Sul principio di eguaglianza. Un approccio
storico
Università di
Sassari
Sommario: 1. Introduzione. – 2. – L’eguaglianza davanti al giudice. – 3. L’iconografia. – 4. L’eguaglianza
di fronte alla legge: a) l’evo antico. – 5. L’eguaglianza
di fronte alla legge: b) Il pensiero cristiano. – 6. L’eguaglianza
di fronte alla legge: c) nella città medievale. – 7. L’eguaglianza
di fronte alla legge: d) L’età moderna e contemporanea. – 8. Conclusioni.
Il
principio d’eguaglianza è in Italia sancito dall’articolo 3
della costituzione repubblicana, che figura tra i principi fondamentali e
recita:
«Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Nella
relazione al progetto, il presidente della Commissione, Ruini usa termini
trionfalistici: « Il principio della eguaglianza di fronte alla legge,
conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con
più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici
o razziali; e trova oggi nuovo e più ampio sviluppo con l'eguaglianza
piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro
sesso». Più pacatamente e prudentemente Fanfani, uno dei firmatari
della formula approvata, disse in Assemblea (A. C., pag. 2425): «Noi
partiamo dalla constatazione della realtà, perché mentre prima,
con la rivoluzione dell'89, è stata affermata l'eguaglianza giuridica
dei cittadini membri di uno stesso Stato, lo studio della vita sociale in
quest'ultimo secolo ci dimostra che questa semplice dichiarazione non è
stata sufficiente a realizzare tale eguaglianza ».
C’è,
infatti, una profonda differenza qualitativa fra il primo e il secondo comma.
Il primo comma parla di eguaglianza di fronte alla legge, cioè di
eguaglianza formale. Anche lo Statuto Albertino, conosceva una norma similare,
l’art. 24, che suonava:
«Tutti i regnicoli, qualunque
sia il loro titolo o grado sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente
i diritti civili e politici e sono ammessibili alle cariche civili e militari,
salve le eccezioni determinate dalle leggi».
E’
facile vedere come manchi, in entrambe le formulazioni, l’aspetto
precettivo, che ha fatto del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione
italiana del 1948 la leva che, nella lentezza del legislatore, è stata
usata ripetutamente dalla Corte costituzionale per «rimuovere gli
ostacoli», secondo la prescrizione della Costituente[1].
Consacrati
nel primo comma i principi della pari dignità sociale e della
eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel secondo comma la
Costituente ha voluto impegnare il legislatore futuro, e prima ancora se
stessa, a fare il possibile per l'attuazione concreta di quei principi,
cioè per realizzare l’eguaglianza in senso sostanziale. La formula
sottintende infatti l'esistenza, in atto o anche eventuale, di ostacoli i quali
si frappongano al raggiungimento della pari dignità sociale e della
eguaglianza di fronte alla legge. Ed in effetti, le sentenze della Corte
Costituzionale che, direttamente o indirettamente hanno affrontato il problema
delle violazioni dell’art. 3, e di conseguenza hanno portato ad una
modifica della normativa vigente, sono le più numerose in assoluto.
Basti pensare a quelle tese a rimuovere le disuguaglianze di trattamento
derivanti dal sesso come, solo per fare qualche esempio, la sentenza n. 56 del
1958 che ha ammesso anche le donne a far parte delle corti d'assise, la
sentenza n. 64 del 1961, tendente a escludere che si potesse considerare reato
solo l’adulterio della donna, e la sentenza n. 201 del 1972, in tema di eguaglianza di fronte alla
reversibiltà della pensione.
Va
peraltro notato che la formulazione della norma – tanto
nell’attuale Costituzione quanto nello Statuto – si riferisce
soltanto ai cittadini dello Stato. Più ampio è il dettato della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata
dall’Assemblea Generale dell’ONU nella sessione generale di Parigi
del 10 dicembre 1948, che all’art. 1 proclama:
«Tutti gli esseri umani nascono
liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di
coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di
fratellanza».
Sembrerebbe,
dunque, da questi cenni, che il principio di uguaglianza sia una conquista
relativamente recente delle società più progredite, ed in effetti
si ammette generalmente che, come principio politico nella storia delle
costituzioni europee esso abbia avuto applicazione da duecento anni a questa
parte, e cioè dalla Rivoluzione Francese in poi. Ma fino a che punto un
tale modo di pensare è corretto? Quello dell’ eguaglianza è
realmente un principio che ispira le nostre istituzioni, ovvero è un
puro enunciato, uno schermo dietro il quale si cela una prassi
tutt’affatto diversa?
A
volerla definire, ci si accorge che l’uguaglianza ha tanti aspetti, tante
diverse modulazioni quante sono le sue ipotizzabili negazioni. Un articolo
apparso tempo fa sul Financial Times denunciava
l’eccessivo divario fra gli stipendi dei manager di più
alto livello e le retribuzioni degli altri dipendenti. Su questa
mostruosità – come veniva definito un fenomeno peraltro diffuso -
l’articolo sosteneva aver puntato il dito sia il presidente tedesco
Köhler, sia il primo ministro
del Lussemburgo Jean Claude Junker, sia il presidente francese Sarkozy. Dunque
un primo aspetto del principio di uguaglianza si riferisce
all’aspettativa di vedere pesata sulla stessa bilancia la retribuzione
per il lavoro svolto. Aspettativa evidentemente tanto diffusa quanto diffusamente
disattesa. Dunque, il concetto di eguaglianza sembra avere un contenuto
economico, in un rapporto divenuto familiare e quasi assorbente nelle dottrine
economiche e sociali del ‘900.
Tuttavia
nell’accezione in cui generalmente si intende, il concetto in esame ha
certamente una valenza più ampia. Secondo la Gianformaggio[2]
esso rimanderebbe a: 1) generalità delle regole; 2) unicità del
soggetto giuridico; 3) eguaglianza di fronte alla legge; 4) divieto di
discriminazioni; 5) eguaglianza nei diritti fondamentali; 6) pari
opportunità di perseguire i progetti di vita e di partecipare
all’organizzazione della società.
Ciascuno
di tali aspetti potrebbe poi essere considerato come formale rispetto a quelli
che lo seguono, e sostanziale rispetto a quelli che lo precedono.
Il
vincitore di un concorso fotografico bandito dall’UE su questo tema,
Robert Matwiejczyk, ha proposto un’immagine fortemente espressiva: sulla
tastiera di un pianoforte, la destra del pianista è bianca, la sinistra
è nera, in una diversità che si compone in eguaglianza attraverso
la collaborazione armonica a suonare la stessa melodia.
Ma
vi sono altre raffigurazioni che come echi di mondi lontani ci rinviano
all’eguaglianza. Mi limiterò qui a due, che paiono particolarmente
significative.
La
prima è la raffigurazione di due coniugi, come se ne vedono tante, nel
museo egizio di Torino o più ancora in quello del Cairo. Sia
l’uomo sia la donna sono seduti nella stessa posizione, compagni e
eguali, i loro occhi impastati dello stesso interrogativo fissano la stessa
lontananza in attesa della stessa sorte.
La
seconda è costituita da quello che è forse il più bel
sarcofago etrusco. Proviene da Vulci ed è stato scolpito per i Tetnies,
il cui gentilizio ricorre nelle iscrizioni; ora è conservato a Boston,
al Museum of Fine Art. Qui la
coppia è legata da un abbraccio che stringe l’uomo e la donna
dello stesso amore, destinato a perdurare anche nel regno dei morti.
Come
il binomio nero - bianco, anche quello uomo - donna rinvia a una eguaglianza reclamata e negata, che preme
ancora per il suo riconoscimento nella coscienza individuale e sociale: solo
con la legge 9 febbraio 1963, n. 66 (dunque quattordici anni dopo la
promulgazione della Costituzione), le donne furono ammesse in Italia a tutte le
cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Ma
è di oggi ancora la discussione sulle molte chiusure che nei fatti
incontra la donna che voglia avventurarsi nelle professioni un tempo solo
maschili.
Solo
nel 1964 il Civil Rights Act pone
fine alla discriminazione razziale negli Stati Uniti[3];
ma bisogna aspettare il 1985 perchè in Sudafrica vengano legalizzati i
matrimoni misti fra bianchi e neri, e il 1991 perché siano abrogate le
leggi fondamentali su cui si reggeva il sistema dell’apartheid. Dunque se, sul terreno
dell’uguaglianza, in quanto diritto fondamentale delle moderne
costituzioni e dichiarazioni dei diritti umani, si confrontano i
costituzionalisti, gli internazionalisti
e i teorici dello Stato, il divario, fra la norma enunciata e la sua
effettiva applicazione, fa dubitare che si possa parlare dell’eguaglianza
in termini di progresso. Di certo, l’annientamento dell’uomo a
opera delle tecniche e delle macchine è piuttosto tipico dell’età
contemporanea, e il razzismo sperimentato nel terribile secolo XX non trova
l’eguale in analoghe manifestazioni dell’evo antico.
Argomenta
brillantemente questo dubbio Michel Villey, per il quale la stessa
«necessità» di
una formulazione dei diritti dell’uomo – e l’uguaglianza
è fra di essi, evidentemente – si spiega come antidoto, peraltro
inefficace, al positivismo
giuridico[4]. Villey affronta il problema con
l’aiuto della storia, indagata però con occhi che si sforzano di
non essere condizionati dall’eredità del pensiero illuminista e
delle filosofie di Hegel, Marx o Compte[5],
e si sofferma anzitutto a discutere il significato della parola diritto. Se
oggi, in un mondo concepito – sotto l’influenza delle filosofie
individualiste del XVII e XVIII secolo – come composto di individui, il diritto è anzitutto
l’insieme delle «leggi» dello Stato, che si impongono
all’osservanza di quegli individui,
non era questo il modo in cui esso era concepito nell’evo antico e
medio, che – sostiene Villey – lo intendeva piuttosto come il
rispetto di una giusta proporzione nella divisione dei beni e nei processi dei
cittadini[6],
ove era «giusta» un’attività al servizio
dell’ordine[7].
Le
posizioni «spregiudicate» di Villey stimolano una riflessione
più approfondita. In effetti, se il diritto di eguaglianza sembra porsi
solo oggi, nei confronti del legislatore, come pretesa che tutti gli uomini
vengano considerati nelle leggi come aventi la stessa dignità,
cioè come pretesa che la
legge realizzi una uguaglianza sostanziale, in realtà come problema
conoscitivo e filosofico esso conta più di duemila anni di vita, e ancor
più antica è l’esigenza che il giudice offra alle parti in
causa un processo giusto, cioè non viziato dalla propensione per
l’una o l’altra di esse.
Nell’Etica
aristotelica to dikaion significa al tempo stesso «il giusto» e
«il diritto». Il giudice dovrebbe non tenere conto, nel suo
calcolo, delle differenze fra le persone: ma Aristotele non suggerisce un
rapporto di eguaglianza semplice, bensì indica come ideale il giusto
mezzo. Per vero, quando nell'antichità si parla del giudice ingiusto, si
intende che egli ha trasgredito il principio
di uguaglianza, perché ha negato giustizia al povero ed al debole,
ovvero perchè è stato indotto dalla corruzione ad una sentenza
anziché ad un’altra. Ciò veniva considerato un delitto
così grave da meritare la pena più severa.
