Diritti e potere[1]
Presidente emerito
della Corte Costituzionale
Presidente del
comitato nazionale di bioetica
Se l’antichità deve tornare ad
essere interrogata su quanto ne abbiamo ereditato e di cui siamo diventati immemori,
occorre ricordare che agli inizi del III secolo d.C. Ulpiano insegnava la
derivazione etimologica di ius da iustitia, e quanto al significato della
giustizia si giovava della definizione di Celso, uno dei maggiori giuristi del
secolo precedente, che essa presentasse il diritto come «arte del bene e
dell’equo» ars boni et equi.
In tutti gli ordinamenti moderni fine del diritto è di produrre
giustizia. Il luogo dove avviene questa traduzione del diritto in giustizia lo
chiamiamo, almeno dovunque si sia svolta o propagata la civilizzazione
occidentale, che dalla tradizione romana discende, Palazzo di Giustizia. Per
misurare il valore che la giustizia ha raggiunto nella storia della
civiltà dobbiamo ricorrere ad un aneddoto, raccontato dallo storico Dione
Cassio, riguardante l’imperatore Traiano. Il racconto, ampliato da
Giovanni Diacono nella sua vita di San Gregorio, diventa leggendario e
tralaticio in testi letterari medievali e raccolto, ed eternato, nel Purgatorio
di Dante. E’ probabile che il poeta abbia avuto tra le sue fonti il
Novellino, data la specularità tra Nov. LXIX e Purg. X, 72-90. Traiano
sta muovendo alla guerra alla testa della sua cavalleria, quando una povera
vedova in lacrime ferma il cavallo e lo implora di renderle giustizia per il
figlio che le hanno ucciso. Traiano promette di accontentarla quando
sarà tornato dalla guerra, ma quella ribatte: «E se tu non
torni?». «Ti renderà giustizia il mio successore»,
replica l’imperatore. Ma che la giustizia sia un debito del sovrano al
suddito è chiarito nel seguito del dialogo. La donna dice che se anche
le renderà giustizia il successore, Traiano le sarà debitore.
Allora l’imperatore smonta da cavallo, rende giustizia e poi va a
sconfiggere i nemici. Dante fa parlare così Traiano: «Or ti conforta;
ch’ei convene/ ch’i’ solva il mio dovere anzi
ch’i’ mova/ giustizia vuole e pietà mi ritene» (Purg.
X, 91-93).
Quattro secoli dopo, san Gregorio Magno papa,
conosciuta questa vicenda, prega Dio che faccia uscire Traiano dal limbo
nell’inferno, ove dopo la morte era stato collocato perché pagano,
e lo accolga in Paradiso, dove Dante lo incontrerà, avendo Dio infatti
esaudita la supplica di San Gregorio. Tommaso d’Aquino lesse
l’episodio in un sermone di Giovanni Damasceno e lo utilizzò nella
Summa Theologiae (III, Suppl. 71,
art. 5), per dimostrare che i suffragi della Chiesa giovano anche alle anime
nell’inferno. Indugiamo quanto occorre su questa tradizione per intendere
come nel mondo pagano si confrontino guerra e giustizia, perché si stabilisce
il primato della giustizia sulla guerra, e nel mondo cristiano la giustizia
resa dal sovrano è addirittura pegno della salvezza della sua anima. Se
poi aggiungiamo la formula, divenuta proverbiale nel medioevo, auctor iuris homo, iustitiae Deus, l’uomo fa il diritto, ma solo Dio la
giustizia, possiamo renderci conto dell’altezza cui era giunta
l’idea di giustizia. Il primo attributo sacro della sovranità
regale è la giustizia. Bonifacio VIII, che canonizzò Luigi IX di
Francia, in uno dei sermoni di Orvieto, descrive il Re Santo sedente
«quasi in permanenza su un tappeto per ascoltare le cause giudiziarie,
soprattutto quelle dei poveri e degli orfani, e faceva rendere loro giustizia
nel mondo più completo». E all’inizio della bolla di
canonizzazione loda il Re «giudice giusto e ammirevole
retributore». L’antichità precristiana aveva già
costruito la giustizia come l’icona quotidiana e pacifica del potere, dai
faraoni d’Egitto ai re d’Israele, agli imperatori romani. Questi
ultimi introdussero nel loro tribunale, il consilium
principis, i maggiori giuristi del loro tempo, sicché la giustizia
del sovrano ebbe il consenso non solo dei sudditi, ma anche il consiglio della
