N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università
di Palermo
Brevi riflessioni su D.
50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.).
Profili
terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa e locuzioni
sostanzialmente equivalenti
nella riflessione giurisprudenziale romana tra il I sec. a.C. e il III d.C.
SOMMARIO: 1. Premessa e obiettivi
dell’indagine. – 2. La menzione di taberna instructa nelle fonti: Cicero, pro Cluentio, 63.178; D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad ed.) e D.
50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.). – 3. Profili terminologico-concettuali della definizione
ulpianea di taberna instructa.
– 4. Espressioni
“equivalenti” a taberna
instructa: l’«instrumentum
negotiationis». –
4a. L’instrumentum fundi. – 4b. Le
espressioni: ‘armare vel instruere
navem’ (D. 14.1.1.8), ‘instruere
navem’ (D. 4.9.7.4; D. 14.2.6; D. 42.5.26), ‘adhibere qualesquales (nautas) ad instruendam navem’ (D.
4.9.7.4). – 5. Brevi considerazioni
conclusive.
La
presente indagine trae spunto da un noto frammento attribuito dai compilatori a
Ulpiano e inserito per la sua valenza definitoria nel titolo ‘De verborum significatione’
dei Digesta:
D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.): ‘Instructam’ autem
tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis
constat.
Il
breve testo offre molteplici spunti di riflessione, alcuni dei quali colti e
sviluppati dalla dottrina, altri invece non debitamente considerati.
In
particolare, il recente dibattito dottrinale relativo alla taberna instructa, arricchitosi di contributi attenti ai profili
economici e «imprenditoriali[1]»
ad essa sottesi, ne ha indicato le differenze, di natura soprattutto
qualitativa, con l’espressione taberna
cum instrumento[2],
tracciandone le linee di sviluppo essenziali nella riflessione
giurisprudenziale romana, che trova nel pensiero di Ulpiano[3]
la puntualizzazione più matura.
Alcuni
Autori, inoltre, ne hanno sottolineato la notevole affinità - insieme
alla locuzione «instrumentum
negotiationis[4]»
- con la nozione di azienda enunciata
nel codice civile italiano all’art. 2555[5],
dedicando qualche riferimento, seppur breve, al problema, che con terminologia
moderna diremmo, di inquadramento giuridico[6]
della taberna instructa.
È
un argomento, quest’ultimo che per la complessità e le rilevanti
implicazioni anche di ordine metodologico, necessiterebbe una specifica
trattazione, la quale non è possibile né opportuna in questa
sede.
La
nostra intenzione, dunque, è quella di concentrare l’attuale
indagine su due aspetti, tra loro strettamente connessi.
Da un
lato, vogliamo svolgere alcune osservazioni sui profili
terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa, i quali riteniamo potranno esserci utili per
riflettere su un secondo aspetto - solo accennato in alcuni contributi della
dottrina – e cioè che la taberna
instructa non sia la sola espressione nelle fonti ad indicare un complesso
di ‘res et homines ad negotiationem
parati’.
Siamo
convinti, infatti, che ne ricorrano altre che siano “sostanzialmente
equivalenti” alla nozione di taberna
instructa, tramandataci in D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.).
In
particolare, questo secondo punto impone subito alcune precisazioni, necessarie
a evitare i facili fraintendimenti che un simile accostamento potrebbe
ingenerare.
Per
“espressioni equivalenti” a taberna
instructa, infatti, vogliamo indicare le più rilevanti locuzioni
ricorrenti nelle fonti che, a nostro sommesso avviso, rinviano a una
“realtà fenomenica equivalente”, da un punto di vista
sostanziale, a quella richiamata dalla nozione tramandataci in D. 50.16.185,
condividendo con essa un nucleo minimo, costituito dall’organizzazione di
res et homines predisposta per
l’esercizio di una negotiatio[7].
L’indagine,
tuttavia, non potrà prescindere dalla considerazione del significato,
della portata e delle implicazioni che ciascuna locuzione assume nello
specifico contesto in cui è inserita.
Delineate
le direttive fondamentali della ricerca è, ora, il caso di iniziare la
trattazione muovendo da un dato che emerge dalle fonti a noi pervenute, e
cioè che la locuzione taberna
instructa è riportata in esse solamente tre volte.
In
ordine cronologico, la prima citazione è contenuta nel seguente passo
della pro Cluentio di Cicerone:
Cic., pro Cluent. 6.178: Redditur Oppianico Nicostratus, Larinum
ipsa proficiscitur cum suis maerens, quod iam certe incolumen filium fore
putabat, ad quem non modo verum crimen, sed ne ficta quidem suspicio perveniret
et cui non modo aperta inimicorum oppugnatio, sed ne occultae quidem matris
insidiae nocere potuissent. Larinum postquam venit, quae a Stratone illo venenum antea viro
suo datum sibi persuasum esse simulasset, instructam
ei continuo et ornatam Larini medicinae exercendae causa tabernam dedit.
Sul
finire dell’età repubblicana, a poco più di un secolo
dall’emanazione dell’editto de
institoria actione[8],
la menzione di una ‘taberna instructa (et ornata) medicinae exercendae causa’ costituisce un aspetto di non
poca rilevanza poiché, come
afferma Ligios[9],
questo dato «rafforza la supposizione che anche altri giuristi oltre a
Ulpiano si siano occupati della nozione di ‘taberna
instructa’, benché gli indizi che consentono di seguire questa
tesi siano, se così si può dire, soltanto indiretti».
Va
precisato, tuttavia, che Cicerone nel brano appena riportato sembra riferirsi
ad un locale attrezzato per l’esercizio professionale
dell’attività medica e non precisamente ad un complesso di beni e
di uomini organizzato per lo svolgimento di una negotiatio.
Gli
altri due riferimenti espliciti alla taberna
instucta sono contenuti in due brani, entrambi appartenenti al ventottesimo
libro dei commentari ad edictum di
Ulpiano.
Il
primo testo è il seguente:
D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad
ed.): Sed et cum fullo peregre proficiscens rogasset, ut discipulis suis,
quibus tabernam instructam tradiderat, imperaret, post cuius profectionem
vestimenta discipulus accepisset et fugisset, fullonem non teneri, si quasi
procurator fuit relictus: sin vero quasi institor, teneri eum. Plane si
adfirmaverit mihi recte me credere operariis suis, non institoria, sed ex
locato tenebitur[10].
Il
frammento riguarda il caso in cui un tintore (fullo)[11],
partendo per un viaggio abbia lasciato uno dei suoi apprendisti[12],
ai quali aveva affidato la taberna
instructa (‘quibus tabernam
instructam tradiderat’), a capo degli altri discipuli. Costui, dopo la partenza del fullo, fugge con le vesti
che gli erano state consegnate: il fullo,
si afferma nel responso, sarà responsabile nei confronti dei clienti
derubati soltanto se colui che aveva posto a guida dei discipuli rivestiva la qualifica di ‘institor’, mentre, se costui era un ‘procurator’, il fullo non sarebbe stato responsabile[13].
La
responsabilità del fullo era
in ogni caso indiscussa se egli avesse concluso il contratto avente ad oggetto
il lavaggio delle vesti e avesse rassicurato il cliente circa
l’affidabilità dei suoi operai: in questo caso poteva essere
convenuto in giudizio con l’actio
ex locato e non con l’actio
institoria.
Il
testo, come sottolinea Miceli[14],
«costituisce uno dei luoghi del Digesto più tormentati dalla
dottrina romanistica» e presenta molteplici spunti di riflessione, ora
sul tema dei rapporti tra le figure di institor
e procurator[15],
ora sulla classicità e i
limiti di applicazione dell’actio
ad exemplum institoriae (o quasi
institoria)[16].
L’aspetto che per noi risulta maggiormente interessante, riguarda il tema
della presunta paternità labeoniana del brano, la quale, se dimostrata,
costituirebbe ulteriore prova della risalenza alla giurisprudenza del primo
sec. d. C. della riflessione sulla nozione di taberna instructa.
Il
secondo dei due frammenti ulpianei che menziona la taberna instructa, è quello inserito dai compilatori, come
già detto, per la sua valenza definitoria nel titolo ‘De verborum significatione’
dei Digesta:
D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.): ‘Instructam’
autem tabernam sic accipiemus, quae
et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat.
Dei
tre brani che contengono la locuzione
taberna instructa, quello appena citato è di certo il più
rilevante ai fini della ricostruzione della nozione in esame. È la sola
definizione[17]
a noi pervenuta[18]
e quasi certamente è il risultato di un lungo percorso di elaborazione
giurisprudenziale del quale in questa sede non è possibile né
opportuno ricostruire le singole tappe[19].
Ulpiano
fornisce la sua definizione nel quadro della trattazione dell’actio institoria, alla quale sarebbe
dedicata, secondo la ricostruzione del Lenel[20],
l’ultima parte del ventottesimo libro dei commentari ad edictum.
Il
giurista severiano avverte che per aversi propriamente una taberna instructa, è necessario in primo luogo un complesso
di res et homines[21] (‘quae
et rebus et hominibus…constat’).
In
secondo luogo sottolinea la rilevanza dell’attività di
predisposizione di quei beni, consistente nell’instructio, e cioè in quel “momento statico”,
preliminare e preparatorio rispetto all’exercitio negotiationis,
indicato nel brano attraverso il ricorso a una voce del verbo paro (‘paratis’).
Infine
il terzo elemento è rappresentato dal particolare scopo per cui quel
complesso viene organizzato e cioè per lo svolgimento di una negotiatio (‘ad negotiationem’)
Si
tratta di un dato particolarmente importante, poiché è proprio
nella destinazione che l’organizzazione di res et homines trova la propria connotazione e forse, ma
l’argomento meriterebbe di essere approfondito, il proprio elemento
unificante.
Le
precisazioni appena svolte ci permetteranno di verificare la presenza nelle
fonti di espressioni equivalenti a taberna
instructa, espressioni cioè che al pari di quella rimandano alla
stessa realtà fenomenica, indicando un’organizzazione di cose e
uomini predisposta per lo svolgimento di una negotiatio.
A
questo punto è nostra intenzione svolgere alcune osservazioni sui
profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa, dai quali riteniamo
di poter desumere suggerimenti utili alla prosecuzione della nostra ricerca.
La
definizione fornita da Ulpiano mostra innanzitutto una certa «elasticità»[22].
Per
cogliere questo profilo occorre fare alcune premesse.
Si
tenga presente, come già detto, che Ulpiano definisce la taberna instructa in sede di commento
all’editto de institoria actione e,
in particolare, secondo la ricostruzione fatta da Lenel, nell’ultima
parte del libro XXVIII ad edictum,
dedicata alla trattazione dell’actio
institoria.
La
definizione in esame, sempre secondo l’autorevole ricostruzione del
Lenel, segue quella relativa al termine taberna[23],
che leggiamo in D. 50.16.183 (Ulp., 28 ad
ed.):
Tabernae appellatio declarat omne utile ad habitandum aedificium,
non ex eo quod tabulis cluditur.
Emerge
subito la diversità di prospettiva considerata dal giurista severiano.
Il termine taberna, la cui etimologia
deriverebbe, secondo alcuni autori antichi[24]
da ‘trabs’, secondo altri[25]
da ‘tabula’, indicava
– come emerge anche dal brano di Ulpiano – un luogo destinato ad
abitazione e per di più un’abitazione per poveri[26],
un ‘vile quoddam et subitarium
aedificium’[27].
In
alcuni frammenti, invece, taberna
indica la sede per l’esercizio di una negotiatio[28].
Assolutamente
diverso, invece, è il profilo tecnico-giuridico che la locuzione taberna instructa assume nel contesto
della formula edittale.
Con
essa Ulpiano indica un’organizzazione di res e di homines
destinata all’esercizio di una negotiatio.
Una
simile definizione, lo ribadiamo, sembra essere il risultato di un lungo
percorso di elaborazione giurisprudenziale[29]
– come attesta l’espressione ‘sic
accipiemus’ – sul quale ci siamo solo brevemente soffermati,
trattandosi di un argomento che meriterebbe un’autonoma e più
ampia trattazione.
Ci
preme invece rilevare che la definizione ulpianea di taberna instructa, così come formulata, risulta
perfettamente speculare rispetto al significato ormai assunto, in età
classica avanzata, dal binomio institor-negotiatio.
E,
infatti, come è stato chiaramente messo in luce da numerosi contributi
della dottrina che si sono occupati della questione, dall’originaria
accezione di institor come preposto a
una taberna in cui si svolge una negotiatio - consistente nell’emptio-venditio di merces - si registra, a
partire soprattutto dall’ultima età repubblicana, una notevole
estensione grazie al lavorìo della giurisprudenza[30].
Il risultato finale di tale estensione coincide con l’idea che l’institor sia il soggetto preposto a
qualsivoglia negotiatio[31],
esercitata in una sede diversa dalla taberna[32],
o addirittura senza sede alcuna.
E,
infatti, le negotiationes fondate
sulla praepositio institoria erano
esercitate non solo nelle tabernae,
ma anche in edifici diversi come le insulae[33],
gli horrea[34],
le officinae[35], oppure si praticavano all’aperto[36].
La
definizione di taberna instructa,
tramandataci in D. 50.16.185 è tale da poter essere riferita
perfettamente a qualunque tipologia di negotiatio
il cui esercizio rientrava, per i profili di responsabilità, nel campo
di applicazione dell’actio
institoria[37].
Consiste
proprio in questo l’«elasticità» della definizione che
stiamo esaminando, in quella sua formulazione perfettamente speculare al
significato del binomio institor-negotiatio,
affermatosi in piena età classica.
Non
intendiamo con ciò sostenere che la nozione di taberna instructa rappresentasse per i giuristi romani un modello
riferibile a ogni contesto, oltre i limiti dell’ambito di applicazione
dell’actio institoria, oltre i
limiti cioè che naturalmente le erano imposti all’interno di un
sistema giuridico di tipo casistico-giurisprudenziale, legato ad una struttura
formulare tipizzata.
In
effetti, la riflessione della giurisprudenza romana intorno alla taberna instructa è legata
all’esigenza di indagare quando una taberna
fosse tale, poiché soltanto a partire da quel momento il preposto
sarebbe diventato un institor e il
preponente responsabile per l’attività da quest’ultimo
realizzata con i terzi contraenti-clienti nei limiti della praepositio.
Detto
questo, a noi sembra che dall’esame di D. 50.16.185 si possa evincere un
altro importante profilo della definizione ulpianea di taberna instructa e cioè la sua notevole
«ampiezza».