Erodoto,
per esempio, racconta (5,21) del giudice Sisamne, uno dei giudici reali, il
quale avrebbe emesso per denaro una sentenza ingiusta. Cambise lo fece
scorticare e ordinò che la sua pelle, tagliata a strisce, fosse distesa
sullo scranno dal quale aveva amministrato giustizia. Dopodiché
nominò giudice il figlio di Sisamne Otane, con l'invito a ricordarsi ove
sedeva per assolvere il suo ufficio. Il racconto, come è noto, ha
costituito di frequente oggetto di raffigurazioni artistiche nel Rinascimento[8].
In
tempi a noi più vicini, nella famosa vicenda del mugnaio Christian
Arnold, il re fece arrestare e portare al Kalendshof di Berlino i tre
Consiglieri del Kammergericht
prussiano, e i quattro del Küstiner
Regierung nonchè il Justiziar
del tribunale signorile colpevoli, secondo lui, di avere favorito il nobile a
sfavore del mugnaio. Quindi, benché essi si fossero limitati ad
applicare lo stretto diritto, con un Machtspruch
liberò due consiglieri,
ma condannò gli altri a un anno di fortezza, e al pagamento dei danni a
favore del mugnaio[9].
Nell'Editto
di Teodorico, i primi quattro articoli sono diretti contro il giudice ingiusto:
servendosi delle sentenze di Paolo qui si prescrive: «priore loco statuimus ut, si judex acceperit
pecuniam, quatinus adversum caput innocens contra leges et juris publici cauta
iudicet, capite puniatur»[10].
Noi – dichiara il re – applichiamo la giustizia allo stesso modo,
sia per i ricchi sia per i poveri... noi desideriamo che gli uffici facciano
onore alla giustizia e intendiamo evitare che le indagini giudiziarie siano
poco oculate o condizionate da delatori o anonimi accusatori[11].
Anche la Lex Salica si volge contro
il giudice il quale, per paura o interesse personale, si permette di non
giudicare o di non eseguire la sentenza a favore del debole contro l’
avversario potente. Una pena di tre
solidi doveva colpire i rachinburgi
in mallo sedentes dum causam inter duos discutiunt et legem dicere noluerint.
Secondo la stessa legge, il giudice è considerato responsabile se non
procede a sequestro, pregiudicando così la parte vincitrice: de vita culpabilis esse debet aut quantum
valet se redimat[12].
Che
queste fossero eventualità frequenti, ce lo fanno capire indirettamente
gli Annali dell’abazia di Lorsch. Da essi sappiamo che nell’ 802
l'Imperatore Carlo si trattenne in tranquillità e pace ad Aquisgrana con
i suoi Franchi senza attacchi nemici. Si ricordò allora della sua
compassione per la povera gente (recordantis
misericordiae suae de pauperibus)
del suo Impero e si ricordò pure che essi non riuscivano ad
ottenere il riconoscimento del loro diritto in piena misura. Egli volle mandare
taluni dei suoi vassalli per ristabilire il diritto, e scelse da tutto il suo
Impero arcivescovi e abati unitamente a duchi e a conti: questi, che
presumibilmente non avevano bisogno di ricevere regali nei dibattimenti
riguardanti gli innocenti egli mandò in tutto l'Impero per rendere
giustizia alle chiese, alle vedove, agli orfani, ai miseri (pauperibus) ed a tutto il popolo[13].
L’esigenza
di una applicazione uniforme del
diritto è sempre stata insomma un precetto del tutto ovvio. E questo
è vero anche quando il diritto non è cristallizzato in norme
formulate con precisione, ma piuttosto vive nella coscienza del popolo –
e del giudice che lo deve applicare – sotto forma di diritto
consuetudinario o giurisprudenziale. Se il pericolo di una applicazione
difforme della legge può essere in tal caso particolarmente incombente,
tanto più forte appare il desiderio di una giustizia senza
disuguaglianze, e benchè il medioevo non inclini alla formulazione
astratta del principio, era chiaro che il povero ed il ricco – pauper ac dives – dovessero essere
equiparati. e trattati dal giudice alla stessa maniera, pur nel rispetto dei
diritti di ciascuno.
L’uguaglianza
di fronte alla legge era compromessa, nel Medioevo, non solo se il giudice non
teneva conto delle ragioni della parte più debole, ma anche se differiva
la causa a favore del ricco e del potente. La Chiesa, anzi, raccomandava al
giudice di trattare con preferenza le personae
miserabiles: vedove, orfani,minorenni, e mendicanti[14].
Esisteva anche, giuridicamente protetta, una pretesa dei litiganti all'ordine
di trattazione delle cause. Nessuna parte poteva, contro la sua volontà,
vedere posticipata la discussione della sua lite. Lo fanno comprendere molto
chiaramente alcune sentenze del XV secolo dello Oberhof di Ingelheim, il cui studio e pubblicazione, verso la
metà dell’altro secolo, dobbiamo ad Adalbert Erler[15].
Un obbligo che sorprende soprattutto in un tempo e in un ordinamento giuridico
che riteniamo rozzi e arretrati rispetto ai nostri, in cui siamo invece
praticamente indifesi contro le lungaggini della giustizia, ed una azione di
rivalsa contro il giudice temporeggiatore, come la cronaca purtroppo ci
insegna, è impensabile.
L’ uguaglianza di fronte allo scranno del giudice ha
una grande importanza nelle opere d’arte dal Medioevo fino a tutto il
1700. Generalmente, è la spada che rappresenta l’autorità
nel giudicare e il potere di fare rispettare le sentenze. Assieme ad essa, compaiono spesso la
bilancia (che rappresenta l’Equità e la Ponderazione), il
triangolo (l’Equità), il libro (la Sapienza), il bambino (la
Giustizia che non si deve temere) e, per l’Occidente cristiano, la mano e
l’occhio (la Giustizia divina).
Così
rappresenta la Giustizia Raffaello, nella Stanza della Segnatura in Vaticano.
Così nel dipinto del Perugino «Allegoria della Giustizia e della
Prudenza», la Giustizia come virtù cristiana (nel particolare a
destra di chi guarda) è raffigurata da una donna che ha in mano una
bilancia e una spada tagliente.
Forse
il simbolo più fine, che si è mantenuto sino ai nostri giorni
è la benda che la giustizia porta davanti agli occhi. La giustizia non
guarda al povero ed al ricco, al potente ed al misero, perchè essa
giudica senza riguardo alla persona. A questo concetto si ricollegano numerosi
quadri appesi nei municipi tedeschi ed olandesi per rendere più
sensibile la coscienza dei giudici ed esortarli ad una amministrazione
imparziale della giustizia[16].
La donna bendata come simbolo di imparzialità, dall’ Europa si
è diffusa poi nel Nord America.
Tuttavia
le immagini più significative che ci ha lasciato il Medio Evo sono
quelle che collegano la giustizia terrena a quella divina. Così in una
miniatura che illumina il famoso principio della divisione dei poteri («Humanum genus duobus regitur... », duplice è il
governo del genere umano) la lettera H mostra il papa con il libro e
l’imperatore con la spada posti uno sopra l'altro con il chiaro rinvio al
concetto della potestà terrena che deve ispirarsi
all’autorità spirituale.
La
sostanza della giustizia era infatti l’aequitas,
cui si doveva ispirare sia il principe, sia il giudice[17].
Una miniatura che illumina l’incipit
del «Decretum Gratiani»,
serve a illustrare l’idea che il diritto umano (raffigurato dalla spada),
sia della Chiesa sia dello Stato, trae origine da quello naturale proveniente
direttamente da Dio (qui tramite gli angeli).
Lo
stesso concetto viene illustrato da una miniatura inserita in un manoscritto
del XIV secolo raffigurante l'autorità civile e l’autorità
ecclesiastica. Sopra di esse c’è Cristo, suprema autorità,
da cui origina il loro potere, e che assegna al re la spada («gladius temporalis»)
e al papa il libro («gladius
spiritualis»). Infatti,
come S. Paolo esprime nella maniera più chiara: «...la parola di
Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio;
essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle
giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non
v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo
e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto»[18].
Se
si osserva ora come diversamente
essa viene raffigurata nell’età moderna e contemporanea, salta agli
occhi la mutata sensibilità al concetto di giustizia che percorre il
tempo moderno e contemporaneo.
L’opera
che meglio rispecchia il modo in cui il rapporto fra l’individuo e lo
Stato viene pensato e costruito nell’età moderna è
certamente il Leviatano di Thomas Hobbes. Orbene, il frontespizio della prima
edizione dell’opera, pubblicata nel 1651, reca una stampa i cui contenuti
simbolici sono estremamente significativi. Qui un paesaggio di colline su cui
è adagiata una città cinta da mura, è dominato dalla
figura di un gigante, il Leviatano. Guardandolo con attenzione si nota che il
suo corpo è in realtà formato da una miriade di omuncoli, ma
unica è la testa cui tutti soggiacciono : essa cinge una corona regale e
supera anche le nubi senza nulla che la sovrasti. Se infatti la mano sinistra del
Leviatano impugna la spada, simbolo del potere temporale, la destra stringe il pastorale,
simbolo del potere religioso, con il quale infatti ora lo Stato si appresta a
fare i conti .
Ma
se la raffigurazione del Leviatano è inquietante, ancor di più lo
è quella davvero visionaria di Klimt. Nel 1894 Gustav Klimt ottenne
l'incarico di realizzare alcuni grandi pannelli decorativi per l'Aula Magna
dell'Università di Vienna. L'incarico venne portato avanti con Franz
Matsch. I due artisti lavorarono però indipendentemente l'uno
dall'altro, suddividendosi i pannelli da dipingere. A Klimt spettò il
compito di rappresentare la filosofia, la medicina e la giurisprudenza. Al
centro di quest’ultima
raffigurazione, oggi perduta[19], sul fondale
nero, spiccava la figura di un uomo, nudo, curvo sulla sua solitudine, avvolto
dai tentacoli di una piovra. Intorno a lui, pensose, ma sostanzialmente
indifferenti, così a lui come alle forze oscure di cui erano
apparentemente prigioniere, si stagliavano le raffigurazioni della
Verità della Giustizia e della Legge. Invece dei consueti simboli, la
rappresentazione usava dunque un linguaggio nuovo, che però era tutt’altro che rassicurante. Il
tutto, pur impreziosito dall'uso dell'oro, invece della fiducia nella giustizia
e nella legge, trasmetteva un senso di profonda incertezza e inquietudine,
comunicando piuttosto l'impotenza di fronte ad un destino incomprensibile. In
questo senso Klimt prelude a Kafka e agli eventi che spezzeranno l’Europa
nel Novecento.
