menzione del binomio institor-negotiatio.

Notiamo subito come quell’assenza non dipenda dal fatto che la materia trattata riguardi i legati. Lo dimostrano chiaramente i due frammenti relativi all’instrumentum tabernae (Ner., 2 resp., in D. 33.7.23) e all’instrumentum cauponae (Paul., 4 ad Sab., in D. 33.7.13pr.), poiché entrambi, nonostante riguardino proprio la materia dei legati, contengono il riferimento  al termine negotiatio e almeno D. 33.7.13pr. anche all’institor.

La ragione è da ricercare altrove. Il binomio citato, infatti, assume nella riflessione della giurisprudenza un significato tecnico-giuridico che, seppur oggetto di una progressiva estensione, risulta ben circoscritto ed è legato all’ambito di applicazione dell’actio institoria.

In particolare il lessema institor ricorre nell’editto de institoria actione, mentre negotiari, da cui discendono negotiatio e negotiator, nell’editto de tributoria actione[52].

Si tratta di due degli editti pretori che introdussero nel mondo romano quei rimedi processuali poi indicati con l’espressione actiones adiecticiae qualitatis.

Chiare apparivano ai giuristi romani[53] le esigenze di tutela sottese alla loro introduzione, visti i loro frequenti richiami alla fides, all’utilitas e soprattutto all’aequitas.

Era stata, infatti, avvertita dal pretore la contrarietà all’aequitas dell’antica regola del ius civile, secondo la quale il pater familias o dominus acquistavano automaticamente tutti i diritti nascenti dai negozi conclusi dai loro sottoposti, senza che l’attività di questi ultimi li obbligasse: melior condicio nostra per servos potest, deterior fieri non potest[54].

Limitando il nostro discorso all’editto de institoria actione, che ci interessa più da vicino, sembrò quindi equo ristabilire un certo equilibrio tra vantaggi (commoda) e obbligazioni (obligari) e concedere ai contraenti nei confronti del preponente l’actio institoria per far valere una responsabilità[55] che aveva una doppia connotazione: soggettiva (per il legame potestativo tra pater e filius, dominus e servo), ma anche oggettiva poiché era legata all’attività svolta e alle modalità di svolgimento della stessa.

L’esigenza di tutela dei terzi sottesa alla creazione delle a.a.q. e, per quella che per il momento ci interessa più da vicino, cioè l’actio institoria, si riproponeva ovviamente nelle situazioni in cui si verificava un “contatto” tra questi ultimi e l’institor, poiché era proprio nel concreto svolgimento della negotiatio che poteva essere leso l’affidamento dei contraenti (‘neque enim decipi debent contrahentes’[56]).

Lo svolgimento della sola attività di produzione agricola non rientrava certo nel campo di applicazione dell’actio institoria e nonostante la sua estensione dovuta al costante lavorìo effettuato dalla giurisprudenza sui verba di questo editto -  soprattutto institor, (ma anche negotiatio), taberna instructa[57] - essi non ricorrono a proposito dell’attività agricola e di conseguenza non compaiono nei frammenti relativi all’instrumentum fundi.

Tuttavia, in un noto brano di Paolo estratto dal libro ventinove dei commentari ad edictum, il giurista severiano considerando l’ipotesi in cui un vilicus svolga anche attività di commercializzazione dei frutti del fondo, sostiene che non sarà iniquo (‘non erit iniquum’) concedere, a chi abbia contrattato con quest’ultimo, nei confronti del dominus, un rimedio processuale modellato proprio sull’actio institoria e cioè un’actio ad exemplum institoriae actionis:

 

D. 14.3.16 (Paul., 29 ad ed.): Si cum vilico alicuius contractum sit, non datur in dominum actio, quia vilicus propter fructus percipiendos, non propter quaestum praeponitur. Si tamen vilicum distrahendis quoque mercibus praepositum habuero, non erit iniquum exemplo institoriae actionem in me competere[58].

 

Come emerge dal testo appena riportato, Paolo distingue due diverse ipotesi: il fructus percipere da un lato e il merces distrahere dall’altro.

Nel primo caso lo svolgimento da parte del vilicus dell’attività di produzione agricola, non giustifica la concessione dell’actio institoria in dominum.

Nel secondo caso, invece, l’attività di scambio, nonostante non induca Paolo a concedere l’actio institoria, rende possibile tuttavia l’esperimento di un’actio ad exemplum institoriae actionis.

La dottrina, a parte qualche autore che ritiene interpolata la seconda parte del frammento[59], si è pronunciata per la sostanziale genuinità del ragionamento svolto da Paolo[60], anche se qualche dubbio permane – dal confronto con un passo dello stesso giurista riportato nelle Sententiae (2.8.2)[61] – in merito alla conclusione del suo ragionamento, il quale originariamente nel frammento, poi collocato dai compilatori in D. 14.3.16, si sarebbe riferito a una normale actio institoria[62].

Alcuni studi hanno invece escluso interventi dei compilatori sulla conclusione che leggiamo in D. 14.3.16 e hanno spiegato la diversità delle soluzioni adottate nei due brani, ora sottolineando la differenza dei fenomeni economici considerati[63], ora individuando nella tipicità sociale del vilicus la ragione per cui tale figura non possa essere ricondotta nella categoria degli institores e la sua attività sanzionata con la concessione di una normale actio institoria[64].

L’argomento certo suggestivo, meriterebbe una trattazione autonoma che non possiamo esaurire entro i limiti della nostra breve indagine, per cui svolgeremo solo alcune considerazioni, tralasciando anche per le stesse ragioni le dispute sorte in dottrina in merito all’actio ad exemplum institoriae o quasi institoria[65].

La concessione di una simile azione per l’ipotesi in cui il vilicus svolga anche un’attività di scambio, sia cioè distrahendis quoque mercibus praepositus, dimostra come la soluzione proposta da Paolo configuri l’opportunità di apprestare tutela a situazioni che seppure non rientrassero specificamente nell’ambito della praepositio institoria, presentavano comunque delle affinità con essa[66].

La soluzione è frutto di un’impostazione pragmatica, incentrata sulla prospettiva della tutela degli interessi in gioco e dimostra attenzione per le esigenze concrete al di là di qualificazioni giuridiche o regole astratte.

Ebbene siamo dell’avviso che in base all’indagine sin qui condotta emerge un dato importante, sebbene ancora in forma embrionale: con l’evolversi delle situazioni giuridiche ed economiche – ferma restando la peculiare configurazione dell’attività agricola e la tipicità delle figure giuridiche – sarà infatti necessario, proprio per la concreta configurazione dell’aequitas, superare parzialmente certi rigidi criteri di tipicità, e per raggiungere questo risultato l’analogia costituirà lo strumento privilegiato.

Chiariti questi aspetti, riteniamo che alla luce delle considerazioni fatte, nonostante nei frammenti relativi al legato dell’instrumentum fundi non ricorra esplicitamente il binomio institor-negotiatio, tuttavia, in alcuni di essi sono considerate prospettive analoghe, a quelle richiamate dai due lessemi.

In particolare lo svolgimento di una negotiatio dovrebbe essere presa in considerazione da Ulpiano nel seguente frammento riportato in D. 33.7.12.1 (Ulp., 20 ad Sab.):

 

Conservandi fructus causa: veluti granaria, quia in his custodiuntur, urceos, capsellas, in quibus fructus componuntur; sed et ea, quae exportandorum fructuum causa parantur, instrumenti esse constat: veluti jumenta, et vehicula, et naves, et cuppae, et culei.

 

Il brano risulta strettamente legato a quello che leggiamo in D. 33.7.8pr. e da esso emerge la consequenzialità dell’exportare fructus rispetto al quaerere, al cogere e al conservare.

La considerazione di certe res come soprattutto i dolia per la fase della conservazione e la menzione della quarta fase relativa alla commercializzazione dei prodotti del fondo, farebbe supporre lo svolgimento di un’attività avente i requisiti propri di una negotiatio.

Il trasporto, infatti, rappresenta il momento culminante e centrale del ciclo che va dalla produzione alla vendita dei prodotti[67].

Risulta indicativo che proprio all’attività di trasporto sulle vie di terra dei frutti del fondo fosse impegnato il mulio, che da Ulpiano è qualificato institor in D. 14.3.5.5 (Ulp., 28 ad ed.).

Una nozione di instrumentum fundi, così costruita, può ben rinviare ad una “realtà fenomenica equivalente” nel senso che abbiamo già precisato, a quella richiamata dalla nozione di taberna instructa, tanto più che una situazione del genere, consentirebbe come dimostrato da Paolo in D. 14.16.3, l’esperimento di un’actio ad exemplum al contraente con il vilicus per l’ipotesi in cui quest’ultimo svolga anche la commercializzazione dei prodotti del fondo.

La preoccupazione della giurisprudenza è rivolta alla determinazione dell’oggetto del legato di instrumentum fundi e alla ricostruzione della voluntas testantis. Tuttavia, ciò non esclude anche una certa considerazione per lo svolgimento di attività aventi i requisiti propri di una negotiatio, implicante sostanzialmente un contatto con i terzi che potendo ingenerare problemi di affidamento, induce nel nostro caso Paolo a concedere un’actio ad exemplum institoriae.

Questo dimostra che dietro il formalismo e la tipicià delle figure, l’interesse maggiore del giurista è rivolto alla tutela degli interessi in gioco di tutte le parti.

 

 

4b. – Le espressioni: ‘armare vel instruere navem’ (D. 14.1.1.8), ‘instruere navem’ (D. 4.9.7.4; D. 14.2.6; D. 42.5.26), ‘adhibere qualesquales (nautas) ad instruendam navem’ (D. 4.9.7.4)

 

Le osservazioni svolte riguardo ai profili terminologici e concettuali della definizione ulpianea taberna instructa, ci hanno permesso di individuare nelle fonti alcune locuzioni ad essa equivalenti, nel senso che abbiamo più volte precisato.

Si nota facilmente che i confini dell’indagine effettuata non oltrepassano il riferimento alle negotiationes fondate sulla praepositio institoria.

Intendiamo ora concludere la ricerca facendo qualche breve considerazione sulle attività che trovano, invece, nella praepositio exercitoria la propria base giuridica.

Come si è accennato in dottrina, all’equipaggiamento della nave si fa riferimento nelle fonti con il termine instruere che possiede un significato equivalente al parare ricorrente in D. 50.16.185 a proposito della taberna instructa[68]. Riportiamo di seguito i frammenti in cui queste sono contenute:

 

D. 4.9.7.4 (Ulp., 18 ad ed.): Hac autem actione suo nomine exercitor tenetur, culpae scilicet suae qui tales adhibuit: et ideo et si decesserint, non relevabitur. Servorum autem suorum nomine noxali dumtaxat tenetur: nam cum alienos adhibet, explorare eum oportet, cuius fidei, cuius innocentiae sint: in suis venia dignus est, si qualesquales ad instruendam navem adhibuerit.

 

D. 14.1.1.8 (Ulp., 28 ad ed.): Quid si mutuam pecuniam sumpserit, an eius rei nomine videatur gestum? Et Pegasus existimat, si ad usum eius rei, in quam praepositus est, fuerit mutuatus, dandam actionem, quam sententiam puto veram: quid enim si ad armandam instruendamve navem vel nautas exhibendos mutuatus est?

 

D. 14.2.6 (Iulian., 86 dig.): Navis adversa tempestate depressa ictu fulminis deustis armamentis et arbore et antemna hipponem delata est ibique tumultuariis armamentis ad praesens comparatis ostiam navigavit et onus integrum pertulit: quaesitum est, an hi, quorum onus fuit, nautae pro damno conferre debeant. Respondit non debere: hic enim sumptus instruendae magis navis, quam conservandarum mercium gratia factus est.