In
essa, infatti, non si fa menzione né dell’instrumentum, né della merx,
né di altri elementi specifici, ma solo genericamente di ‘res et homines’ senza
precisazioni ulteriori.
Tale
formulazione ampia risulta legata quasi in chiave strumentale rispetto
all’«elasticità» di cui si è discusso,
perché rende adattabile la definizione in esame alle varie tipologie di negotiationes che trovano nella praepositio institoria la propria base giuridica.
Certamente
diversa è la questione delle difficoltà interpretative che una
simile formulazione implica, nel momento in cui si voglia precisarne il
contenuto e specificare a cosa si riferisse concretamente Ulpiano con i termini
res e homines.
Intendiamo
a questo punto concentrare la nostra attenzione sulle locuzioni
“equivalenti” alla nozione di taberna
instructa.
Come
recenti studi in dottrina[38]
hanno dimostrato, la locuzione taberna
instructa non sarebbe la sola nelle fonti con cui si fa riferimento
all’organizzazione di ‘res et
homines ad negotiationem parati’.
Noi
vogliamo prendere spunto proprio da quelle indagini per svolgere ulteriori
considerazioni e rimarcare taluni aspetti che ci sembrano degni di particolare
rilievo.
Concentriamo
dunque la nostra attenzione proprio sulla locuzione «instrumentum negotiationis»
e sul frammento dal quale tale locuzione è stata ricavata dalla
dottrina.
Si
tratta del seguente brano dei commentari
ad Sabinum di Paolo:
D. 33.7.13 pr. (Paul., 4 ad
Sab.): Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri
Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et
instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta
sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici,
item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum
negotiationis nomen sit, etiam institores.
Partendo da un responso di Nerazio[39],
secondo il quale anche gli institores
(‘etiam institores’) fanno
parte del legato dell’instrumentum
tabernae cauponiae, Paolo precisa[40]
che per affrontare la questione bisogna preliminarmente verificare se non vi
sia differenza tra l’instrumentum di
una taberna cauponia e l’instrumentum di una caupona[41].
Per Paolo, infatti, la differenza esiste ed è rilevante,
perché da un lato con l’espressione instrumentum tabernae cauponiae si indicherà, precisa il
giurista severiano, l’instrumentum
del locale dell’albergo; dall’altro con instrumentum cauponae, l’instrumentum
impiegato per lo svolgimento di una
negotiatio (nel nostro caso per l’esercizio di una caupona).
Come
si può ben notare, l’espressione «instrumentum negotiationis»
non compare esplicitamente nel passo, ma la si ricava da questo, poiché
Paolo menzionando l’instrumentum
cauponae, vuole indicare con ‘caupona’
una specifica negotiatio (‘cum negotiationem nomen sit’).
L’«instrumentum negotiationis» non trova collocazione all’interno della
classica distinzione[42]
tra instrumentum personae e instrumentum rei. Lo aveva ben intuito
Dell’Oro[43]
affermando: «si è affacciata addirittura nelle fonti la
possibilità, come nel caso dell’instrumentum cauponae, che l’instrumentum non abbia alcun addentellato né con un soggetto
né con un oggetto e che quindi sia riferito ad una destinazione del
tutto autonoma».
La
destinazione in questione è la stessa che abbiamo rilevato a proposito
della definizione di taberna instructa,
dove è indicata con la proposizione finale ‘ad negotiationem’.
La
considerazione per lo svolgimento di una negotiatio
non assume certo un valore secondario e si riflette addirittura sulla
determinazione dell’oggetto stesso del legato.
Risulta
chiaro dal passo appena esaminato che Paolo con il termine ‘instrumentum’ seguito dal nome identificativo di una
specifica ‘negotiatio’
indichi proprio l’insieme di res e
di homines ‘ad negotiationem
parati’.
Riteniamo
tuttavia che l’espressione instrumentum
cauponae usata da Paolo non sia la
sola che possa essere intesa come «instrumentum
negotiationis».
Un
valore equivalente assumono, a nostro avviso, le locuzioni ‘instrumentum tabernae
cauponae’ e ‘instrumentum
tabernae’ utilizzate da Nerazio rispettivamente nei brani riportati
in D. 33.7.13pr. e in D. 33.7.23.
Nel
primo caso, come ci riferisce Paolo, Nerazio afferma che nel legato di instrumentum tabernae cauponiae sono
ricompresi anche gli institores (‘etiam institores’), termine
il cui significato edittale-giurisprudenziale era certamente noto a Nerazio.
L’espressione ‘instrumentum tabernae’ compare
invece nel seguente brano del libro secondo dei Responsa di Nerazio:
D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.):
Cum quaeratur, quod sit tabernae instrumentum, interesse, quod genus
negotiationis in ea exerceri solitum sit.[44]
Il
giurista afferma che se si vuol conoscere quale sia l’instrumentum di una taberna occorre considerare quale ‘genus negotiationis’[45] vi si svolga e cioè, in senso
economico-giuridico, quale settore di attività sia esercitato e
organizzato dal negotiator[46].
E
proprio il rinvio al genus negotiationis
dimostra che il quesito verteva sulla determinazione non di un semplice «instrumentum loci», bensì di un vero e proprio «instrumentum negotiationis».
Nella
prospettiva dell’instrumentum
tabernae, considerata da Nerazio, la negotiatio
rappresenta il quid pluris -
cioè uno degli elementi che connotano la definizione riportata in D.
50.16.185 - sul cui significato nel linguaggio dei giuristi romani la dottrina
si è più volte espressa[47].
Alla
luce di queste considerazioni, possiamo ora meglio comprendere il senso in cui
intendiamo l’equivalenza tra le locuzioni taberna instructa e «instrumentum negotiationis».
Infatti,
nonostante in D. 33.7.13pr. Paolo si occupi dell’instrumentum cauponae con riferimento alla materia dei legati,
tuttavia, nel precisare l’opinione di Nerazio, il giurista severiano
sottolinea la circostanza che l’instrumentum
legato dal testatore servisse o meno per lo svolgimento di
un’attività qualificabile in termini di negotiatio. E la circostanza non è di poco rilievo,
poiché influisce proprio sulla determinazione dell’oggetto del
legato.
A un
«instrumentum negotiationis» pare riferirsi,
come già abbiamo accennato, anche Nerazio con le locuzioni instrumentum tabernae – in D.
33.7.23 (Ner., 2 resp.) e
instrumentum tabernae cauponiae – in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.).
Nel
primo caso per il rinvio effettuato dal giurista al genus negotiationis, nel
secondo, invece, per aver ricompreso nel relativo legato anche gli institori (‘etiam institores’).
Dunque,
sulla base di quanto abbiamo detto, ci sembra di poter affermare che anche se i
due giuristi romani si occupano degli exempla
appena visti di «instrumentum
negotiationis» in un contesto differente rispetto a quello relativo
alla trattazione della taberna instructa,
tuttavia, nel trattarne dimostrano di tenere in considerazione un dato
“equivalente” a quello che risulta dalla definizione ulpianea di taberna instructa e cioè, come detto, un complesso di res et homines ad negotiationem parati.
A
questo punto è nostra intenzione verificare la presenza nelle fonti di
ulteriori exempla di «instrumentum negotiationis», oltre
all’instrumentum tabernae,
(nonché all’instrumentum
tabernae cauponiae di D. 33.7.13pr.) cui fa riferimento Nerazio in D.
33.7.23, e all’instrumentum
cauponae, citato da Paolo nel brano riportato in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.).
In
particolare vogliamo occuparci, ma solamente per gli aspetti connessi alla
presente indagine, dell’instrumentum
fundi[48].
Di
quest’ultimo la giurisprudenza romana si occupa prevalentemente in materia
di legati. E proprio ai legati aventi ad oggetto l’instrumentum (o l’instructus),
i compilatori hanno dedicato un autonomo titolo settimo “De instructo vel instrumento legato” del libro
trentatré dei Digesta.
Al suo
interno è riportata una lunga serie di frammenti concernente le dispute
dei giuristi in merito all’inclusione nel legato d’instrumentum fundi di questo o quel
bene, di questo o quel soggetto.
Più
che su quelle controversie, però, in questa sede vogliamo soffermarci
specificamente su un dato che ci sembra degno di rilievo: a partire
dall’epoca di Sabino, la giurisprudenza romana ricomprende nel legato
dell’instrumentum fundi sia res che homines.
Il
dato risulta già nella più antica definizione dell’instrumentum fundi a noi conosciuta,
formulata da Sabino nei suoi libri ad
Vitellium e riportata da Ulpiano in un passo dei commentari ad Sabinum.
Il
testo[49]
è il seguente:
D. 33.7.8 pr.-1 (Ulp., 20 ad
Sab.): In instrumento fundi ea esse, quae fructus quaerendi, cogendi,
conservandi gratia parata sunt, Sabinus libris ad Vitellium evidenter enumerat.
Quaerendi, veluti homines, qui agrum colunt, et qui eos exercent, praepositive
sunt his; quorum in numero sunt vilici, et monitores: praeterea boves domiti,
et pecora stercorandi causa parata, vasaque utilia culturae; quae sunt aratra,
ligones, sarculi, falces putatoriae, bidentes, et si qua similia dici possunt.
Cogendi, quemadmodum torcularia, corbes, falcesque messoriae, falces foenariae,
quali vindemiatorii, exceptoriique, in quibus uvae comportantur. Conservandi,
quasi dolia, licet defossa non sint, ut cuppae.
Quibusdam in regionibus accedunt instrumento, si villa cultior
est, veluti atrienses, scoparii: si etiam virdiaria sint, topiarii: si fundus
saltus pastionesque habet, greges pecorum, pastores, saltuarii.
Si
può ben notare come oltre alla menzione delle res[50] più comunemente utilizzate in
ciascuna delle tre fasi del ciclo produttivo agricolo, nel brano sono indicati
anche una serie di homines, fra
questi gli operai agricoli (‘homines
qui agrum colunt’), e coloro che ad essi sono preposti (‘qui eos exercent praepositive sunt
is’) e cioè i ‘vilici’,
figure di vertice dell’organizzazione del fondo e i ‘monitores’, che seguivano da vicino le squadre di
schiavi addetti alla coltivazione.
Nella
parte finale del frammento, Ulpiano precisa che in certe regioni, se la villa è più appariscente[51]
gli ‘atrienses’ (guardaporte),
se vi sono giardini i
‘topiarii’ (giardinieri) e se il fondo comprende greggi e
boschi, ci saranno allora anche i
‘pastores’ (pastori), i
‘saltuarii’ (guardaboschi), etc.
Il
riferimento a res et homines,
costituisce solamente uno degli elementi utili per comprendere se con
l’espressione instrumentum fundi
i giuristi romani abbiamo fatto riferimento a uno specifico «instrumentum negotiationis»
e quindi ad un complesso sostanzialmente “equivalente” alla taberna instructa.
La
questione appare subito complicata, poiché l’indicazione di tali
elementi non è certamente, da sola, sufficiente a dimostrare che
l’instrumentum fundi sia una
specie di «instrumentum
negotiationis».
E non
basta nemmeno il riferimento all’organizzazione, pur presente nel brano.
Esso si evince dal ‘parata
sunt’, riferito a tutti i componenti (‘ea’) indicati dal giurista, ma non sembra avere lo
stesso valore dell’organizzazione indicata da Ulpiano ricorrendo ad una
voce - ‘paratis’ - dello
stesso verbo paro, usato per definire
la taberna instructa.
In D.
33.7.8pr., infatti, è diverso lo scopo di tale predisposizione, il quale
è costituito dalle attività di coltivazione (‘quaerendi’), di raccolta (‘cogendi’) e
di conservazione (‘conservandi’):
manca il riferimento allo svolgimento di una negotiatio (o alla presenza di un institor).
Proseguendo
nella lettura del titolo “De
instructo vel instrumento legato” si nota che il termine negotiatio, ricorre solamente due volte,
la prima a proposito dell’instrumentum
cauponae e la seconda dell’instrumentum
tabernae rispettivamente in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.) e in D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.), brani sui quali ci siamo già soffermati e dai quali
si è visto emergere altrettanti esempi di «instrumenta negotiationum»: nessuno che riguardi l’instrumentum fundi però.
A
questo punto ci chiediamo se l’assenza del binomio institor-negotiatio - nei numerosi frammenti relativi all’instrumentum fundi – valga ad
escludere sempre per ognuno di essi, l’equivalenza sostanziale della
locuzione in esame con la taberna
instructa e dunque la sua configurabilità come specifico esempio
«instrumentum negotiationis».
Non
ripetiamo - ma rinviamo a quanto già detto sopra - il discorso circa i
limiti, il senso della nostra operazione d’individuazione di espressioni
“equivalenti” a taberna
instructa, e la necessità che essa sia condotta nel pieno rispetto
delle loro differenze e delle loro diverse implicazioni.
Intendiamo,
per verificare quell’equivalenza, svolgere a questo punto alcune
osservazioni sulla ragione dell’assenza nei frammenti relativi all’instrumentum fundi di un’espressa
menzione del binomio institor-negotiatio.
Notiamo
subito come quell’assenza non dipenda dal fatto che la materia trattata
riguardi i legati. Lo dimostrano chiaramente i due frammenti relativi
all’instrumentum tabernae (Ner.,
2 resp., in D. 33.7.23) e all’instrumentum cauponae (Paul., 4 ad
Sab., in D. 33.7.13pr.), poiché entrambi, nonostante riguardino
proprio la materia dei legati, contengono il riferimento al termine negotiatio e almeno D. 33.7.13pr. anche all’institor.
La
ragione è da ricercare altrove. Il binomio citato, infatti, assume nella
riflessione della giurisprudenza un significato tecnico-giuridico che, seppur
oggetto di una progressiva estensione, risulta ben circoscritto ed è
legato all’ambito di applicazione dell’actio institoria.
In
particolare il lessema institor
ricorre nell’editto de institoria
actione, mentre negotiari, da cui
discendono negotiatio e negotiator, nell’editto de tributoria actione[52].
Si
tratta di due degli editti pretori che introdussero nel mondo romano quei
rimedi processuali poi indicati con l’espressione actiones adiecticiae qualitatis.
Chiare
apparivano ai giuristi romani[53]
le esigenze di tutela sottese alla loro introduzione, visti i loro frequenti
richiami alla fides, all’utilitas e soprattutto all’aequitas.
