N. 8 – 2009
– Cronache
Convegno
“Principi
generali e tecniche operative
del processo
civile romano nei secoli IV-VI d.C”
Parma,
18-19 luglio 2009
Si
è tenuto a Parma, nei giorni 18 e 19 giugno 2009, il Convegno dal titolo
“Principi generali e tecniche
operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C.”,organizzato
come esito di una ricerca COFIN 2006 e patrocinato dall'Università di
Parma e da Banca Monte Parma e realizzato in collaborazione con la locale
sezione dell’Associazione di Studi Tardoantichi.
La
seduta del giovedì, presieduta dal Professor Carlo Beduschi dell'Università di Parma, si è aperta
col ricordo commosso rivolto alla memoria del Professor Mario Talamanca, da
pochi giorni scomparso, e con i saluti del Professor Carlo Chezzi, Pro Rettore vicario, del Professor Giovanni Francesco Basini, Direttore
del Dipartimento di Scienze Giuridiche, e dell'Avvocato Alberto Guareschi, Presidente di Banca Monte Parma, che
nell'accogliere i presenti ha ricordato con affetto i suoi trascorsi di Cultore
delle materie romanistiche.
La
prima relazione, intitolata “Valori e principi del processo civile nella
legislazione tardoantica: brevi note”, è stata tenuta dal
Professor Fausto Goria
dell'Università di Torino ed ha mirato a presentare il disegno originale
della ricerca omonima del convegno (ricerca che, finanziata come progetto di
interesse nazionale, ha coinvolto le sei Università di Cagliari, Genova,
Modena, Parma, Sassari e Torino) e ad indicare problematiche, fonti di
possibili indirizzi di ricerca. Il Relatore, nel ricordare come il processo
civile tardo imperiale sia stato poco studiato nella sua struttura d'insieme e
come manchi in particolare un esame sistematico dei legami fra attività
normativa e scopi di politica legislativa perseguiti dagli imperatori, propone
di fare convenzionalmente riferimento a fini espositivi ad alcuni dei principi
e valori messi in luce dalla scienza giuridica processualcivilistica
dell'Europa continentale tra la seconda metà del 1800 ed i primi decenni
del 1900, al fine di reperire una serie di possibili punti di vista di
carattere generale sul processo.
La
prima domanda da porsi è quale sia lo scopo del processo civile; fra le
molte possibili risposte due sono paradigmatiche: a) il processo civile serve a
tutelare le posizioni giuridiche soggettive; b) il processo civile serve a
risolvere le controversie fra i cittadini. Le due definizioni, in apparenza
abbastanza simili, indicano in realtà obbiettivi leggermente diversi:
mentre la prima implica l'accertamento preciso della veritas rei, la
seconda tiene conto di altri limiti ed esigenze (come la ragionevole durata dei
processi) e postula un maggiore controllo del legislatore su aspetti quali
quello probatorio. Quale sia stato il grado di consapevolezza del problema dei
giuristi romani sarebbe argomento degno di attenzione; a partire dall'epoca
costantiniana sembra però prevalere il principio della veritas rei,
che in ambito probatorio comporta il coinvolgimento almeno parziale del
convenuto e l'accrescimento dei poteri di iniziativa del giudice. Giustiniano
menziona questo scopo, ma si dimostra particolarmente interessato anche alla
celerità dei processi, per liberare le parti dagli affanni e dalle spese
che essi comportano: al fine di ottenere un risultato socialmente accettabile
l'accertamento della verità, per quanto obbiettivo pregevole, va
coordinato e contemperato con quello di liberare il più rapidamente
possibile le parti dall'incertezza.