scienza giuridica. Ma a mano a mano che la statualità europea si
allontana dall’orizzonte dei teologi e dei giuristi, si viene costituendo
la coppia dialettica forza-giustizia su cui con realismo riflette Blaise
Pascal: «La justice sans la force est impuissante: la force sans la
justice est tyrannique (…) il faut donc mettre ensemble la justice et la
force; et pour cela faire que ce qui est juste soit fort, on ce qui est fort
soit iuste (…). Et ainsi, ne pouvant faire que ce qui est juste
fùt fort, on a fait que ce qui est fort soit juste» (Pensèes, pp. 298-303). Qui ha
origine il problema moderno della giustizia, della sua identificazione con la
forza. Montesquieu nega che il sovrano, massimo detentore della forza, possa
essere giudice, perché egli «è la parte che persegue gli
imputati e li fa punire od assolvere: se giudicasse lui stesso, sarebbe il
giudice e la parte» (Lo spirito
delle leggi, 1, p. 277). Si inaugura così il paradosso per cui,
perché appaia giusta la forza, giudice non sia il sovrano, giudice non
sia la parte. Il potere giudiziario si separa dal potere esecutivo e da quello
legislativo. Se fosse unito al primo, dice ancora Montesquieu «il giudice
potrebbe avere la forza di un oppressore»; se fosse unito al legislatore
«il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe
arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore» (op. cit., 1, p. 310 e sg.). Il giudice deve invece essere
inanimato, bouche de la loi, che ne
pronuncia le parole, senza regolarne né la forza, né la
severità. Con una tale concezione meccanica del giudice, Montesquieu non
si avvede di stabilire una identità tra il dettato della legge e la
pronuncia del giudice, togliendo al giudice la interpretazione della legge, che
è il solo modo razionale di tradurre il diritto in giustizia. In
verità si era prodotta una radicale discontinuità tra la giustizia
carismatica del sovrano, fondata sulla sua personale intuizione del giusto e
dell’ingiusto, e la giustizia impersonale del nuovo sovrano, la legge,
affidata alla scienza giuridica del giudice. E tuttavia il passato continua a
sopravvivere come mito. Quando Bernardo Tanucci impose ai giudici napoletani di
motivare le loro sentenze, il fine non era tanto quello di rendere possibile ai
privati di sollevare gravame, quanto di consentire al re di vigilare sui suoi
giudici. L’articolo 68 dello Statuto di Carlo Alberto del 1948, recitando
«La giustizia emana dal Re», è ancora un segno della tenace
conservazione del modello arcaico e poi premoderno, del sovrano giudice giusto,
ormai ridotto a simbolo di fonte costituzionale della giustizia. La
distinzione, se non proprio la separazione dei poteri, che caratterizza lo
Stato di diritto dei nostri tempi, non deve farci dimenticare epoche per le
quali era realistico il giudizio di esecrazione di Sant’Agostino;
«Tolta di mezzo la giustizia, che cosa sono i regni se non grandi
ladrocini?». Gli antichi usavano comparare vicende politiche e assetti
degli Stati. René David ha ragione di rammentare che Aristotele scrisse
il trattato sulla Politica studiando 158 costituzioni di città greche e
barbare. Se il potere si estranea dalla giustizia, quale che sia la
costituzione dello Stato, ma soprattutto quando questo sia un regno e non una
repubblica, esso si riduce alla brutalità predatoria di una banda di
ladri. La polarità potere-giustizia rivela una tensione dialettica con
esiti di tale criticità, proprio perché tra l’uno e
l’altra non si dispongono diritti individuali allo stesso modo e con lo
stesso valore ch’essi hanno assunto nell’esperienza della
modernità. La scienza giuridica pandettistica, soprattutto ad opera di
Federico Carlo di Savigny, ha costruito con i materiali del corpus iuris giustinianeo un sistema di
diritti, che vorrebbe rendere l’esperienza dei romani ancora utile alla
vita giuridica europea del secolo diciannovesimo. Ma nel secolo successivo la
storiografia romanistica, e con maggiore lucidità tra tutti Fritz