 

D. 42.5.26 (Paul., 16 brevis ed.): Qui in navem exstruendam vel instruendam credidit vel etiam emendam, privilegium habet.

 

Basta uno sguardo veloce per rendersi conto della diversità delle questioni affrontate nei brani appena riportati.

E infatti il primo brano s’inserisce nella più ampia trattazione relativa all’actio damni in factum adversus nautas, caupones et stabularios, con la quale, ricordiamo, il pretore sanzionava la responsabilità del nauta (ma il discorso vale anche per i caupones e gli stabularii) per il danno arrecato agli oggetti ad opera dei marinai sia liberi che schiavi, purché fosse avvenuto sulla nave, poiché al di fuori cessava la sua responsabilità; mentre, se voleva esserne esonerato lasciando a ciascun passeggero la custodia delle proprie cose, egli doveva procedere, al momento della conclusione del contratto di trasporto, ad un’apposita dichiarazione, da accettarsi da parte dei viaggiatori[69].

Del frammento ulpianeo riguardante il tema della responsabilità dell’exercitor per fatto altrui, a noi interessa rilevare soprattutto l’espressione ‘qualesquales ad instruendam navem adhibuerit’. Il giurista severiano afferma che l’exercitor per il fatto dei suoi servi è tenuto soltanto a titolo nossale: infatti, quando egli si avvale di servi altrui, deve indagare di che lealtà e affidabilità siano; per quel che riguarda i suoi merita indulgenza, qualora se ne sia avvalso per armare la nave indipendentemente dalle loro qualità[70].

L’espressione ‘qualesquales ad instruendam navem adhibuerit’ fa riferimento all’arruolamento di marinai qualsiasi per instruere navem e richiama più l’attività di predisposizione di quanto è necessario per rendere instructa la nave, che il complesso di beni e di uomini destinato all’esercizio della negotiatio.

Dunque non crediamo se ne possa affermare l’equivalenza con la nozione ulpianea di taberna instructa.

Il secondo frammento collocato in D. 14.1.1.8 riguarda, invece, il tema della responsabilità del preponente per le attività del preposto che, seppur non specificamente previste nella praepositio, erano connesse o necessarie allo svolgimento di una negotiatio. Il brano fa parte di un più ampio discorso svolto da Ulpiano, in ordine al collegamento della legittimazione passiva dell’exercitor con la conclusione da parte del magister dei soli contratti connessi alla negotiatio cui era stato preposto, poiché ‘non autem ex omni causa praetor dat in exercitorem actionem’.

Ulpiano, dopo aver indicato nel paragrafo 3 i contratti che un magister poteva concludere in quanto inerenti alla sua praepositio, nel paragrafo 8 affronta la questione della riconducibilità della ‘mutua pecunia sumpta a magistro’ nell’ambito del ‘navis reficiendae causa contrahere’. Il giurista severiano, accogliendo l’opinione di Pegaso, risponde affermativamente, purché il denaro fosse preso e dato a prestito per uno scopo che rientrasse nella praepositio, come per esempio l’armamento della nave, l’arruolamento dei marinai o per il mantenimento degli stessi[71]. 

Anche qui sembra che con l’espressione ‘ad armandam instruendamve navem’ l’attenzione sia rivolta all’attività di predisposizione più che all’organizzazione di beni e uomini destinato all’esercizio di una negotiatio.

Considerazioni analoghe possono essere ripetute anche a proposito degli ultimi due frammenti.

Anch’essi inserendosi in contesti differenti fra di loro - il primo è raccolto nel titolo ‘De lege Rhodia de iactu’[72] dei Digesta; l’ultimo frammento riguarda il tema del privilegio dei creditori per le somme concesse per costruire (extruendam), per attrezzare (instruendam) o per acquistare (emendam) la nave – fanno riferimento all’instruere navem, indicando più l’attività di predisposizione che un complesso di ‘res et homines ad negotiationem parati’.

La nostra opinione è che le espressioni citate non siano “equivalenti” a taberna instructa, ma indichino solamente specifici “momenti” dell’instruere navem, richiamando soltanto genericamente il concetto di ‘navis instructa’.

 

 

5. – Brevi considerazioni conclusive

 

Terminata la nostra breve ricerca, possiamo trarre alcune considerazioni conclusive, raccordandoci a quanto enunciato in chiave programmatica in premessa ed esplicitato poi nel corso della trattazione.

Dei molteplici spunti di riflessione, che la definizione ulpianea di taberna instructa solleva, abbiamo scelto di trattarne solamente alcuni.

In primo luogo, l’analisi dei profili terminologici e concettuali della definizione in esame ne ha evidenziato una certa «elasticità» ed «ampiezza» che la rendono perfettamente speculare al significato assunto in piena età classica dal binomio institor-negotiatio.

Ulpiano, infatti, quasi certamente sulla scia di un consolidato indirizzo giurisprudenziale (‘sic accipiemus’), precisa che la locuzione edittale ‘taberna instructa’ era da intendersi, in senso tecnico-giuridico, come un complesso di beni e di uomini destinato all’esercizio di una negotiatio.

Traendo spunto da alcuni rilievi emersi in dottrina, ci siamo poi soffermati su un dato che emerge dalle fonti: la taberna instructa non è la sola locuzione con cui i giuristi romani indicavano un complesso di ‘res et homines ad negotiationem parati’, infatti, ne ricorrono altre che possiedono un significato ad essa “equivalente”.

Tale “equivalenza”, come abbiamo precisato, indica solamente che quelle espressioni richiamano “una realtà fenomenica equivalente” a quella della taberna instructa e dunque gli stessi elementi fondamentali che connotano la definizione ulpianea: un complesso di beni e forza lavoro, più precisamente di res e di homines, l’organizzazione loro impressa e il fine dello svolgimento di una negotiatio per il quale quell’organizzazione è predisposta.

In primo luogo abbiamo preso in considerazione la locuzione «instrumentum negotiationis», che si ricava dal brano di Paolo inserito in D. 33.7.13pr., laddove il giurista severiano, discutendo dell’instrumentum cauponae, avverte che con il termine ‘caupona’ egli vuole indicare una specifica negotiatio. 

Ad un «instrumentum negotiationis» si riferirebbe anche Nerazio quando utilizza le locuzioni ‘instrumentum tabernae’ (Ner., 2 resp. in D. 33.7.23) e ‘instrumentum tabernae cauponiae’ (riportata da Paul., 4 ad Sab. in D. 33.7.13pr.).

Come detto i frammenti sono collezionati nel titolo “De instructo vel instrumento legato” dei Digesta e proprio della determinazione dell’oggetto di legati si occupano Nerazio e Paolo.

I due giuristi sono tuttavia consapevoli delle peculiarità dell’oggetto di quei legati, trattandosi di un instrumentum sui generis che non trova collocazione all’interno della classica distinzione tra instrumentum rei e instrumentum personae, poiché individua più precisamente un complesso di res et homines destinato all’esercizio di una negotiatio.

La circostanza risulta di grande rilievo poiché essa si riflette sulla determinazione dei beni che fanno parte del legato stesso.

Anche l’instrumentum fundi talvolta indica nelle fonti un «instrumentum negotiationis». Tale circostanza, tuttavia, non emerge in modo molto chiaro, come dimostra pure l’assenza, nei frammenti relativi all’instrumentum in questione, del binomio institor-negotiatio.

Il dato formale tuttavia è superabile.

Se l’attività di produzione agricola non rientra nel campo di applicazione dell’actio institoria, lo svolgimento dell’attività di commercializzazione dei prodotti del fondo, implicando un contatto con i terzi e quindi problemi connessi al loro affidamento, induce Paolo (29 ad ed. in D. 14.3.16) a concedere un rimedio modellato proprio sull’actio institoria e cioè un’actio ad exemplum institoriae.

Proprio ad una situazione del genere farebbe chiaramente riferimento Ulpiano quando ricomprende nei beni facenti parte dell’instrumentum fundi anche quelli che servono alla commercializzazione dei prodotti stessi, come emerge dal brano riportato in D. 33.7.12.1.

L’instrumentum fundi così concepito assume i connotati di un vero e proprio «instrumentum negotiationis» equivalente, nel senso precisato, alla taberna instructa.

Anche a proposito dello svolgimento di negotiationes aventi come base giuridica la praepositio exercitoria, la dottrina ha indicato la presenza nelle fonti di espressioni che richiamano la definizione di taberna instructa.

Si è sostenuto, infatti, che in alcuni brani – D. 4.9.7.4; D. 14.1.1.8; D. 14.2.6 e D.42.5.6 – emerge il concetto di ‘navis instructa’

Nei testi in questione ricorrono le seguenti espressioni: ‘ad armandam instruendamve navem’, ‘qualesquales ad instruendam navem adhibuerit’, ‘in navem instruendam’.

Siamo dell’opinione che le espressioni appena citate non siano “equivalenti” alla definizione di taberna instructa, poiché più che indicare un complesso di ‘res et homines ad negotiationem parati’, esse si riferiscono all’attività di predisposizione di alcuni beni, a fasi cioè isolate dell’instruere navem.

Si tratta comunque di espressioni significative dalle quali emerge, come affermato, il concetto di navis instructa. 

Comprendiamo allora le finalità della nostra ricerca la quale, partendo da alcune considerazioni sui profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea, vuole essere solamente ricognitiva delle espressioni ad essa “equivalenti”, limitando il campo d’indagine alle negotiationes aventi come base giuridica la praepositio institoria ed exercitoria[73].

Resta sempre ferma l’attenzione per la diversità dei contesti in cui le varie espressioni compaiono. Se avessimo trascurato questa circostanza, la nostra indagine avrebbe assunto un carattere arbitrario.

 

 



 