Ma
l’uguaglianza è anche pretesa nei confronti del legislatore, che
nelle sue norme egli tratti tutti senza discriminazioni, garantendo a ciascuno
una uguaglianza sostanziale; anzi, come si è ricordato, che egli rimuova
«gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Questa
pretesa nei confronti del diritto ha evidentemente senso solo a condizione che
si ammetta che gli uomini siano eguali anche per ciò che riguarda la
loro natura. Condizione fondamentale, questa, perché è sulla sua
negazione che sempre si è rinnovata l’idea che esistessero particolari
famiglie, ceti, popoli eletti: le storture, le vere e proprie aberrazioni di
cui è stata capace l’età contemporanea, come e più
ancora di quelle antica e media, si sono basate sul presupposto della
ineguaglianza sostanziale della
natura umana.
Da
questo punto di vista, si sarebbe portati a pensare ad un reale progresso vuoi
degli atteggiamenti mentali, vuoi delle soluzioni legislative.
Pensiamo
ad Aristotele: la sua dottrina morale riposava sulla naturale disuguaglianza
degli uomini: egli insegnava che esiste una naturale vocazione dell'un uomo a
dominare e dell’altro a servire: vi sarebbe una distinzione
«naturale» fra gli esseri umani, capace di predisporre alcuni al
comando, altri alla schiavitù. Per Aristotele, questi uomini,
naturalmente destinati a servire a causa della incapacità a possedere la
ragione[20],
e che egli identificava con i Barbari, stanno a quelli destinati al comando
come «...la parte e il tutto, come il corpo e l'anima, hanno gli stessi
interessi, e lo schiavo è una parte del padrone, è come se fosse
una parte del suo corpo viva ma separata; perciò esiste un interesse,
un'amicizia reciproca fra schiavo e padrone, nel caso in cui siano tali per
natura; quando invece tali rapporti siano determinati non in questo modo, ma
solo in forza della legge e della violenza è tutto il contrario»[21].
Dunque, un tale ordine di cose esisterebbe persino nell'interesse dei primi,
poichè altrimenti, per cecità politica o per indisciplina, essi
si rovinerebbero. Naturalmente, la netta separazione tra Greci e Barbari, tra
liberi e schiavi era, in quel mondo, fondamentale e l’ abolizione della
schiavitù avrebbe significato il dissolvimento dell'ordinamento sociale
greco. Ciononpertanto, per Aristotele, lo schiavo non manca di essere una
persona umana, un essere razionale. Villey vede qui non la negazione ma
l’affermazione, in una antropologia universalista, di una natura umana
comune: per l’appunto il grande principio sul quale si abbatterà
la critica nominalista da cui prenderà il via il pensiero moderno[22].
Numerose,
in ogni caso, sono nell’evo antico anche le opinioni contrarie a quella
di Aristotele. Il principio di uguaglianza trova riconoscimento in Platone e
nei sofisti; secondo Antifone, non sarebbe da filosofo distinguere tra padroni
e servi, tra liberi e schiavi, tra greci e barbari, perché per natura
siamo tutti uguali[23].
Nella
πολις ateniese del resto, sia pure solo fra i
cittadini optimo jure, veniva
realizzata una forma di uguaglianza destinata a
fornire il modello ideale della democrazia. E’ qui che viene formulato il
concetto di isonomia, (o meglio isopoliteia[24])
che significa uguaglianza di fronte alla legge. Si può dire che la
isonomia sia il concetto centrale della democrazia ateniese. In stretto
rapporto con tale concetto stanno poi altre espressioni, che ruotano intorno ad
esso :isotimia, cioé uguaglianza nel diritto, nella aspirazione ad
occupare dignità od uffici nello Stato; isocrazia, cioè diritto
di tutti i cittadini ad avere uguale influenza; isegoria, cioè pari
diritto di potere parlare liberamente[25].
Alla
isonomia ed alla isocrazia si trova accenno nel discorso di Pericle per gli
Ateniesi caduti, là dove si loda la costituzione di Atene: «Lo
stato nostro è popolare, perché non ha per fine l’utile di
pochi, ma quello di tutti. In esso non vi è cittadino che
all’altro non si pareggi: ma chi giunge alla magistrature vi giunge per
la vera e sola eccellenza della mano e del senno; perché la
povertà non si frappone fra gli onori e l’uomo, e non impedisce ad
alcuno di giovare alla Patria»[26]
Il
problema della eguaglianza degli uomini si affaccia insomma già in
età classica, e ne sono dibattuti i pro e i contro in molti scrittori
del mondo greco. Una idea costante dello stoicismo è l’essenza
divina dell’uomo, il quale sarebbe composto di una particella del
λόγος. L’uomo, dunque, assomiglia a Dio: «Est igitur homini cum Deo similitudo» afferma Cicerone[27],
che segue le dottrine degli stoici. Ancor più chiaramente, nel De officiis (cioè dei doveri,
bellissimo scritto, indirizzato al figlio Marco che ben potrebbe intitolarsi:
«Vita, istruzioni per l’uso»), Cicerone afferma che vi
è un consorzio di tutto il genere umano, i cui vincoli sono la ragione e
la parola. In questa società di uomini si conserva la comunanza di tutte
le cose che la natura produsse per uso comune dell’umanità. Se
quelle prese in considerazione dal diritto civile vanno possedute
com’è stabilito dalle leggi, per le altre bisogna comportarsi come
fra amici: non negare l’acqua corrente, lasciar accendere il fuoco dal
nostro fuoco, dare il giusto consiglio al dubbioso che lo domandi[28].
Poiché l'uomo è per sua natura uno zoon politikòn, un essere sociale, vi è una societas hominum; questa, però,
può essere tale solo a patto che consista di eguali, vale a dire di
liberi, di fratelli. Essa di conseguenza non è pensabile senza aequalitas[29].L‘instaurazione
e la conservazione della aequalitas è pertanto necessaria ed è
una esigenza di giustizia, per essere esatti della giustizia distributiva.
Così, secondo Cicerone, nella società umana, giustizia ed
eguaglianza sono collegate fra loro. Non sorprende che fra tutti gli scrittori
dell’età classica Cicerone sia quello che più di altri ha
goduto di una continua e incontrastata fortuna nell’età di mezzo.
Il pensiero cristiano non aveva difficoltà a riconoscervisi.
Anche
in Seneca, peraltro, troviamo accenti simili riguardo alla uguaglianza: nel De beneficiis Seneca[30]
afferma che lo schiavo ha la stessa natura del padrone e può egualmente
possedere la virtus. Solo la sorte fa
diventare schiavi, e la schiavitù è odiosa a tutti gli uomini.
Dunque
vi è un’uguaglianza di jus
naturale cui si contrappone la disuguaglianza giuridica derivante dallo jus gentium, nel quale si radica
l’istituto della schiavitù[31],
in un equilibrio che probabilmente non si può oggi valutare appieno se
non si tiene conto dello stretto rapporto sussistente, nel diritto romano, fra jus e religio[32]. Una tale eguaglianza dovrebbe comunque
contraddistinguere tutti gli uomini liberi. Questa aspirazione porta Tacito a
lamentare che col Principato tra le virtù antiche perdute vi sarebbe
anche questa: mutate le condizioni della città, non rimaneva più
alcunché dell’antico, incorrotto costume, scomparsa
l’eguaglianza, tutti attendevano gli ordini del principe[33].
Il
più grande incentivo verso l’uguaglianza materiale è venuto
dal Cristianesimo, nonostante esso sia stato talvolta incompreso dagli stessi
Cristiani, ed ogni riforma della Chiesa si presenti come un ritorno alla
purezza delle origini, come l’esigenza di liberare il messaggio cristiano
dalle deviazioni sopravvenute.
Il
Cristianesimo si radica nel substrato dell’Antico Testamento; e qui
l’uomo è creato a immagine di Dio[34]:
donde la fratellanza degli uomini in Dio, la sacralità della vita umana
e il dovere di essere responsabili dei propri simili[35].
Anche nell’antico Israele troviamo pertanto precetti contro
l’ineguaglianza. Il Signore dice a Mosè: «Se tu comprerai un
servo ebreo, ti servirà per sei anni, ma al settimo anno se ne
andrà libero senza pagare nulla»[36]
«Voi dovete consacrare il cinquantesimo anno e proclamare la
libertà per tutti coloro che abitano nel Paese. Questo anno deve valere
per voi come giubileo. In questo anno dovete riportare ognuno nel suo possesso
e ognuno nella sua stirpe»[37].
Peraltro, anche l’antico Giudaismo conobbe un gran numero di
discriminazioni. Poiché si riteneva che la fortuna terrena fosse il
riflesso del favore concesso da Dio a chi ne rispettava i comandamenti, erano
al di fuori della comunità gli ammalati, particolarmente i lebbrosi, in
un certo grado anche gli esattori delle imposte, i Samaritani.
Non
che il problema del dolore innocente fosse estraneo all’Antico
Testamento. Nel libro di Giobbe risuona il grido di tutti gli uomini la cui
sorte infelice non può essere letta come la retribuzione della loro
colpa. Tuttavia, dopo la prova, la vita di Giobbe si risolve in trionfo su
questa terra, e in generale il concetto stesso di popolo eletto vuole indicare
l’esemplarità della storia di Israele che vince quando obbedisce a
Dio ed è sconfitto quando si allontana da Lui.
E’
Gesù che capovolge il senso della storia. La salvezza cristiana parte
dal paradosso della Croce. Beati non sono i fortunati, ma gli affamati, gli
assetati, coloro che nel proprio spirito hanno abbracciato la povertà. Cristo
rivolge il Suo amore ai disgraziati, ai derelitti, agli emarginati. Gesù
non solo li ha amati: ha anche dato a noi un esempio di come dobbiamo
amarci l’un l’altro (Giovanni, 13,15): «In verità, in
verità vi dico: un servo non è più del suo padrone,
né un inviato è da più di chi lo ha mandato». Ma se
ciò accenna evidentemente alla parità di trattamento che i
Cristiani si devono assicurare l’un l’altro nella società,
dall’altro non fonda una pretesa di
eguaglianza dei meno favoriti nei
confronti di questa. Cristo non fa differenza fra il povero e il ricco.
Benchè avverta che è più facile che un cammello passi per
la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli. Egli offre
la salvezza egualmente all’uno e all’altro, restando nella libera
scelta di ciascuno accettarla o no. La libertà diventa quindi
l’altra faccia dell’uguaglianza. In via di principio (un principio
non sempre rispettato) si tratta di una forma di libertà sconosciuta al
mondo antico, per il quale l’empietà equivale a ribellione allo
Stato, cui il cittadino deve fedeltà assoluta[38].
La
dottrina di Gesù non è insomma una dottrina tesa a perseguire una
rivoluzione politica (Cristo non imbraccia il fucile della teologia della
liberazione); ma non è neanche una dottrina indifferente riguardo alla
società. Piuttosto è da dire che, secondo la concezione
cristiana - per cui tutti gli
uomini sono eguali di fronte a Dio («Non c’è dunque
più né giudeo, né greco, né schiavo, né
libero, né uomo né donna, perché tutti siete un sol uomo in
Cristo Gesù»[39]),
e perciò tutti a cagione dei loro peccati abbisognano della redenzione,
mentre d’altra parte tutti possono parteciparne[40]
- sorge l’idea di una eguaglianza di nuovo genere. Essa trova la sua
più alta espressione in S. Pietro : «Ora io riconosco che Dio non
ha preferito un popolo piuttosto che un altro, ma che per Lui tutti in ogni
popolo sono benvenuti, quelli che lo temono e praticano giustizia»[41].