Era
stata, infatti, avvertita dal pretore la contrarietà all’aequitas dell’antica regola del ius civile, secondo la quale il pater familias o dominus acquistavano automaticamente tutti i diritti nascenti dai
negozi conclusi dai loro sottoposti, senza che l’attività di
questi ultimi li obbligasse: melior
condicio nostra per servos potest, deterior fieri non potest[54].
Limitando
il nostro discorso all’editto de
institoria actione, che ci interessa più da vicino, sembrò
quindi equo ristabilire un certo equilibrio tra vantaggi (commoda) e obbligazioni (obligari)
e concedere ai contraenti nei confronti del preponente l’actio institoria per far valere una
responsabilità[55]
che aveva una doppia connotazione: soggettiva (per il legame potestativo tra pater e filius, dominus e servo),
ma anche oggettiva poiché era legata all’attività svolta e
alle modalità di svolgimento della stessa.
L’esigenza
di tutela dei terzi sottesa alla creazione delle a.a.q. e, per quella che per il momento ci interessa più da
vicino, cioè l’actio
institoria, si riproponeva ovviamente nelle situazioni in cui si verificava
un “contatto” tra questi ultimi e l’institor, poiché era proprio nel concreto svolgimento della negotiatio che poteva essere leso
l’affidamento dei contraenti (‘neque
enim decipi debent contrahentes’[56]).
Lo
svolgimento della sola attività di produzione agricola non rientrava
certo nel campo di applicazione dell’actio
institoria e nonostante la sua estensione dovuta al costante lavorìo
effettuato dalla giurisprudenza sui verba
di questo editto - soprattutto institor, (ma anche negotiatio), taberna instructa[57]
- essi non ricorrono a proposito dell’attività agricola e di
conseguenza non compaiono nei frammenti relativi all’instrumentum fundi.
Tuttavia,
in un noto brano di Paolo estratto dal libro ventinove dei commentari ad edictum,
il giurista severiano considerando l’ipotesi in cui un vilicus svolga anche attività di
commercializzazione dei frutti del fondo, sostiene che non sarà iniquo (‘non erit iniquum’)
concedere, a chi abbia contrattato con quest’ultimo, nei confronti del dominus, un rimedio processuale modellato
proprio sull’actio institoria e
cioè un’actio ad exemplum
institoriae actionis:
D. 14.3.16 (Paul., 29 ad
ed.): Si cum vilico alicuius
contractum sit, non datur in dominum actio, quia vilicus propter fructus
percipiendos, non propter quaestum praeponitur. Si tamen vilicum distrahendis
quoque mercibus praepositum habuero, non erit iniquum exemplo institoriae
actionem in me competere[58].
Come
emerge dal testo appena riportato, Paolo distingue due diverse ipotesi: il fructus percipere da un lato e il merces distrahere dall’altro.
Nel
primo caso lo svolgimento da parte del vilicus
dell’attività di produzione agricola, non giustifica la
concessione dell’actio institoria
in dominum.
Nel
secondo caso, invece, l’attività di scambio, nonostante non induca
Paolo a concedere l’actio
institoria, rende possibile tuttavia l’esperimento di un’actio ad exemplum institoriae actionis.
La
dottrina, a parte qualche autore che ritiene interpolata la seconda parte del
frammento[59],
si è pronunciata per la sostanziale genuinità del ragionamento
svolto da Paolo[60],
anche se qualche dubbio permane – dal confronto con un passo dello stesso
giurista riportato nelle Sententiae
(2.8.2)[61]
– in merito alla conclusione del suo ragionamento, il quale
originariamente nel frammento, poi collocato dai compilatori in D. 14.3.16, si
sarebbe riferito a una normale actio
institoria[62].
Alcuni
studi hanno invece escluso interventi dei compilatori sulla conclusione che
leggiamo in D. 14.3.16 e hanno spiegato la diversità delle soluzioni
adottate nei due brani, ora sottolineando la differenza dei fenomeni economici
considerati[63],
ora individuando nella tipicità sociale del vilicus la ragione per cui tale figura non possa essere ricondotta
nella categoria degli institores e la
sua attività sanzionata con la concessione di una normale actio institoria[64].
L’argomento
certo suggestivo, meriterebbe una trattazione autonoma che non possiamo
esaurire entro i limiti della nostra breve indagine, per cui svolgeremo solo
alcune considerazioni, tralasciando anche per le stesse ragioni le dispute
sorte in dottrina in merito all’actio
ad exemplum institoriae o quasi
institoria[65].
La
concessione di una simile azione per l’ipotesi in cui il vilicus svolga anche
un’attività di scambio, sia cioè distrahendis quoque mercibus praepositus, dimostra come la
soluzione proposta da Paolo configuri l’opportunità di apprestare
tutela a situazioni che seppure non rientrassero specificamente
nell’ambito della praepositio
institoria, presentavano comunque delle affinità con essa[66].
La
soluzione è frutto di un’impostazione pragmatica, incentrata sulla
prospettiva della tutela degli interessi in gioco e dimostra attenzione per le
esigenze concrete al di là di qualificazioni giuridiche o regole
astratte.
Ebbene
siamo dell’avviso che in base all’indagine sin qui condotta emerge
un dato importante, sebbene ancora in forma embrionale: con l’evolversi
delle situazioni giuridiche ed economiche – ferma restando la peculiare
configurazione dell’attività agricola e la tipicità delle
figure giuridiche – sarà infatti necessario, proprio per la
concreta configurazione dell’aequitas,
superare parzialmente certi rigidi criteri di tipicità, e per
raggiungere questo risultato l’analogia costituirà lo strumento
privilegiato.
Chiariti
questi aspetti, riteniamo che alla luce delle considerazioni fatte, nonostante
nei frammenti relativi al legato dell’instrumentum
fundi non ricorra esplicitamente il binomio institor-negotiatio, tuttavia, in alcuni di essi sono considerate
prospettive analoghe, a quelle richiamate dai due lessemi.
In
particolare lo svolgimento di una negotiatio
dovrebbe essere presa in considerazione da Ulpiano nel seguente frammento
riportato in D. 33.7.12.1 (Ulp., 20 ad
Sab.):
Conservandi fructus causa: veluti granaria, quia in his
custodiuntur, urceos, capsellas, in quibus fructus componuntur; sed et ea, quae
exportandorum fructuum causa parantur, instrumenti esse constat: veluti
jumenta, et vehicula, et naves, et cuppae, et culei.
Il
brano risulta strettamente legato a quello che leggiamo in D. 33.7.8pr. e da
esso emerge la consequenzialità dell’exportare fructus rispetto al quaerere,
al cogere e al conservare.
La
considerazione di certe res come
soprattutto i dolia per la fase della
conservazione e la menzione della quarta fase relativa alla commercializzazione
dei prodotti del fondo, farebbe supporre lo svolgimento di
un’attività avente i requisiti propri di una negotiatio.
Il
trasporto, infatti, rappresenta il momento culminante e centrale del ciclo che
va dalla produzione alla vendita dei prodotti[67].
Risulta
indicativo che proprio all’attività di trasporto sulle vie di
terra dei frutti del fondo fosse impegnato il mulio, che da Ulpiano è qualificato institor in D. 14.3.5.5 (Ulp., 28 ad ed.).
Una
nozione di instrumentum fundi,
così costruita, può ben rinviare ad una “realtà
fenomenica equivalente” nel senso che abbiamo già precisato, a
quella richiamata dalla nozione di taberna
instructa, tanto più che una situazione del genere, consentirebbe
come dimostrato da Paolo in D. 14.16.3, l’esperimento di un’actio ad exemplum al contraente con il vilicus per l’ipotesi in cui
quest’ultimo svolga anche la commercializzazione dei prodotti del fondo.
La
preoccupazione della giurisprudenza è rivolta alla determinazione
dell’oggetto del legato di instrumentum
fundi e alla ricostruzione della voluntas
testantis. Tuttavia, ciò non esclude anche una certa considerazione
per lo svolgimento di attività aventi i requisiti propri di una negotiatio, implicante sostanzialmente
un contatto con i terzi che potendo ingenerare problemi di affidamento, induce
nel nostro caso Paolo a concedere un’actio
ad exemplum institoriae.
Questo
dimostra che dietro il formalismo e la tipicià delle figure,
l’interesse maggiore del giurista è rivolto alla tutela degli
interessi in gioco di tutte le parti.
Le
osservazioni svolte riguardo ai profili terminologici e concettuali della
definizione ulpianea taberna instructa,
ci hanno permesso di individuare nelle fonti alcune locuzioni ad essa
equivalenti, nel senso che abbiamo più volte precisato.
Si
nota facilmente che i confini dell’indagine effettuata non oltrepassano
il riferimento alle negotiationes
fondate sulla praepositio institoria.
Intendiamo
ora concludere la ricerca facendo qualche breve considerazione sulle
attività che trovano, invece, nella
praepositio exercitoria la propria base giuridica.
Come
si è accennato in dottrina, all’equipaggiamento della nave si fa
riferimento nelle fonti con il termine instruere
che possiede un significato equivalente al parare
ricorrente in D. 50.16.185 a proposito della taberna instructa[68].
Riportiamo di seguito i frammenti in cui queste sono contenute:
D. 4.9.7.4 (Ulp., 18 ad ed.):
Hac autem actione suo nomine exercitor tenetur, culpae scilicet suae qui tales
adhibuit: et ideo et si decesserint, non relevabitur. Servorum autem suorum
nomine noxali dumtaxat tenetur: nam cum alienos adhibet, explorare eum oportet,
cuius fidei, cuius innocentiae sint: in suis venia dignus est, si qualesquales
ad instruendam navem adhibuerit.
D. 14.1.1.8 (Ulp., 28 ad
ed.): Quid si mutuam pecuniam
sumpserit, an eius rei nomine videatur gestum? Et Pegasus existimat, si ad usum
eius rei, in quam praepositus est, fuerit mutuatus, dandam actionem, quam
sententiam puto veram: quid enim si ad armandam instruendamve navem vel nautas
exhibendos mutuatus est?
D. 14.2.6 (Iulian., 86 dig.):
Navis adversa tempestate depressa ictu fulminis deustis armamentis et arbore et
antemna hipponem delata est ibique tumultuariis armamentis ad praesens
comparatis ostiam navigavit et onus integrum pertulit: quaesitum est, an hi,
quorum onus fuit, nautae pro damno conferre debeant. Respondit non debere: hic
enim sumptus instruendae magis navis, quam conservandarum mercium gratia factus
est.
D. 42.5.26 (Paul., 16 brevis
ed.): Qui in navem exstruendam vel instruendam credidit vel etiam emendam,
privilegium habet.
Basta
uno sguardo veloce per rendersi conto della diversità delle questioni
affrontate nei brani appena riportati.
E
infatti il primo brano s’inserisce nella più ampia trattazione
relativa all’actio damni in factum adversus nautas, caupones et
stabularios, con la quale, ricordiamo, il pretore sanzionava la
responsabilità del nauta (ma
il discorso vale anche per i caupones
e gli stabularii) per il danno
arrecato agli oggetti ad opera dei marinai sia liberi che schiavi,
purché fosse avvenuto sulla nave, poiché al di fuori cessava la
sua responsabilità; mentre, se voleva esserne esonerato lasciando a
ciascun passeggero la custodia delle proprie cose, egli doveva procedere, al
momento della conclusione del contratto di trasporto, ad un’apposita
dichiarazione, da accettarsi da parte dei viaggiatori[69].
Del
frammento ulpianeo riguardante il tema della responsabilità dell’exercitor per fatto altrui, a noi
interessa rilevare soprattutto l’espressione ‘qualesquales ad instruendam navem adhibuerit’. Il
giurista severiano afferma che l’exercitor
per il fatto dei suoi servi è tenuto soltanto a titolo nossale: infatti,
quando egli si avvale di servi altrui, deve indagare di che lealtà e
affidabilità siano; per quel che riguarda i suoi merita indulgenza,
qualora se ne sia avvalso per armare la nave indipendentemente dalle loro
qualità[70].
L’espressione
‘qualesquales ad instruendam navem
adhibuerit’ fa riferimento all’arruolamento di marinai
qualsiasi per instruere navem e
richiama più l’attività di predisposizione di quanto
è necessario per rendere instructa
la nave, che il complesso di beni e di uomini destinato all’esercizio
della negotiatio.
Dunque
non crediamo se ne possa affermare l’equivalenza con la nozione ulpianea
di taberna instructa.
Il
secondo frammento collocato in D. 14.1.1.8 riguarda, invece, il tema della
responsabilità del preponente per le attività del preposto che,
seppur non specificamente previste nella praepositio,
erano connesse o necessarie allo svolgimento di una negotiatio. Il brano fa parte di un più ampio discorso
svolto da Ulpiano, in ordine al collegamento della legittimazione passiva
dell’exercitor con la
conclusione da parte del magister dei
soli contratti connessi alla negotiatio
cui era stato preposto, poiché ‘non
autem ex omni causa praetor dat in exercitorem actionem’.
Ulpiano,
dopo aver indicato nel paragrafo 3 i contratti che un magister poteva concludere in quanto inerenti alla sua praepositio, nel paragrafo 8 affronta la
questione della riconducibilità della ‘mutua pecunia sumpta a magistro’ nell’ambito del ‘navis reficiendae causa
contrahere’. Il giurista severiano, accogliendo l’opinione di
Pegaso, risponde affermativamente, purché il denaro fosse preso e dato a
prestito per uno scopo che rientrasse nella praepositio,
come per esempio l’armamento della nave, l’arruolamento dei marinai
o per il mantenimento degli stessi[71].
Anche
qui sembra che con l’espressione ‘ad
armandam instruendamve navem’ l’attenzione sia rivolta
all’attività di predisposizione più che
all’organizzazione di beni e uomini destinato all’esercizio di una negotiatio.
Considerazioni
analoghe possono essere ripetute anche a proposito degli ultimi due frammenti.
Anch’essi
inserendosi in contesti differenti fra di loro - il primo è raccolto nel
titolo ‘De lege Rhodia de iactu’[72] dei Digesta;
l’ultimo frammento riguarda il tema del privilegio dei creditori per le
somme concesse per costruire (extruendam), per attrezzare (instruendam) o per acquistare (emendam)
la nave – fanno riferimento all’instruere
navem, indicando più l’attività di predisposizione che
un complesso di ‘res et homines ad
negotiationem parati’.
La
nostra opinione è che le espressioni citate non siano
“equivalenti” a taberna
instructa, ma indichino solamente specifici “momenti”
dell’instruere navem, richiamando soltanto genericamente il
concetto di ‘navis instructa’.