[1] Il riferimento va agli studi che hanno posto in evidenza nel mondo romano, in particolare tra il III sec. a.C. e il III d. C., lo sviluppo dell’articolato e complesso sistema imprenditoriale delle negotiationes. Ricordiamo tra i principali: DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager» in Roma antica (II sec. a. C. - II sec. d. C) (Milano 1984); ID., Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra» nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, III (Napoli 1997), 413 ss.; ID., Impresa agricola e attività collegate nell’economia della “villa”. Alcune tendenze organizzative, in Sodalitas. Studi in onore di A. Guarino, VII (Napoli 1984), 3235 ss.; ID., «Filius», «servus» e «libertus», strumenti dell'imprenditore romano, in Imprenditorialità e diritto nell'esperienza storico–giuridica, (Erice, 22-25 novembre 1988), a cura di Marrone (Palermo 1992), 231 ss.; SERRAO, L’impresa in Roma antica. Problemi e riflessioni, in Atti del seminario sulla problematica contrattuale nel diritto romano, (Milano, 7-9 aprile 1987), vol. II, 25 ss. [lo scritto è pubblicato anche in Studi per Luigi De Sarlo (Milano 1989), 675 ss., nonché nel volume Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, forme giuridiche di un’economia mondo (Pisa 1989), 15 ss.]; ID., Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, in Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano. Atti degli incontri capresi di storia dell’economia antica (Capri 13-15 ottobre 1997) a cura di Lo Cascio, (Bari 2000), 31 ss.; GALLO, Negotiatio e mutamenti giuridici nel mondo romano, in Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storico-giuridica, (Erice, 22-25 novembre 1988), a cura di Marrone (Palermo 1992), ora in Opuscula selecta (Padova 1999), 823 ss.; CERAMI, DI PORTO, PETRUCCI, Diritto commerciale romano, profilo storico, seconda edizione (Torino 2004); CERAMI, Dal contrahere al negotiari, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica, (Roma, 13-16 settembre 1999), a cura di Letizia Vacca, (Torino 2001), 169 ss.; ID.,‘Exercitio negotiationum’. Tipologia storico-giuridica della disciplina dei rapporti commerciali, in Iuris Vincula. Studi in onore di M. Talamanca (Napoli 2002), 149 ss.; ID., Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero, in AUPA 52 (2007-2008); AUBERT, Business Managers in Ancient Rome. A Social and Economy Study of Institores, 200 B. C.-250 A. D. (Leiden – New York – Köln 1994); PETRUCCI, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II sec. a. C. - metà del II sec. d.C.) (Napoli 1991); ID., I servi impuberum esercenti attività imprenditoriali nella riflessione della giurisprudenza romana dell'età commerciale, in Societas - Ius. Munuscula di allievi a Feliciano Serrao (Napoli 1999), 221 ss.; ID., Profili giuridici delle attività e dell'organizzazione delle banche romane (Torino 2002); ID., Neque enim decipi debent contrahentes. Appunti sulla tutela dei contraenti con un'impresa nel diritto romano tardo repubblicano e del principato, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea. Studi in onore di A. Burdese III (Padova 2003), 89 ss.; ID., Ancora sulla protezione dei contraenti con gli imprenditori nel diritto romano classico: il caso del receptum nautarum, cauponum et stabulariorum, in Estudios de derecho civil. Obligaciones y contratos. Libro homenaje a F. Hinestrosa III (Bogotà 2003), 71 ss.; ID., Ulteriori osservazioni sulla protezione dei contraenti con gli institores ed i magistri navis nel diritto romano dell’età commerciale, in IURA 53 (2002) [Pubbl. 2005]; ID., Per una storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori, I (Torino 2007); MICELI, Sulla struttura formulare delle ‘actiones adiecticiae qualitatis’ (Torino 2001); ID., Institor e procurator nelle fonti romane dell’età preclassica e classica, in IURA, 53 (2002), 57-176; ID., Studi sulla «rappresentanza» nel diritto romano (Milano 2008), 64 ss., 65 nt. 77; LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», «taberna cum instrumento» e «taberna instructa» nella riflessione giurisprudenziale classica, in Antecessori oblata. Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro (Padova 2001), 23 ss.; ID., Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi» tra il I sec. a. C. e il III sec. d. C. (Napoli 1996); ORTU, “Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione giuridica dei venditori di schiavi, in Diritto@Storia, Quaderni di scienze giuridiche e tradizione romana, 1 (2002); ID., Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii, in Diritto@Storia, Quaderni di scienze giuridiche e tradizione romana, 2 (2003).

 

[2] LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 91 ss., parla di differenza di natura qualitativa, poiché la nozione di taberna cum instrumento è oggetto di riflessione più che altro in materia di legati, mentre quella di taberna instructa è legata all’applicazione dell’actio institoria. L’Autrice (a pagina 128 ss.) sottolinea la singolarità dell’opinione di Paolo, il quale doveva pur conoscere quest’ultima locuzione e accoglierne una nozione sostanzialmente equivalente, in ordine ai beni in essa inclusi, a quella di taberna cum instrumento (nonché di taberna et instrumentum).

 

[3] Un’ipotesi è svolta da Ligios, «Taberna», «negotiatio», cit., 107 ss. L’Autrice, dopo aver effettuato una distinzione preliminare tra il significato assunto dal termine ‘taberna’ nei due frammenti ulpianei riportati rispettivamente in D. 50.16.183 e D. 50.16.185, sottolinea come soltanto in quest’ultimo passo quel termine presenti una connotazione imprenditoriale. Ligios si chiede poi se la nozione di taberna instructa sia stata elaborata proprio dal giurista severiano o se questi l’abbia definita rifacendosi ad elementi contenuti nelle disposizioni edittali  nonché a dati recepiti dalla riflessione giurisprudenziale a lui precedente e coeva. Accoglie la ricostruzione leneliana secondo la quale la locuzione taberna instructa sarebbe stata presente anche nel testo della formula dell’actio institoria contenuta nell’albo pretorio e ritiene tale circostanza rafforzata dall’utilizzo della locuzione da parte di Cicerone in un passo della pro Cluentio (63.178): questo dato, unito alla paternità labeoniana del frammento ulpianeo riportato in D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad ed.), costituisce indizio del fatto che la nozione suddetta fosse già delineata nell’ambito della riflessione giurisprudenziale dell’ultima età repubblicana. Ulteriore contributo, utile alla ricostruzione della citata elaborazione giurisprudenziale sarebbe ricavabile da un responso di Papiniano, riportato da Ulpiano in D. 33.7.12.43 (Ulp., 20 ad Sab.). Il responso, pur concernendo un legato di domus instructa, presupporrebbe una nozione di taberna instructa assimilabile a quella che risulta in D. 50.16.185.

 

[4] La locuzione instrumentum/a negotiationis/um non è esplicitamente menzionata nelle fonti, ma è ricavabile in via interpretativa dal passo di Paolo riportato in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.): Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici, item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum negotiationis nomen sit, etiam institores. Su di essa ci soffermeremo tra poco.

 

[5] Così SERRAO, L’impresa in Roma antica, cit., 25 ss., scrive: «Se noi andiamo a vedere l’art. 2555 del nostro Codice Civile, troviamo definita l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. L’unica, peraltro ovvia, differenza rispetto alla definizione romana è la mancanza degli homines; nella nostra azienda c’è, o comunque ci può essere, un fascio di rapporti di lavoro, nell’azienda romana ci sono gli schiavi»; ID., Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, cit., 21 ss.; DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 64 nt. 1; ID., Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra», cit., 442 ss., ad avviso del quale: «Per quanto riguarda taberna instructa (e instrumentum negotiationis), è impressionante l’analogia con il moderno concetto di azienda. Direi financo l’assonanza con l’articolo 2555 del nostro codice civile. Vale la pena di rileggere le due nozioni, l’una sovrapposta all’altra, come in una sorta di fotomontaggio: “Instructam autem tabernam sic accipiemus”, “L’azienda è”, “quae et rebus et hominibus … constat”, “il complesso dei beni”, “ad negotiationem paratis”, “organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Le parole del codice civile suonano come una traduzione della nozione romana».

Lo stesso significato è attribuito alla locuzione taberna instructa anche da CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 48-52.; ID., Impresa e societas, cit., 99-102; LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 91 ss.

Di diverso avviso è invece CHIUSI, Diritto commerciale romano? Alcune osservazioni critiche, in FIDES HUMANITAS IVS, Studii in on. di Luigi Labruna, II (Napoli 2007), 1025-1041. In particolare a pagina 1036 l’Autrice scrive: «Che il responso neraziano in D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.) provi in maniera inequivocabile, come il quesito avrebbe riguardato la determinazione dell’instrumentum della struttura imprenditoriale intesa come azienda e non semplicemente dell’instrumentum della taberna, non emerge, a mio parere dal testo, se non attraverso una lettura “orientata” di esso: la traduzione di taberna con “struttura imprenditoriale”, suggerisce una interpretazione che non è dedotta a posteriori dal testo ma, al contrario, ne condiziona a priori la comprensione. Certamente i giuristi analizzano i termini edittali taberna instructa e negotiatio. Tale analisi però è funzionale al concetto di legato e non a quello d’impresa».

Il brano ulpianeo, collocato in D. 50.16.185, è perfino richiamato in una nota sentenza della Corte di Cassazione italiana del 5 aprile 1990, n. 2831, in cui si precisa che secondo la nostra stessa tradizione giuridica «noi concepiamo l’impresa come la strutturazione sinergica di uomini e cose per l’esercizio dell’attività negoziale». Sul passo della sentenza della Cassazione rinviamo a CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 50; ID., Impresa e societas, cit., 100. L’Autore precisa (pp. 86-87) che una simile indagine comparatistica non possa «non essere necessariamente subordinata a (e condizionata da) “limiti” invalicabili: termini, concetti, strutture del presente possono e debbono essere utilizzati esclusivamente in chiave stipulatoria e paradigmatica e non già come acritici e deformanti strumenti di assimilazione».

 

[6] Si veda Serrao, Impresa e responsabilità, cit., 35, il quale avverte: «…non v’è dubbio che nell’elaborazione giurisprudenziale, pur non essendosi pervenuti a considerare precisamente la taberna instructa come una universitas iuris, al pari della nostra azienda, vi fu una forte tendenza a considerarla come un complesso unitario sì da porre il problema del pegno (Scevola 27 dig. in      D. 20, 1, 34 pr. e 1) nonché del legato di proprietà (Paolo 22 dig. in D. 33, 7, 7 e – con citazione di Nerazio – 4 ad Sab. in D. 33, 7, 13; Papiniano 7 resp. in D. 32, 91, 2) o di usufrutto (Ulp., 17 ad Sab. in D. 7, 4, 12) della taberna intesa come complesso unitario di res e di homines ad negotiationem parati, secondo la definizione di Ulpiano pervenutaci in D. 50, 16, 185.»; cfr. sull’argomento WAGNER, Zur wirtschaftlichen und rechtlichen Bedeutung der Tabernen, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi (Milano 1982), III, 391 ss.

 

[7] Sul significato del termine negotiatio nel linguaggio dei giuristi romani, si vedano anzitutto i fondamentali studi di: FADDA, Istituti commerciali del diritto romano. Lezioni 1902-1903, I (Napoli 1903) rist. 1987, 52, ritiene che negotiatio indichi «la speculazione commerciale vera e propria»; BUCKLAND, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, (Cambridge 1908), 234, definisce la negotiatio: «a continuous course of trading, something more than an isolated negotium»; MANFREDINI, Costantino la tabernaria il vino, in Atti del VII Convegno internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana (Spello-Perugia-Norcia, 16-19 ottobre 1985), (Napoli 1988), 328, è dell’opinione che negotiatio indichi un’attività commerciale o un mestiere; Serrao, Impresa, mercato, diritto, cit., 34; ID., Impresa e responsabilità, cit., 22, in riferimento al frammento di Ulpiano riportato in D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.), così scrive: «E se, come parmi sicuro, negotiatio si traduce con “impresa”, cominciamo pure ad avere il concetto di impresa e in particolare di impresa commerciale». L’Autore, inoltre, (a pagina 24 nt. 19) precisa: «…Per l’uso di negotiatio, negotiator, negotiari a proposito dell’attività di produzione non trovo esempi di rilievo né nei giuristi né nelle fonti extragiuridiche. Però non è da sottacere che, come emerge da D. 14,4,1,1 (Ulp., 29 ad ed.), Pedio considerava negotiationes anche le attività dei fullones e dei textores, e con ciò siamo nel campo della produzione»; Gallo, Negotiatio e mutamenti giuridici, cit., 133 ss., sottolinea efficacemente lo stretto collegamento tra negotiatio e attività imprenditoriale; CHIUSI, Contributo allo studio dell’editto de «tributoria actione», in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, (Roma 1993), vol. 3, fasc. 4, 284 ss. e 314 ss.; WACKE, Die adjektizischen Klagen im Überblick. Erster Teil: von der Reederund der Betriebsleiterklage zur direkten Stellvertretung, in ZSS. 111 (1994), 280 ss., di cui esiste una sintesi anche in italiano dal titolo Alle origini della rappresentanza diretta: le azioni adiettizie, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, II (Napoli 1997), 596, definisce negotiatio un’attività lucrativa stabile, attuata tramite la costituzione di negozi giuridici per conto del dominus negotii; Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra», cit., 440, scrive: «Come studi recenti hanno posto ormai in chiara evidenza, con negotiatio i giuristi fanno riferimento all’idea generale di attività imprenditoriale, in una parola al concetto di impresa»; CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 16-19 e 48-52.; ID., Impresa e societas, cit., 99-102. Un’opinione simile sostiene Ligios, «Taberna», «negotiatio», cit., 65 ss., la quale considera negotiationes: «le sole attività economiche consistenti nella conclusione di determinati contratti con la clientela, che siano svolte in maniera stabile e abituale a fine di lucro». Ligios, tuttavia, accoglie una nozione più ristretta di negotiatio, non riguardante il settore della produzione (si vedano in particolare le pagine 53 ss.) e mostra di non condividere quanto sostenuto da Di Porto, op. ult. cit., 439 il quale, interpretando il passo ulpianeo inserito in D. 14.4.1.1 (Ulp., 29 ad ed.), è dell’idea che negotiator e negotiari venissero utilizzati da Sesto Pedio e da Ulpiano «per fare riferimento all’intero ambito imprenditoriale, compresa la produzione».