In senso etico e religioso, il Cristianesimo si interessa soprattutto al bene
dell'anima immortale individuale. Le anime sono state sempre ritenute libere ed
eguali: questo atteggiamento contraddistingue tutto il pensiero cristiano
rispetto a quello dell'antichità classica antecedente al periodo
ellenistico. L'assorbimento spirituale dell'individuo nell'unità
sociale, che appariva naturale a un Platone o a un Aristotele[42],
è inconcepibile per un cristiano, nonostante tutte le concezioni
mistiche della Chiesa come corpo spirituale[43].
Come
questa idea di eguaglianza nel suo svolgimento trovi il giusto mezzo fra
indifferenza per la struttura della società e rivoluzione politica, ci
viene mostrato ripetutamente sia nella prima lettera di S. Pietro, sia in
diverse lettere di S. Paolo, fra cui un vero gioiello del Nuovo Testamento, su
cui si è appuntata di frequente l’attenzione degli storici del
diritto (per restare in Italia, da Melchiorre Roberti a Piero Bellini)[44],
cioè la lettera di S. Paolo a Filemone. A Filemone, un Cristiano amico
di S. Paolo, è fuggito il suo giovane schiavo Onesimo, il quale cerca
rifugio presso Paolo. Questi rimanda al padrone lo schiavo, che nel frattempo
ha battezzato, e nello stesso tempo gli fa consegnare la lettera che ci
è pervenuta:
«… ti prego dunque per il
mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu
inutile, ma ora è utile a te e a me. Te lo ho rimandato lui, il mio
cuore.
Avrei voluto trattenerlo presso di me
perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. Ma
non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai
non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. Forse per questo è stato
da te separato per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non
più però come schiavo, ma molto più che schiavo, ma come un
fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come
uomo, sia come fratello nel Signore»[45].
L’Apostolo
quindi non pretende, ma raccomanda la liberazione dello schiavo. Ognuno deve
essere soggetto all’autorità, si dice nella lettera ai Romani[46],
poichè non c’è autorità che non venga da Dio.
Questo diventa più tardi il punto di vista del Medioevo
cristiano, che si ritrova in Beaumanoir e in Marcolfo[47].
La servitù, come istituzione,
viene accettata in S. Pietro, in S. Paolo e nella Patristica successiva. S.
Ambrogio insegna che essa nulla toglie davanti a Dio, come lo stato di
libertà nulla aggiunge (nec
servitus derogat, nec libertas adiuvat). Se Seneca aveva insegnato che la
schiavitù dipendeva dall’essersi perduta l’epoca
d’oro, i Padri della Chiesa si avviano per una via parallela: Dio ha
creato l’uomo libero e, se Adamo non avesse peccato, la schiavitù
non sarebbe sorta. Di fronte al peccato originale essa può essere
considerata tanto un castigo quanto, come penitenza, un mezzo di salvazione.
Gli
uomini si riconoscono eguali perché hanno un padre comune in Dio e una
madre comune nella Chiesa. Così avvertivano, nel IX secolo Giona
d’Orleans, Rabano Mauro, Burcardo di Worms. La vera eguaglianza era
quella, ed essa rendeva ogni altro rapporto secondario. Servire, ammoniva
Raterio[48],
non ha importanza: più si serve in umiltà, più
nobiltà si acquista. Attributo della somma autorità della
Cristianità è di essere servus
servorum Dei. Inoltre, la separazione fra istanze religiose e istanze
civili che, come si è detto, è propria e tipica del messaggio
cristiano[49],
rende l’uomo responsabile di una scelta, ove esse siano in contrasto; ma
scegliere può solo chi è libero, e la libertà si
accompagna all’eguaglianza.
E’ dunque nell’Europa cristiana che si fa strada
l’esigenza di un diverso rapporto fra giustizia ed eguaglianza. Nel Sachsenspiegel, Eike von Repgow[50]
le lega chiaramente insieme[51]:
«Dio ha formato a Sua immagine l’uomo e lo ha redento col Suo
martirio, tanto questo quanto quello. A lui il povero è parente come il
ricco». Il risultato cui perviene Eike è che la mancanza di
libertà riposa sulla violenza, benché venga fatta passare come
fondata sul diritto.
Certo
il Medioevo è un tempo di disuguaglianze profonde, di
società gerarchiche. Il
mondo, tanto nell’al di là come su questa terra, viene concepito
come un cosmo fatto a gradini. Nella «Teologia Mistica» di Dionigi
Aeropagita (uno straordinario classico del Cristianesimo delle origini, fonte e
riferimento di molti percorsi mistici successivi) il carattere gerarchico della
creazione ha una struttura tripartita, che è immagine dell'armonia
esistente entro la Trinità stessa e perciò sottintende la
somiglianza esistente fra il Creatore e le sue creature[52].
Secondo il De coelesti hyerarchia, nel
rapporto di omologia fra cielo e terra, si riproducono, negli ordinamenti della
società umana, le gerarchie e le disparità che mantengono
ordinata la società degli angeli[53]:
così nei primi decenni del secolo XI, da Gerardo di Cambrai e Adalberone
di Laon viene spiegato come, nella civitas
terrena, si distinguano tre tipi di
attività: orare, pugnare
e agricolari-laborare. A ciascuna di queste attività
corrispondeva una condizione giuridica diversa. Il Clero era soggetto al
diritto canonico e ad una giurisdizione esclusiva. Coloro i quali erano deputati
a pugnare costituivano a loro volta un
ceto privilegiato, nel senso che il diritto cui essi erano soggetti non era condiviso
né dai contadini, né dai cittadini.
Tuttavia, questo quadro della disparità medievale
è incompleto, non è quello odioso proposto a ridosso della
Rivoluzione Francese dal Winspeare[54].
Dal Salisbury, che muore vescovo di Chartres nell’anno 1180, la res publica viene paragonata ad un
alveare, cioè ad una organizzazione animale ove l'ordine è
raggiunto grazie ad una netta separazione dei ruoli[55];
ma se il paragone ha echi classici, lo spirito nel quale il Salisbury lo
propone è diverso: l'unione deve infatti venire raggiunta avendo di mira
le esigenze dello spirito, che negli uomini non tiene conto della loro
condizione. Dunque, per completare e comprendere davvero il quadro anzidetto,
bisogna passare dal campo speculativo a quello della effettiva realtà
della vita, e ricordare quanto il signore feudale avesse bisogno delle braccia
dei contadini, il re dei suoi feudatari. Il principio gerarchico trovava
infatti i suoi limiti nel diritto di resistenza, che secondo i suoi studiosi
traeva le sue radici, da un lato, dall’obbligo cristiano di servire
sì il signore terreno, ma solo sintantochè non inducesse in
peccato; dall’altro dalla natura sinallagmatica del rapporto
dominante-dominati[56].
A
questo diritto di resistenza, che si contrappone al non-diritto dei più
potenti, rinvia il Sachsenspiegel.
Contro il proprio re o il proprio giudice, i quali abbiano commesso
ingiustizia, è lecito resistere, eventualmente ricorrendo alla difesa
armata, senza con ciò ledere il giuramento di fedeltà. Nella
Bolla d’Oro di re Andrea II d’Ungheria (1222) l’art. 31
riconosce esplicitamente questo diritto qualora il re o i suoi successori
violino le leggi del Regno, nella stessa Bolla d’Oro sancite[57].
Di
fronte all’ordinamento gerarchico che costituiva la struttura entro la
quale si modulavano i rapporti intersoggettivi, così dei grandi vassalli
nei confronti dell’Imperatore, come dei contadini nei confronti del loro
signore feudale, stavano d’altra parte enclaves
sociali organizzate secondo una concezione del tutto diversa, vale a dire
secondo quell’ordinamento corporativo che fu così rigorosamente
studiato da Otto von Gierke: e prima di tutto l’ordinamento municipale.
Dopo che nell’alto Medioevo molte città hanno respinto la signoria
dei feudatari, sorgono vere e proprie isole di ampia ed estesa eguaglianza. Il
fenomeno si verifica anzitutto nell’Italia settentrionale, alimentato
anche da movimenti religiosi – come ad esempio quelli dei Catari e dei
Patari[58]
– che si nutrivano di ideali sociali pauperistici e si dirigevano contro
gli abusi del feudalesimo ecclesiastico. Se questi movimenti si attirarono
l’accusa di eresia, così non fu per quello cui diede vita
Francesco d’Assisi, cui si deve uno straordinario rinnovamento degli
ideali egualitari del Cristianesimo[59].
Quasi nello stesso tempo altri movimenti diretti a conseguire l’autonomia
cittadina, sorsero anche in Germania, nonché in altri paesi
d’Europa. La città si costituisce come una associazione fatta di
rapporti personali e basata fondamentalmente sulla libertà e
l’eguaglianza di tutti[60].
Unendosi in un'associazione i cittadini si appropriano della sovranità
all'interno di questa associazione ed escludono in tal modo principalmente le
forme di servitù feudale: il cittadino è libero, il diritto di
cittadinanza non ammette nessuna sudditanza, nessuna limitazione alla
libertà da parte di un signore feudale. In Germania vale la frase:
«l'aria della città rende liberi»[61].
La città non conosce l’ordine proposto dal Sachsenspiegel, sfuma qui la distinzione fra nobiltà, fideles e servi. Da questo punto di
vista, la città pone le basi dell’individualismo moderno. E
tuttavia le associazioni medievali non sono fatte – come le
società moderne – di individui, bensì di corporazioni. Come
nella antica polis, la città
era costituita anzitutto dai signori fondiari. La differenza fondamentale con
la polis era naturalmente data
dall’assenza della schiavitù, ma alla signoria del capofamiglia
erano soggetti tutti gli abitanti della casa[62].
Il principio di uguaglianza, così come quello della partecipazione
democratica all'interno della città non era un principio valido in
assoluto: i cittadini si dividono ancora, nel tardo Medioevo, in molte classi,
e fondamentale è il contrasto fra patrizi e corporazioni. Tuttavia anche
coloro i quali, pur risiedendo nella città, non ne sono cittadini,
possono godere del diritto di protezione concessa dalla città, alla
quale essi sono spesso legati tramite un giuramento che nei diritti e nei
doveri è molto simile al giuramento dei cittadini.
E’
dunque dall’eguaglianza germogliata nelle istituzioni comunali che
discende quella affermata nelle moderne costituzioni? Dilcher, attento studioso
della storia comunale, ritiene che non sia così: l’ulteriore
storia del principio di uguaglianza non si viene comunque evolvendo nella
cornice della città medievale[63],
bensì in quella degli Stati che i Principi vanno creando. Questo nuovo
modello di signoria si collega ad una nuova specie di feudalesimo, che fa degli
alti funzionari del principe una classe privilegiata con particolari onori
riservati al loro ceto. A queste condizioni diseguali corrisponde un diritto
diseguale, particolare di ciascuna città, ciascuna signoria, ciascuna
corporazione. In questo accentuato particolarismo giuridico, solo il diritto
comune rivendicava una utilitas generale.