La
competenza dei giudici è ampiamente regolata, ma non mancano problemi
sia nei rapporti fra organi cittadini (come il defensor civitatis) e
governatori provinciali, sia per il moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali;
inoltre, problematiche di notevole interesse e delicatezza sorgono per
accertare se il giudice investito di una causa debba trattare anche di altre
cause connesse con la prima e per definire più precisamente il rapporto
fra giudici di primo grado e giudici superiori. Molto sentiti sono valori quali
l'imparzialità del giudice (a tutela della quale sono disponibili gli
istituti della ricusazione preventiva e dell'appello), che si estende anche ai
suoi ausiliari (adsessores, exsecutores), e la sua autonomia,
argomento, questo, oggetto della Novella 125 di Giustiniano, di controversa
interpretazione. Quanto all'indipendenza dei giudici, il problema va posto in
termini alquanto diversi da quelli contemporanei, sia perché al governo
assolutistico dell'epoca era sconosciuto il principio della separazione dei
poteri, sia perché il rapporto di dipendenza del giudice dall'imperatore
e - in misura minore - dai funzionari superiori veniva considerato una garanzia
per il cittadino, dato che i giudici erano di fatto spesso pesantemente
condizionati dai potentes locali.
Con
riguardo allo svolgimento del processo, alcune disposizioni sembrano ispirate
al principio dispositivo, che subisce numerose eccezioni in virtù di un
atteggiamento generale di notevole pragmatismo: è l'attore a determinare
il contenuto del processo; il convenuto ne subisce l'iniziativa ed il giudice
può esprimersi solo su quanto a lui sottoposto dalle parti. D'altro
canto il convenuto, correttamente citato (principio del contraddittorio), deve
essere messo nelle condizioni di difendersi (principio di difesa), quindi il
funzionario potrà negare l'autorizzazione ad inviare il libello laddove
la domanda dell'attore non sia formulata in modo chiaro.
Quanto
al dibattimento, le udienze vanno tenute in pubblico (principio di
pubblicità) ed il giudice deve entrare in contatto diretto con le parti
e con le prove e deve decidere sotto la viva impressione di questo contatto
(principi di oralità, immediatezza e concentrazione).
Il
Professor Fabio Botta
dell'Università di Cagliari ha tenuto la seconda relazione dal titolo
“Inquirere/inquisitio nelle fonti giuridiche tardoantiche”.
La ricerca, di impostazione terminologica, si propone di indagare il
significato proprio del lemma nelle fonti giuridiche ed extragiuridiche del II
e III secolo. Nell'ambito del processo criminale inquisitio rappresenta
principalmente una garanzia di legalità, disposta per legge e
finalizzata all'accertamento in concreto della responsabilità, spettante
come dovere al giudice penale: l'inquisitio può rivolgersi contro
chiunque commetta un crimine e può equivalere tanto a requisitio/conquisitio
(ricerca del reo sul territorio) quanto talvolta a oblatio/delatio (notitia
criminis proveniente indifferentemente dal privato o dal soggetto
pubblico); dunque, nelle fonti l'inquisitio si presenta come potere di
polizia e fase necessaria del procedimento istruttorio (predibattimentale e
non). Alla luce di quanto detto, la dicotomia accusatio/inquisitio
appare inadeguata a descrivere la contrapposizione processo accusatorio -
processo inquisitorio perché, se è possibile rilevare una certa
corrispondenza fra l'uso che i giuristi romani facevano del termine accusatio
ed il moderno processo accusatorio, non altrettanto può dirsi del nesso
fra inquisitio e processo inquisitorio. Nelle quarantadue occorrenze del
Codice Teodosiano l'inquisitio non è solo, in alternativa alla accusatio,
una modalità di iniziativa processuale caratterizzata dalla coincidenza
fra parte attorea e organo giudicante, ma anche e primieramente attività
d'inchiesta, tanto che il lemma è stato utilizzato per esprimere la
parte per il tutto e la sua portata è stata estesa dal significato di
fase processuale istruttoria fino ad indicare l'intero procedimento come
sinonimo di cognitio. Tale utilizzo è attestato nelle fonti (ad
esempio, in C.Th. 11. 36. 27, dove si trova l'endiadi cognitio inquisitioque,
ed in C.Th. 12. 6. 18); in particolare in C.Th. 2. 18. 1 si attribuisce ad inquisitio
evidente valore di gestione
dell'intera fase dibattimentale da parte del giudice (plena inquisitio
come espressione del potere d’istruzione nella sua interezza affidato
all'organo giudicante), tanto nella trattazione della causa quanto nella
direzione dell'istruzione probatoria. Allo stato delle fonti è comunque
da escludere che il termine inquisitio, nell'accezione di
attività istruttoria d'ufficio, designi un'attività libera e
piena dell'organo giudicante; al contrario, tale attività appare
discrezionale perché sottoposta a precisi limiti di legge (un esempio
significativo in C.Th. 9. 37. 1, dove l'accertamento probatorio è,
nell'inerzia dell'accusatore tergiversator, rimesso all'iniziativa del
giudice limitatamente a taluni aspetti sottratti per legge alla
disponibilità delle parti; cfr. ad esempio C.Th. 1. 2. 6, 2. 12. 3 e 4.
