N. 8 – 2009 – Monografie

 

Cap. I della monografia: Luca Fezzi, Il tribuno Clodio, Laterza Editore, Roma-Bari 2008, 156 pp.

Indice Sommario

 

Luca Fezzi

Università di Pisa

 

La Roma di Publio Clodio Pulcro

 

 

«Tutte le epoche avranno un Clodio, non un Catone», sentenzia Seneca, ricordando all’amico Lucilio la corruzione che, un secolo prima, regnava sovrana su Roma (Lettere, XVI, 97, 10).

Nel confronto con Marcio Porcio Catone, l’eroe repubblicano di ogni tempo, lo spregiudicato Publio Clodio Pulcro figura come una semplice, malvagia comparsa. Egli fu in realtà molto di più, almeno secondo il metro di giudizio della politica. Noto soprattutto per il tribunato della plebe del 58 a.C., riuscì infatti a rivestire, per un intero decennio, un ruolo da protagonista sulla vivace, affollata e altrettanto irripetibile scena che caratterizzò la fine della repubblica romana.

La Roma di Clodio, la stessa di Caio Giulio Cesare (100-44) e di Marco Tullio Cicerone (106-43), controllava un territorio esteso – grazie alle incalzanti conquiste militari degli anni 66-51 – alla maggior parte del bacino del Mediterraneo e alle Gallie. Da un punto di vista istituzionale, il contrasto tra la necessità di governare un’area sempre più vasta e i ritmi di una repubblica che viveva perpetuando consuetudini e procedure vecchie di quattro secoli appariva ormai stridente.

Era infatti l’Urbe, la città, a dirigere il mondo che, in maniera esclusiva, dominava. Lo faceva attraverso le folle composite e volubili che si  raccoglievano presso il Foro e il Campo Marzio per scegliere i governanti o votare le leggi. Lo faceva attraverso i magistrati, gli uomini politici eletti dal popolo che prendevano, a seconda del ruolo, il nome di questori, tribuni, edili, pretori, consoli e censori. Lo faceva infine attraverso il senato, il vetusto consesso di coloro che avevano rivestito incarichi di governo, garante degli ordinamenti e delle tradizioni, fautore della politica estera e amministratore, per mano dei propri membri, delle provinciae, le regioni di conquista.

Roma era il mondo intero: a essa Cicerone, in esilio, anelava con nostalgia; a essa Cesare, nel corso dell’inarrestabile campagna militare in Gallia, si affrettava a far pervenire le notizie, accuratamente selezionate, dei propri successi.

Roma poteva essere blandita e conquistata soltanto attraverso l’impegno politico. Era questo il nesso principale tra le folle tumultuanti delle assemblee, i magistrati che amministravano lo Stato e conducevano gli eserciti, e il senato, la litigiosa assemblea di anziani – e meno anziani – che si arrogava, dalla notte dei tempi, il controllo di ogni ambito della vita pubblica. Chi, tra costoro, comandava? Tutti e nessuno: è forse questa la risposta più corretta, nello spirito dell’empirico quanto ormai instabile equilibrio di poteri che, soltanto un secolo prima, aveva così profondamente affascinato il greco Polibio.

Da una parte vi era il popolo. In una logica di ‘democrazia diretta’, il cittadino maschio adulto, di qualsiasi estrazione, aveva il diritto di scegliere i propri governanti e di esprimersi sulle leggi riguardanti la cosa pubblica. Ciò avveniva attraverso assemblee diversamente organizzate a seconda dell’occasione e dell’importanza dei temi da trattare; tutte si riunivano nell’Urbe e tutte rispondevano a un sistema ‘maggioritario puro’.

L’assemblea più autorevole era quella dei comizi centuriati. Il nome deriva da centuria, una delle 193 unità di voto tra cui i cittadini erano ripartiti secondo un ormai superato criterio censitario: i più ricchi nelle prime 98 e gli altri, indiscussa maggioranza numerica, nelle rimanenti. Convocate dai consoli o dai pretori presso il Campo Marzio, eleggevano i magistrati maggiori e decidevano le questioni più delicate.

Seguivano i comizi tributi, riuniti nel Foro. La loro denominazione proviene da tribus, una delle 35 unità di voto che raccoglievano, questa volta su base territoriale, l’elettorato. Chi aveva origini e, più concretamente, proprietà terriere nell’Italia peninsulare (che dopo il 90 aveva ricevuto la cittadinanza romana), era iscritto in una delle 31 tribù ‘rurali’; chi invece poteva presentare come unico riferimento la capitale, in una delle 4 ‘urbane’: in esse confluivano anche i liberti, gli schiavi affrancati – per meriti vari – dai loro padroni.

In maniera analoga ai comizi tributi funzionava il concilium plebis, l’assemblea della plebe convocata dai tribuni. Unica differenza di rilievo era l’esclusione dei patrizi, l’originaria aristocrazia di sangue ormai ridotta a una manciata di famiglie; nel novero, anche l’antichissima casata dei Claudii Pulcri.