Schulz, ha sottolineato la inesistenza nel mondo romano di una figura
assimilabile a quella moderna del diritto soggettivo. I Romani hanno conosciuto
poteri privati e azioni giudiziarie, non diritti. Esemplare a questo proposito
la difficoltà incontrata da Vincenzo Arangio-Ruiz, la più chiara
intelligenza della romanistica novecentesca, nel descrivere il passaggio
concettuale dal diritto oggettivo a quello soggettivo quale risulterebbe dalla
definizione di Silvio Perozzi «facoltà accordata dal diritto
obiettivo ad uno di esigere una certa condotta di altri»; «la
definizione va intesa nel senso che in certe ipotesi spetta ai singoli
interessati il controllo sull’adempimento delle norme costituite in loro
favore: in tali ipotesi, si può ben dire che l’attività
normativa propria della comunità si trasferisce all’individuo,
sicché la norma stessa, il diritto, da generale si fa individuale, da
oggettivo si fa soggettivo» (A.-R., Istituzioni
di diritto romano, 14ma ed., p. 18). Ma più avanti, trattando della
diversità di diritto pubblico e privato, richiama la concezione moderna
dei rapporti tra Stato e individuo «concezione inaccessibile al pensiero
romano» (op. cit., p. 30). In
realtà i Romani avevano una idea del diritto individuale come di un
potere politico su cose e persone proprie, conquistate, acquistate, ereditate,
asservite, generate. Il contrasto tra questi piccoli sovrani poteva dar luogo a
guerre tra gruppi familiari, gentilizi, tribali. Lo Stato dovette nascere per disarmare
i privati, tradurre le loro liti in una recita (non per caso actio fu termine comune all’azione
teatrale e a quella giudiziaria), e attribuire a sé, cioè al
magistrato titolare del potere sovrano di imperium,
la iurisdictio, che è la
identificazione e pronunzia di quel ius,
che significa nel suo valore primigenio la coesione della comunità, la
pace interna, il buon ordine tra i capi delle famiglie, nella gestione dei loro
poteri originari.
Ecco perché il diritto dei Romani
è essenzialmente diritto privato, lo Stato intervenendo solo con la
giurisdizione a far realizzare in forma pacifica le controversie tra poteri
privati. La legiferazione popolare, senatoria, imperiale ebbe limitate
occasioni di intervenire nella sfera dei privati, che fu il grande orizzonte
della scienza dei giuristi, anch’essi cittadini privati, anche se nobili,
o più tardi appartenenti all’ordine equestre e taluni assurti a
vertici burocratici. Quando negli apparati concettuali dei giuristi
entrò il termine persona, che indicava la maschera teatrale, con il
significato traslato della figura umana colta nelle sue relazioni sociali, si
poté costruire la dottrina degli status
personarum, libertatis, civitatis, familiae, a seconda che si fosse liberi
o schiavi, cittadini o stranieri, capi delle famiglie o loro sottoposti. Si era
ben lontani dalla tipizzazione astratta del Rechtsubject,
del soggetto di diritto, quale sarebbe stata teorizzata dalla scienza tedesca
ed europea. La nascita dei diritti, quali possiamo intenderli oggi nella loro
polarizzazione con il potere, ha avuto altra strada, che è quella delle
libertà civili e politiche rivendicate contro il potere pubblico, per un
primo tratto, e poi dei diritti umani proclamati dinanzi a tutti gli Stati del
mondo, nella nostra età, che è stata chiamata suggestivamente da
Norberto Bobbio, l’età dei diritti. Dalle carte costituzionali
tardosettecentesche delle rivoluzioni liberali americana e francese hanno
origine non i diritti dell’individuo umano, ma dell’uomo divenuto
cittadino, transitato da un mitico stato di natura nella comunità
politica, dove da suddito di un sovrano reclama lo statuto, appunto
rivoluzionario, di cittadino di una Repubblica. Il nuovo sovrano non è
più il monarca, ma la legge. E come il re assoluto nelle nazioni cristiane
giustificava l’illimitato suo potere con la legittimazione gratia Dei, da cui discendeva il
corollario ch’egli non poteva che volere il bene, così del