Terminata
la nostra breve ricerca, possiamo trarre alcune considerazioni conclusive,
raccordandoci a quanto enunciato in chiave programmatica in premessa ed esplicitato
poi nel corso della trattazione.
Dei
molteplici spunti di riflessione, che la definizione ulpianea di taberna instructa solleva, abbiamo
scelto di trattarne solamente alcuni.
In
primo luogo, l’analisi dei profili terminologici e concettuali della
definizione in esame ne ha evidenziato una certa
«elasticità» ed «ampiezza» che la rendono
perfettamente speculare al significato assunto in piena età classica dal
binomio institor-negotiatio.
Ulpiano,
infatti, quasi certamente sulla scia di un consolidato indirizzo
giurisprudenziale (‘sic
accipiemus’), precisa che la locuzione edittale ‘taberna instructa’ era da intendersi, in senso
tecnico-giuridico, come un complesso di beni e di uomini destinato
all’esercizio di una negotiatio.
Traendo
spunto da alcuni rilievi emersi in dottrina, ci siamo poi soffermati su un dato
che emerge dalle fonti: la taberna
instructa non è la sola locuzione con cui i giuristi romani
indicavano un complesso di ‘res et
homines ad negotiationem parati’, infatti, ne ricorrono altre che
possiedono un significato ad essa “equivalente”.
Tale
“equivalenza”, come abbiamo precisato, indica solamente che quelle
espressioni richiamano “una realtà fenomenica equivalente” a
quella della taberna instructa e
dunque gli stessi elementi fondamentali che connotano la definizione ulpianea:
un complesso di beni e forza lavoro, più precisamente di res e di homines, l’organizzazione loro impressa e il fine dello
svolgimento di una negotiatio per il
quale quell’organizzazione è predisposta.
In
primo luogo abbiamo preso in considerazione la locuzione «instrumentum negotiationis», che si ricava dal brano di Paolo inserito in
D. 33.7.13pr., laddove il giurista severiano, discutendo dell’instrumentum cauponae, avverte che con
il termine ‘caupona’ egli
vuole indicare una specifica negotiatio.
Ad un
«instrumentum negotiationis» si riferirebbe
anche Nerazio quando utilizza le locuzioni ‘instrumentum
tabernae’ (Ner., 2 resp. in D. 33.7.23) e ‘instrumentum tabernae cauponiae’ (riportata da Paul., 4 ad Sab.
in D. 33.7.13pr.).
Come
detto i frammenti sono collezionati nel titolo “De instructo vel instrumento legato” dei Digesta e proprio della determinazione
dell’oggetto di legati si occupano Nerazio e Paolo.
I due
giuristi sono tuttavia consapevoli delle peculiarità dell’oggetto
di quei legati, trattandosi di un instrumentum
sui generis che non trova collocazione all’interno della classica
distinzione tra instrumentum rei e instrumentum personae, poiché
individua più precisamente un complesso di res et homines destinato all’esercizio di una negotiatio.
La
circostanza risulta di grande rilievo poiché essa si riflette sulla
determinazione dei beni che fanno parte del legato stesso.
Anche
l’instrumentum fundi talvolta indica nelle fonti un
«instrumentum negotiationis». Tale circostanza,
tuttavia, non emerge in modo molto chiaro, come dimostra pure l’assenza,
nei frammenti relativi all’instrumentum
in questione, del binomio institor-negotiatio.
Il
dato formale tuttavia è superabile.
Se
l’attività di produzione agricola non rientra nel campo di
applicazione dell’actio institoria,
lo svolgimento dell’attività di commercializzazione dei prodotti
del fondo, implicando un contatto con i terzi e quindi problemi connessi al
loro affidamento, induce Paolo (29 ad
ed. in D. 14.3.16) a concedere un
rimedio modellato proprio sull’actio
institoria e cioè un’actio
ad exemplum institoriae.
Proprio
ad una situazione del genere farebbe chiaramente riferimento Ulpiano quando
ricomprende nei beni facenti parte dell’instrumentum fundi anche quelli che servono alla
commercializzazione dei prodotti stessi, come emerge dal brano riportato in D.
33.7.12.1.
L’instrumentum fundi così concepito
assume i connotati di un vero e proprio «instrumentum negotiationis»
equivalente, nel senso precisato, alla taberna
instructa.
Anche
a proposito dello svolgimento di negotiationes
aventi come base giuridica la praepositio
exercitoria, la dottrina ha indicato la presenza nelle fonti di espressioni
che richiamano la definizione di taberna
instructa.
Si
è sostenuto, infatti, che in alcuni brani – D. 4.9.7.4; D.
14.1.1.8; D. 14.2.6 e D.42.5.6 – emerge il concetto di ‘navis instructa’
Nei
testi in questione ricorrono le seguenti espressioni: ‘ad armandam instruendamve navem’, ‘qualesquales ad
instruendam navem adhibuerit’, ‘in navem instruendam’.
Siamo
dell’opinione che le espressioni appena citate non siano
“equivalenti” alla definizione di taberna instructa, poiché più che indicare un
complesso di ‘res et homines ad
negotiationem parati’, esse si riferiscono all’attività
di predisposizione di alcuni beni, a fasi cioè isolate dell’instruere navem.
Si
tratta comunque di espressioni significative dalle quali emerge, come
affermato, il concetto di navis instructa.
Comprendiamo
allora le finalità della nostra ricerca la quale, partendo da alcune
considerazioni sui profili terminologico-concettuali della definizione
ulpianea, vuole essere solamente ricognitiva delle espressioni ad essa
“equivalenti”, limitando il campo d’indagine alle negotiationes aventi come base giuridica
la praepositio institoria ed exercitoria[73].
Resta
sempre ferma l’attenzione per la diversità dei contesti in cui le
varie espressioni compaiono. Se avessimo trascurato questa circostanza, la
nostra indagine avrebbe assunto un carattere arbitrario.
[1] Il
riferimento va agli studi che hanno posto in evidenza nel mondo romano, in
particolare tra il III sec. a.C. e il III d. C., lo sviluppo
dell’articolato e complesso sistema imprenditoriale delle negotiationes. Ricordiamo tra i
principali: DI PORTO, Impresa collettiva
e schiavo «manager» in Roma antica (II sec. a. C. - II sec. d. C)
(Milano 1984); ID., Il diritto
commerciale romano. Una «zona d’ombra» nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative
dei commercialisti, in Nozione
formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle
esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, III (Napoli
1997), 413 ss.; ID., Impresa agricola e
attività collegate nell’economia della “villa”. Alcune tendenze organizzative, in Sodalitas. Studi in onore di A. Guarino, VII (Napoli 1984), 3235 ss.; ID.,
«Filius», «servus» e «libertus»,
strumenti dell'imprenditore romano, in Imprenditorialità e diritto
nell'esperienza storico–giuridica, (Erice, 22-25 novembre 1988), a cura di Marrone (Palermo 1992), 231
ss.; SERRAO, L’impresa in Roma
antica. Problemi e riflessioni,
in Atti del seminario sulla problematica
contrattuale nel diritto romano, (Milano, 7-9 aprile 1987), vol. II, 25 ss.
[lo scritto è pubblicato anche in Studi
per Luigi De Sarlo (Milano 1989), 675 ss., nonché nel volume Impresa e responsabilità a Roma
nell’età commerciale, forme giuridiche di un’economia mondo (Pisa
1989), 15 ss.]; ID., Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, in Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano. Atti degli incontri capresi di storia
dell’economia antica (Capri 13-15 ottobre 1997) a cura di Lo Cascio,
(Bari 2000), 31 ss.; GALLO, Negotiatio e
mutamenti giuridici nel mondo romano, in Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storico-giuridica, (Erice, 22-25 novembre 1988), a cura di
Marrone (Palermo 1992), ora in Opuscula
selecta (Padova 1999), 823 ss.; CERAMI, DI PORTO, PETRUCCI, Diritto commerciale romano, profilo storico, seconda edizione
(Torino 2004); CERAMI, Dal contrahere al
negotiari, in Gli effetti del
contratto nei confronti dei terzi nella prospettiva storico-comparatistica,
(Roma, 13-16 settembre 1999), a cura di Letizia Vacca, (Torino 2001), 169 ss.;
ID.,‘Exercitio
negotiationum’. Tipologia storico-giuridica della disciplina dei rapporti
commerciali, in Iuris Vincula. Studi
in onore di M. Talamanca (Napoli 2002), 149 ss.; ID., Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero, in AUPA 52 (2007-2008); AUBERT, Business Managers in Ancient Rome. A
Social and Economy Study of Institores, 200 B. C.-
[2]
LIGIOS, «Taberna»,
«negotiatio», cit., 91 ss., parla di differenza di natura
qualitativa, poiché la nozione di taberna
cum instrumento è oggetto di riflessione più che altro in
materia di legati, mentre quella di
taberna instructa è legata all’applicazione dell’actio institoria. L’Autrice (a
pagina 128 ss.) sottolinea la singolarità dell’opinione di Paolo,
il quale doveva pur conoscere quest’ultima locuzione e accoglierne una
nozione sostanzialmente equivalente, in ordine ai beni in essa inclusi, a quella
di taberna cum instrumento
(nonché di taberna et instrumentum).
[3]
Un’ipotesi è svolta da Ligios,
«Taberna», «negotiatio», cit., 107 ss. L’Autrice, dopo aver
effettuato una distinzione preliminare tra il significato assunto dal termine ‘taberna’ nei due frammenti
ulpianei riportati rispettivamente in D. 50.16.183 e D. 50.16.185, sottolinea
come soltanto in quest’ultimo passo quel termine presenti una
connotazione imprenditoriale. Ligios si chiede poi se la nozione di taberna instructa sia stata elaborata proprio dal giurista severiano o se
questi l’abbia definita rifacendosi ad elementi contenuti nelle
disposizioni edittali nonché
a dati recepiti dalla riflessione giurisprudenziale a lui precedente e coeva.
Accoglie la ricostruzione leneliana secondo la quale la locuzione taberna instructa sarebbe stata presente
anche nel testo della formula dell’actio
institoria contenuta nell’albo pretorio e ritiene tale circostanza
rafforzata dall’utilizzo della locuzione da parte di Cicerone in un passo
della pro Cluentio (63.178): questo
dato, unito alla paternità labeoniana del frammento ulpianeo riportato
in D. 14.3.5.10 (Ulp., 28 ad ed.),
costituisce indizio del fatto che la nozione suddetta fosse già
delineata nell’ambito della riflessione giurisprudenziale
dell’ultima età repubblicana. Ulteriore contributo, utile alla
ricostruzione della citata elaborazione giurisprudenziale sarebbe ricavabile da
un responso di Papiniano, riportato da Ulpiano in D. 33.7.12.43 (Ulp., 20 ad Sab.). Il responso, pur concernendo
un legato di domus instructa, presupporrebbe una nozione di
taberna instructa assimilabile a quella che risulta in D. 50.16.185.
[4] La
locuzione instrumentum/a negotiationis/um
non è esplicitamente menzionata nelle fonti, ma è ricavabile
in via interpretativa dal passo di Paolo riportato in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.): Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri
Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et
instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta
sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici,
item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum
negotiationis nomen sit, etiam institores. Su di essa ci soffermeremo tra
poco.
[5]
Così SERRAO, L’impresa in
Roma antica, cit., 25 ss., scrive: «Se noi andiamo
a vedere l’art. 2555 del nostro Codice Civile, troviamo definita
l’azienda come “il complesso dei beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
L’unica, peraltro ovvia, differenza rispetto alla definizione romana
è la mancanza degli homines;
nella nostra azienda c’è, o comunque ci può essere, un
fascio di rapporti di lavoro, nell’azienda romana ci sono gli
schiavi»; ID., Impresa e responsabilità a Roma
nell’età commerciale, cit., 21 ss.; DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo
«manager», cit., 64 nt. 1; ID., Il diritto commerciale romano. Una «zona d’ombra»,
cit., 442 ss., ad avviso
del quale: «Per quanto riguarda taberna instructa (e instrumentum
negotiationis), è impressionante l’analogia con il moderno
concetto di azienda. Direi financo l’assonanza con l’articolo 2555
del nostro codice civile. Vale la pena di rileggere le due nozioni, l’una
sovrapposta all’altra, come in una sorta di fotomontaggio: “Instructam autem tabernam sic
accipiemus”, “L’azienda è”, “quae et rebus et hominibus …
constat”, “il complesso dei beni”, “ad negotiationem paratis”, “organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Le
parole del codice civile suonano come una traduzione della nozione
romana».
Lo stesso significato è attribuito alla locuzione taberna instructa anche da CERAMI, Diritto commerciale romano, cit.,
48-52.; ID., Impresa e societas,
cit., 99-102; LIGIOS, «Taberna»,
«negotiatio», cit., 91 ss.
Di diverso avviso è invece CHIUSI, Diritto commerciale romano? Alcune osservazioni critiche, in FIDES HUMANITAS IVS, Studii in on. di Luigi Labruna, II
(Napoli 2007), 1025-1041. In particolare a pagina 1036 l’Autrice scrive:
«Che il responso neraziano in D. 33.7.23 (Ner., 2 resp.) provi in maniera inequivocabile, come il quesito avrebbe
riguardato la determinazione dell’instrumentum
della struttura imprenditoriale intesa come azienda e non semplicemente
dell’instrumentum della taberna, non emerge, a mio parere dal
testo, se non attraverso una lettura “orientata” di esso: la
traduzione di taberna con
“struttura imprenditoriale”, suggerisce una interpretazione che non
è dedotta a posteriori dal testo ma, al contrario, ne condiziona a
priori la comprensione. Certamente i giuristi analizzano i termini edittali taberna instructa e negotiatio. Tale analisi però è funzionale al
concetto di legato e non a quello d’impresa».
Il brano ulpianeo, collocato in D. 50.16.185, è perfino
richiamato in una nota sentenza della Corte di Cassazione italiana del 5 aprile
1990, n.
[6] Si
veda Serrao, Impresa e responsabilità, cit., 35, il quale avverte:
«…non v’è dubbio che nell’elaborazione
giurisprudenziale, pur non essendosi pervenuti a considerare precisamente la taberna instructa come una universitas iuris, al pari della nostra
azienda, vi fu una forte tendenza a considerarla come un complesso unitario
sì da porre il problema del pegno (Scevola 27 dig. in D. 20, 1, 34 pr.
e 1) nonché del legato di proprietà (Paolo 22 dig. in D. 33, 7, 7 e – con
citazione di Nerazio – 4 ad Sab.
in D. 33, 7, 13; Papiniano 7 resp. in
D. 32, 91, 2) o di usufrutto (Ulp., 17 ad
Sab. in D. 7, 4, 12) della taberna
intesa come complesso unitario di res e di
homines ad negotiationem parati, secondo la definizione di Ulpiano
pervenutaci in D. 50, 16, 185.»; cfr. sull’argomento WAGNER, Zur wirtschaftlichen und rechtlichen
Bedeutung der Tabernen, in Studi in
onore di Arnaldo Biscardi (Milano 1982), III, 391 ss.