 

[8] Si tratta dell’editto con cui il pretore introdusse nel mondo giuridico romano l’actio institoria. Tale azione consentiva ai terzi che avessero contrattato con l’institore, al quale, mediante atto di preposizione (praepositio), erano stati conferiti poteri di gestione di una negotiatio, di far valere una responsabilità per l’intero (in solidum) del preponente per le obbligazioni contrattuali rimaste inadempiute. L’actio institoria è una delle c.d. actiones adiecticiae qualitatis (di seguito per esigenze di brevità, utilizzeremo l’abbreviazione a.a.q.), la cui introduzione da parte del pretore dovrebbe risalire al II sec. a.C.; cfr. Kaser, Das Römische Privatrecht (München 1971), I, 605 ss.; ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano (Palermo 1979), 160-161; TALAMANCA, Processo civile (Milano 1986), 61 nt. 441; MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 29. Solo VALIÑO, Las “actiones adiecticiae qualitatis” y sus relaciones básicas en derecho romano, in AHDE 37 (1967), 344 ss., si discosta da tale indirizzo datandole tra la fine del II e gli inizi del I sec. a. C. Sulle a.a.q. si veda da ultimo MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 7 ss. (con riferimento alla vastissima letteratura sull’argomento) e ID., Studi sulla «rappresentanza», cit., 31 ss. (e nt. 1 per la letteratura).                                               

In dottrina discusso è l’ordine cronologico delle a.a.q. Secondo ALBANESE, Le persone, cit., 160 si tratta di una «questione di difficile soluzione»; per HAMZA, Aspetti della rappresentanza negoziale in diritto romano, in Index, 9 (1980), 203, «la soluzione è difficile per le informazioni di base che provengono da autori selezionati nella sedes materiae della Compilazione»; SERRAO, Impresa e responsabilità, cit., 18 ss., ritiene «impossibile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, determinare un’esatta cronologia delle diverse azioni». Sull’argomento si vedano anche PUGLIESE, In tema di actio exercitoria, in Labeo 3 (1957), 308, per il quale l’actio exercitoria «appare più antica delle azioni quod iussu, de peculio, tributoria, de in rem verso ed ha probabilmente preceduto nel tempo la stessa actio institoria, rappresentando il commercio marittimo il campo in cui è naturale che il pretore peregrino abbia dovuto esplicare fin dall’inizio la sua attività giurisdizionale…». L’Autore ricorda come sia un’opinione comune quella di ritenere l’actio execitoria precedente a quella institoria e a pagina 587 nt. 5 riporta i principali contributi in tal senso; CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 42, secondo cui «l’ordine cronologico» corrisponde «in linea di massima, all’ordine dell’editto giulianeo: actio exercitoria, actio institoria, tributoria, triplex edictum (quod iussu, de peculio et de in rem verso) e non già all’ordine espositivo delle Istituzioni di Gaio (4.69-74): quod iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio et de in rem verso» sostenuto, invece, da ALBANESE, Le persone, cit., 160; ID., Atti negoziali nel diritto privato romano (Palermo 1982), 349 ss. Della stessa opinione di Albanese era stato BONFANTE, in una nota a GLÜCK, Pandekten, trad. it. BONFANTE, Commento alle Pandette (Milano 1905), 215. Diversa è la posizione di DE LIGT, Legal History and economic History: the case of the actiones adiecticiae qualitatis, in TR, 67 (1999), 205 ss., per il quale la più antica è invece l’actio de peculio.

 

[9] Ligios, «Taberna», «negotiatio», cit., 110. Nella nt. 257, dopo aver riportato il passo ciceroniano, l’Autrice scrive: «Si potrebbe avanzare l’ipotesi suggestiva che Cicerone abbia usato una terminologia corrente presso i giuristi».

 

[10] Nel passo in questione, secondo alcuni autori, Ulpiano riferirebbe un responso di Labeone. In tal senso per es. VOCI, «Diligentia», «custodia», «culpa», in SDHI, 56 (1990), 112; MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 304; Ligios, «Taberna», «negotiatio», cit., 132 ss. e nt. 334. L’Autrice ricorda i due principali argomenti sui quali si fonda la dottrina – a proposito della quale, cita i recenti contributi di KNÜTEL, Die Haftung für Hilfspersonen im römischen Recht, in ZSS. 100 (1983), 408 ss. e ntt. 277-278 e 281 (anche per bibliografia precedente) e di BENKE, Zu Papinians, cit., 603 e nt. 58 – che ha sostenuto tale paternità. Tali argomenti, afferma Ligios consistono nel fatto che «nei paragrafi precedenti – dal § 7 al § 9, ma anche nel § 2 – Ulpiano riporti altre pronunce del giurista repubblicano che presenterebbero assonanze stilistiche e lessicali rispetto a quella riferita nel § 10 e, infine, la chiusa di quest’ultimo testo (‘plane … - … tenebitur’), nella quale si dovrebbe cogliere l’intervento di Ulpiano, che fino a quel momento, evidentemente avrebbe esposto il pensiero di Labeone». Ligios, tuttavia, conclude che l’attribuzione a Labeone del responso riferito da Ulpiano in D. 14.3.5.10 sia meno certa di quanto si sia sostenuto.

 

[11] Le fonti storico letterarie e i ritrovamenti archeologici mostrano quanta importanza economica avessero a Roma le imprese gestite dai fullones (le fullonicae), le quali potevano offrire alla clientela numerosi servizi: dalla pulizia degli abiti, anche attraverso il riutilizzo di quelli vecchi, alla produzione di tessuti e stoffe, causando talvolta gravi problemi di inquinamento delle acque. Su quest’ultimo tema rinviamo per tutti a DI PORTO, La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza 1, (Milano 1990), 56 ss. e ID., La gestione dei rifiuti a Roma fra tarda repubblica e primo impero. Linee di un ‘modello’, in Societas-ius. Munuscula di allievi a F. Serrao, 1999, 55 ss.

Per le fonti sulle fullonicae, si vedano per tutti: DAREMBERG-SAGLIO, sv. ‘Fullonica’; VALLOCCHIA, Lex Metilia fullonibus dicta. Studi su una legge e una categoria produttiva, in Legge e società nella repubblica romana 2, a cura di F. Serrao (Napoli 2000), 341 ss.; 

 

[12] Il testo presenta una serie di imprecisioni: secondo FADDA, Digesta (Milano 1931), davanti a ‘rogasset’ dovremmo leggere ‘aliquem’, la cui mancanza è da imputare all’errore di qualche copista; dello stesso avviso risulta CARRELLI, L’actio quasi institoria, in Studi in on. di Bernardino Scorza (Roma 1940), 157; per VOCI, «Diligentia», «custodia», 111 e nt. 23, sarebbe più corretta l’inserzione di ‘Titium’; SOLAZZI, Procurator ed institor in D. 14.3.5.10, in SDHI, 9 (1943), 112, inserisce, invece, ‘procuratorem’. Inoltre si nota come ‘imperaret’ sia senza soggetto e sono state proposte diverse correzioni. Anche la parte finale ‘Plane si adfirmaverit mihi…sed ex locato tenebitur’ ha suscitato forti sospetti; cfr. SOLAZZI, Procurator ed institor, cit., 105 ss.; MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 304, sostiene che le varie scorrettezze formali del brano e quella sua certa discontinuità nel periodare, non si riflettano anche dal punto di vista contenutistico.  

 

[13] Sui profili di responsabilità dei fullones nell’ambito del più ampio tema della ‘protezione dei contraenti’ rinviamo al puntuale lavoro di PETRUCCI, Per una storia, cit., 247-251.  

 

[14] Institor e procurator, cit., 66 e ID., Studi sulla «rappresentanza», cit., 303 (nt. 1 per l’ampia letteratura sul passo).

 

[15] C’è chi sostiene che esso sia del tutto inattendibile – per es. SOLAZZI, Procurator ed institor, cit., 104 ss. – o integralmente autentico – ALBERTARIO, L’actio quasi institoria, in Studi di Diritto Romano, IV (1912), 187-218; CARRELLI, L’actio quasi institoria, cit., 143 ss. – anzi come una delle prove più evidenti del fatto che l’actio quasi institoria non possa essere classica. C’è ancora chi – ad es. ANGELINI, Il procurator (Milano 1971), 85 – afferma che la soluzione prospettata nel brano sarebbe genuina e rappresenterebbe anzi una delle dimostrazioni più evidenti del fatto che il procurator era un soggetto dotato, a differenza dell’institor, solo di poteri tecnici e non prettamente giuridici.

 

[16] La bibliografia sull’actio ad exemplum institoriae actionis o quasi institoria è vasta. Per i principali contributi: COSTA, Le azioni exercitoria e institoria nel diritto romano (Parma 1891), 3 ss.; SOLAZZI, Le azioni del pupillo e contro il pupillo per i negozi conclusi dal tutore, in BIDR. 25 (1912), 133 ss., ora in Scritti di diritto romano, 1 (Napoli 1955), 567 ss.; ALBERTARIO, L’actio quasi institoria, in Studi di Diritto Romano, IV (1912), 200; RABEL, Ein Ruhmesblatt Papinians, in Festschrift für Zitelmann (Leipzig 1913), 1 ss., ora in Gesammelte Aufsätze, IV. Arbeiten zur altgriechischen, hellenistichen und römischen Rechtsgeschichte 1905-1949, (Tübingen 1971), 269 ss.; CARRELLI, L’actio quasi institoria, cit., 176 ss.; PEROZZI, Istituzioni di diritto privato romano, 2 (Roma 1928); RICCOBONO, Lineamenti della dottrina della rappresentanza diretta in diritto romano, in AUPA 14 (1930), 389 ss.; KELLER, Formula ad exemplum institoriae actionis, in Festschrift für Wenger (München 1945), 73 ss.; BURDESE, Actio ad exemplum institoriae, in Atti dell’Accademia Scienze di Torino, 84 (1949-1950), 109 ss.; ID., Actio ad exemplum institoriae e categorie sociali, in Studi in memoria di Guido Donatuti, 1 (Milano 1973), 191 ss.; ARANGIO RUIZ, Istituzioni di diritto romano, (Napoli 1957), 95 ss.; ANGELINI, Osservazioni in tema di creazione dell’‘actio ad exemplum institoriae’, in BIDR. 71 (1968), 233; BONFANTE, Corso di diritto romano. 4 Le obbligazioni (Milano 1979), 71 ss.; LONGO, Actio exercitoria - actio institoria - actio quasi institoria, in Studi in onore di G. Scherillo II (Milano 1972), 610 ss.; VALIÑO, Las “actiones adiecticiae qualitatis”, cit., 337 ss; ID., Las capacidad de las personas «in potestate» en derecho romano, in Revista del Derecho Notarial 57-58 (1967), 99 ss.; ID., Las relaciones básicas de las acciones adyecticias, in Annuario di Historia del Derecho Espagnol, 38 (1968), 377; ALBANESE, Le persone, cit., 159 ss.; ID., Atti negoziali, cit., 350 nt. 403; HAMZA, Zur frage der gewillkürten Stellvertretung in klassichen römischen Recht, in Ann. Scient. Budap., Sectio Juridica 21 (1979), 19 ss.; ID., Aspetti della rappresentanza, cit., 193 ss.; BENKE, Zu Papinians actio ad exemplum institoriae actionis, in ZSS. 105 (1998), 592 ss.; MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 333 ss.