legislatore, che lo aveva detronizzato, si disse non poté volere altro
che il bene, e che dunque dovesse la legge essere obbedita «col
cuore», e non per il timore della sanzione, come si esprimeva Rousseau,
dando fondamenta alla sua religion civile. Nel XX secolo Carl Schmitt
poté scrivere che la moderna dottrina dello Stato è costruita con
concetti teologici secolarizzati. Ma la differenza tra i due sovrani, il re e
la legge, è incolmabile. Nella tradizione occidentale, alla ricerca
della consapevolezza di questa diversità, si può risalire di
millenni, non di secoli. Un testo di sconcertante chiarezza di idee e di parole
è il racconto di Livio sulla congiura dei Tarquini per rientrare a Roma,
da cui erano stati espulsi, con l’instaurazione della Repubblica. I
giovani congiurati si dolevano dell’eguaglianza della legge, preferendole
il re, perché il re «è un uomo, da cui puoi ottenere di
esercitare il tuo diritto o recare offesa ad altri, una grazia o un beneficio,
un uomo che può irritarsi e perdonare, che distingue tra amico e nemico.
La legge invece è una cosa, sorda e inesorabile, più buona e
utile per il povero che per il potente; se appena tu pecchi di un eccesso, non
ha indulgenza né perdono; ed è rischioso, tante sono nella vita
le probabilità di errare, confidare solo nella propria innocenza»
(Liv., II, III).
Già allora dunque la legge apparve in
tutta la sua astratta potenzialità eguagliatrice. La formula delle carte
costituzionali francesi «la loi
c’est la meme pour tous», non ha vinto tuttavia le
disuguaglianze di fatto, a cominciare da quella tra ricchi e poveri. Il diritto
di proprietà, considerato ancora diritto sacro ben oltre l’ancien regime, ha fatto da paradigma al
diritto individuale, declinato in una estensione che va dalla
personalità alla libertà. Dei diritti del cittadino, la
proprietà è il più tutelato. Lo Statuto Albertino dichiara
all’articolo 29: «Tutte le proprietà, senza alcuna
eccezione, sono inviolabili». Salvo che negli Stati Uniti
d’America, dove il primo articolo degli emendamenti alla costituzione
federale del 1787 vieta al Congresso di legiferare in materia di stampa e di religione,
la civiltà liberale in Europa ha sottoposto al controllo della legge i
due fondamentali diritti di libertà, del pensiero e della sua
manifestazione, della coscienza e della professione dei culti. E d’altra
parte che cosa è accaduto allo Stato di diritto nel corso del XX secolo,
se non declinare nella parabola dal liberalismo al totalitarismo? Non è
forse questo un segno della fragilità di quei diritti sanciti da
statuti, costituzioni e codici in testa a cittadini, che ideologie politiche
apparentemente più avanzate e moderne potettero far regredire peggio che
a sudditi, a vittime di discriminazioni, persecuzioni, deportazioni,
annientamento fisico? Se i giuristi facessero la storia del diritto e della
loro propria scienza con attenzione critica rivolta alla vita delle
società e degli Stati, avremmo forse un più tempestivo
avvertimento delle tragedie che attendono il mondo. In Germania si poterono
utilizzare detenuti politici e malati mentali come cavie da esperimento, in
base a un biglietto inviato da Hitler a un medico. A che cosa era potuto
giungere il Fuhrer’s Prinzip,
teorizzato dai giuristi nazisti! L’ultima grande guerra civile tra i
popoli europei, propagatasi al mondo intero, può tra le sue cause vedere
disinnescata anche quella di diritti inermi di fronte al prepotere di un potere
impazzito? Occorreva l’immane eccidio di cinquantadue milioni di esseri
umani, tra cui i sei milioni di ebrei gassificati nella Shoah, occorreva che i
cittadini morissero per mano delle loro patrie matrigne, perché i
superstiti aprissero gli occhi sul fallimento dei droits de l’homme et du citoyen. Ecco perché,
all’indomani della conclusione del conflitto, la commissione presieduta
da Eleanor Roosevelt cominciò a redigere il testo di quella che con
l’approvazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10