Ad avere maggior voce in capitolo erano i ricchi, sia che vivessero in pianta stabile nell’Urbe sia che potessero permettersi, in occasione delle principali consultazioni, lunghe e costose trasferte. Accanto – o più precisamente al seguito –, un corteggio di varia umanità, i clientes, legati al loro patrono da molteplici vincoli e quindi tenuti, in linea di massima, a seguirne le direttive. Grazie a tale rapporto di dipendenza, l’oligarchia romana riusciva a controllare e mobilitare, dalla notte dei tempi, i ceti inferiori.

Il resto della cittadinanza era composto da un indistinto insieme che coincideva con la plebe urbana, entità meno conosciuta di quanto in genere si creda e, proprio per questo, soggetta a interpretazioni molto diverse. Discendente della componente etrusca di cinque secoli prima, era ormai socialmente ed etnicamente multiforme: in una città vicina al mezzo milione di abitanti, l’alternarsi delle fortune personali e familiari, l’incessante immigrazione dall’Italia e l’affrancamento degli schiavi – provenienti da ogni angolo del Mediterraneo e non solo – avevano contribuito ad accentuarne la varietà. Priva di una propria ‘ideologia’, relativamente libera da meccanismi di tipo clientelare ma allo stesso tempo facilmente mobilitabile, la plebe urbana costituiva, per i politici più radicali, un serbatoio di consensi e, nei casi estremi, di braccia da armare contro gli avversari. Il coinvolgimento spregiudicato degli schiavi, i ‘non cittadini’ per eccellenza, e l’assenza di un corpo di ‘polizia’ lasciavano ai più risoluti una grande libertà di azione.

Ben lontani da ogni possibile definizione restano, invece, due importanti aspetti di fondo.

Il primo è il livello di partecipazione alle consultazioni elettorali. Come già accennato, ovvie ragioni logistiche favorivano coloro che vivevano effettivamente a Roma o nelle immediate vicinanze. La mancanza di un quorum, inoltre, rendeva particolarmente efficaci le strategie di organizzazione e controllo dei votanti, sulla cui identità, a volte, qualcuno cercava di barare.

Il secondo aspetto, fortemente legato al primo, è il ‘peso’ effettivo dell’‘opinione pubblica’. In altre parole, coloro che – pochi o molti che fossero – esercitavano il voto, lo facevano in libertà o in obbedienza alle indicazioni di un patrono? A questo interrogativo, che molto ha diviso la critica, forse neppure i contemporanei avrebbero saputo rispondere in maniera soddisfacente: il grado di ‘autonomia’ degli elettori è infatti, in ogni tempo, un elemento assai controverso.

Vi erano poi i magistrati, rinnovati ogni anno: i due consoli, capitani della ‘nave dello Stato’ e poi, a scendere, i pretori (che, tra gli altri compiti, amministravano la giustizia), gli edili (che presiedevano i giochi e i lavori pubblici) e infine i tribuni della plebe. Questi ultimi, nati quattro secoli prima in rappresentanza del ‘contropotere’ popolare, erano ormai completamente integrati nei meccanismi istituzionali. Penalizzati nell’82 dall’ordinamento conservatore e filosenatorio imposto dal dittatore Lucio Cornelio Silla, nel 70 – con il consolato di Cneo Pompeo Magno e di Marco Licinio Crasso – riacquistarono le prerogative originarie: inviolabilità, diritto di veto verso gli altri magistrati e lo stesso senato, nonché iniziativa legislativa autonoma.

In nessun caso, comunque, le cariche politiche erano accessibili a tutti i cittadini. Una campagna elettorale, con i suoi banchetti e i suoi spettacoli – per tacere dei brogli e della corruzione –, aveva, per il candidato, costi molto alti. In genere, per rifarsi delle spese era necessario attendere la fine del mandato elettivo, non remunerato, dopo il quale consoli e pretori potevano governare, con vastissimi poteri e il conforto di un fedele entourage, le provinciae, non di rado vere e proprie zone di sfruttamento. Gli altri – questori, edili e tribuni – dovevano invece impegnarsi ancora, per salire il gradino successivo di una piramide che si stringeva sempre più in fretta.

Ben pochi, comprensibilmente, erano abbastanza ricchi e conosciuti per potersi permettere una trafila così incerta e dispendiosa, resa ancora più aleatoria dalla totale assenza di strutture di tipo partitico e delle garanzie a esse correlate.

Tra coloro che tentavano la carriera politica vi erano, naturalmente, i patrizi e, più in generale, i nobiles, discendenti di chi aveva già rivestito importanti magistrature. In un’economia fondamentalmente agricola, tutti costoro erano di regola grandi latifondisti, fautori di una visione tradizionalista ed elitaria: chiamavano sé stessi optimates, ‘i migliori’.

In coda, il ridottissimo drappello dei coraggiosi che si lanciavano nella mischia senza un pedigree adeguato, chiamati in spregio homines novi. La rendita ‘da posizione’ non riguardava soltanto l’ambito economico, ma si estendeva anche a quello politico. L’homo novus Cicerone – che cercò di fondare il proprio consenso sulla ben più ampia categoria dei boni, i ‘benpensanti’ conservatori provenienti da ogni parte d’Italia – osservava amareggiato che su molti suoi avversari «piovevano, anche quando dormivano, tutti i favori concessi dal popolo romano» (Contro Caio Verre, II, 5, 180).