Non a caso, era un diritto che doveva il suo respiro a un ceto di studiosi
formatisi nell’altro ambiente ove si coltivava una eguaglianza
sostanziale, in contrasto con il carattere gerarchico e cetuale del tempo:
l’Università[64].
Dunque,
dopo essersi apparentemente affermato, il principio di uguaglianza si inabissa
nuovamente e dovrà attendere a lungo prima di tornare ad affiorare
ancora nella teoria e nella pratica.
Le
scorrerie saracene avevano peraltro assuefatto gli Europei all’idea che
si poteva essere catturati e ridotti in schiavitù, e ne erano derivati
ordini religiosi e figure giuridiche che al verificarsi di tale evenienza
cercavano di porre rimedio[65].
Quando,
nel 1430 gli Spagnoli colonizzarono le Isole Canarie, asservirono a loro volta la
popolazione locale, schiavizzandola. Il Papa Eugenio IV, venendo a conoscenza
di quanto accadeva, emise una bolla papale di condanna, la «Sicut dudum», che però fu
ignorata. La condanna della Chiesa Cattolica venne ripetuta anche in successive
bolle papali. Va ricordata in particolare la «Sublimis Deus» di Paolo III del 2 giugno 1537, che riecheggia
nelle argomentazioni di Las Casas a difesa dei nativi americani[66],
contro le posizioni di Sepúlveda[67].
Il fatto però che Urbano VIII nel 1639 abbia dovuto riaffermare la
precedente bolla di Paolo III, e la successiva «Immensa Pastorum principis» di Benedetto XIV, del 22 dicembre
1741, dimostrano che non si era affatto giunti a sradicare una prassi tanto
contraria alla dignità umana, anche se si erano poste le primitive basi
di quella che sarebbe diventata una lunga contestazione. Anzi, il forte impegno
dei Gesuiti contro la schiavitù ne provocò, nel 1767,
l'espulsione da tutto il Nuovo Mondo, anche per aver dato vita ad autonome
comunità di nativi molto avanzate.
Per comprendere le cause di questa eclisse Villey porta la
sua attenzione sulla filosofia, dalla quale «dipendono i principi delle
cose e in particolare il loro linguaggio»[68],
e in particolare sul Nominalismo. La filosofia di Guglielmo d’Ockham
riduce infatti la realtà a sostanze individuali. Sono reali solo gli
esseri singoli: i nomi comuni (l’animale, l’uomo) o relazionali (la
paternità, la cittadinanza), cioè gli universali, non designano
nulla di reale: sono solo strumenti utili per connotare, per economia di
linguaggio, una pluralità di esseri individuali. Viene così
negata la rerum natura: ma è
proprio questa che serve di fondamento al diritto, alla cui
comprensione si può giungere per via della naturalis ratio. Con uno strumento apparentemente inoffensivo e
lontano da questo ordine di problemi, il nominalismo infligge una ferita
mortale allo strumentario intellettuale approntato dalla speculazione
medievale. Non a caso, esso è stato paragonato ad un bambino il quale
con una cerbottana rompa tutte le lampadine del paese. Le lampadine sono gli
universali, e l'oscurità che ne deriva sta per la serie di innumerevoli
oggetti ormai non più adunabili in categorie universali. Fra di essi sta
anche il diritto: dal momento che non esiste più fuori dalla coscienza
degli uomini, esso cessa di essere oggetto di conoscenza. Bisognerà, come suggerisce Hobbes, costruirlo
artificialmente a partire dagli individui[69].
Nel
travaglio politico e sociale che accompagna il declinare del Medioevo e la
genesi dello Stato moderno, l’aspirazione verso uno Stato ideale, che non
si vedeva preparato nella realtà, genera una letteratura che questo
ideale ipotizzava, ed era un ideale di giustizia ed uguaglianza[70].
Tommaso Moro mette in bocca ad uno degli interlocutori della sua Utopia che
l’umanità non potrà progredire e non sarà possibile
giungere ad una equa e felice ripartizione dei beni se non sarà abolita
del tutto la proprietà privata. Nella Città del Sole di
Campanella vigono la comunione dei beni e la comunione delle donne. Ma a fronte
delle enunciazioni degli utopisti, la realtà procede piuttosto verso una
recrudescenza della schiavitù. La detenzione ed il commercio degli
schiavi erano in Africa attività legali, e a partire dalla Costa degli
schiavi, a Sud del Sahara, si sviluppava un intenso commercio che esportava
manodopera schiavistica in diverse direzioni. La tratta degli schiavi era al
tempo controllata da compagnie francesi, olandesi, tedesche ed inglesi. Fra
tutte spiccava la English Royal African Company, che ne faceva una
straordinaria fonte di lucro. Solo al declinare del Settecento, a partire da Massachussets,
Connecticut, New York, Pennsylvania (1788), dalle colonie francesi[71],
dalla Danimarca (1792) si cominciò
a proibire il traffico degli schiavi. In Inghilterra, lo Slavery
Abolition Act, stabiliva, nel 1833, la fine dello schiavismo in tutto l’impero
britannico. Negli Stati Uniti, l'abolizione formale fu sancita a livello
federale dalla Costituzione nel 1865, dopo la guerra civile americana.
E
tuttavia il fenomeno è tutt’altro che scomparso. Vi sono ancora
oggi fenomeni di schiavitù, soprattutto nel subcontinente indiano e
nelle zone confinanti. In questi paesi esiste ancora la possibilità di
nascere schiavi in virtù dei debiti non estinti da parte dei genitori, e
successivamente ereditati. Anche la Mauritania ha concluso il processo
legislativo di abolizione solo nel 1980, senza che si siano mai spente le
contestazioni e le critiche al governo. Ancora il 7 giugno 1912 Papa Pio X con
l'enciclica «Lacrimabili Statu»
stigmatizzò la politica di alcuni Stati dell’America Latina, sin
troppo pigri nell’esercitare un effettivo controllo del fenomeno.
Durante
le trattative per porre termine alla guerra dei trent’anni, e con i
Congressi di Münster e Osnabrück in Westfalia, la concezione politica
di una società integrata e gerarchica mostra di essere giunta al
termine: la comunità dei principi sovrani si scrolla di dosso i vincoli
tradizionali, e con Grozio viene riordinato e riproposto un diritto teso a
regolare i loro rapporti su un piano d’uguaglianza. Un diritto manifestato nella prassi e giustificato
dall’essere radicato nella natura umana: le esemplificazioni che Grozio
fa della prassi dei rapporti internazionali, sono tratte quasi tutte dalla
storia antica, piuttosto che da quella a lui vicina. Così, sulle basi
preparate dalla scuola spagnola dei teologi – giuristi, insieme a Pierino
Belli e Alberico Gentili, e poi Pufendorf e Wolff, prepara l’idea che
tutti gli Stati siano eguali, benchè poi questa eguaglianza finisca con
il riguardare solo gli Stati europei e non escluda il riconoscimento della
maggior potenza dell’uno o dell’altro. L’Illuminismo –
tanto quello francese, quanto quello tedesco - trasferirà questa idea
dalla comunità dei principi a quella degli uomini tutti.
Il
Burlamachi[72]
accoglie l'antico pensiero che gli uomini sono uguali secondo natura, e
così Rousseau: non però il peccato originale ha fatto venire meno
l'epoca d'oro, ma i difetti della moderna civiltà. Per via di
ciò, il retour à la nature
si trasforma in appello morale, perchè attraverso di esso si può
ristabire il principio di eguaglianza. Verde ante literam, Rousseau avvertiva che non basta riconoscere la via
del ritorno, ma è necessario agire perchè essa venga di nuovo
percorsa: una adeguata educazione è quella che può indicare ad una nuova gioventù il cammino
verso il paradiso del futuro. Per questa via, la riflessione filosofica si
converte in attività pratica, e il concetto di uguaglianza diviene
patrimonio comune del pensiero politico e filosofico del diciottesimo secolo.
Già Vico, parlando dei governi umani, avvertiva che essi «per la
egualità di essa intelligente natura, la quale è la propria
natura dell’uomo, tutti si eguagliano nelle leggi»[73].
Similmente Montesquieu indicava nelle leggi il fattore che poteva stabilire
l’eguaglianza in termini concreti ed efficaci[74],
consapevole che nella società non è possibile restare eguali[75].Voltaire
osservava che gli uomini sono nati tutti allo stesso modo[76].
Nelle
Lezioni che Carl Gottlieb Svarez tiene nel 1791 al suo discepolo reale, il
futuro Federico Guglielmo III, troviamo le seguenti lapidarie espressioni, che
possono già essere riguardate come un abozzo di principi costituzionali:
Naturale
eguaglianza di tutti gli uomini;
a)
ognuno è autorizzato a
procurarsi la propria felicità;
b)
ognuno è autorizzato a opporsi
con la violenza a chi voglia impedirgli il raggiungimento di tale fine;
c)
ognuno è limitato nella sua
libertà solo dalla legge di non danneggiare gli altri e di lasciare ad
ognuno il suo.
d)
nessuno è autorizzato a
costringere gli altri ad azioni che questi non considera utili o necessarie al
raggiungimento della sua felicità[77].
Già
prima dell'insurrezione americana, i giuspubblicisti tedeschi affermano la
uguaglianza degli uomini e la irrenunciabilità della libertà. «Ya — scrive ad esempio von Justi — da uns endlich Gott alle mit gleicher Freyheit, Würden und Rechten
in die Welt setzet; so mache ich aus dem allen den Schluss, dass es die Pflicht
und Schuldigkeit einer jeden Regierung ist, die natürliche Freyheit ihrer
Unterthanen so wenig einzuschränken, als es nur immer mit dem Endzwecke
der Republiken bestehen kann, und dass das allemal die beste Regierung ist, die
sich ohne Abbruch des Endzweckes der Republiken der natürlichen Freyheit
am meisten nähert »[78].
Nelle
costituzioni degli Stati nord-americani il principio di uguaglianza giunge a
definitiva codificazione. Ciò accade al momento del distacco di quegli
Stati dalla madre patria, anzitutto col Bill
of Virginia del 1776 . Questo Bill,
e la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti che presto gli tenne
dietro, non racchiudevano alcuna massima che già non fosse di antica
origine inglese o che non fosse stata da tempo praticata nelle colonie: come
per esempio l’uguaglianza giuridica di tutti i ceti, ovvero
l’abolizione dei particolari privilegi delle grandi famiglie.
Tuttavia
il fondamento è nuovo, perchè esso vuol ricollegarsi non ad
antiche leggi o consuetudini inglesi, ma ai principi filosofici derivati dalle massime piu' generali di
quel diritto naturale,che affermava di valere per tutta l’Umanità.
Un diritto con un tale fondamento poteva avere la pretesa di ottenere
riconoscimento ovunque, poteva ben essere rivelato da missionari della politica
e divenire oggetto di esportazione. Lafayette è stato colui che, per
l’appunto, ha riportato in Francia e trasmesso alla Rivoluzione
l’idea che questi principi, vagheggiati dai filosofi, potevano essere
concretamente tradotti in pratica.