22. 1). È da escludersi inoltre che sia termine tecnico esclusivo del
processo criminale, dal momento che trova riscontro anche fra i poteri del
giudice civile nonché in ambito fiscale. In tali contesti si riscontra
la coincidenza fra inquisitio e indago/investigatio: il
lemma è qui espressione di un potere schiettamente inquirente di ricerca
sul territorio, riferibile a funzioni di polizia tanto criminale (casi nei
quali equivale per lo più a perquirere/conquirere, termini
spesso rinvenuti nelle fonti ad indicare poteri di polizia giudiziaria, come in
C. Th. 7. 18. 10, dove inquisitio designa l'attività dei protectores)
quanto, ad esempio, tributaria, come limpidamente attestato in C. Th. 9. 42. 7:
qui la ricognizione dei beni del proscriptus è affidata all'indago
dell'ordinarium officium provinciale ed è definita inquisitio
quando è riferita alla seconda indagine, chiamata anche investigatio,
del rationalis rei privatae, che ha funzione di controllo sull'operato
dell'organo locale.
In
conclusione, inquisitio non è termine tecnico
processualcriminale, ma è adottato anche in altri procedimenti ed in particolare
in ambito amministrativo; designa l'attività istruttoria propria tanto
degli organi giudicanti quanto dei funzionari imperiali, discrezionale ma non
libera; è talvolta sinonimo di cognitio.
La
seduta pomeridiana, presieduta dal Professor Francesco Sitzia
dell'Università di Cagliari, si è aperta con la relazione del
Professor Renzo Lambertini dell'Università di Modena e Reggio Emilia, dal
titolo “Cons. 8: il Vetus Iurisconsultus e il giudice in
causa propria”. L'intervento è imperniato sull'esegesi del caput
ottavo della Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti: alcuni schiavi
sono colti in flagrante possesso dei beni sottratti ad una donna, ai danni
della quale hanno compiuto un furto con effrazione; il marito della derubata
è investito delle funzioni di giudice e condanna gli scassinatori; come
può egli difendersi dall'accusa di aver giudicato in causa propria
(divieto sancito in una lex “imperfecta” del 376 di Valente,
Valentiniano e Graziano, riportata in C.Th. 2. 2. 1, nella Lex Romana Burgundionum
42 e in C. 3. 5. 1 con alcune varianti)? La difesa che il vetus
iurisconsultus suggerisce al suo interlocutore (presumibilmente un causidicus)
si incentra su due argomenti: il primo, più debole, si fonda sulla
considerazione che il marito, al pari di un qualsiasi procurator extraneus,
non ha fatto altro che occuparsi degli affari della moglie rientranti nella
procura a lui conferita (Cons. 8. 1); a (invero non solido) sostegno è
riportata una costituzione del 393 degli imperatori Teodosio, Arcadio ed Onorio
che corrisponde a C.Th. 2. 12.
La
relazione del Professor Salvatore Puliatti dell'Università di
Parma, intitolata “Accertamento della veritas rei e principio
dispositivo nel processo postclassico”, è tesa a fornire un quadro
del rapporto fra l'attività delle parti e quella dell'organo giudicante.
È da considerarsi un dato di fatto la crescente attenzione del
legislatore tardoantico per la fase istruttoria, sia pure in connessione con
gli aspetti sostanziali della disciplina degli istituti interessati. La progressiva
pubblicizzazione del processo civile avrebbe influito sull'aspetto particolare
del giudizio di fatto attraverso una serie di disposizioni volte a limitare la
discrezionalità dell'organo giudicante, indirizzandone l'attività
secondo precise regole formali; dell’interesse manifestato dal
legislatore tardoantico per i problemi della prova fornirebbe testimonianza la
presenza nel Teodosiano di un apposito titolo, de fide testium et
instrumentorum (11. 39). In tale quadro la costituzione di Costantino C.Th.