Tra questa élite non mancavano comunque, dai tempi del tribunato di Tiberio Sempronio Gracco (133), i politici populares, disposti a cavalcare le richieste più radicali delle masse.

A dibattersi per raggiungere le leve del potere era, invece, un’attivissima classe ‘medio-alta’, quella degli equites, i cavalieri, che aveva tratto le proprie fortune – talora immense – dal commercio, dalle transazioni in denaro e dai diritti di riscossione delle imposte provinciali, appannaggio dei publicani; questi ultimi, la componente più attiva e spregiudicata, erano organizzati in compagnie private, potentissime nei territori di conquista e molto influenti nella stessa Roma.

Uno dei più aspri terreni di scontro tra nobilitas e cavalieri, in una società in cui la giustizia aveva chiara connotazione politica e i processi stessi si tenevano nel Foro, davanti a folle di spettatori, erano le quaestiones perpetuae, i tribunali permanenti. Nati verso la metà del II secolo per sostituire l’arcaico giudizio comiziale e specializzatisi in base al tipo di reato, erano costituiti da giurie senatorie ed equestri cui si aggiunse, nel 70, la meno conosciuta componente dei tribuni dell’Erario. Soprattutto nelle quaestiones de repetundis, dove imputati erano gli ex governatori delle provinciae accusati di concussione, i criteri di composizione delle corti giudicanti erano materia sempre aperta allo scontro. Da essi poteva infatti dipendere una condanna o un’assoluzione.

In ogni caso, l’ansia di rendere giustizia ai sudditi delle provinciae, dal 147 gli unici a pagare le tasse, non era molto diffusa. Al contrario, i magistrati più ambiziosi potevano tutti, indipendentemente da convinzioni e appartenenza, contare su un potente alleato, vale a dire il diffuso entusiasmo che Roma nutriva per le iniziative ‘imperialiste’. I publicani, e più in generale i cavalieri, vedevano in esse nuove opportunità per accrescere i loro traffici, mentre il popolo – ‘assistito’ dalle distribuzioni di grano a prezzo politico – vi scorgeva, a sua volta, nuove garanzie di sopravvivenza.

Non solo il governo di un territorio già controllato, ma anche un nuovo incarico di conquista poteva comportare, per un magistrato, grandi vantaggi. Ovvie ragioni di prestigio personale si sommavano infatti alle opportunità offerte dal rapporto privilegiato con i soldati, tutti di mestiere e soggetti a una lunghissima ferma. Dopo l’esperienza traumatica di Silla, che tra l’84 e l’82 aveva invaso l’Italia e occupato Roma, imponendo con la forza delle armi un regime autoritario, tali opportunità non erano più sottovalutate da nessuno: Pompeo, pacificatore dell’Oriente (67-62), e Cesare, conquistatore delle Gallie (58-50), ne fecero addirittura tesoro. Una schiera di veterani fedeli poteva risultare utile anche fuori dagli scenari di guerra, per esercitare pressioni sulla cittadinanza o, in condizioni meno drammatiche, per recarsi in massa a votare. Vantaggi così grandi avevano, ovviamente, un costo: tra le maggiori voci di spesa per lo Stato, figurava l’assegnazione, ai soldati in congedo, di lotti di terra pubblica da coltivare.

Vi era infine il senato. L’assemblea, permanente, cooptava tutti coloro che avevano ricoperto magistrature e resistevano alla supervisione dei censori, eletti ogni cinque anni per mettere ordine, in base a criteri di moralità e ricchezza, tra i ranghi della cittadinanza.

Ai tempi di Clodio il consesso, che da secoli autoriproduceva – in linea con il carattere tradizionalista della politica romana – la propria composizione, aveva recentemente subìto un forte ricambio. Silla ne aveva raddoppiato i membri, portandoli a 600, favorendo l’entrata dei propri sostenitori e allo stesso tempo allontanando, non da ultimo attraverso l’eliminazione fisica, gli oppositori.

Ciò comportò una conseguenza importante, esattamente il contrario di quanto il dittatore si era proposto. Dopo il riemergere, nel 70, degli orientamenti politici filopopolari, la perdita di autorità del senato finì per assumere una piega definitiva: personaggi come il giovane Catone (già incontrato nella citazione di Seneca), punta avanzata degli orientamenti più conservatori, non potevano certo arginarla. Non che l’assemblea non fosse più in grado di esercitare il proprio potere, come tra il 63 e il 62 dimostrarono, in maniera clamorosa, la condanna a morte dei seguaci dell’aristocratico ribelle Lucio Sergio Catilina e la mobilitazione generale contro le sue truppe. Si trattava piuttosto di un’erosione interna, spesso giocata sul contrasto con i singoli magistrati, tribuni in testa, e agevolata dal conflitto tra generazioni.

In un mondo che sembrava girare sempre più rapidamente, i giovani più ambiziosi, come Clodio, erano impazienti di bruciare le tappe.