L'idea di eguaglianza acquistava ora un’altra valenza,
suonava come una fanfara di rivendicazione e di riscatto, in opposizione al
sopruso. Per il Condorcet, dal diritto naturale non derivava solo
l’eguaglianza dinanzi alla legge, ma un diritto che, di forza prorompente
e di proiezione larghissima, implicava una rivendicazione di tutti gli altri
diritti[79].
E similmente ragionavano altri protagonisti della rivoluzione come il Brissot,
o il Mirabeau.
I testi delle Dichiarazioni dei diritti tra il 1789 e il
I795 riverberarono i diversi modi di intendere questa eguaglianza. Nella Dichiarazione
del 1789, all'art. 6, era detto: «Tutti i cittadini, essendo eguali ai
suoi occhi (della legge), sono egualmente ammissibili a tutte le
dignità, posti e impieghi pubblici, secondo la loro capacità e
senz'altra distinzione che quella della loro virtù o del loro
ingegno»; nella Dichiarazione del 29 maggio 1793, premettendosi all'art.
1 che diritti dell'uomo sono l'eguaglianza, la libertà, la sicurezza,
all'art. 2 si precisava: «L’eguaglianza consiste in ciò che
ciascuno possa godere degli stessi diritti»; e nell'Atto costituzionale
del 21 giugno successivo veniva altresì proclamato esser diritti
naturali e imprescrittibili dell'uomo l'eguaglianza, la libertà, la
sicurezza, la proprietà. Nella costituzione del 5 fruttidoro (22 agosto
1795), all'art. 3, veniva chiarito: «L'eguaglianza consiste in
ciò, che la legge è eguale per tutti, sia che protegga sia che
punisca. L'eguaglianza non ammette nessuna distinzione di nascita, nessuna
eredità di potere». Per il Curcio si tratta di enunciazioni che si
proiettano in avanti, anche rispetto alle costituzioni americane, ove il senso
dell'eguaglianza traspariva bensì da tutto il contesto[80],
ma senza esplicite indicazioni. In
un colpo solo cadono in Francia tutti i privilegi di classe; tutti i cittadini
sono tenuti a pagare uguali imposte; ottengono uguale diritto di voto; uguale
accesso ai pubblici uffici; devono soddisfare allo stesso modo il servizio
militare. Le armi vittoriose di Napoleone affermano questo pensiero come in
Francia così in Italia e in Germania e attraverso tutta Europa, con uno
strumento straordinario: un nuovo codice nel quale viene sancita
l’unicità del soggetto giuridico: l’uguaglianza di tutti i
cittadini di fronte alla legge
sostituiva ora (in maniera più efficace, come si credeva)
l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. La simbologia adottata nelle illustrazioni del tempo
è tutta laica: il triangolo, con il quale spesso viene rappresentata
l’eguaglianza, ha più rapporto con la simbologia massonica che con
quella cristiana.
In
Italia, regione che subì tutta, direttamente o indirettamente l’
influenza francese, il principio di uguaglianza venne accolto da tutte quelle
costituzioni che si ispirarono al modello della vicina nazione. A Ferrara, un
bando ferrarese del 16 fruttidoro dell’anno VI dichiarava che «i
princìpi della repubblica francese respingono le distinzioni fra i
cittadini»; altrettanto si legge nei proclami di Modena, dove si afferma
di volere assicurare la stabile durata «del regno della uguaglianza,della
libertà, della ragione»; e così pure a Bologna ed a Reggio.
Specialmente
nel terzo Congresso cispadano di Modena (21 gennaio — marzo 1797) questo
argomento sollevò interessanti discussioni: «I diritti dell'uomo
che vive in società sono la libertà,la uguaglianza,la sicurezza
,la proprietà».
Dunque
i principi accolti in Francia vengono ricopiati subito dai primi governi
provvisori dell’Emilia e della Lombardia, e riaffermati nella
dichiarazione premessa sia alla Costituzione della Repubblica cisalpina
dell'anno V, sia a quella dell'anno VI, dove si legge che l’ uguaglianza
non consiste solo nell'essere la legge uguale per tutti, ma altresì nel
respingere «ogni distinzione di nascita, ogni potere ereditario».
Proprio a questo scopo, per accorciare cioè le distanze tra le varie
classi sociali, vennero istituiti i «pranzi patriottici», nei
quali, fianco a fianco, dovevano sedere nobili e plebei[81].
Per il Filangieri questo concetto dell’eguaglianza conduceva ad auspicare
anche «che tutte le nazioni si guardino come una società
unica»[82].
Dopo
la caduta di Napoleone, la vita del principio di uguaglianza si scontrò
in un primo tempo con la Restaurazione, che credette di poter semplicemente
cancellare la Rivoluzione e quanto essa aveva portato con sè. In un
secondo tempo, proprio la sua progressiva affermazione mostrò i limiti
di una eguaglianza formale[83].
La negazione dei diritti politici alle donne rappresenta, ad esempio, uno dei
limiti di attuazione di una cultura dei diritti proclamata in via di principio[84].
L’altro è rappresentato, negli Stati Uniti, dalla negazione dei
diritti della minoranza nera.
Un
poco per volta, comunque, il principio di uguaglianza si venne riaffermando
nelle nuove costituzioni che presero vita nella prima metà dell'altro
secolo. In Germania ciò avvenne per la prima volta, e nella forma piu
cospicua, in Baviera (1820) ove venne garantita «la uguaglianza delle
leggi e di fronte alla legge». Con ciò, non solo si assicurava l'
applicazione uniforme della legge in campo amministrativo e giudiziario, ma
veniva altresi garantita la sostanziale uguaglianza nel contenuto delle leggi,
concetto, questo, che corrisponde al più moderno pensiero legislativo.
Con Kant[85]
la portata dell'eguaglianza civile era considerata – insieme con
la libertà e l'indipendenza – come uno dei principi a priori della ragione dello stato
civile inteso come stato giuridico; essa consisteva nel diritto di pervenire ad
ogni grado, ad ogni posizione sociale, e di essere giudicati alla stessa
stregua dalla legge. Il Constant[86]—
e prima di lui il Bentham – preferivano limitare il senso
dell’uguaglianza alla sola libertà legale. Constant esortava a non
pretendere troppo dall'eguaglianza, contentandosi di farla agire liberamente:
«essa ... arricchisce il povero senza spogliare il ricco, non distrugge
la sproporzione delle fortune con la violenza ma impedendo loro di perpetuarsi
toglie a esse ciò che hanno di oligarchico e di pericoloso»[87].
Era la posizione liberale, alquanto staccata da quella democratica,
più carica di aspettative.
In
Prussia, ove in un primo tempo, dopo la morte del von Stein, ci si era avviati
sul cammino della reazione, venne emanata nel 1850 una costituzione la quale
garantiva la uguaglianza di tutti i Prussiani avanti alla legge. Di fatto il
precetto avrebbe in origine voluto introdurre una uguaglianza giuridica
sostanziale, ma l’ interpretazione costituzionale del tempo successivo
abbassò la massima a semplice garanzia della uguaglianza giuridica
formale,spogliandola del suo significato e della sua importanza.
Il
Commentario – allora famoso – dello Anschütz alla costituzione
prussiana[88]
scrive: «Il principio costituisce una massima non già per colui
che da la legge, ma per chi la amministra: uguaglianza di fronte alla legge
è in realtà uguaglianza di fronte al giudice ed alla amministrazione.
L'art.4, §1 proibisce al giudice, non al legislatore, di fare
differenze».
Anche
il Preussisches Verwaltungsgericht, cioè il Supremo Tribunale Amministrativo
della Prussia, accolse questa interpretazione.
In Italia, Il primo parlamento subalpino
venne eletto ( 27 aprile 1848)
da un corpo elettorale che rappresentava l’1,7 % degli abitanti. Secondo
le disposizioni della legge elettorale politica del 17 dicembre 1860, le
condizioni per l'elettorato politico erano: a) essere cittadino italiano o naturalizzato
e godere dei diritti civili e politici; b) avere 25 anni compiuti di
età; c) saper leggere e scrivere; d) pagare un censo annuo per imposte
dirette di almeno 40 lire.
Potevano essere elettori,
indipendentemente dal censo, coloro che possedevano titoli di capacità o
esercitavano determinate professioni (membri di accademie, di ordini equestri,
professori universitari, funzionari ecc.).
Fu solo con la legge del 15 agosto
1919 n. 1401 che l’elettorato si estese a tutti i cittadini che avessero
raggiunto la maggiore età. Ma ancora una volta l’estensione
riguardava solo i cittadini maschi, e fu solo col decreto legislativo luogotenenziale
del 1 febbraio 1945 che il diritto di voto veniva esteso alle donne maggiorenni[89].
Successivamente,
il XX secolo ha portato al riconoscimento del principio della uguaglianza nel
suo doppio significato, e alla pretesa che esso, lungi dal rimanere una
semplice opinione filosofica, o una dichiarazione di intenti, divenisse
ispirazione inderogabile del legislatore. Anzi, si è preteso che tale
dottrina politica divenisse universale.
A
metà del secolo XX, l’esperienza di due guerre disastrose, ma
più ancora la scoperta della perversione cui il nutrirsi di idee basate
sulla disuguaglianza può condurre la natura umana, ha portato prima alla costituzione
dell’Assemblea delle Nazioni Unite, poi alla Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo, proclamata dall’Assemblea Generale
dell’Organizzazione anzidetta, nella sessione generale di Parigi del
10-12-1948, e ritenuta il punto di incontro degli orientamenti degli Stati
civili. In tale Dichiarazione si legge:
Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in
dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono
agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo
7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge
e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un'eguale tutela da parte
della legge. Tutti hanno diritto ad un'eguale tutela contro ogni
discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi
incitamento a tale discriminazione.
Articolo
8
Ogni individuo ha diritto ad
un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali
contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla
costituzione o dalla legge.
La Dichiarazione proviene da Stati
assai dissimili sul piano ideologico e politico, come gli Stati Uniti e l'URSS;
Stati con sistemi economici e politici molto lontani, come i paesi occidentali
da una parte e l'Etiopia, l'Arabia Saudita e l’Afghanistan dall'altra;
Stati ispirati a visioni religiose differenti: cristiani (i paesi occidentali e
quelli latino-americani), musulmani (come l'Arabia Saudita, l'Afghanistan, la
Turchia, il Pakistan ecc.), induisti (come L'India) o di tradizione buddista
(come la Cina). E’ importante che tali Stati abbiano potuto trovare un minimo comune denominatore, sia
sul piano della concezione dei rapporti tra Stato e individuo, sia su quello
dell'individuazione dei diritti umani fondamentali[90].
La
Dichiarazione fu il frutto di discussioni e aspri dissensi fra quelli che
Cassese individua come grosso modo quattro schieramenti.
Quello dei paesi occidentali (Stati
Uniti, Francia e Gran Bretagna, seguiti dagli altri Stati dell'Occidente
politico) che prese la leadership sin
dall'inizio; quello dell'America Latina che agì con notevole vigore,
suggerendo soluzioni o propugnando formule che anche l'Occidente esitava ad
accettare; quello compatto e intransigente dell’Europa socialista,
l'unico schieramento capace di fronteggiare le tesi dell'Ovest; e quello dei
paesi asiatici, che ebbero in generale scarso peso, tranne quelli musulmani,
guidati dall'Arabia Saudita e dal Pakistan, che non si opposero alle proposte
occidentali né condivisero le obiezioni socialiste, ma espressero sin da
allora riserve dettate dalla tradizione culturale musulmana, in materia di
religione e di vita familiare.