[7] Sul
significato del termine negotiatio
nel linguaggio dei giuristi romani, si vedano anzitutto i fondamentali studi
di: FADDA, Istituti commerciali del diritto
romano. Lezioni 1902-1903, I (Napoli 1903) rist. 1987, 52, ritiene che negotiatio indichi «la
speculazione commerciale vera e propria»; BUCKLAND, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law
from Augustus to Justinian, (Cambridge 1908), 234, definisce la negotiatio: «a continuous course
of trading, something more than an isolated negotium»;
MANFREDINI, Costantino la
tabernaria il vino, in Atti del VII Convegno internazionale
dell’Accademia Romanistica Costantiniana (Spello-Perugia-Norcia,
16-19 ottobre 1985), (Napoli 1988), 328, è dell’opinione che negotiatio
indichi un’attività commerciale o un mestiere; Serrao, Impresa, mercato, diritto, cit., 34; ID., Impresa e responsabilità, cit.,
[8] Si
tratta dell’editto con cui il pretore introdusse nel mondo giuridico
romano l’actio institoria. Tale
azione consentiva ai terzi che avessero contrattato con l’institore, al
quale, mediante atto di preposizione (praepositio),
erano stati conferiti poteri di gestione di una negotiatio, di far valere una responsabilità per
l’intero (in solidum) del
preponente per le obbligazioni contrattuali rimaste inadempiute. L’actio institoria è una delle c.d.
actiones adiecticiae qualitatis (di
seguito per esigenze di brevità, utilizzeremo l’abbreviazione a.a.q.), la cui introduzione da parte
del pretore dovrebbe risalire al II sec. a.C.; cfr. Kaser, Das Römische Privatrecht (München 1971), I, 605 ss.;
ALBANESE, Le persone nel diritto privato
romano (Palermo 1979), 160-161; TALAMANCA, Processo civile (Milano 1986), 61 nt. 441; MICELI, Sulla struttura formulare, cit.,
29. Solo VALIÑO, Las
“actiones adiecticiae qualitatis” y sus relaciones básicas en derecho romano, in AHDE 37 (1967), 344 ss., si discosta da
tale indirizzo datandole tra la fine del II e gli inizi del I sec. a. C. Sulle a.a.q. si veda da ultimo MICELI, Sulla struttura formulare, cit.,
7 ss. (con riferimento alla vastissima letteratura sull’argomento) e ID.,
Studi sulla «rappresentanza», cit., 31 ss. (e
nt. 1 per la letteratura).
In dottrina discusso è l’ordine cronologico delle a.a.q. Secondo ALBANESE, Le persone, cit., 160 si tratta di una «questione di difficile
soluzione»; per HAMZA, Aspetti
della rappresentanza negoziale in diritto romano, in Index, 9 (1980), 203, «la soluzione è difficile per le
informazioni di base che provengono da autori selezionati nella sedes materiae della Compilazione»;
SERRAO, Impresa e responsabilità,
cit., 18 ss., ritiene «impossibile, allo stato attuale delle nostre
conoscenze, determinare un’esatta cronologia delle diverse azioni».
Sull’argomento si vedano anche PUGLIESE, In tema di actio exercitoria, in Labeo 3 (1957), 308, per il quale l’actio exercitoria «appare più antica delle azioni quod iussu, de peculio, tributoria, de in rem verso ed ha probabilmente
preceduto nel tempo la stessa actio
institoria, rappresentando il commercio marittimo il campo in cui è
naturale che il pretore peregrino abbia dovuto esplicare fin dall’inizio
la sua attività giurisdizionale…». L’Autore ricorda
come sia un’opinione comune quella di ritenere l’actio execitoria precedente a quella institoria e a pagina 587 nt. 5 riporta
i principali contributi in tal senso; CERAMI, Diritto commerciale romano, cit.,
42, secondo cui «l’ordine cronologico» corrisponde «in
linea di massima, all’ordine dell’editto giulianeo: actio exercitoria, actio institoria, tributoria, triplex edictum (quod iussu, de peculio et de
in rem verso) e non già all’ordine espositivo delle
Istituzioni di Gaio (4.69-74): quod iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio et de in rem verso» sostenuto, invece, da
ALBANESE, Le persone, cit., 160; ID., Atti negoziali nel diritto privato romano (Palermo 1982), 349 ss.
Della stessa opinione di Albanese era stato BONFANTE, in una nota a GLÜCK,
Pandekten, trad. it. BONFANTE, Commento alle Pandette (Milano 1905),
215. Diversa è la posizione di DE LIGT, Legal History and economic History: the case of the actiones
adiecticiae qualitatis, in TR, 67
(1999), 205 ss., per il quale la più antica è invece l’actio de peculio.
[9] Ligios, «Taberna», «negotiatio»,
cit., 110. Nella nt. 257, dopo aver riportato il passo ciceroniano,
l’Autrice scrive: «Si potrebbe avanzare l’ipotesi suggestiva
che Cicerone abbia usato una terminologia corrente presso i giuristi».
[10] Nel
passo in questione, secondo alcuni autori, Ulpiano riferirebbe un responso di
Labeone. In tal senso per es. VOCI, «Diligentia», «custodia», «culpa», in SDHI, 56 (1990), 112; MICELI,
Studi sulla «rappresentanza»,
cit., 304; Ligios, «Taberna», «negotiatio», cit., 132 ss. e nt. 334. L’Autrice
ricorda i due principali argomenti sui quali si fonda la dottrina – a
proposito della quale, cita i recenti contributi di KNÜTEL, Die Haftung für Hilfspersonen im
römischen Recht, in ZSS. 100
(1983), 408 ss. e ntt. 277-278 e 281 (anche per bibliografia precedente) e di
BENKE, Zu Papinians, cit., 603 e nt.
58 – che ha sostenuto tale paternità. Tali argomenti, afferma
Ligios consistono nel fatto che «nei paragrafi precedenti – dal
§ 7 al § 9, ma anche nel § 2 – Ulpiano riporti altre
pronunce del giurista repubblicano che presenterebbero assonanze stilistiche e
lessicali rispetto a quella riferita nel § 10 e, infine, la chiusa di
quest’ultimo testo (‘plane
… - … tenebitur’), nella quale si dovrebbe cogliere
l’intervento di Ulpiano, che fino a quel momento, evidentemente avrebbe
esposto il pensiero di Labeone». Ligios, tuttavia, conclude che
l’attribuzione a Labeone del responso riferito da Ulpiano in D. 14.3.5.10
sia meno certa di quanto si sia sostenuto.
[11] Le
fonti storico letterarie e i ritrovamenti archeologici mostrano quanta
importanza economica avessero a Roma le imprese gestite dai fullones (le fullonicae), le quali potevano offrire alla clientela numerosi
servizi: dalla pulizia degli abiti, anche attraverso il riutilizzo di quelli
vecchi, alla produzione di tessuti e stoffe, causando talvolta gravi problemi
di inquinamento delle acque. Su quest’ultimo tema rinviamo per tutti a DI
PORTO, La tutela della salubritas fra
editto e giurisprudenza 1, (Milano 1990), 56 ss. e ID., La gestione dei rifiuti a Roma fra tarda
repubblica e primo impero. Linee di un ‘modello’, in Societas-ius. Munuscula di allievi a F.
Serrao, 1999, 55 ss.
Per le fonti sulle fullonicae,
si vedano per tutti: DAREMBERG-SAGLIO, sv. ‘Fullonica’;
VALLOCCHIA, Lex Metilia fullonibus dicta. Studi su una legge e una categoria
produttiva, in Legge e società
nella repubblica romana
[12] Il
testo presenta una serie di imprecisioni: secondo FADDA, Digesta (Milano 1931), davanti a ‘rogasset’ dovremmo leggere ‘aliquem’, la cui mancanza è da imputare
all’errore di qualche copista; dello stesso avviso risulta CARRELLI, L’actio quasi institoria, in Studi in on. di Bernardino Scorza (Roma
1940), 157; per VOCI, «Diligentia»,
«custodia», 111 e nt. 23,
sarebbe più corretta l’inserzione di ‘Titium’; SOLAZZI, Procurator
ed institor in D. 14.3.5.10, in SDHI,
9 (1943), 112, inserisce, invece, ‘procuratorem’.
Inoltre si nota come ‘imperaret’
sia senza soggetto e sono state proposte diverse correzioni. Anche la parte
finale ‘Plane si adfirmaverit
mihi…sed ex locato tenebitur’ ha suscitato forti sospetti; cfr.
SOLAZZI, Procurator ed institor,
cit., 105 ss.; MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 304,
sostiene che le varie scorrettezze formali del brano e quella sua certa
discontinuità nel periodare, non si riflettano anche dal punto di vista
contenutistico.
[13] Sui
profili di responsabilità dei fullones
nell’ambito del più ampio tema della ‘protezione dei
contraenti’ rinviamo al puntuale lavoro di PETRUCCI, Per una storia, cit., 247-251.
[14] Institor e procurator, cit., 66 e ID., Studi sulla «rappresentanza», cit., 303 (nt. 1 per l’ampia
letteratura sul passo).
[15]
C’è chi sostiene che esso sia del tutto inattendibile – per
es. SOLAZZI, Procurator ed institor,
cit., 104 ss. – o integralmente autentico – ALBERTARIO, L’actio quasi institoria, in Studi di Diritto Romano, IV (1912),
187-218; CARRELLI, L’actio quasi
institoria, cit., 143 ss. – anzi come una delle prove più
evidenti del fatto che l’actio
quasi institoria non possa essere classica. C’è ancora chi
– ad es. ANGELINI, Il procurator (Milano
1971), 85 – afferma che la soluzione prospettata nel brano sarebbe
genuina e rappresenterebbe anzi una delle dimostrazioni più evidenti del
fatto che il procurator era un
soggetto dotato, a differenza dell’institor,
solo di poteri tecnici e non prettamente giuridici.
[16] La
bibliografia sull’actio ad exemplum institoriae actionis o quasi institoria è vasta. Per i
principali contributi: COSTA, Le azioni
exercitoria e institoria nel diritto romano (Parma 1891), 3 ss.; SOLAZZI, Le azioni del pupillo e contro il pupillo
per i negozi conclusi dal tutore, in
BIDR. 25 (1912), 133 ss., ora in Scritti
di diritto romano, 1 (Napoli 1955), 567 ss.; ALBERTARIO, L’actio quasi institoria, in Studi di Diritto Romano, IV (1912), 200;
RABEL, Ein Ruhmesblatt Papinians, in Festschrift für Zitelmann (Leipzig
1913), 1 ss., ora in Gesammelte
Aufsätze, IV. Arbeiten zur
altgriechischen, hellenistichen und
römischen Rechtsgeschichte 1905-1949, (Tübingen 1971), 269 ss.;
CARRELLI, L’actio quasi institoria,
cit., 176 ss.; PEROZZI, Istituzioni di
diritto privato romano, 2 (Roma 1928); RICCOBONO, Lineamenti della dottrina della rappresentanza diretta in diritto
romano, in AUPA 14 (1930), 389
ss.; KELLER, Formula ad exemplum
institoriae actionis, in Festschrift
für Wenger (München 1945), 73 ss.; BURDESE, Actio ad exemplum institoriae, in Atti dell’Accademia Scienze di Torino, 84 (1949-1950), 109
ss.; ID., Actio ad exemplum institoriae
e categorie sociali, in Studi in memoria di Guido Donatuti, 1
(Milano 1973), 191 ss.; ARANGIO RUIZ, Istituzioni
di diritto romano, (Napoli 1957), 95 ss.; ANGELINI, Osservazioni in tema di creazione dell’‘actio ad exemplum
institoriae’, in BIDR. 71
(1968), 233; BONFANTE, Corso di diritto
romano. 4 Le obbligazioni (Milano
1979), 71 ss.; LONGO, Actio
exercitoria - actio institoria - actio quasi institoria, in
Studi in onore di G.
Scherillo II (Milano 1972), 610 ss.; VALIÑO, Las “actiones adiecticiae
qualitatis”, cit., 337 ss; ID., Las
capacidad de las personas «in
potestate» en derecho romano,
in Revista del Derecho Notarial 57-58 (1967), 99 ss.; ID., Las relaciones básicas de las
acciones adyecticias, in Annuario di
Historia del Derecho Espagnol, 38 (1968), 377; ALBANESE, Le persone, cit., 159 ss.; ID., Atti negoziali, cit., 350 nt. 403;
HAMZA, Zur frage der gewillkürten
Stellvertretung in klassichen römischen Recht, in Ann. Scient. Budap., Sectio Juridica 21 (1979), 19 ss.; ID., Aspetti della rappresentanza, cit., 193
ss.; BENKE, Zu Papinians actio ad
exemplum institoriae actionis, in ZSS.
105 (1998), 592 ss.; MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 333 ss.
[17]
Definizione va intesa in questo caso come «operazione mentale dello
spiegare il significato di una parola o di un’espressione».
È questo uno dei significati del termine ‘definitio’ che ha chiaramente sottolineato Albanese
nel suo scritto: «Definitio
periculosa». Un singolare caso
di «duplex interpretatio»,
in Studi in onore di G. Scaduto, III
(Padova 1970) 229-376 [= Scritti giuridici, I (Palermo 1991), 703-778]. Sul
tema della definitio esistono
numerosi contributi, tra i principali: MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani (Milano 1966); ID., Ancora in tema di definitiones, in Studi Senesi, 96 (1984), 146 ss.; ID., Di nuovo sulla definitio fra retorica e
giurisprudenza, in Labeo 41 (1995), 169 ss.; CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo,
mezzi e fini (Napoli 1966); STEIN,
Regulae iuris. From juristic Rules to Legal Maxims (1966); SCHMIDLIN, Die römischen Rechtsregeln (1970) e
Horoi, Pithana und regulae – Zum
Einfluss der Rhetorik und Dialektik auf die juristische Regelbindung, in ANRW 15 (1976), 101 ss.; NÖRR, Spruchregel und Generalisierung, in ZSS. 89 (1972) 18 ss., MARRONE, Le significationes di D. 50.16 (“De
verborum significatione”), in SDHI,
50 (1994), 583 ss.; ID., Nuove
osservazioni su D. 50.16 “De verborum significatione”, in Seminarios Complutentes de derecho romano,
VII (1995), 169 ss., che si occupano, fra l’altro, dei rapporti tra significationes, definitiones e regulae;
CERAMI, “Ignorantia iuris”,
in Seminarios complutentes de derecho
romano, IV (1993), 71 ss., ora in Ricerche
romanistiche e prospettive storico-comparatistiche, in AUPA 43 (1995), 247 ss.