 

[17] Definizione va intesa in questo caso come «operazione mentale dello spiegare il significato di una parola o di un’espressione». È questo uno dei significati del termine ‘definitio’ che ha chiaramente sottolineato Albanese nel suo scritto: «Definitio periculosa». Un singolare caso di «duplex interpretatio», in Studi in onore di G. Scaduto, III (Padova 1970) 229-376 [= Scritti giuridici, I (Palermo 1991), 703-778]. Sul tema della definitio esistono numerosi contributi, tra i principali: MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani (Milano 1966); ID., Ancora in tema di definitiones, in Studi Senesi, 96 (1984), 146 ss.; ID., Di nuovo sulla definitio fra retorica e giurisprudenza, in Labeo 41 (1995), 169 ss.; CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo, mezzi e fini (Napoli 1966); STEIN, Regulae iuris. From juristic Rules to Legal Maxims (1966); SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln (1970) e Horoi, Pithana und regulae – Zum Einfluss der Rhetorik und Dialektik auf die juristische Regelbindung, in ANRW 15 (1976), 101 ss.; NÖRR, Spruchregel und Generalisierung, in ZSS. 89 (1972) 18 ss., MARRONE, Le significationes di D. 50.16 (“De verborum significatione”), in SDHI, 50 (1994), 583 ss.; ID., Nuove osservazioni su D. 50.16 “De verborum significatione”, in Seminarios Complutentes de derecho romano, VII (1995), 169 ss., che si occupano, fra l’altro, dei rapporti tra significationes, definitiones e regulae; CERAMI, “Ignorantia iuris”, in Seminarios complutentes de derecho romano, IV (1993), 71 ss., ora in Ricerche romanistiche e prospettive storico-comparatistiche, in AUPA 43 (1995), 247 ss.

 

[18] Sul punto LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 109-110, scrive: «la vaghezza di tale formulazione dovette costituire la ragione del suo inserimento nei Digesta a scapito forse di quella del giurista Paolo, il quale doveva comunque aver presente tale locuzione se accettiamo l’opinione del Lenel secondo cui essa compariva nel testo della formula dell’actio institoria contenuta nell’editto».

 

[19] Sull’argomento vedi supra nt. 3.

 

[20] LENEL, Palingenesia iuris civilis (Leipzig 1889) (rist. Graz. 1960), II, c. 590 «Ulp. ad ed. l. 28», n. 827, nt. 2. Sempre secondo LENEL, Das Edictuum perpetuum, 3 (Leipzig 1927), 259 e 263, la locuzione taberna instructa sarebbe stata menzionata nel testo della formula dell’actio institoria, la quale sarebbe stata, dunque, del seguente tenore: «Quod As As de Lucio Titio, cum is a No No tabernae instructae praepositus esset, eius rei nomine decem pondo olei emit, q.d.r.a., quidiquid ob eam rem Lucium Titium Ao Ao dare facere oportet ex fide bona, eius iudex Nm Nm Ao Ao c. s.n.p.a.». Sul punto si vedano anche MANTOVANI, Le formule del processo privato romano (Padova 1999), 79 ss.; MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 354 ss.

Tale ipotesi ricostruttiva è stata, invece, criticata da WAGNER, Zur wirtschaftlichen, cit., 404 ss.  La critica poggia su ragioni di ordine terminologico: per la comprensione del significato di ‘taberna’, nel contesto della disciplina edittale, l’aggettivo ‘instructa’ risulterebbe superfluo.

 

[21] Per un esame dei termini res e homines nel testo ulpianeo riportato in D. 50.16.185, rinviamo per tutti a LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 112-124.

 

[22] Di elasticità parla anche LIGIOS, seppure in ottica diversa, quando sottolinea una delle differenze intercorrenti tra la nozione di ‘taberna instructa’ e quella di ‘taberna cum instrumento’, in «Taberna», «negotiatio», cit., 130: «Tuttavia la nozione di ‘taberna instructa’ che sembrerebbe essersi affermata nell’ambito della riflessione giurisprudenziale classica parrebbe invece quella di Papiniano e Ulpiano, che si pone, come si è più volte rimarcato, in un’ottica del tutto diversa rispetto a quella della ‘taberna cum instrumento’».

 

[23] Sul profilo etimologico del termine ‘taberna’ si veda da ultimo LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 27 ss. L’Autrice ricorda come ‘taberna’ derivi da ‘tabula’ per Festo, verb. sign., sv. ‘tabernacula’ (Lindsay, p. 490) e sv. ‘adtibernalis’ (Lindsay, p. 11); Diomede, ars gramm. (Keil, III, p. 489, ll. 28 ss.); e poi Isidoro, orig. 15.2.43; mentre da ‘trabs’ per Elio Donato, nel suo commentum all’Adelphoe di Terenzio (359.2); e Cassiodoro, in psalm. («PL.» LXX, c 108 s.). Scrive Ligios: «L’elemento offerto dai passi di Diomede e dei due autori tardi, e che invece manca in quelli di Festo ed Elio Donato, è che ‘tabernae’ sarebbero state anticamente le abitazioni dei poveri, accezione che risulta pure da altre fonti letterarie» e queste fonti sono: Varr., ling. lat. 5.160 e Hor., carm. 1.4.13 ss. Sempre LIGIOS, op. ult. cit., 35, ntt. 26-29, ricorda che nelle fonti sono riscontrabili gli ulteriori significati di “granaio” o “magazzino”, “cassone” o “armadio” e “sacca”.

 

[24] Cassiodoro e Elio Donato, vedi supra nt. 24.

 

[25] Isidoro, Festo e Diomede, vedi supra nt. 24.

 

[26] In tal senso Diomede, Isidoro e Cassiodoro.

 

[27] Vocabularium jurisprudentiae romanae, sv. ‘taberna’.

 

[28] D. 14.3.18 (Paul., l. S. de var. lect.): Institor est, qui tabernae locove ad emendum vendendumve praeponitur quique sine loco ad eundem actum praeponitur.

 

[29] Vedi supra ntt. 3 e 19.

 

[30] Fu in particolare durante il I sec. a C. e l’età augustea che il campo di applicazione dell’actio institoria si era notevolmente ampliato, grazie soprattutto all’interpretatio di giuristi come Servio Sulpicio Rufo e Marco Antistio Labeone. Sul punto, rinviamo a: DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 66 ss.; ID., Impresa agricola e attività collegate, cit., 3248; CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 53 ss.; PETRUCCI, Ulteriori osservazioni, cit. 19; ID., Per una storia, cit., 15 ss.; MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 205 ss.; LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 63 ss.

I vari contributi ricordati, traggono spunto soprattutto dai frammenti ulpianei collocati in D. 14.3.5pr.-9 (Ulp., 28 ad ed.): Cuicumque igitur negotio praepositus sit, institor recte appellabitur. Nam et Servius libro primo ad Brutum ait, si quid cum insulario gestum sit vel eo, quem quis aedificio praeposuit vel frumento coemendo, in solidum eum teneri. Labeo quoque scripsit, si quis pecuniis faenerandis, agris colendis, mercaturis redempturisque faciendis praeposuerit, in solidum eum teneri. Sed et si in mensa habuit quis servum praepositum, nomine eius tenebitur. Sed etiam eos institores dicendos placuit, quibus vestiarii vel lintearii dant vestem circumferendam et distrahendam, quos volgo circitores appellamus. Sed et muliones quis proprie institores appellet. Item fullonum et sarcinatorum praepositus. Stabularii quoque loco institorum habendi sunt. Sed et si tabernarius servum suum peregre mitteret ad merces comparandas et sibi mittendas, loco institoris habendum Labeo scripsit. Idem ait, si libitinarius servum pollinctorem habuerit isque mortuum spoliaverit, dandam in eum quasi institoriam actionem, quamvis et furti et iniuriarum actio competeret. Idem Labeo ait: si quis pistor servum suum solitus fuit in certum locum mittere ad panem vendendum, deinde is pecunia accepta praesenti, ut per dies singulos eis panem praestaret, conturbaverit, dubitari non oportet, quin, si permisit ei ita dari summas, teneri debeat.

 

[31] Il risultato finale di questa estensione del significato del termine institor è rappresentato dal seguente brano del libro ventotto dei commentari ad edictum di Ulpiano, riportato in D. 14.3.5pr.: Cuicumque igitur negotio praepositus sit, institor recte appellabitur. Si registra, tuttavia, ancora in età severiana, una nozione più ristretta di institor nel pensiero di Paolo. Si veda, su quest’ultimo punto, la successiva nota 32.

 

[32] Fatta eccezione per Paolo il quale ancora in età severiana afferma in D. 14.3.18 (Paul., l. S. de var. lect.): Institor est qui tabernae locove ad emendum vendendumve praeponitur quique sine loco ad eundem actum praeponitur. La qualifica di ‘institor’ per il giurista severiano prescinde, dunque, dal luogo in cui si esercita l’attività (può trattarsi di una taberna, oppure di un altro luogo: ‘tabernae locove’) – il luogo può persino mancare (‘sine loco’) - ma resta pur sempre legata allo svolgimento di un’emptio-venditio.

 

[33] In D. 14.3.5.1 Ulpiano fa riferimento all’insularius e all’aedificio praepositus. Sull’attività di speculazione immobiliare si veda GARNSEY, L’investimento immobiliare urbano, in FINLEY (a cura di), La proprietà a Roma (Bari 1980), 149 ss.; incidentalmente sull’argomento anche DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 70 ntt. 25 e 26.

 

[34] Gli horrea erano magazzini utilizzati per il deposito delle merci. Per tutti rinviamo da ultimo a PETRUCCI, Per una storia, cit., 239, (239-246 per la letteratura), il quale ricorda che gli horrea «assolvevano funzioni di primissimo piano nell’economia romana tardo repubblicana ed imperiale, ed i loro titolari, gli horrearii, non necessariamente coincidenti con i proprietari degli edifici adibiti a magazzini (i domini horreorum), erano imprenditori dotati di un proprio personale, la cui attività principale consisteva nel concludere con terzi contratti aventi ad oggetto la locazione dei vari magazzini e spazi, nei quali l’edificio era di solito suddiviso, e nel fornire un servizio di sorveglianza degli stessi». Per una rassegna sulle fonti si veda DAREMBERG-SAGLIO, sv. ‘Horreum’.

 

[35] Le officinae erano generalmente ‘stabilimenti industriali’, laboratori, opifici. Il termine ricorre spesso in Plinio, Nat. hist. 16,6,8,23 (officinae aerariorum); 9,38,62,133 (officinae tingentium); 36,22,47,165 (officinae tonstrinarium); 35,11,40,143 (officinae fullonum); 35,12,45,155 (officinae plastarum); 18,10,20,89 (officinae aerariae et chartariae); in diversi frammenti riportati nel Digesto, es. in D. 5.1.19.2 (Ulp., 60 ad ed.); ma soprattutto nel linguaggio epigrafico dei bolli e dei marchi di fabbrica pervenutici; cfr. innanzitutto il volume XV del C.I.L., curato da DRESSEL. Dello stesso Autore vedi i Saggi sull’instrumentum romano (Perugia 1978), in particolare le pagine 185-231, dedicate al materiale del monte Testaccio. Per la vasta bibliografia sull’argomento si veda DI PORTO, «Filius», «servus» e «libertus», cit., 231 ss.