Le tesi degli occidentali proponevano di estendere a livello
mondiale i solenni principi delle tre grandi democrazie in cui i diritti umani
erano nati e fioriti: Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. In sostanza,
cioè, quei paesi proponevano di proclamare sul piano interstatuale le
concezioni giusnaturalistiche che avevano costituito l’ispirazione dei
loro grandi testi politici interni. Soltanto in un secondo tempo, di fronte
all'ostilità dei paesi socialisti, e su forte impulso di quelli
latino-americani (che ebbero per questo rispetto un ruolo importantissimo),
essi accettarono di inserire nella Dichiarazione Universale anche una
serie di diritti economici e sociali.
I paesi socialisti partirono dal
presupposto che comunque tutti i diritti in essa sanciti erano pienamente
riconosciuti e praticati nei loro paesi. Dunque diedero una mano alla stesura
della Dichiarazione, formulando proposte ed emendamenti, che però in
parte vennero respinti. Perciò alla fine, in occasione del voto
sull'insieme della Dichiarazione si astennero come,per motivi ben diversi,
si astennero anche il Sudafrica e l'Arabia Saudita[91].
Più
volte si è fatto appello alla Dichiarazione universale per denunciare e
sottomettere a istanze internazionali politiche interne contrarie ai diritti in
essa riconosciuti come irrinunciabili, come ad esempio la politica di
segregazione razziale dell’Africa del Sud.
Grazie
alle iniziative prese, per esempio nel quadro del Consiglio d’Europa per
l’attuazione della Dichiarazione universale, è stato reso
possibile all’individuo rivendicare questo principio presso la Corte
Europea dei diritti dell’Uomo anche nell’inerzia o in contrasto col
proprio Stato[92].
Come
si vede, il principio di uguaglianza non sembra essersi evoluto secondo una
linea di continuità organica. In particolare l’idea di un suo
continuo progresso si scontra con un problema apparentemente irresolubile: come
è stato possibile, nella civilissima Europa, accettare le leggi
razziali, e pur dopo la tragedia cui esse avevano portato continuare a fare due pesi e due misure[93]?
Come è possibile che vi siano oggi, in taluni paesi europei, persone cui di fatto non
si applicano le leggi dello Stato? Non è un tornare, questo, a quel
particolarismo giuridico che proprio l’art. 3 sembra voler negare?
Voegelin,
nelle sue lezioni su Hitler tenute all’Università di Monaco,
parlava di analfabetismo spirituale, di un disturbo nell’equilibrio dello
spirito, favorito dalla fiducia ottocentesca nella scienza, che impedirebbe di
riconoscere l’ignominia inducendo a chiamarla con altro nome. E per
scienza Voegelin intendeva il Darwinismo sociale, cioè
l’evoluzionismo applicato alle culture e alle società umane,
un’applicazione ai fenomeni sociologici della politica liberale della
competizione e della selezione del migliore attraverso la competizione. Se ci
si lascia coinvolgere dal Darwinismo sociale – sostiene questo studioso -
ci si ritrova immersi nella difficoltà della dialettica delle
integrazioni storiche: la sopravvivenza del più adatto significa proprio
la presa di posizione del più forte come prova dl suo essere migliore:
la sopraffazione è autoreferenziale, chi vince non solo è più forte, è
anche nel giusto[94].
Ma – avverte Voegelin – nel momento stesso in cui per queste stesse
ragioni il Marxismo critica il Liberalismo, ritenendolo lo stato normale del
regno animale[95],
nel momento stesso in cui indica nel socialismo il salto dell’Umanità
dal regno della necessità a quello della libertà, esso mostra di
credere in un uomo che si evolve nella sua essenza, che diviene. Come ebbe a
notare Bloch, l’uomo è qui qualcosa di distante e utopicamente
intuito, non di astoricamente fondamentale e sicuro.[96]
Anche il Fascismo e il Nazionalsocialismo diventano religione politica fondata
sul culto sacralizzante della Patria, il cui principale fine storico è
la creazione dell’ «uomo nuovo»[97].
Dunque è l’identità della natura umana che viene negata, nell’un
caso e nell’altro.
De
Felice che, come è noto, prima di divenire lo storico del Fascismo per
eccellenza dedicò le sue ricerche al Giacobinismo, ha visto nella
religiosità rivoluzionaria apocalittica il tratto caratteristico della
ideologia rivoluzionaria giacobina, che sarebbe alla radice di una tale
negazione[98].
Anche secondo Camus, il pensiero rivoluzionario non avrebbe sostituito
l’ateismo alla vecchia religione, bensì ne avrebbe generato una
nuova che nelle intenzioni doveva abbattere i vecchi altari e i vecchi patiboli
per erigerne di nuovi[99]. Soprattutto nel «L’uomo in
rivolta», Camus indaga le radici metafisiche della rivolta
dell’uomo contro la propria condizione umana, quindi anzitutto contro Dio
che permette il dolore, le menomazioni, la morte; in secondo luogo contro un
ordine sociale e politico che non è capace di realizzare la giustizia.
Qui egli colloca le radici della rivolta storica.
L’esecuzione
di Luigi XVI il 21 gennaio 1793 – come quella dei Romanov il 17 luglio
1918 – simboleggia a suo modo di vedere la sconsacrazione della storia e
la disincarnazione di Dio, attuate nella consapevolezza del significato
simbolico di quanto si compiva. Pretendendo di costruire la storia sopra un
principio di purezza assoluta, la Rivoluzione apre i tempi moderni e insieme
l’era della morale formale. Ma quando è formale, la morale può
essere mostruosa.
I
giacobini hanno soppresso
ciò che sino a quel momento sosteneva i princìpi, in nome
dei quali essi si rivoltavano: ai comandamenti divini hanno sostituito la
legge, che ritenevano dovesse essere riconosciuta da tutti in quanto
espressione della volontà generale. Però la legge umana
può regnare sintanto che è legge della ragione universale, e il
XIX secolo è il secolo del principio di nazionalità. Ovunque, la
sovranità delle nazioni sostituisce di fatto e di diritto il re sovrano
il quale era il tramite fra l’ordinamento dello Stato e il sistema di
norme che si ritenevano ad esso sovraordinate. Così i giuristi borghesi
del Settecento hanno preparato i due terribili nichilismi contemporanei: quello
dell’individuo e quello dello Stato.
Dice
Camus: se la legge si evolve fino a confondersi con il legislatore e con un
nuovo beneplacito, allora non c’è più potere legittimo. Se
i grandi princìpi non hanno fondamento, se la legge non esprime
null’altro che una disposizione provvisoria, essa non è fatta
ormai se non per essere imposta. Sade o la dittatura, terrorismo individuale o
terrorismo di Stato, ambedue sono giustificati dalla stessa assenza di giustificazione[100].
L’azione non è più che un calcolo in funzione dei
risultati, non dei princìpi. Risale a quel tempo l’idea che
l’uomo non abbia una natura umana data una volta per tutte, che non sia
una persona compiuta, ma un’avventura della quale l’uomo stesso
può farsi creatore. Ma se ciò che conta è il progresso, e l’uomo o
il popolo «rimasti indietro» possono essere considerati dei relitti
biologici che la natura – e perché non noi stessi –
eliminerà, si aprono gli scenari che il Novecento ha ben posto sotto i
nostri occhi, ma di cui forse non
abbiamo ancora ben compreso la
lezione. Che consiste nel fatto che non il fine giustifica i mezzi, ma i mezzi
giustificano il fine: non è vero che qualunque sacrificio umano è
giustificato dalla nobiltà del fine, bensì la nobiltà del
fine è giustificata dai mezzi necessari per conseguirlo, e questi mezzi
non possono, non devono mai richiedere la negazione della dignità umana.
Non voglio richiamarmi qui alle molte volte in cui questo
Papa è tornato a ribadire questi concetti, Chiuderò piuttosto con
le parole di Kant: nel regno dei fini, egli dice, tutto ha un prezzo o una
dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con
qualcosa d'altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è
superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che
ha una dignità. Ciò che permette che qualche. cosa sia un fine
a sé stesso (Zweck an sich selbst) non ha solo un valore
relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore intrinseco, e cioè
una dignità. Nella Metafisica dei costumi (1797) il filosofo
ribadisce il concetto con queste parole:
«L'uomo,
considerato nel sistema della natura (homo phaenomenon, cioè elemento del mondo
sensibile, animale razionale), è un essere di importanza mediocre ed ha
un valore modesto (pretium vulgare) che condivide con tutti gli altri
animali che produce la terra. Ma, considerato come persona, e cioè come
soggetto di una ragione moralmente pratica, l'uomo è al di sopra di
qualunque prezzo. Perché da questo punto di vista, (come homo
noumenon, membro del mondo intelligibile), egli non può essere
considerato come un mezzo per i fini altrui, o anche per i propri fini, ma come
un fine in se stesso, e cioè egli possiede una dignità (un valore
interiore assoluto) mediante cui costringe tutte le altre creature ragionevoli
al rispetto della sua persona e può misurarsi con ciascuna di esse e
considerarsi eguale ad esse»[101].
[1] V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La costituzione della repubblica italiana
illustrata con i lavori preparatori, Roma 1954, 28 e ss. Sull’art. 3 comma 2
come « supernorma»
volta alla prefigurazione di una società nuova e diversa
vedi C. LAVAGNA, Costituzione e socialismo, Bologna
1977, 55 e ss; più
restrittivo C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3
della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova
1954, 37, 66
[2] L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza formale ed eguaglianza
sostanziale: il grande equivoco, in Foro
italiano, 1996, I, 1961 e ss.
[5] Non sembra peraltro azzardata l’ipotesi di Villey
che fa discendere il declino degli studi storici nelle facoltà di
Giurisprudenza dal trionfo, di cui spesso non si sarebbe nemmeno consapevoli,
dell’idea che le dottrine dell’Antichità o del Medio Evo
sarebbero oggi superate e non potrebbero più dare risposta ai problemi
del nostro tempo. M. VILLEY, op. cit., 31.
[8] Un quadro con lo stesso soggetto fu fatto appendere nel
1643 dal Grande Elettore nella sala del più alto tribunale territoriale
prussiano, il Kammergericht di
Berlino, ad ammonimento dei suoi
giudici. I quali si sentirono offesi nel loro onore e pregarono di togliere il
quadro; questo, però, sino alla fine del XVII secolo, e cioè per
oltre 100 anni, rimase appeso nella sala delle udienze E. Döhring, Geschichte der deutschen Rechtspflege, 1953, 113.
[11] CASSIODORI , Variarum libri XII, ed Fridh, I, in CC. S.L.