[18] Sul
punto LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit.,
109-110, scrive: «la vaghezza di tale formulazione dovette costituire
la ragione del suo inserimento nei Digesta
a scapito forse di quella del giurista Paolo, il quale doveva comunque aver
presente tale locuzione se accettiamo l’opinione del Lenel secondo cui
essa compariva nel testo della formula dell’actio institoria contenuta nell’editto».
[20] LENEL,
Palingenesia iuris civilis (Leipzig
1889) (rist. Graz. 1960), II, c. 590 «Ulp.
ad ed. l. 28», n. 827, nt. 2. Sempre secondo LENEL, Das Edictuum perpetuum, 3 (Leipzig
1927), 259 e 263, la locuzione taberna
instructa sarebbe stata menzionata nel testo della formula dell’actio institoria, la quale sarebbe
stata, dunque, del seguente tenore: «Quod
As As de Lucio Titio, cum is a No No tabernae instructae praepositus esset,
eius rei nomine decem pondo olei emit, q.d.r.a., quidiquid ob eam rem Lucium
Titium Ao Ao dare facere oportet ex fide bona, eius iudex Nm Nm Ao Ao c.
s.n.p.a.». Sul punto si vedano anche MANTOVANI, Le formule del processo privato
romano (Padova 1999), 79 ss.; MICELI, Sulla struttura formulare, cit.,
354 ss.
Tale ipotesi ricostruttiva è stata, invece, criticata da
WAGNER, Zur wirtschaftlichen, cit.,
404 ss. La critica poggia su
ragioni di ordine terminologico: per la comprensione del significato di ‘taberna’, nel contesto della disciplina edittale,
l’aggettivo ‘instructa’
risulterebbe superfluo.
[21] Per un
esame dei termini res e homines nel testo ulpianeo riportato in
D. 50.16.185, rinviamo per tutti a LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 112-124.
[22] Di
elasticità parla anche LIGIOS, seppure in ottica diversa, quando
sottolinea una delle differenze intercorrenti tra la nozione di ‘taberna instructa’ e quella
di ‘taberna cum instrumento’,
in «Taberna», «negotiatio», cit., 130:
«Tuttavia la nozione di ‘taberna
instructa’ che sembrerebbe essersi affermata nell’ambito della
riflessione giurisprudenziale classica parrebbe invece quella di Papiniano e
Ulpiano, che si pone, come si è più volte rimarcato, in
un’ottica del tutto diversa rispetto a quella della ‘taberna cum instrumento’».
[23] Sul
profilo etimologico del termine ‘taberna’
si veda da ultimo LIGIOS, «Taberna»,
«negotiatio», cit., 27 ss. L’Autrice ricorda come ‘taberna’ derivi da ‘tabula’ per Festo, verb. sign., sv. ‘tabernacula’ (Lindsay, p. 490) e sv. ‘adtibernalis’ (Lindsay, p.
11); Diomede, ars gramm. (Keil, III,
p. 489, ll. 28 ss.); e poi Isidoro, orig.
15.2.43; mentre da ‘trabs’
per Elio Donato, nel suo commentum all’Adelphoe di Terenzio (359.2); e
Cassiodoro, in psalm.
(«PL.» LXX, c 108 s.). Scrive Ligios: «L’elemento
offerto dai passi di Diomede e dei due autori tardi, e che invece manca in
quelli di Festo ed Elio Donato, è che ‘tabernae’ sarebbero state anticamente le abitazioni dei
poveri, accezione che risulta pure da altre fonti letterarie» e queste
fonti sono: Varr., ling. lat. 5.160 e
Hor., carm. 1.4.13 ss. Sempre LIGIOS,
op. ult. cit., 35, ntt. 26-29, ricorda che nelle fonti sono riscontrabili gli
ulteriori significati di “granaio” o “magazzino”,
“cassone” o “armadio” e “sacca”.
[28] D.
14.3.18 (Paul., l. S. de var. lect.):
Institor est, qui tabernae locove ad
emendum vendendumve praeponitur quique sine loco ad eundem actum praeponitur.
[30] Fu in
particolare durante il I sec. a C. e l’età augustea che il campo
di applicazione dell’actio
institoria si era notevolmente ampliato, grazie soprattutto all’interpretatio di giuristi come Servio
Sulpicio Rufo e Marco Antistio Labeone. Sul punto, rinviamo a: DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 66 ss.; ID., Impresa agricola e attività
collegate, cit., 3248; CERAMI,
Diritto commerciale romano, cit.,
53 ss.; PETRUCCI, Ulteriori osservazioni,
cit. 19; ID.,
Per una storia, cit., 15 ss.; MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 205 ss.; LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 63 ss.
I vari contributi ricordati, traggono spunto soprattutto dai
frammenti ulpianei collocati in D. 14.3.5pr.-9 (Ulp., 28 ad ed.): Cuicumque igitur
negotio praepositus sit, institor recte appellabitur. Nam et Servius libro
primo ad Brutum ait, si quid cum insulario gestum sit vel eo, quem quis
aedificio praeposuit vel frumento coemendo, in solidum eum teneri. Labeo quoque
scripsit, si quis pecuniis faenerandis, agris colendis, mercaturis
redempturisque faciendis praeposuerit, in solidum eum teneri. Sed et si in
mensa habuit quis servum praepositum, nomine eius tenebitur. Sed etiam eos
institores dicendos placuit, quibus vestiarii vel lintearii dant vestem
circumferendam et distrahendam, quos volgo circitores appellamus. Sed et
muliones quis proprie institores appellet. Item fullonum et sarcinatorum
praepositus. Stabularii quoque loco institorum habendi sunt. Sed et si
tabernarius servum suum peregre mitteret ad merces comparandas et sibi
mittendas, loco institoris habendum Labeo scripsit. Idem ait, si libitinarius
servum pollinctorem habuerit isque mortuum spoliaverit, dandam in eum quasi
institoriam actionem, quamvis et furti et iniuriarum actio competeret. Idem
Labeo ait: si quis pistor servum suum solitus fuit in certum locum mittere ad
panem vendendum, deinde is pecunia accepta praesenti, ut per dies singulos eis
panem praestaret, conturbaverit, dubitari non oportet, quin, si permisit ei ita
dari summas, teneri debeat.
[31] Il
risultato finale di questa estensione del significato del termine institor è rappresentato dal
seguente brano del libro ventotto dei commentari ad edictum di Ulpiano, riportato in D. 14.3.5pr.: Cuicumque igitur negotio praepositus sit,
institor recte appellabitur. Si registra, tuttavia, ancora in età
severiana, una nozione più ristretta di institor nel pensiero di Paolo. Si veda, su quest’ultimo
punto, la successiva nota 32.
[32] Fatta
eccezione per Paolo il quale ancora in età severiana afferma in D.
14.3.18 (Paul., l. S. de var. lect.):
Institor est qui tabernae locove ad
emendum vendendumve praeponitur quique sine loco ad eundem actum praeponitur.
La qualifica di ‘institor’
per il giurista severiano prescinde, dunque, dal luogo in cui si esercita
l’attività (può trattarsi di una taberna, oppure di un altro luogo: ‘tabernae locove’) – il luogo può persino
mancare (‘sine loco’) -
ma resta pur sempre legata allo svolgimento di un’emptio-venditio.
[33] In D.
14.3.5.1 Ulpiano fa riferimento all’insularius
e all’aedificio praepositus.
Sull’attività di speculazione immobiliare si veda GARNSEY, L’investimento immobiliare urbano,
in FINLEY (a cura di), La
proprietà a Roma (Bari 1980), 149 ss.; incidentalmente
sull’argomento anche DI PORTO, Impresa
collettiva e schiavo «manager», cit., 70 ntt. 25 e 26.
[34] Gli horrea erano magazzini utilizzati per il
deposito delle merci. Per tutti rinviamo da ultimo a PETRUCCI, Per una storia, cit., 239, (239-246 per
la letteratura), il quale ricorda che gli horrea
«assolvevano funzioni di primissimo piano nell’economia romana
tardo repubblicana ed imperiale, ed i loro titolari, gli horrearii, non necessariamente coincidenti con i proprietari degli
edifici adibiti a magazzini (i domini
horreorum), erano imprenditori dotati di un proprio personale, la cui
attività principale consisteva nel concludere con terzi contratti aventi
ad oggetto la locazione dei vari magazzini e spazi, nei quali l’edificio
era di solito suddiviso, e nel fornire un servizio di sorveglianza degli
stessi». Per una rassegna sulle fonti si veda DAREMBERG-SAGLIO, sv. ‘Horreum’.
[35] Le officinae erano generalmente
‘stabilimenti industriali’, laboratori, opifici. Il termine ricorre
spesso in Plinio, Nat. hist. 16,6,8,23
(officinae aerariorum); 9,38,62,133 (officinae tingentium); 36,22,47,165 (officinae tonstrinarium); 35,11,40,143 (officinae
fullonum); 35,12,45,155 (officinae plastarum); 18,10,20,89 (officinae
aerariae et chartariae); in
diversi frammenti riportati nel Digesto, es. in D. 5.1.19.2 (Ulp., 60 ad ed.); ma soprattutto nel linguaggio
epigrafico dei bolli e dei marchi di fabbrica pervenutici; cfr. innanzitutto il
volume XV del C.I.L., curato da
DRESSEL. Dello stesso Autore vedi i Saggi
sull’instrumentum romano (Perugia 1978), in particolare le pagine
185-231, dedicate al materiale del monte Testaccio. Per la vasta bibliografia
sull’argomento si veda DI PORTO, «Filius», «servus» e «libertus», cit., 231 ss.
[36] Si
pensi all’attività dei muliones
e dei circitores cui fa
riferimento Ulpiano nei §§ 4-5 di D. 14.3.5 (Ulp., 28 ad ed.).
[37] Per
una classificazione delle tipologie di negotiationes
comprese nel settore economico riconducibile al campo di applicazione
dell’actio institoria, rinviamo
a DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo «manager», cit., 67 ss., il quale
indica: A) L’attività organizzata e continuativa di emptio-venditio di merces; B) L’attività di intermediazione nella
circolazione del denaro e l’esercizio del credito; C)
L’attività definibile con terminologia moderna come
‘prestazione di servizi’ (le negotiationes
cauponae, l’esercizio degli stabula,
l’attività dei fullones,
muliones, sarcinatores: D. 14.3.5.5-6); D) L’attività di
speculazione sugli immobili; E) Il vasto settore della produzione artigianale e
industriale.
Convergono sull’argomento: MICELI, Sulla struttura formulare, cit., 205 ss.; ID., Studi sulla «rappresentanza»,
cit. 64 ss.; CERAMI, Diritto commerciale
romano, cit., 13 ss.; ID., Impresa e societas, cit., 101; PETRUCCI,
Per una storia, cit., 15 ss.
[38]
SERRAO, L’impresa in Roma antica, cit.,
25 ss., sottolinea l’affinità tra taberna instructa e «instrumentum
negotiationis»; per DI PORTO, Il
diritto commerciale romano, cit., 441 ss., avrebbero un significato simile
a taberna instructa la locuzione instrumentum cauponae, menzionata da
Paolo in D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad Sab.)
e la locuzione instrumentum tabernae
cauponaie, cui fa riferimento Nerazio in un responso riportato da Paolo
nello stesso D. 33.7.13pr. (Paul., 4 ad
Sab.). In un altro contributo DI PORTO, «Filius», «servus» e «libertus», cit., 255, considera «una vera e propria taberna instructa
secondo la definizione ulpianea riportata in D. 50.16.185» il complesso
di beni descritto da Scevola in D. 33.7.7 (Scaev., 22 dig.). Di diverso avviso su quest’ultimo punto LIGIOS,
«Taberna», «negotiatio», cit., 117 nt. 283.
All’affinità tra taberna
instructa e «instrumentum
negotiationis» fanno riferimento anche CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 48-52.; ID., Impresa e societas, cit., 99-102; LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 79 ss. L’Autrice inoltre nel
suo Interpretazione giuridica e
realtà economica dell’«instrumentum fundi» tra
il I sec. a. C. e il III sec. d. C. (Napoli 1996), accoglie inoltre una
nozione imprenditoriale dell’instrumentum
fundi. Secondo ORTU, Note in tema di
organizzazione, cit., 3 ss., al trasferimento di una “azienda
venaliciaria” si farebbe riferimento in due fonti particolarmente
significative: si tratta di una delle Tabulae
Herculanenses (precisamente la tab. n.
lxiii) e di una delle Tavolette cerate di Cecilio giocondo (cioè quella riportata
in CIL IV.3340 n. xlv =
fira, III, apocha pompeiana, Chirographa, n. 130 a).
[39]
L’opinione di Nerazio è seguita anche da Marciano in D. 33.7.17.2
(Marcian., 7 inst.): Instrumento balneatorio legato dictum est
balneatorem sic instrumento contineri balneario, quomodo instrumento fundi
saltuarium et topiarios, et instrumento cauponio institorem, cum balneae sine
balneatoribus usum suum praebere non possint.
[40] Il ‘sed’ avrebbe un valore
esplicativo-rafforzativo e non avversativo. In tal senso CERAMI, Diritto commerciale romano, cit., 51-52. Un altro orientamento in
dottrina sottolinea la diversità delle posizioni dei due giuristi; rinviamo
per tutti a LIGIOS, «Taberna»,
«negotiatio», cit., 79 ss. con indicazione della
letteratura.
[41] Caupona indica nelle fonti per lo
più una locanda dove i viaggiatori potevano alloggiare e consumare cibi
e bevande. Per una rassegna dei significati del termine ‘caupona’ si vedano: FORCELLINI, Lexikon totius latinitatis, sv.