 

[36] Si pensi all’attività dei muliones e dei circitores cui fa riferimento Ulpiano nei §§ 4-5 di D. 14.3.5 (Ulp., 28 ad ed.).

 

[37] Per una classificazione delle tipologie di negotiationes comprese nel settore economico riconducibile al campo di applicazione dell’actio institoria, rinviamo a DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 67 ss., il quale indica: A) L’attività organizzata e continuativa di emptio-venditio di merces; B) L’attività di intermediazione nella circolazione del denaro e l’esercizio del credito; C) L’attività definibile con terminologia moderna come ‘prestazione di servizi’ (le negotiationes cauponae, l’esercizio degli stabula, l’attività dei fullones, muliones, sarcinatores: D. 14.3.5.5-6); D) L’attività di speculazione sugli immobili; E) Il vasto settore della produzione artigianale e industriale.

Convergono sull’argomento: MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 205 ss.; ID., Studi sulla «rappresentanza», cit. 64 ss.; CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 13 ss.; ID., Impresa e societas, cit., 101; PETRUCCI, Per una storia, cit., 15 ss.

 

[38] SERRAO, L’impresa in Roma antica, cit., 25 ss., sottolinea l’affinità tra taberna instructa e «instrumentum negotiationis»; per DI PORTO, Il diritto commerciale romano, cit., 441 ss., avrebbero un significato simile a taberna instructa la locuzione instrumentum cauponae, menzionata da Paolo in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.) e la locuzione instrumentum tabernae cauponaie, cui fa riferimento Nerazio in un responso riportato da Paolo nello stesso D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.). In un altro contributo DI PORTO, «Filius», «servus» e «libertus», cit., 255, considera «una vera e propria taberna instructa secondo la definizione ulpianea riportata in D. 50.16.185» il complesso di beni descritto da Scevola in D. 33.7.7 (Scaev., 22 dig.). Di diverso avviso su quest’ultimo punto LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 117 nt. 283.

All’affinità tra taberna instructa e «instrumentum negotiationis» fanno riferimento anche CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 48-52.; ID., Impresa e societas, cit., 99-102; LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 79 ss. L’Autrice inoltre nel suo Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi» tra il I sec. a. C. e il III sec. d. C. (Napoli 1996), accoglie inoltre una nozione imprenditoriale dell’instrumentum fundi. Secondo ORTU, Note in tema di organizzazione, cit., 3 ss., al trasferimento di una “azienda venaliciaria” si farebbe riferimento in due fonti particolarmente significative: si tratta di una delle Tabulae Herculanenses (precisamente la tab. n. lxiii) e di una delle Tavolette cerate di Cecilio giocondo (cioè quella riportata in CIL IV.3340 n. xlv = fira, III, apocha pompeiana, Chirographa, n. 130 a).

 

[39] L’opinione di Nerazio è seguita anche da Marciano in D. 33.7.17.2 (Marcian., 7 inst.): Instrumento balneatorio legato dictum est balneatorem sic instrumento contineri balneario, quomodo instrumento fundi saltuarium et topiarios, et instrumento cauponio institorem, cum balneae sine balneatoribus usum suum praebere non possint.

 

[40] Il ‘sed’ avrebbe un valore esplicativo-rafforzativo e non avversativo. In tal senso CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 51-52. Un altro orientamento in dottrina sottolinea la diversità delle posizioni dei due giuristi; rinviamo per tutti a LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 79 ss. con indicazione della letteratura.

 

[41] Caupona indica nelle fonti per lo più una locanda dove i viaggiatori potevano alloggiare e consumare cibi e bevande. Per una rassegna dei significati del termine ‘caupona’ si vedano: FORCELLINI, Lexikon totius latinitatis, sv. ‘caupona’; DAREMBERG-SAGLIO, sv. ‘Caupona’. Si vedano anche KLEBERG, Hôtels restaurants et cabarets dans l’antiquité romaine (Uppsala 1957), 1-25 e 124-131 per le note; GASSNER, Zur Terminologie der Kaufläden im Lateinischen, in «Münstersche Beiträge zur antiken Handelsgeschichte», III (1984.I), 108 ss.; e più recentemente FÖLDI, Caupones e stabularii nelle fonti del diritto romano, in Mélanges Fritz Sturm 1, (Liège 1999), 119 ss.

 

[42] DELL’ ORO, Le cose collettive nel diritto romano (Milano 1963).

 

[43] DELL’ ORO, Le cose collettive, cit., 200.

 

[44] Il passo sarebbe la premessa per una definizione, da parte di Nerazio, dell’instrumentum tabernae. Sull’argomento si rinvia a MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 174 ss. e nt. 95, il quale è dell’opinione che il passo costituisca la premessa di una definizione di ‘instrumentum tabernae’ della quale sarebbe rimasta solo la parte contenente il presupposto sul quale fondare il concetto. Di diverso avviso è LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 67 ss., la quale esclude posizioni astratte del giurista che, invece, in tema di determinazione dell’instrumentum assume sempre un approccio analitico, dimostrato anche nell’analoga materia dell’instrumentum fundi.

 

[45] Rinviamo per tutti a CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 50 ss.

 

[46] Il termine negotiator assume nelle fonti un ben preciso significato, indicando a differenza del termine mercator, quegli operatori economici che svolgono in maniera professionale attività implicanti la continuità dell’esercizio commerciale (‘cottidianus quaestus’), nonché la predisposizione di un’organizzazione di beni e forza lavoro (taberna instructa), di attività cioè che possono definirsi in termini di negotiatio. Sull’argomento rinviamo a Gallo, Negotiatio e mutamenti giuridici, cit., 133 ss.; CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 15 ss., secondo cui «…la giustapposizione ‘mercator-negotiator’ appare già acquisita in termini non equivoci nei primi decenni del I sec. a. C., come possiamo desumere, in particolare da alcuni brani ciceroniani e, segnatamente, da un passo delle Verrine (70 a. C.), in cui negotiator e mercator contrassegnano, accanto ad arator (coltivatore) ed a pecuarius (allevatore di bestiame), distinte figure di operatori economici». Il passo in questione, richiamato da Cerami in nt. 35, è quello di Cicerone, In Verrem, 2,2,77,188: ‘Postulo ut mihi respondeat qui sit Verrucius, mercator an negotiator an arator an pecuarius’; ID., Impresa e societas, cit., 77 ss.

Sull’argomento cfr. anche CAPOGROSSI COLOGNESI, «Ius commercii», «connubium», «civitas sine suffragio». Le origini del diritto internazionale privato e la romanizzazione delle comunità latino-campane, in AA. VV., Le strade del potere. Maiestas populi Romani, Imperium, Coercitio, Commercium. Saggi raccolti da A. Corbino (Catania 1994), 19 ss.; LABRUNA, Il diritto dei romani e l’espansionismo, in AA. VV., Le strade del potere. Maiestas populi Romani, Imperium, Coercitio, Commercium. Saggi raccolti da A. Corbino (Catania 1994), 115 ss.

 

[47] Vedi supra nt. 7.

 

[48] Sull’argomento da ultimo si veda LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi» tra il I sec. a. C. e il III sec. d. C. (Napoli 1996), con ampia letteratura in particolare ntt. 1-34. L’Autrice sottolinea nell’introduzione del suo lavoro come l’istituto sia stato trattato per lo più in connessione con altre materie, e cioè in relazione al problema delle pertinenze (Kohler, Riccobono, Andreoli, Rasi, Diurni e Gelpi) o in relazione all’interpretazione e all’oggetto dei legati (Maschi, Voci, Horvat, Astolfi, John e Watson), o ancora alle cose collettive (Dell’Oro), o a determinati beni ricompresi nell’instrumentum (Lombardi, Polara, Solazzi, Giliberti). Altri autori hanno considerato solo alcuni testi sull’instrumentum nel contesto di opere sui metodi interpretativi della giurisprudenza romana (Himmelschein, Kübler, Coing, Horak, Gandolfi, Watson), o se ne siano occupati nell’ambito di lavori sull’opera di determinati giuristi (Samter, Ferrini, La Pira, De Sarlo, Talamanca e D’Orta). Il contributo di Ligios al tema dell’instrumentum fundi, vuole invece approfondire il rapporto tra l’instrumentum stesso e le attività produttive praticate sul fondo per verificare se e quanto la realtà economica del mondo agricolo romano possa aver influenzato la riflessione giurisprudenziale su questo tema. L’Autrice ricorda che gli unici contributi che denotino attenzione per questi aspetti sono costituiti dalla parte romanistica di un lavoro di Oppikofer sul diritto dell’impresa, dal capitolo sulla schiavitù in agricoltura del libro della Staerman e della Trofimova e da un articolo di Di Porto sull’impresa agricola: si tratta tuttavia di opere, precisa Ligios, che non attengono specificamente all’instrumentum fundi e nelle quali pertanto sono analizzate solo alcune delle fonti giurisprudenziali in materia. Ligios sviluppa nel suo lavoro l’idea che la giurisprudenza romana abbia accolto una nozione imprenditoriale dell’instrumentum fundi.

Sul contributo di Ligios si vedano le osservazioni critiche di ASTOLFI, Riflessioni in tema di «instrumentum fundi», in SDHI, 63 (1997), 521-546 e di CAPOGROSSI COLOGNESI, «Instrumenta» e fisionomia dell’assetto agrario, in Labeo 46 (2000), 102-111.

 

[49] Sul passo esiste un’ampia letteratura: RICCOBONO, Vaticana Fragmenta 70. Instrumentum fundi. Rinnegazione delle pertinenze immobili, in Studi in onore di Biagio Brugi nel XXX anno del suo insegnamento (Palermo 1910), 188 ss.; BONFANTE, Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana, in Scritti giuridici varii (Torino 1918), II, 116, 258 ss.; ARANGIO RUIZ, v. ‘Instrumentum’, in Dizionario epigrafico De Ruggiero, 4, fasc. II, (Roma 1925) 59 ss., afferma che appartiene ad Alfeno in D. 33.7.12.2 (Ulp., 20 ad Sab.) la nozione più antica di instrumentum, ma non motiva in alcun modo la sua affermazione; OPPIKOFER, Das Unternehmensrecht in geschichtlicher, vergleichender und rechtspolitischer Betrachtung (Tübingen 1927), 37; FERRINI, Aulo Cascellio e i suoi responsi, Note critiche lette al R. Istituto Lombardo il 19 maggio 1886, 395-410, ora in Opere, II, 61 ss.; ANDREOLI, Le pertinenze (Padova 1936), 35, 39, 41 ss.; MASCHI, Studi sull’interpretazione dei legati. Verba e voluntas (Milano 1938), 94; STEINWENTER, Fundus cum instrumento. Eine agrar – und rechtsgeschichtliche Studie (Wien-Leipzig 1942), 28, 34, 73 ss., 75 nt. 2; ID., v. ‘Instrumentum’, in PWRE, 9, 2 (1916), 1589; DE VISSCHER, Mancipium et res mancipi, in SDHI, 2 (1936), 205 nt. 31; RASI, Le pertinenze e le cose accessorie (Padova 1954), 27 ss.; GROSSO, Usufrutto e figure affini in diritto romano, II ed. (Torino 1958), 182 ss.; DELL’ ORO, Le cose collettive nel diritto romano, cit., 91, 96; VOCI, Diritto ereditario romano, II ed. (Milano 193), II, 2, 272 nt. 14; ID., recensione a DELL’ ORO, op. cit., in SDHI, 30 (1964), 435; MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 150; BONFANTE, Corso di diritto romano, a cura di CRIFÒ (Milano 1966), II, Proprietà, parte, I, 166 ss.; NICOSIA, Animalia quae collo dorsove domantur, in IURA 18 (1967), 60 ss. ntt. 48-49, 71 nt. 79; HORVAT, «Servi» e «legatum fundi» nella giurisprudenza classica, in Antologia giuridica romanistica e antiquaria (Milano 1968), I, 214 ss.;  ASTOLFI, Studio sull’oggetto dei legati (Padova 1969), II, 10 ss.; JOHN, Die Auslegung des Legats von Sachgesamtheithen in römischen Recht bis Labeo (Karlsruhe 1970); DIURNI, v. 'Pertinenze’ (Storia), in ED, 33 (1981), 536; GILIBERTI, Servus quasi colonus. Forme non tradizionali di organizzazione del lavoro nella società romana (Napoli 1981), 33, 98, 107 ss.; STAERMAN-TROFIMOVA, La schiavitù nell’Italia imperiale, (trad. it.) (Roma 1982), 35; POLARA, Le «venationes». Fenomeno economico e costruzione giuridica (Milano 1983), 214 ss.; GELPI, Instrumentum. Contributo alla teoria delle pertinenze, Studi senesi, 98 (III serie, 35), fasc. I (1986), 50 ss.; MENTXARA, La pignoracion de colectividades en el derecho romano clasico (Bilbao 1986), 70 ss. e nt. 198; BUTI, v. Scorte’ (Storia), in ED, 41 (1989), 792 ss.; LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi», cit., 43 ss.