dicembre 1948 sarebbe stata la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’uomo. Non c’è alcuna parentela, malgrado la parziale
assonanza tra i diritti degli human
beings e les droits de l’homme et du citoyen del 1789. Non una
rivoluzione interna ad un popolo e ad uno Stato volta a instaurare uno statuto
di cittadinanza politica, ma una alleanza di nazioni legano nel 1948 un nuovo
ordine mondiale «al riconoscimento della dignità inerente a tutti
i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali e inalienabili,
fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
Le istanze del personalismo cristiano entrano nella Dichiarazione Universale.
Il francese René Cassin e il libanese, non cattolico, Charles Malik, due
tra i più autorevoli membri della Commissione Roosevelt, erano amici di
Jacques Maritain. Il figlio di Malik ha confidato direttamente a Mary Ann
Glendon che suo padre aveva appreso le idee sulla dimensione sociale della
persona e sull’importanza delle strutture di mediazione dalla enciclica Rerum Novarum di Leone XIII del 1891 e
dalla Quadragesimo anno di Pio XI del
1931. E d’altro canto, in reciprocità, la Dichiarazione doveva
avere uno straordinario ascolto nella Pacem
in terris di Giovanni XXIII e nella Centesimus
annus di Giovanni Paolo II; si può anzi dire che grammatica e
sintassi dei diritti umani attraversano gli atti del Concilio Vaticano II. La
Dichiarazione ispira molte carte costituzionali nazionali, che si usa
distinguere come carte della dignità proprie del XX secolo, dalle carte
della libertà del XIX. Pressoché coeva della Dichiarazione il Grundgesetz della Germania Federale del
1949, che si apre con il comma 1 dell’articolo 1: «La
dignità umana è intangibile». Ma per quegli Stati che pur
membri delle Nazioni Unite non appartengono all’area raggiunta dalla
civilizzazione occidentale e dai suoi regimi di Stato sociale di diritto,
democratico e pluralista, quale è la valenza effettiva dei diritti umani?
Dobbiamo avere fiducia in processi evolutivi di una cultura universale dei
diritti, in grado di innovare, quando non rovesciare tradizioni sociali e
religiose, accompagnando o determinando mutamenti in senso democratico degli
assetti del potere. Certo recenti immagini color arancione dei monaci buddisti
caricati dalla polizia si aggiungono a quelle più remote dei carri
armati cinesi della Piazza Tien –an –men contro giovani studenti, e
si tratta di manifestazioni eclatanti. Nel tragico quotidiano si allineano le
lapidazioni delle adultere, la pena di morte, la subalternità delle
donne, le persecuzioni religiose, popolazioni abbandonate alla fame, alla sete,
alle malattie, alla ignoranza. Dove sono i diritti umani? Ma anche nei nostri
paesi pervasi dallo spirito della Dichiarazione, i diritti umani più
avanzati e sofisticati trovano adeguata promozione e tutela? Innanzi tutto i
diritti sono riconosciuti nelle costituzioni nazionali e la Dichiarazione non
è una costituzione. Essa si è dovuta versare nel 1976 nei due Patti
internazionali, sui diritti economici, sociali e culturali, e sui diritti
civili e politici. Per un ulteriore passo in avanti occorrerebbe una
costituzionalizzazione dei diritti umani oltre e al di sopra delle costituzioni
nazionali, come per i cittadini europei sarebbe dovuta essere la Carta di Nizza
del 2000, che ha vissuto una vita effimera come parte del Trattato recante una
costituzione per l’Europa del 2004, bocciata dal referendum dei francesi e olandesi. Questo effetto non si è
raggiunto nel successivo Trattato di Lisbona. I diritti umani non sono del
resto esauribili nell’elenco della Dichiarazione del 1948, perché
essi si rivelano con la crescita civile delle società nelle varie aree
del mondo. E dunque clausole costituzionali, come ad esempio quella
dell’articolo 2 della Costituzione Italiana, aperte ad una
interpretazione evolutiva, possono tenere il passo con l’esigenza
rivendicativa di nuovi diritti.