‘caupona’;
DAREMBERG-SAGLIO, sv. ‘Caupona’. Si vedano anche KLEBERG, Hôtels restaurants et cabarets dans
l’antiquité romaine (Uppsala
1957), 1-25 e 124-131 per le note; GASSNER, Zur
Terminologie der Kaufläden im Lateinischen, in «Münstersche Beiträge zur antiken
Handelsgeschichte», III (1984.I), 108 ss.; e più recentemente
FÖLDI, Caupones e stabularii nelle fonti del diritto romano, in Mélanges Fritz Sturm 1, (Liège 1999), 119 ss.
[44] Il
passo sarebbe la premessa per una definizione, da parte di Nerazio, dell’instrumentum tabernae.
Sull’argomento si rinvia a MARTINI, Le
definizioni dei giuristi romani, cit., 174 ss. e nt. 95, il quale è
dell’opinione che il passo costituisca la premessa di una definizione di ‘instrumentum tabernae’
della quale sarebbe rimasta solo la parte contenente il presupposto sul quale
fondare il concetto. Di diverso avviso è LIGIOS, «Taberna», «negotiatio», cit., 67 ss., la quale esclude posizioni
astratte del giurista che, invece, in tema di determinazione dell’instrumentum assume sempre un approccio
analitico, dimostrato anche nell’analoga materia dell’instrumentum fundi.
[46] Il
termine negotiator assume nelle fonti
un ben preciso significato, indicando a differenza del termine mercator, quegli operatori economici che svolgono in maniera professionale
attività implicanti la continuità dell’esercizio
commerciale (‘cottidianus
quaestus’), nonché la predisposizione di
un’organizzazione di beni e forza lavoro (taberna instructa), di attività cioè che possono
definirsi in termini di negotiatio.
Sull’argomento rinviamo a Gallo,
Negotiatio e mutamenti giuridici,
cit., 133 ss.; CERAMI, Diritto
commerciale romano, cit., 15 ss.,
secondo cui «…la giustapposizione ‘mercator-negotiator’ appare già acquisita in
termini non equivoci nei primi decenni del I sec. a. C., come possiamo
desumere, in particolare da alcuni brani ciceroniani e, segnatamente, da un
passo delle Verrine (
Sull’argomento cfr. anche CAPOGROSSI COLOGNESI, «Ius
commercii», «connubium»,
«civitas sine suffragio».
Le origini del diritto internazionale
privato e la romanizzazione delle comunità latino-campane, in AA.
VV., Le strade del potere. Maiestas
populi Romani, Imperium, Coercitio, Commercium. Saggi raccolti da
A. Corbino (Catania 1994), 19 ss.; LABRUNA, Il diritto dei romani e l’espansionismo, in AA. VV., Le strade del potere. Maiestas populi Romani,
Imperium, Coercitio, Commercium. Saggi raccolti da A. Corbino (Catania
1994), 115 ss.
[48]
Sull’argomento da ultimo si veda LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi» tra il I sec. a. C. e il III sec. d. C.
(Napoli 1996), con ampia letteratura in particolare ntt. 1-34. L’Autrice
sottolinea nell’introduzione del suo lavoro come l’istituto sia
stato trattato per lo più in connessione con altre materie, e
cioè in relazione al problema delle pertinenze (Kohler, Riccobono,
Andreoli, Rasi, Diurni e Gelpi) o in relazione all’interpretazione e
all’oggetto dei legati (Maschi, Voci, Horvat, Astolfi, John e Watson), o
ancora alle cose collettive (Dell’Oro), o a determinati beni ricompresi
nell’instrumentum (Lombardi,
Polara, Solazzi, Giliberti). Altri autori hanno considerato solo alcuni testi
sull’instrumentum nel contesto
di opere sui metodi interpretativi della giurisprudenza romana (Himmelschein,
Kübler, Coing, Horak, Gandolfi, Watson), o se ne siano occupati
nell’ambito di lavori sull’opera di determinati giuristi (Samter,
Ferrini,
Sul contributo di Ligios si vedano le osservazioni critiche di ASTOLFI, Riflessioni in tema di «instrumentum
fundi», in SDHI, 63 (1997),
521-546 e di CAPOGROSSI COLOGNESI, «Instrumenta»
e fisionomia dell’assetto agrario,
in Labeo 46 (2000), 102-111.
[49] Sul
passo esiste un’ampia letteratura: RICCOBONO, Vaticana Fragmenta 70. Instrumentum
fundi. Rinnegazione delle pertinenze immobili, in Studi in onore di Biagio Brugi nel XXX anno del suo insegnamento
(Palermo 1910), 188 ss.; BONFANTE, Forme
primitive ed evoluzione della proprietà romana, in Scritti giuridici varii (Torino 1918),
II, 116, 258 ss.; ARANGIO RUIZ, v. ‘Instrumentum’,
in Dizionario epigrafico De Ruggiero,
4, fasc. II, (Roma 1925) 59 ss., afferma che appartiene ad Alfeno in D.
33.7.12.2 (Ulp., 20 ad Sab.) la
nozione più antica di instrumentum,
ma non motiva in alcun modo la sua affermazione; OPPIKOFER, Das
Unternehmensrecht in geschichtlicher, vergleichender
und rechtspolitischer Betrachtung (Tübingen 1927), 37; FERRINI, Aulo Cascellio e i suoi responsi, Note critiche lette al R. Istituto Lombardo il
19 maggio 1886, 395-410, ora in Opere,
II, 61 ss.; ANDREOLI, Le pertinenze
(Padova 1936), 35, 39, 41 ss.; MASCHI, Studi
sull’interpretazione dei legati. Verba e voluntas (Milano 1938), 94;
STEINWENTER, Fundus cum instrumento. Eine
agrar – und rechtsgeschichtliche Studie (Wien-Leipzig 1942), 28, 34,
73 ss., 75 nt. 2; ID., v.
‘Instrumentum’, in PWRE,
9, 2 (1916), 1589; DE VISSCHER, Mancipium
et res mancipi, in SDHI, 2
(1936), 205 nt. 31; RASI, Le pertinenze e
le cose accessorie (Padova 1954), 27 ss.; GROSSO, Usufrutto e figure affini in diritto romano,
II ed. (Torino 1958), 182 ss.; DELL’ ORO, Le cose collettive nel diritto romano, cit., 91, 96; VOCI, Diritto ereditario romano, II ed.
(Milano 193), II, 2, 272 nt. 14; ID., recensione
a DELL’ ORO, op. cit., in SDHI, 30 (1964), 435; MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani,
cit., 150; BONFANTE, Corso di diritto
romano, a cura di CRIFÒ (Milano 1966), II, Proprietà, parte, I, 166 ss.; NICOSIA, Animalia quae collo dorsove domantur, in IURA 18 (1967), 60 ss. ntt. 48-49, 71 nt. 79; HORVAT, «Servi» e «legatum fundi» nella
giurisprudenza classica, in Antologia
giuridica romanistica e antiquaria (Milano 1968), I, 214 ss.; ASTOLFI, Studio sull’oggetto dei legati (Padova 1969), II, 10 ss.; JOHN, Die Auslegung
des Legats von Sachgesamtheithen in römischen
Recht bis Labeo (Karlsruhe 1970); DIURNI, v. 'Pertinenze’ (Storia), in ED, 33 (1981), 536; GILIBERTI, Servus quasi colonus. Forme
non tradizionali di organizzazione del lavoro nella società romana (Napoli 1981), 33, 98, 107 ss.; STAERMAN-TROFIMOVA, La schiavitù nell’Italia
imperiale, (trad. it.) (Roma
1982), 35; POLARA, Le «venationes». Fenomeno economico e costruzione giuridica (Milano 1983), 214
ss.; GELPI, Instrumentum. Contributo alla teoria delle pertinenze, Studi
senesi, 98 (III serie, 35), fasc. I
(1986), 50 ss.; MENTXARA, La
pignoracion de colectividades en el derecho romano clasico (Bilbao 1986), 70 ss. e nt. 198; BUTI, v. ‘Scorte’ (Storia), in ED, 41 (1989), 792 ss.; LIGIOS,
Interpretazione giuridica e realtà
economica dell’«instrumentum
fundi», cit., 43 ss.
[50]
L’enumerazione dei beni indicati da Sabino come facenti parte dell’instrumentum fundi non dovrebbe essere
tassativa come dimostrerebbero anche i frammenti riportati in D. 33.7.9 (Paul.,
4 ad Sab.): De grege ovium ita distinguendum est, ut si ideo comparatus sit, ut
ex eo fructus caperetur, non debeatur: si vero ideo, quia non aliter ex saltu fructus percipi poterit, contra erit; quia per greges fructus ex saltu percipiuntur; e D. 33.7.10 (Ulp., 20 ad
Sab.): Si reditus etiam ex melle
constat, alvei apesque continentur.
Sulla questione si veda da ultimo quanto sostenuto da LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà
economica dell’«instrumentum
fundi», cit., 59 ss.
[51] Come
sottolinea LIGIOS, Interpretazione
giuridica e realtà economica dell’«instrumentum fundi», cit.,
226 ss. e (per la bibliografia) ntt. 234 ss., con l’espressione ‘si villa cultior est’,
Ulpiano farebbe riferimento alla c.d. ‘villa d’otium’
o ‘villa di lusso’- rispondente al modello della villa catoniana che combina insieme e
armonicamente l’utilitas e la vetustas - e solo per tale ragione
ricomprenderebbe nell’instrumentum
fundi una serie di beni che altrimenti non ne farebbero parte; sul punto
anche CAPOGROSSI COLOGNESI, «Instrumenta»,
cit.,
[52]
L’inerenza dell’actio
tributoria alla categoria delle c.d. actiones
adiecticiae qualitatis è controversa in dottrina. Per tutti rinviamo
a CERAMI, Diritto commerciale romano,
cit. 41 e nt. 11 per la letteratura.
[53] Con
riferimento all’actio exercitoria:
Gai., inst., 4.71: Eadem ratione comparavit duas alias actions,
exercitoriam et institoriam… Cum enim ea quoque res ex
voluntate patris dominive contrahi videatur, aequissimum esse visum est in
solidum actionem dari.
D. 14.1.1 pr. (Ulp., 28 ad ed.): Utilitatem huius edicti patere nemo est qui
ignoret. Nam cum interdum ignari, cuius condicionis vel quales, cum magistris
propter navigandi necessitatem contrahamus, aequum fuit eum, qui magistrum navi
imposuit, teneri, ut tenetur, qui institorem tabernae vel negotio praeposuit,
cum sit maior necessitas contrahendi cum magistro quam institore.
Per l’actio
institoria:
Gai., inst., 4.71
appena riportato.
D. 14.3.1 (Ulp., 28 ad ed.):
Aequum praetori visum est, sicut commoda
sentimus ex actu institorum, ita etiam obligari nos ex contractibus ipsorum et
conveniri. sed non idem facit circa eum qui institorem praeposuit, ut experiri
possit: sed si quidem servum proprium institorem habuit, potest esse securus
adquisitis sibi actionibus: si autem vel alienum servum vel etiam hominem
liberum, actione deficietur: ipsum tamen institorem vel dominum eius convenire
poterit vel mandati vel negotiorum gestorum. Marcellus autem ait debere dari
actionem ei qui institorem praeposuit in eos, qui cum eo contraxerint.
Per l’actio
tributoria:
D. 14.4.1pr. (Ulp., 29 ad
ed.) Huius quoque edicti non minima
utilitas est, ut dominus, qui alioquin in servi contractibus privilegium habet
(quippe cum de peculio dumtaxat teneatur, cuius peculii aestimatio deducto quod
domino debetur fit), tamen, si scierit servum peculiari merce negotiari, velut
extraneus creditor ex hoc edicto in tributum vocatur.
Per le azioni contemplate nel triplex
edictum:
D. 14.5.1. (Gai., 9 ad ed.
prov.): Omnia proconsul agit, ut qui
contraxit cum eo, qui in aliena potestate sit, etiamsi deficient superiores
actiones, id est exercitoria institoria tributoriave, nihilo minus tamen in
quantum ex bono et aequo res patitur suum consequatur. Sive
enim iussu eius, cuius in potestate sit, negotium gestum fuerit, in solidum eo
nomine iudicium pollicetur: sive non iussu, sed tamen in rem eius versum fuerit,
eatenus introducit actionem, quatenus in rem eius versum fuerit: sive neutrum
eorum sit, de peculio constituit.
Per la sola actio quod
iussu:
Gai., inst., 4.71: In primis itaque si iussu patris dominive
negotium gestum erit, in solidum praetor actionem in patrem dominumve
comparavit; et recte, quia qui ita negotium gerit magis patris dominive quam
filii servive fidem sequitur.
D. 15.4.1pr. (Ulp., 29 ad
ed.): Merito ex iussu domini in
solidum adversus eum iudicium datur, nam quodammodo cum eo contrahitur qui
iubet.
Per l’actio de
peculio et de in rem verso:
D. 15.3.1pr. (Ulp., 29 ad
ed.): Si hi qui in potestate aliena
sunt nihil in peculio habent, vel habeant, non in solidum tamen, tenentur qui
eos habent in potestate, si in rem eorum quod acceptum est conversum sit, quasi
cum ipsis potius contractum videatur.
Sull’importanza e le ragioni dell’intervento pretorio
rinviamo in particolare: Gallo, Negotiatio e mutamenti giuridici, cit.,
161 ss.; ID., Un nuovo approccio per lo studio del «ius honorarium», in SDHI, 62 (1996), ora in Opuscula selecta (Padova 1996), 988 ss.
e 991 ss. (per quanto attiene a
D. 14.3.1); ID., L’officium
del pretore nella produzione ed applicazione del diritto. Corso di diritto
romano (Torino 1997), 109 ss.; MICELI, Sulla
struttura formulare, cit., 188 ss., in particolare a pagina 190
l’Autrice scrive: «I richiami all’utilitas, alla fides e
all’aequitas, sono
particolarmente espliciti e determinanti nell’identificazione dei motivi
che portarono all’introduzione delle a.a.q.,
e che ne determinarono struttura e regime». Opinione non dissimile
l’Autrice esprime nel recente Studi
sulla «rappresentanza»,
cit., 38.
Sull’argomento si vedano anche PETRUCCI, Diritto commerciale romano, cit., 181 e
284; ID., Per una storia, cit., 11 ss., 56 ss., 79 ss. e 146;
NAVARRA, Ricerche sull’utilitas
nel pensiero dei giuristi romani
(Torino 2002), 148 ss., con indicazione della precedente bibliografia.