11. 39. 1 stabilisce, in materia di rivendica, un meccanismo di prova
particolarmente severo, a carico dello iuris petitor in via
principale, del possessore in seconda battuta. Il principio dell'onere della
prova è rispettato e addossato come di norma all'attore; il convenuto ne
viene gravato solo qualora la prova dell'attore risulti carente. Questo, per le
ragioni di sicurezza nella circolazione dei beni e di certezza nell'esistenza
dei rapporti di cui si trova affermazione anche in C.Th. 9. 19. 2. 1, in tema di quaestio falsi.
In tale costituzione, al fine di consentire l'accertamento della verità,
si stabilisce che il giudice deve porsi fra le parti come medius,
sollecitandone le allegazioni, e che può avvalersi di tutti gli
strumenti di prova utili alla chiarificazione della quaestio facti. Il
riconoscimento in capo all'organo giudicante di un più ampio potere di
impulso e di verifica trova poi riscontro tanto in sede di direzione del
processo quanto in relazione all'espletamento dell'attività istruttoria.
Sotto il primo profilo, il nuovo ruolo del giudice assume rilevanza in
relazione al problema della definizione della res iudicanda,
particolarmente sotto il profilo dell'esistenza di un potere suppletivo in caso
di carenti allegazioni delle parti. Il testo fondamentale in proposito è
C. 2. 10(11). 1, che ammette un ampio potere di integrazione del giudice,
limitato in via di interpretazione all'integrazione delle deficienze giuridiche
delle allegazioni delle parti. Anche sotto il profilo dell'attività istruttoria
si riscontra la presenza di un potere suppletivo dell'organo giudicante
(disciplinato in C.Th. 2. 18. 1 = C. 3. 1. 9, con adattamenti) il quale non
solo può esercitare un'autonoma funzione di indagine e accertamento
servendosi dell'attività dell'officium, ma dispone anche di ampi
poteri di impulso per promuovere l'autointegrazione delle prove carenti ad
opera delle parti, conseguendo così un’efficace collaborazione fra
l’attività di queste e l’iniziativa del giudice. Un riscontro
dell'effettività di questi poteri si può ricavare dalla
testimonianza di Simmaco (Relatio 28, 5 e 6), che espone
dettagliatamente e con efficace realismo tutte le attività istruttorie
da lui scrupolosamente poste in essere in qualità di giudice in un
giudizio possessorio. Non mancano altre testimonianze del ruolo attivo
esercitato dall'organo giudicante nell'ambito del giudizio di fatto; meritano
però di essere ricordate anche le disposizioni che hanno posto limiti
precisi a quest'ampia discrezionalità, come le regole di priorità
e di esclusione dell'ammissibilità dei testi riportate in C.Th. 11. 39.
3 (= C. 4. 20. 9). Giustiniano, ampliando ulteriormente i poteri
dell’organo giudicante, dispone in C. 7. 45. 14 che il giudice abbia il
potere non solo di condannare o assolvere il convenuto sulla base dei fatti di
causa, ma anche di condannare lo stesso attore, laddove ne emergano i
presupposti. I poteri di intervento dell'organo giudicante si estendono
all'appello: in C. 7. 62. 39. 1 l’imperatore, oltre a prevedere la
possibilità dell'appello incidentale, attribuisce all'officium
iudicis il potere/dovere di sostituirsi alla parte assente, tenendo conto
dei motivi di gravame che essa avrebbe potuto presentare. Sempre in tema di
appello, la disciplina dell'inerzia delle parti è infine riordinata nel
546, con
Il
Dottor Riccardo Fercia dell'Università di Cagliari ha presentato una
relazione dal titolo “Actiones e actio utilis ex causa
interdicti: vicende storiche, anomalie, opacità”, proponendo
un ripensamento della posizione, dominante in dottrina, di chi ritiene che i prudentes
abbiano sempre recisamente distinto le actiones dagli interdicta,
a differenza dei giuristi giustinianei che avrebbero invece considerato gli interdicta alla stregua di actiones. Uno dei testi che la dottrina
consolidata pone al centro della propria ricostruzione è I. 4. 15. 8
– da esaminarsi alla luce della correlata parafrasi teofilina (Theoph. 4.