96, Turnholti 1973: «...quorum est proprium inter pares ac
dispares aequabilem iustitiam custodire…ut unusquisque sua jura
serventur, et sub diversitate judicum una justitia complectatur universi». Su ciò B. SAITTA, La civilitas di Teodorico. Rigore
amministrativo «tolleranza» religiosa de recupero dell’antico
nell’Italia ostrogota, Roma
1994, 16 e ss.; cfr. G. ASTUTI, Note sull’origine e attribuzione
dell’«Edictum Theoderici regis», in Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli
1984, 41 e ss
[12] Pactum legis salicae, ed. K.A. Eckhardt, in M.G.H., LL.NN.GG., IV, I, Hannover, MCMLXII, 50, 4.
[19] Il pannello, il terzo della serie,
fu consegnato nel 1903. Ma, assieme agli altri due, venne rimosso dalla sua
sede e depositato, nonostante le proteste dell’autore. presso la Österreichische Galerie. I pannelli
andarono distrutti nel 1945 a causa dell'incendio appiccato dalle SS nel corso
della loro ritirata.
[23] M. NILL, Morality and self-interest in Protagoras, Antiphon, and Democritus,
Leiden 1985; Die Fragmente der
Vorsokratiker, ed. H. Diel, 1956,
8a ed., II, Antiphon, 352.
[33] TACITO, Annali, I, 4, 1: Igitur verso
civitatis statu nihil usquam prisci et integri moris: omnes exuta aequalitate
iussa principis aspectare.
[34] GENESI, 1, 27: «E Dio
creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò»
[35] Non a caso è proprio
l’arrogante risposta di Caino (Sono io responsabile di mio fratello?) a
diventare uno dei motti più diffusi e famosi una volta ribaltata nel suo
valore affermativo. FLORES, op. cit.,
15.
[43] T. PARSONS, La struttura dell’azione sociale, Bologna 1962, 77. Nello
stesso senso E. BUSSI, Evoluzione,
cit., 130.
[44] M. ROBERTI, La lettera di S. Paolo a Filemone e la condizione dello schiavo
fuggitivo, Milano 1939.
[46] Romani, 13,1 ; ma
vedi anche, I Corinzi, 7,
20-21 ; Efesini, 6,5 ; Colossesi, 3,22, 4, 1 ; I Timoteo 5,8.
[48] «Sive servus, sive liber omnes in Christo unus sumus, ut sub uno Domino
aequalem servitutis militiam bajulamus, quia non est personarum apud Deum
acceptio», Raterio, Praeloquorum libri, I, 10 (vedilo in www.Documentacatholicaomnia.eu
).
[49] Il principio, che parte dal precetto evangelico
«Date a Cesare quell che è di Cesare e a Dio quel che è di
Dio» (Luca, 20,21), viene
espresso nella maniera più chiara in un passo contenuto nella lettera
inviata – forse nel 494 - da papa Gelasio I all’imperatore
d’Oriente, e poi recepito dal Decretum
grazianeo (c.10, D.XCVI): «Duo sunt
quippe quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacrata pontificum
et regalis potestas. In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto
etiam pro ipsis regibus Domino in divino sunt reddituri examine rationem Nosti itaque ex illorum te pendere judicio,
nos illos ad tuam velle redigi voluntatem. Quanto potius sedis illius Romanae
praesuli consensus est adhibendus, ... quem Christi vox praetulit universis,
quem ecclesia veneranda confessa semper est et habet devota primatum»,
vedi P. JAFFE', Regesta, vol. I, 85, n.632;
MIGNE, P.L., LIX, coll.41-47.
[51] Sachsenspiegel, III, 42. Vedilo
ora nella bella edizione digitale a cura di D. Munzel-Everling.
[53] M-D. CHENU, La theologie au douzième
siècle, Paris, 1976, 3a, 129 ss., trad. it. La teologia
nel Medio Evo. La teologia nel sec. XII,
Milano, 1972, 143. Y. CONGAR, Les Laics et
l'ecclesiologie des ordines, in Etudes
d'ecclesiologie medievale, London, 1983, 94 e ss. L' a. nota come questa tripartizione abbia una lunga
tradizione indoeuropea. G. DUBY, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti
guerrieri e lavoratori (tr. it.), Roma - Bari, 1984, 18 e ss.
[54] D. WINSPEARE, Storia
degli abusi feudali, Napoli 1883. Giurista e filosofo campano, il
Winspeare fu nominato da Gioacchino Murat nel 1808 procuratore generale della
Commissione feudale.
[57] L. BUSSI, Fra unione personale e stato sovranazionale. Contributo alla storia
della formazione dell’Impero d’Austria, Milano 2003.
[58] Il movimento della Pataria nacque nell’XI secolo dalla reazione del clero di
base e dei ceti più umili contro la simonia e la ricchezza delle alte
cariche ecclesiastiche. Il termine pataria deriva dalla parola dialettale
milanese patee, stracci, usata per definire, in maniera spregiativa, il
basso stato sociale dei suoi adepti.. Di probabili origini manichee e bogomile,
le dottrine cataresi – che si diffusero in una vasta area dell'occidente
cristiano, che comprendeva la Linguadoca fino alle sue propaggini pirenaiche,
estendendosi anche in Lombardia e Piemonte - rifiutavano la dottrina
giudaicocristiana secondo cui il mondo sarebbe opera divina; e spiegavano la
presenza del male attribuendola alla materia, distinguendo tra Dio e materia
come entità eterne e separate. Vedi M. BARBER , I Catari. Il
dualismo eretico in Linguadoca nell'età medievale. Origini, dottrina, Genova 2008.
[59] La letteratura su S. Francesco
d’Assisi è molto vasta. Vedi per tutti Il francescanesimo dalle origini alla metà del secolo 16,
esplorazioni e questioni aperte : atti del Convegno della Fondazione Michele
Pellegrino, Università di Torino, 11 novembre 2004 (a cura di F. Bolgiani, G. Merlo),
Bologna 2005.
[60] G. DILCHER, Formazione
dello Stato e comune cittadino nel Sacro Romano Impero, in Diritto @ Storia, 2004.
[61] H. Planitz, Die
deutsche Stadt im Mittelalter, Graz / Köln 1954 (ristampa Wiesbaden
1996), 254 ss. ed ulteriori rinvii.
[62] G. DILCHER, Die Rechtsgeschichte der Stadt, in K. Bader – G. Dilcher, Deutsche Rechtsgeschichte. Land und Stadt – Bürger und Bauer
in alten Europa, Berlin-Heidelberg-New York 2002, 483.
[63] G. Dilcher, Zum
Bürgerbegriff im späteren Míttelalter. Versuch einer Typologie
am Beispiel von Frankfurt am Main, in: id.,
Bürgerrecht und Stadtverfassung im
europäischen Mittelalter, Köln/Weimar Wien 1996 (il saggio
apparve per la prima volta nel 1980), 115 ss.
[64] W. Rüegg, Themes, in A history of the
University in Europe, (a cura di H. De Ridder-Symoens), Cambridge 1992, 30.
[65] In tema vedi A. ERLER, Der Loskauf Gefangener. Ein Rechtsproblem seit drei Jahrtausenden,
Berlin 1978, 55 ss. I saqaliba, gli
schiavi bianchi, erano una merce particolarmente ricercata, che poteva essere
proficuamente scambiata con quelle provenienti dall’Oriente, e la cui
cattura e commercio costituivano pertanto una fiorente
attività. Vedi F. CARDINI, Europa
e Islam. Storia di un malinteso, Bari 2008, 40-41.
[66] Su Las Casas vedi per tutti L.
HANKE, Las teorias politicas de
Bartolomé de Las Casas, Buenos Aires 1935; nonché, dello
stesso a., Bartolomé de Las Casas: Historia, Gainesville,
1952; K. PENNINGTON, Bartolomé de
Las Casas and the Tradition of Medieval Law, in Popes,
Canonists, and Texts 1150 - 1550 (Collected Studies Series) 412.
[67] Vedi I. BIROCCHI, Juan Ginés de Sepúlveda
internazionalista moderno ? Una discussione sulle origini della scienza
moderna del diritto internazionale, in A Ennio Cortese, Roma 2001,
I, 81 ss.
[71] Va ricordata in particolare la
rivolta di Saint- Domingue del 22 agosto 1791: due anni dopo, Léger
–Félicité Sonthonax, inviato come commissario
nell’isola,proclama di sua iniziativa la fine dello schiavismo
nell’isola. Vedi M. FLORES, op. cit., 93.
[77] E. BUSSI, Stato e
amministrazione nel pensiero di Carl Gottlieb Svarez precettore di Federico
Guglielmo III di Prussia (Archivio
della Fondazione italiana per la Storia amministrativa), Milano, 1966.
[78] J. H. G. von JusTI, Die Natur und das Wesen der Staaten (Berlin-Stettin-Leipzig
1760), 30.
[81] Cfr. M. ROBERTI, Milano capitale
napoleonica. La formazione di uno Stato moderno, 1796-1814, Milano 1946, I,
326 ss.
[83] Possono essere riguardate in questa
ottica le considerazioni critiche di
R. JHERING, Der Kampf um's Recht, 1872; ID., Zweck im Recht, 1877-1884; in tr. it.
(la traduzione è di G. Lavaggi, l'introduzione di F. Vassalli) Serio e faceto nella giurisprudenza,
Firenze, 1954.
[84] Le donne dovettero lottare duramente
per superare tali limiti, particolarmente accentuati in una società
industriale che aveva spostato in luoghi ad esse inaccessibili la produzione
dei beni materiali e culturali, e la stessa organizzazione della
società. La stessa rivendicazione dei loro diritti – come ad
esempio la Declaration of Sentiments (la cui occasione, non
a caso, è il congresso mondiale contro la schiavitù che si tiene
a Londra nel 1840) – è ritenuta scandalosa. In tema vedi Il sentimento delle libertà: la
dichiarazione di Seneca Falls e il dibattito sui diritti delle donne negli
Stati Uniti di metà Ottocento (a cura di R. Baritono),
Torino 2001, 7-8. Vedi
pure M.T. GUERRA MEDICI, La cittadinanza
difficile: introduzione allo studio della condizione giuridica della donna in
Italia, Camerino 2000.
[88] G. ANSCHÜTZ, Preussische Verfassungsurkunde, I,
1912, 109; cfr. E.R. HUBER, Deutsche Verfassungsgeschichte seit 1789,
III, 102.
[90] Charles Malik, l’intellettuale
libanese che contribuì in larga misura alla stesura della dichiarazione
dirà: «Migliaia di menti e di mani hanno contribuito alla sua
formazione». Vedi The Challenge of Human Rights: Charles Malik
and the Universal Declaration, (a cura di H.C.Malik), Oxford 2000, 117.
[93] Così, in Italia,
l’opinione pubblica si indigna per il destino dei Palestinesi, ma non per
quello dei Giuliani. Eppure Istria e Dalmazia erano da secoli italiane, anzi
veneziane, e i confini del Medio Oriente, sono stati disegnati a tavolino, nel
grande corpo dell’Impero ottomano; ci si infiamma per il diritto delle
donne ad abortire, ma non per quello delle bambine a non subire mutilazioni sessuali.
[98] R. DE FELICE, L’evangelismo giacobino e l’abate Claudio della Valle,
in Italia giacobina, Napoli 1965, 172.