 

[50] L’enumerazione dei beni indicati da Sabino come facenti parte dell’instrumentum fundi non dovrebbe essere tassativa come dimostrerebbero anche i frammenti riportati in D. 33.7.9 (Paul., 4 ad Sab.): De grege ovium ita distinguendum est, ut si ideo comparatus sit, ut ex eo fructus caperetur, non debeatur: si vero ideo, quia non aliter ex saltu fructus percipi poterit, contra erit; quia per greges fructus ex saltu percipiuntur; e D. 33.7.10 (Ulp., 20 ad Sab.): Si reditus etiam ex melle constat, alvei apesque continentur.

Sulla questione si veda da ultimo quanto sostenuto da LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi», cit., 59 ss.

 

[51] Come sottolinea LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi», cit., 226 ss. e (per la bibliografia) ntt. 234 ss., con l’espressione ‘si villa cultior est’, Ulpiano farebbe riferimento alla c.d. ‘villa d’otium’ o ‘villa di lusso’- rispondente al modello della villa catoniana che combina insieme e armonicamente l’utilitas e la vetustas - e solo per tale ragione ricomprenderebbe nell’instrumentum fundi una serie di beni che altrimenti non ne farebbero parte; sul punto anche CAPOGROSSI COLOGNESI, «Instrumenta», cit., 111, in cui l’Autore scrive: «Giustamente in proposito l’a. parla di un “fondo con villa d’otium” (cap. III, D, 1.b): ed è questa la chiave di lettura che ci aiuta a cogliere la diversa logica che potrebbe avere ispirato i giuristi romani»; ID., Lavoro agricolo e strutture fondiarie , in Terre, proprietari e contadini dell’Impero romano (Roma 1997), 34 ss. Per un’opinione contrastante riguardo alle villae solo d’otium, si vedano invece: CARANDINI, Schiavi in Italia: gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda repubblica e medio impero (Roma 1988), 75 ss.; VERA, Strutture agrarie e strutture patrimoniali nella tarda antichità: l’aristocrazia romana fra agricoltura e commercio, in Opus, 2 (1983), 503 ss.; ID., Dalla ‘villa perfecta’ alla villa di Palladio: sulle trasformazioni del sistema agrario in Italia fra principato e dominato, in Athenaeum, 83 (1995), 203 ss. e 305 ss. (Le opinioni di Carandini e Vera sono ricordate da LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi», cit., 232 nt. 242).

 

[52] L’inerenza dell’actio tributoria alla categoria delle c.d. actiones adiecticiae qualitatis è controversa in dottrina. Per tutti rinviamo a CERAMI, Diritto commerciale romano, cit. 41 e nt. 11 per la letteratura.

 

[53] Con riferimento all’actio exercitoria:

Gai., inst., 4.71: Eadem ratione comparavit duas alias actions, exercitoriam et institoriam… Cum enim ea quoque res ex voluntate patris dominive contrahi videatur, aequissimum esse visum est in solidum actionem dari.

D. 14.1.1 pr. (Ulp., 28 ad ed.): Utilitatem huius edicti patere nemo est qui ignoret. Nam cum interdum ignari, cuius condicionis vel quales, cum magistris propter navigandi necessitatem contrahamus, aequum fuit eum, qui magistrum navi imposuit, teneri, ut tenetur, qui institorem tabernae vel negotio praeposuit, cum sit maior necessitas contrahendi cum magistro quam institore. 

Per l’actio institoria:

Gai., inst., 4.71 appena riportato.

D. 14.3.1 (Ulp., 28 ad ed.): Aequum praetori visum est, sicut commoda sentimus ex actu institorum, ita etiam obligari nos ex contractibus ipsorum et conveniri. sed non idem facit circa eum qui institorem praeposuit, ut experiri possit: sed si quidem servum proprium institorem habuit, potest esse securus adquisitis sibi actionibus: si autem vel alienum servum vel etiam hominem liberum, actione deficietur: ipsum tamen institorem vel dominum eius convenire poterit vel mandati vel negotiorum gestorum. Marcellus autem ait debere dari actionem ei qui institorem praeposuit in eos, qui cum eo contraxerint.

Per l’actio tributoria:

D. 14.4.1pr. (Ulp., 29 ad ed.) Huius quoque edicti non minima utilitas est, ut dominus, qui alioquin in servi contractibus privilegium habet (quippe cum de peculio dumtaxat teneatur, cuius peculii aestimatio deducto quod domino debetur fit), tamen, si scierit servum peculiari merce negotiari, velut extraneus creditor ex hoc edicto in tributum vocatur.

Per le azioni contemplate nel triplex edictum:

D. 14.5.1. (Gai., 9 ad ed. prov.): Omnia proconsul agit, ut qui contraxit cum eo, qui in aliena potestate sit, etiamsi deficient superiores actiones, id est exercitoria institoria tributoriave, nihilo minus tamen in quantum ex bono et aequo res patitur suum consequatur. Sive enim iussu eius, cuius in potestate sit, negotium gestum fuerit, in solidum eo nomine iudicium pollicetur: sive non iussu, sed tamen in rem eius versum fuerit, eatenus introducit actionem, quatenus in rem eius versum fuerit: sive neutrum eorum sit, de peculio constituit.  

Per la sola actio quod iussu:

Gai., inst., 4.71: In primis itaque si iussu patris dominive negotium gestum erit, in solidum praetor actionem in patrem dominumve comparavit; et recte, quia qui ita negotium gerit magis patris dominive quam filii servive fidem sequitur.

D. 15.4.1pr. (Ulp., 29 ad ed.): Merito ex iussu domini in solidum adversus eum iudicium datur, nam quodammodo cum eo contrahitur qui iubet.

Per l’actio de peculio et de in rem verso:

D. 15.3.1pr. (Ulp., 29 ad ed.): Si hi qui in potestate aliena sunt nihil in peculio habent, vel habeant, non in solidum tamen, tenentur qui eos habent in potestate, si in rem eorum quod acceptum est conversum sit, quasi cum ipsis potius contractum videatur.

Sull’importanza e le ragioni dell’intervento pretorio rinviamo in particolare: Gallo, Negotiatio e mutamenti giuridici, cit., 161 ss.; ID., Un nuovo approccio per lo studio del «ius honorarium», in SDHI, 62 (1996), ora in Opuscula selecta (Padova 1996), 988 ss. e 991 ss. (per quanto attiene a   D. 14.3.1); ID., L’officium del pretore nella produzione ed applicazione del diritto. Corso di diritto romano (Torino 1997), 109 ss.; MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 188 ss., in particolare a pagina 190 l’Autrice scrive: «I richiami all’utilitas, alla fides e all’aequitas, sono particolarmente espliciti e determinanti nell’identificazione dei motivi che portarono all’introduzione delle a.a.q., e che ne determinarono struttura e regime». Opinione non dissimile l’Autrice esprime nel recente Studi sulla «rappresentanza», cit., 38.

Sull’argomento si vedano anche PETRUCCI, Diritto commerciale romano, cit., 181 e 284; ID., Per una storia, cit., 11 ss., 56 ss., 79 ss. e 146; NAVARRA, Ricerche sull’utilitas nel pensiero dei giuristi romani (Torino 2002), 148 ss., con indicazione della precedente bibliografia.

 

[54] D. 50.17.133 (Gai., 8 ad ed. prov.).

 

[55] Da ultimo MICELI, Sulla struttura formulare, cit., dimostra che l’obligatio sanzionata da queste azioni sia proprio quella del dominus o pater, o comunque quella del soggetto a vantaggio del quale si producono gli effetti del negozio concluso, e non l’obligatio, del filius o del preposto, né l’obligatio naturalis del servus. Inoltre, proprio dal momento in cui viene creato il concetto di obbligatio naturalis per i servi e i filii assumono la capacità di obbligarsi, più chiaramente di prima si evidenzia il fatto che tramite le azioni adiettizie si fa valere in giudizio non una responsabilità del filius o del servo personale, ma una responsabilità del pater o del dominus: tale circostanza si ripercuote sulla stessa struttura formulare delle a.a.q., poiché sarebbe proprio nell’intentio di tali azioni che doveva essere menzionata, secondo l’Autrice, l’obligatio gravante direttamente in capo a tali ultimi soggetti. Solo in taluni casi, invece, assumeva rilievo la responsabilità del preposto, in quanto talune fonti prevedono espressamente la possibilità di agire contro il magister, qualora sia un soggetto libero: sarebbero queste le uniche ipotesi in cui si realizzerebbe una responsabilità adiettizia. In esse si precisa che la responsabilità del preposto non deriva dagli editti relativi alle actiones institoria e exercitoria, dove non si prevede una convenibilità alternativa tra institor o magister e preponente, bensì dalle normali regole contrattuali. Da qui l’ulteriore conseguenza che la responsabilità del preposto sia stata indebitamente generalizzata, poiché i passi, dove è menzionata, si riferiscono solo all’actio exercitoria e sembrano scaturire dalla soluzione di casi estremamente particolari. L’opinione è ribadita nel più recente Studi sulla «rappresentanza», cit., 35 ss.

 

[56] L’espressione compare in un frammento di Ulpiano estratto dal libro ventotto dei suoi commentari ad edictum e inserito in D. 14.3.11.5. (Si ricordi che Ulpiano in D. 14.3.11.2-5 si occupa del tema dell’eventuale contenuto della praepositio institoria e dei modi di compierne la proscriptio). La necessità di non ingannare i terzi è richiamata - sempre da Ulpiano e a proposito dell’actio exercitoria - con un’espressione della medesima portata che si trova in D. 14.1.1.5 (Ulp., 28 ad ed.):…alioquin contrahentes decipientur… Sull’argomento rinviamo per tutti a  PETRUCCI, Per una storia, cit., 22 ss., 65 ss.

 

[57] Ricordiamo che, secondo l’autorevole opinione del Lenel, la taberna instructa doveva comparire nel testo della formula dell’actio institoria. Vedi supra nt. 22.

 

[58] Rinviamo per le considerazioni sul testo a DI PORTO, Impresa agricola e attività collegate, cit., 3237 ss. e 3238 nt. 12 per la letteratura.

 

[59] RABEL, Ein Ruhmesblatt Papinianus. Die sogenannte actio quasi institoria, in Festschr. Zitelmann (München-Leipzig 1913), 6 (seguìto da LENEL., Edictum3, cit., 263 nt. 2); ALBERTARIO, L’actio quasi institoria (Milano 1912), ora in Studi di diritto romano 4, (Milano 1946), 205 ss.