Per fare qualche esempio
nell’ordinamento italiano, solo sentenze della Corte Costituzionale hanno
ricondotto all’articolo 2 della Costituzione i diritti
all’immagine, al nome, alla riservatezza, all’onore e alla
reputazione, all’identità personale, al mutamento di sesso, al
diritto di fondare una famiglia e di procreare, alla libertà di
informazione, al diritto di ratifica, al diritto all’abitazione del
convivente more uxorio del locatario
defunto, al diritto alla salubrità dell’ambiente, alla
libertà sessuale, all’autodeterminazione, alla privacy, alla frequenza scolastica del
disabile, all’espatrio, al diritto di figli incestuosi al riconoscimento
giudiziale della paternità e della maternità.
Ma se i diritti della Dichiarazione erano
originati dalla necessità di una resistenza universale al dominio di un
potere politico dimentico della dignità umana, un’altra resistenza
si andava sviluppando contro il dominio della tecnica sul corpo
dell’uomo. I progressi della biomedicina sono occasione non solo di
speranze ma anche di paura. Si comincia a temere che l’interesse del
malato possa essere subordinato a quello della società o della scienza.
La selezione degli embrioni umani potrebbe dar vita a pratiche eugenetiche di
massa, che altererebbero l’uguaglianza e la disuguaglianza naturale tra
gli uomini. La possibilità di eliminare embrioni che porterebbero alla
nascita di individui malati induce la rivendicazione di un diritto a nascere
sani o a non nascere. La possibilità che un malato terminale sia tenuto
tecnologicamente in una condizione di vita non accettata apre la via ad un
diritto a morire, e dunque ad una richiesta di eutanasia. L’esistenza
biologica dell’essere umano oscilla tra la persona e la cosa, tra la
dignità e l’utilità. La stessa concettualizzazione della
dignità è ambigua. Il malato che reputi non degna di essere
vissuta la vita che gli è data, ha il diritto di rifiutarla, in nome
della dignità della persona umana?
L’espianto e trapianto di organi e tessuti, da cadavere o da
vivente, si è certi che non dia luogo a pratiche di commercializzazione
del corpo? La libertà della scienza è un diritto inviolabile,
quali che siano i giudizi etici sui suoi metodi e fini? Ogni innovazione nel
dominio della tecnica pone in discussione diritti umani. E’ giocoforza
riconoscere che la tecnica si muove nell’alveo dei fenomeni di
globalizzazione più rapidamente e agevolmente del potere politico. Le
tecnoscienze governano risorse planetarie non perimetrabili da frontiere
politiche. Esse tendono a perseguire finalità pratiche ed utili, non
valori morali. Se il potere non avrà la forza di anteporre loro i diritti,
anche l’età dei diritti, in cui ancora confidiamo, avrà
chiusa la sua epoché. E,
scomparsi i diritti, tornare all’antica giustizia amministrata dai
sovrani giudici giusti o addirittura santi, potrebbe essere una pia illusione.
Sarà più probabile che l’ordine tra gli uomini verrà
garantito da macchine intelligenti, cui forse daranno il nome di robot di
giustizia.