[55] Da
ultimo MICELI, Sulla struttura formulare,
cit., dimostra che l’obligatio sanzionata da queste azioni
sia proprio quella del dominus o pater, o comunque quella del soggetto a
vantaggio del quale si producono gli effetti del negozio concluso, e non
l’obligatio, del filius o del preposto, né
l’obligatio naturalis del servus. Inoltre, proprio dal momento in
cui viene creato il concetto di obbligatio
naturalis per i servi e i filii
assumono la capacità di obbligarsi, più chiaramente di prima si
evidenzia il fatto che tramite le azioni adiettizie si fa valere in giudizio
non una responsabilità del filius
o del servo personale, ma una responsabilità del pater o del dominus: tale
circostanza si ripercuote sulla stessa struttura formulare delle a.a.q., poiché sarebbe proprio
nell’intentio di tali azioni
che doveva essere menzionata, secondo l’Autrice, l’obligatio gravante direttamente in capo
a tali ultimi soggetti. Solo in taluni casi, invece, assumeva rilievo la
responsabilità del preposto, in quanto talune fonti prevedono
espressamente la possibilità di agire contro il magister, qualora sia un soggetto libero: sarebbero queste le
uniche ipotesi in cui si realizzerebbe una responsabilità adiettizia. In
esse si precisa che la responsabilità del preposto non deriva dagli
editti relativi alle actiones institoria e exercitoria, dove non si prevede una convenibilità
alternativa tra institor o magister e preponente, bensì
dalle normali regole contrattuali. Da qui l’ulteriore conseguenza che la
responsabilità del preposto sia stata indebitamente generalizzata,
poiché i passi, dove è menzionata, si riferiscono solo all’actio exercitoria e sembrano scaturire
dalla soluzione di casi estremamente particolari. L’opinione è
ribadita nel più recente Studi
sulla «rappresentanza»,
cit., 35 ss.
[56]
L’espressione compare in un frammento di Ulpiano estratto dal libro
ventotto dei suoi commentari ad edictum
e inserito in D. 14.3.11.5. (Si ricordi che Ulpiano in D. 14.3.11.2-5 si occupa
del tema dell’eventuale contenuto della praepositio institoria e
dei modi di compierne la proscriptio).
La necessità di non ingannare i terzi è richiamata - sempre da
Ulpiano e a proposito dell’actio
exercitoria - con un’espressione della medesima portata che si trova
in D. 14.1.1.5 (Ulp., 28 ad ed.):…alioquin contrahentes decipientur…
Sull’argomento rinviamo per tutti a
PETRUCCI, Per una storia, cit.,
22 ss., 65 ss.
[57]
Ricordiamo che, secondo l’autorevole opinione del Lenel, la taberna instructa doveva comparire nel
testo della formula dell’actio
institoria. Vedi supra nt. 22.
[58]
Rinviamo per le considerazioni sul testo a DI PORTO, Impresa agricola e attività collegate, cit., 3237 ss. e 3238
nt. 12 per la letteratura.
[59] RABEL, Ein Ruhmesblatt Papinianus. Die sogenannte
actio quasi institoria, in Festschr.
Zitelmann (München-Leipzig 1913), 6 (seguìto da LENEL., Edictum3, cit., 263 nt. 2); ALBERTARIO, L’actio quasi institoria (Milano
1912), ora in Studi di diritto romano
4, (Milano 1946), 205 ss.
[60] Per
tutti BURDESE, Autorizzazione ad alienare
in diritto romano (Torino 1950), 31; ID., Actio ad exemplum institoriae e
categorie sociali, cit., 197 ss., ANGELINI, Osservazioni, cit., 240 ss.; SERRAO, Institore (Premessa storica),
in ED. 21 (1971), 830 ss.; LONGO, Actio exercitoria, cit., 613; CHIUSI,
Landwirtschaftliche Tätigkeit und actio institoria, in ZSS. 108 (1991), 155 ss., 179 ss.
[61] Paul.
Sent. 2.8.2: Si quis pecuniae
faenerandae agroque colendo, condendis vendendisque frugibus praepositu est, ex
eo nomine quod cum illo contractum est in solidum fundi dominus obligatur: nec
interest, servus an liber sit.
[62]
Così per SOLAZZI, Le azioni del
pupillo, cit., 570; BURDESE, Autorizzazione
ad alienare, cit., 30, 31 e nt.10 (per la precedente letteratura); ID,
‘Actio ad exemplum
institoriae’, cit., 198 ss. e soprattutto 201; LONGO, Actio exercitoria, cit., 613.
[63] In tal
senso DI PORTO, Impresa agricola e
attività collegate, cit., 3247 ss.; SERRAO, Institore, cit., 831 nt. 18. Sulla scia di Serrao – il quale
sottolinea che l’attività di pecuniam
faenerare e quella di agrum colere
considerate in Paul. Sent. 2.8.2 sono
considerate dal giurista severiano come oggetto di un’unica praepositio - Di Porto è
dell’opinione che nel passo delle Sententiae
si faccia riferimento allo stesso fenomeno economico, considerato da Labeone e
Ulpiano in D. 14.3.5.2 (Ulp., 28 ad ed.),
e cioè al «fascio» (o «gruppo») di
attività speculativo-imprenditoriali collegate da un rapporto di tipo
giuridico-organizzativo, in quanto tutte costituenti oggetto di un’unica praepositio, per cui non si avrebbe
«remora» alcuna a concedere la normale actio institoria.
[65] Si
tratta di un’azione fortemente discussa in dottrina sia in ordine alla
sua classicità, sia in relazione ai presupposti che ne determinavano la
concessione. Per la vasta letteratura sul tema, vedi supra nt. 16.
[66] Si
tratta probabilmente delle stesse ragioni che avevano spinto Papiniano ad
introdurre l’actio ad exemplum con
riferimento all’attività svolte da un procurator praepositus, in D. 14.3.19pr. (Pap., 3 resp.): In eum, qui mutuis accipiendis pecuniis procuratorem praeposuit, utilis
ad exemplum institoriae dabitur actio: quod aeque faciendum erit et si procurator
solvendo sit, qui stipulanti pecuniam promisit; oppure riguardo
all’attività svolta da un procurator
che aveva avuto mandato da un terzo ad ‘accipere
mutuam pecuniam’ in D. 17.1.10.5 (Ulp., 31 ad ed.): Idem Papinianus
libro eodem refert fideiussori condemnato, qui ideo fideiussit, quia dominus
procuratori mandaverat ut pecuniam mutuam acciperet, utilem actionem dandam
quasi institoriam, quia et hic quasi praeposuisse eum mutuae pecuniae
accipiendae videatur; o ancora a quella di un amicus o di un libertus
cui era stato conferito un mandato ‘pecuniam
mutuam accipiendam’ tramite una lettera in D. 3.5.30pr. (Pap., 2 resp.): Liberto vel amico mandavit pecuniam accipere mutuam: cuius litteras
creditor secutus contraxit et fideiussor intervenit: etiamsi pecunia non sit in
rem eius versa, tamen dabitur in eum negotiorum gestorum actio creditori vel
fideiussori, scilicet ad exemplum institoriae actionis; o infine con
riferimento all’ipotesi di un procurator
che vende e presta una cautio al
compratore, in D. 19.1.13.25 (Ulp., 32 ad
ed.): Si procurator vendiderit et
caverit emptori, quaeritur, an domino vel adversus dominum actio dari debeat.
et papinianus libro tertio responsorum putat cum domino ex empto agi posse
utili actione ad exemplum institoriae actionis, si modo rem vendendam mandavit:
ergo et per contrarium dicendum est utilem ex empto actionem domino competere.
Sui tre frammenti appena riportati si veda da ultimo MICELI, Studi sulla «rappresentanza», cit., 333 ss. In particolare l’Autrice
scrive (a pagine 336, 337) che: «Non vi sono elementi dai quali dedurre
un riconoscimento generale dell’actio
ad exemplum institoriae… Infatti, ci sembra di poter affermare e
dimostrare che, anche in tarda età classica, la tipicità delle
figure del procurator e dell’institor è, mantenuta
salda…e che l’estensione della disciplina dell’actio institoria al caso del procurator praepositus (D. 14.3.19pr.)
avvenga proprio nell’ottica della coerenza della disciplina dell’actio institoria. L’esigenza
tutelata è quella di superare il dato formale, per far prevalere quello
sostanziale. In tal senso, ma con maggiore difficoltà, può anche
ammettersi che qualche giurista abbia potuto proporre l’applicazione
della stessa disciplina ad una situazione del tutto differente, ma che era
comunque idonea a determinare l’affidamento dei terzi (mandato conferito
ad un procurator o ad un libertus portato a conoscenza dei terzi;
cfr. D. 17.1.10.5;
D. 3.5.31(30)pr.)».
[67] Si
ricordi l’interesse mostrato dagli scriptores
de re rustica a cominciare da Catone per l’importanza attribuita al
sistema di comunicazione in cui debba inserirsi il fondo. Si vedano sul punto:
Catone, De agri cultura, 1,3,
consiglia al pater familias che
voglia acquistare un fondo, di preferire quelli che siano vicini ad un centro
abitato o al mare o ad un fiume navigabile o ad una via importante. Varrone, De re rustica, 1,16,1 e 1,2,14,
dà grande rilievo alla presenza di ‘viae
aut fluvi’, grazie a cui si possono intrecciare rapporti commerciali
con altri fondi. Columella, Libri rei
rusticae, sottolinea l’importanza per l’economia della villa
delle vie d’acqua (1,2,3) e di terra (1,3,3-5). Su questi passi rinviamo
per tutti a CAPOGROSSI COLOGNESI,
Proprietà agraria e lavoro subordinato nei giuristi e negli agronomi
latini tra Repubblica e Principato, in Società
romana e produzione schiavistica, I (Roma-Bari 1981), 446 e 529 nt. 6;
CARANDINI, Schiavi in Italia, cit.,
52 ss.
E DE MARTINO, L’economia,
in AA.VV., «Princeps urbium».
Cultura e vita sociale nell’Italia
romana, (Milano 1991), 283, nota che «il Mediterraneo era disseminato
di porti. In Italia i maggiori erano a Pozzuoli e Brindisi, poi si aggiunse
Ostia all’inizio dell’impero. Pozzuoli con un grandioso molo,
perdette il suo primato, ma rimase importante.
Recenti ricerche e nuovi documenti, come le tavole dette di
Murecine, hanno dimostrato che in esso vi era un intenso commercio di grano e
di schiavi.
Nei porti maggiori si installavano gli uffici dei negoziatori,
secondo la nazionalità. La loro presenza, largamente attestata dalle
iscrizioni, ci permette di avere un’idea sulla storia dei maggiori centri
del traffico marittimo e delle rotte.
I trasporti per mare non si limitarono al Mediterraneo. Si
spinsero nell’Atlantico verso il nord e per il mar Rosso verso
l’estremo Oriente. La scoperta dei monsoni rese possibile una rotta
diretta, oltre il mare d’Arabia, verso l’India.
Dall’Oriente si importavano a Roma generi di lusso, con una
bilancia commerciale sicuramente passiva. Anche con
DI PORTO, Impresa
collettiva e schiavo «manager»,
cit., 169: «È perfin superfluo ricordare l‘importanza
economica assunta dal fenomeno del trasporto marittimo negli ultimi due secoli
della repubblica e nei primi due dell’impero. Non v’è dubbio
che si trattasse di una delle principali fonti di ricchezza».
[68] Esse
sono state poste in evidenza da DI PORTO, Impresa
collettiva e schiavo «manager», cit., 201 nt. 73 e da PETRUCCI,
Per una storia, cit., 57.
[69] Viene
generalmente riconosciuta dalla dottrina l’interpolazione delle frasi
«culpae-adhibuit» e
«nam-adhibuerit».
Si vedano a tal proposito MESSINA VITRANO, Note intorno alle azioni «infactum» di danno e di furto contro il «nauta», «il caupo», «lo stabularius», (Palermo
1909), 25 ss. Per la critica precedente e successiva cfr. gli Autori citati
dall’Index Interpolationum
(Eisele, Buckland, Schulz). Da ultimo si veda anche FERCIA, Criteri di responsabilità
dell’exercitor. Modelli culturali dell'attribuzione di rischio e
‘regime’ della nossalità nelle azioni penali ‘in factum adversus nautas, caupones et
stabularios’ (Torino 2002). Tuttavia, come sottolinea PETRUCCI, Diritto commerciale romano, cit., 232
nt. 7: «Le interpolazioni presenti in esso … non attengono
l’aspetto qui preso in esame».
[71] Il
frammento è considerato da MICELI, Sulla
struttura formulare, cit., 194 ss. unitamente ad altri brani (Ulpianus 28 ad ed. in D. 14.1.1.9 e D. 14.1.7pr.;
Africanus 8 quaest. in D. 14.1.7.2)
come una delle testimonianze più preziose che dimostrano come il
contenuto della praepositio non sia
compiutamente definibile a priori, e non dipende esclusivamente dalla
volontà del preponente, ma, al pari della responsabilità che
grava su quest’ultimo soggetto, si determina prevalentemente su un piano
oggettivo. La praepositio, infatti,
costituisce, secondo l’Autrice solo l’atto di legittimazione
iniziale del preposto nei confronti dei terzi, ed individua solo genericamente
l’attività che è chiamato a svolgere. Le considerazioni
fatte varrebbero, secondo l’Autrice, a superare i dubbi
sull’autenticità delle soluzioni giuridiche adottate in D.
14.1.1.8-9 avanzati da una parte della dottrina: DE MARTINO, Studi sull’actio exercitoria, in Rivista del diritto della navigazione,
VII, 1-2, 1941, 7 ss., ora in Diritto,
Economia e società nel mondo romano, I (Napoli 1995), 495 ss. (da
cui si cita); ID., Ancora
sull'actio exercitoria, in Labeo
4 (1958) 274 ss., ora in Diritto,
Economia e società nel mondo romano, I (Napoli 1995), 631 ss. (da cui si cita); PUGLIESE, In tema di actio exercitoria, cit., 308
ss.
In particolare, per il tema del mutuo ‘navis reficiendae causa’, rinviamo a CERAMI, “Mutua
pecunia a magistro ‘navis reficiendae causa' sumpta” e
“praepositio exercitoris”. Profili storico-comparatistici, in
AUPA 46
(2000), 131 ss.
[72] Il
problema dei rapporti tra normativa originaria (lex Rhodia) ed elaborazione dovuta ai giuristi romani è
stato ampiamente discusso in dottrina. Oltre al classico studio di DE MARTINO, Lex Rhodia. Note di Diritto Romano Marittimo
riprodotto in Diritto economia e
società nel mondo romano I. Diritto
privato, Antiqua 72 (Napoli 1995),