 

[60] Per tutti BURDESE, Autorizzazione ad alienare in diritto romano (Torino 1950), 31; ID., Actio ad exemplum institoriae e categorie sociali, cit., 197 ss., ANGELINI, Osservazioni, cit., 240 ss.; SERRAO, Institore (Premessa storica), in ED. 21 (1971), 830 ss.; LONGO, Actio exercitoria, cit., 613; CHIUSI, Landwirtschaftliche Tätigkeit und actio institoria, in ZSS. 108 (1991), 155 ss., 179 ss.

 

[61] Paul. Sent. 2.8.2: Si quis pecuniae faenerandae agroque colendo, condendis vendendisque frugibus praepositu est, ex eo nomine quod cum illo contractum est in solidum fundi dominus obligatur: nec interest, servus an liber sit.

 

[62] Così per SOLAZZI, Le azioni del pupillo, cit., 570; BURDESE, Autorizzazione ad alienare, cit., 30, 31 e nt.10 (per la precedente letteratura); ID, ‘Actio ad exemplum institoriae’, cit., 198 ss. e soprattutto 201; LONGO, Actio exercitoria, cit., 613.

 

[63] In tal senso DI PORTO, Impresa agricola e attività collegate, cit., 3247 ss.; SERRAO, Institore, cit., 831 nt. 18. Sulla scia di Serrao – il quale sottolinea che l’attività di pecuniam faenerare e quella di agrum colere considerate in Paul. Sent. 2.8.2 sono considerate dal giurista severiano come oggetto di un’unica praepositio - Di Porto è dell’opinione che nel passo delle Sententiae si faccia riferimento allo stesso fenomeno economico, considerato da Labeone e Ulpiano in D. 14.3.5.2 (Ulp., 28 ad ed.), e cioè al «fascio» (o «gruppo») di attività speculativo-imprenditoriali collegate da un rapporto di tipo giuridico-organizzativo, in quanto tutte costituenti oggetto di un’unica praepositio, per cui non si avrebbe «remora» alcuna a concedere la normale actio institoria.

 

[64] ANGELINI, Osservazioni, cit., 244, 245.

 

[65] Si tratta di un’azione fortemente discussa in dottrina sia in ordine alla sua classicità, sia in relazione ai presupposti che ne determinavano la concessione. Per la vasta letteratura sul tema, vedi supra nt. 16.

 

[66] Si tratta probabilmente delle stesse ragioni che avevano spinto Papiniano ad introdurre l’actio ad exemplum con riferimento all’attività svolte da un procurator praepositus, in D. 14.3.19pr. (Pap., 3 resp.): In eum, qui mutuis accipiendis pecuniis procuratorem praeposuit, utilis ad exemplum institoriae dabitur actio: quod aeque faciendum erit et si procurator solvendo sit, qui stipulanti pecuniam promisit; oppure riguardo all’attività svolta da un procurator che aveva avuto mandato da un terzo ad ‘accipere mutuam pecuniam’ in D. 17.1.10.5 (Ulp., 31 ad ed.): Idem Papinianus libro eodem refert fideiussori condemnato, qui ideo fideiussit, quia dominus procuratori mandaverat ut pecuniam mutuam acciperet, utilem actionem dandam quasi institoriam, quia et hic quasi praeposuisse eum mutuae pecuniae accipiendae videatur; o ancora a quella di un amicus o di un libertus cui era stato conferito un mandato ‘pecuniam mutuam accipiendam’ tramite una lettera in D. 3.5.30pr. (Pap., 2 resp.): Liberto vel amico mandavit pecuniam accipere mutuam: cuius litteras creditor secutus contraxit et fideiussor intervenit: etiamsi pecunia non sit in rem eius versa, tamen dabitur in eum negotiorum gestorum actio creditori vel fideiussori, scilicet ad exemplum institoriae actionis; o infine con riferimento all’ipotesi di un procurator che vende e presta una cautio al compratore, in D. 19.1.13.25 (Ulp., 32 ad ed.): Si procurator vendiderit et caverit emptori, quaeritur, an domino vel adversus dominum actio dari debeat. et papinianus libro tertio responsorum putat cum domino ex empto agi posse utili actione ad exemplum institoriae actionis, si modo rem vendendam mandavit: ergo et per contrarium dicendum est utilem ex empto actionem domino competere.

Sui tre frammenti appena riportati si veda da ultimo MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 333 ss. In particolare l’Autrice scrive (a pagine 336, 337) che: «Non vi sono elementi dai quali dedurre un riconoscimento generale dell’actio ad exemplum institoriae… Infatti, ci sembra di poter affermare e dimostrare che, anche in tarda età classica, la tipicità delle figure del procurator e dell’institor è, mantenuta salda…e che l’estensione della disciplina dell’actio institoria al caso del procurator praepositus (D. 14.3.19pr.) avvenga proprio nell’ottica della coerenza della disciplina dell’actio institoria. L’esigenza tutelata è quella di superare il dato formale, per far prevalere quello sostanziale. In tal senso, ma con maggiore difficoltà, può anche ammettersi che qualche giurista abbia potuto proporre l’applicazione della stessa disciplina ad una situazione del tutto differente, ma che era comunque idonea a determinare l’affidamento dei terzi (mandato conferito ad un procurator o ad un libertus portato a conoscenza dei terzi; cfr. D. 17.1.10.5;                        D. 3.5.31(30)pr.)».

 

[67] Si ricordi l’interesse mostrato dagli scriptores de re rustica a cominciare da Catone per l’importanza attribuita al sistema di comunicazione in cui debba inserirsi il fondo. Si vedano sul punto: Catone, De agri cultura, 1,3, consiglia al pater familias che voglia acquistare un fondo, di preferire quelli che siano vicini ad un centro abitato o al mare o ad un fiume navigabile o ad una via importante. Varrone, De re rustica, 1,16,1 e 1,2,14, dà grande rilievo alla presenza di ‘viae aut fluvi’, grazie a cui si possono intrecciare rapporti commerciali con altri fondi. Columella, Libri rei rusticae, sottolinea l’importanza per l’economia della villa delle vie d’acqua (1,2,3) e di terra (1,3,3-5). Su questi passi rinviamo per tutti a CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà agraria e lavoro subordinato nei giuristi e negli agronomi latini tra Repubblica e Principato, in Società romana e produzione schiavistica, I (Roma-Bari 1981), 446 e 529 nt. 6; CARANDINI, Schiavi in Italia, cit., 52 ss.

E DE MARTINO, L’economia, in AA.VV., «Princeps urbium». Cultura e vita sociale nell’Italia romana, (Milano 1991), 283, nota che «il Mediterraneo era disseminato di porti. In Italia i maggiori erano a Pozzuoli e Brindisi, poi si aggiunse Ostia all’inizio dell’impero. Pozzuoli con un grandioso molo, perdette il suo primato, ma rimase importante.

Recenti ricerche e nuovi documenti, come le tavole dette di Murecine, hanno dimostrato che in esso vi era un intenso commercio di grano e di schiavi.

Nei porti maggiori si installavano gli uffici dei negoziatori, secondo la nazionalità. La loro presenza, largamente attestata dalle iscrizioni, ci permette di avere un’idea sulla storia dei maggiori centri del traffico marittimo e delle rotte.

I trasporti per mare non si limitarono al Mediterraneo. Si spinsero nell’Atlantico verso il nord e per il mar Rosso verso l’estremo Oriente. La scoperta dei monsoni rese possibile una rotta diretta, oltre il mare d’Arabia, verso l’India.

Dall’Oriente si importavano a Roma generi di lusso, con una bilancia commerciale sicuramente passiva. Anche con la Cina si poté stabilire un traffico marittimo per il commercio della seta; le fonti cinesi danno suggestivi particolari, ma quelle romane sono mute al riguardo…».

DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 169: «È perfin superfluo ricordare l‘importanza economica assunta dal fenomeno del trasporto marittimo negli ultimi due secoli della repubblica e nei primi due dell’impero. Non v’è dubbio che si trattasse di una delle principali fonti di ricchezza».

 

[68] Esse sono state poste in evidenza da DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 201 nt. 73 e da PETRUCCI, Per una storia, cit., 57.

 

[69] Viene generalmente riconosciuta dalla dottrina l’interpolazione delle frasi «culpae-adhibuit» e «nam-adhibuerit».

Si vedano a tal proposito MESSINA VITRANO, Note intorno alle azioni «infactum» di danno e di furto contro il «nauta», «il caupo», «lo stabularius», (Palermo 1909), 25 ss. Per la critica precedente e successiva cfr. gli Autori citati dall’Index Interpolationum (Eisele, Buckland, Schulz). Da ultimo si veda anche FERCIA, Criteri di responsabilità dell’exercitor. Modelli culturali dell'attribuzione di rischio e ‘regime’ della nossalità nelle azioni penali ‘in factum adversus nautas, caupones et stabularios’ (Torino 2002). Tuttavia, come sottolinea PETRUCCI, Diritto commerciale romano, cit., 232 nt. 7: «Le interpolazioni presenti in esso … non attengono l’aspetto qui preso in esame».

 

[70] Sul punto rinviamo a SERRAO, Impresa e responsabilità, cit., 103 ss.

 

[71] Il frammento è considerato da MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 194 ss. unitamente ad altri brani (Ulpianus 28 ad ed. in D. 14.1.1.9 e D. 14.1.7pr.; Africanus 8 quaest. in D. 14.1.7.2) come una delle testimonianze più preziose che dimostrano come il contenuto della praepositio non sia compiutamente definibile a priori, e non dipende esclusivamente dalla volontà del preponente, ma, al pari della responsabilità che grava su quest’ultimo soggetto, si determina prevalentemente su un piano oggettivo. La praepositio, infatti, costituisce, secondo l’Autrice solo l’atto di legittimazione iniziale del preposto nei confronti dei terzi, ed individua solo genericamente l’attività che è chiamato a svolgere. Le considerazioni fatte varrebbero, secondo l’Autrice, a superare i dubbi sull’autenticità delle soluzioni giuridiche adottate in D. 14.1.1.8-9 avanzati da una parte della dottrina: DE MARTINO, Studi sull’actio exercitoria, in Rivista del diritto della navigazione, VII, 1-2, 1941, 7 ss., ora in Diritto, Economia e società nel mondo romano, I (Napoli 1995), 495 ss. (da cui si cita); ID., Ancora sull'actio exercitoria, in Labeo 4 (1958) 274 ss., ora in Diritto, Economia e società nel mondo romano, I (Napoli 1995), 631 ss. (da cui si cita); PUGLIESE, In tema di actio exercitoria, cit., 308 ss.

In particolare, per il tema del mutuo ‘navis reficiendae causa’, rinviamo a CERAMI, “Mutua pecunia a magistro ‘navis reficiendae causa' sumpta” e “praepositio exercitoris”. Profili storico-comparatistici, in AUPA 46 (2000), 131 ss.

 

[72] Il problema dei rapporti tra normativa originaria (lex Rhodia) ed elaborazione dovuta ai giuristi romani è stato ampiamente discusso in dottrina. Oltre al classico studio di DE MARTINO, Lex Rhodia. Note di Diritto Romano Marittimo riprodotto in Diritto economia e società nel mondo romano I. Diritto privato, Antiqua 72 (Napoli 1995), 285, in tempi più recenti, ZIMMERMANN, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, (South Africa-Deventer-Boston 1990); CARDILLI, L’obbligazione di «praestare» e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. a.C. – II sec. d.C.), (Milano 1995), 268 nt. 98 con ulteriori citazioni bibliografiche.

 

[73] Abbiamo tralasciato ogni riferimento al rapporto intercorrente tra taberna instructa e peculium da un lato e merx peculiaris dall’altro, volendo dedicare alla trattazione di tali argomenti una ricerca autonoma.