15. 8) – che equipara con una sorta di fictio gli interdicta
ad un’actio utilis; più
precisamente, nel passo si afferma che nella cognitio del VI secolo si
giudica senza interdetti, come se fosse stata concessa un’actio utilis,
anche se ciò non è espressamente previsto da una riforma
imperiale che abbia innovato sul punto. D’altro canto a sfavore della
formale equiparazione di interdicta e actiones utiles
depone anche la semplice constatazione che le Istituzioni giustinianee (I. 4. 6
“de actionibus”) tacciono del tutto sul punto.
Teofilo sembra considerare la tutela interdittale come una procedura
sostanzialmente equivalente a quella di una qualsiasi actio utilis;
inoltre, essendo l'espressione actio utilis tradizionalmente
utilizzata per indicare un rimedio che viene dato, come diceva il Talamanca nel
Manuale di Istituzioni di diritto romano,
«al di fuori dei presupposti previsti per la sua concessione», gli antecessores
non avevano probabilmente difficoltà ad applicarla ad una forma di
tutela non riconducibile al ‘catalogo’ delle azioni previste dalla
legge. Venendo a C. 8. 1. 3, è da rilevare che la seconda parte della
costituzione è ritenuta spuria da buona parte della dottrina in quanto
non compatibile con la mentalità dell'epoca dioclezianea ed ancora
troppo legata agli schemi del processo formulare. Esiste però il fondato
sospetto che il rescritto in questione sia epiclassico e che la seconda parte
possa al più aver subito un qualche raccorciamento. Il rispondente, dopo
aver affermato la priorità della quaestio possessionis rispetto
alla quaestio dominii, avrebbe inteso chiarire che, quantunque gli interdicta
non trovino a rigore collocazione nel novero dei giudizi extra ordinem,
la lite deve comunque essere trattata seguendone il modello; in altre parole,
la quaestio possessionis deve comunque essere decisa prioritariamente, e
secondo gli schemi di giudizio appropriati, cioè a dire gli interdicta.
In tale prospettiva, la costituzione in esame sembra presupporre un ordinamento
che ancora adoperi l'ordo iudiciorum privatorum: un modello predisposto
dall'ordo viene esteso al rito cognitorio, fungendo così da
'ponte' fra i due diversi sistemi processuali. Disponiamo di un'importante
testimonianza della progressiva, fattiva integrazione dell'exemplum
interdictorum nella cognitio epiclassica in un'epigrafe su bronzo,
la Tavola di Esterzili, che vede il proconsole Elio Agrippa, governatore della
Sardegna, definire extra ordinem, ma nel rispetto dell'exemplum
interdictorum, una lunga controversia sui confini sorta fra due popolazioni
rurali sarde; l'utilizzo del modello interdittale negli schemi processuali
propri della cognitio appare dunque una prassi già da tempo
consolidata, e come tale a ben vedere è trattata dalla cancelleria
dioclezianea, che si limita a riconoscerla come praticabile; non si tratta,
peraltro, di una formale equiparazione. Quanto al problema se fra il V ed il VI
secolo d.C. gli interdicta siano stati assimilati, da qualsiasi punto di
vista, alle actiones, significativo è che in I. 4. 6 i
compilatori non abbiano minimamente fatto cenno ad essi. In effetti, le tracce
di una vera e propria parificazione sono assai labili: oltre che a I. 4. 15. 8,
si deve far riferimento a I. 4. 15pr., che definisce gli antichi interdicta
“formae atquae conceptiones verborum”, ed introduce
il problema della loro classificazione, autonoma rispetto a quella delle actiones. Si tratta dunque di forme di
tutela che, nel VI secolo, in virtù della parziale identità dello
svolgimento processuale, sono assimilabili sul piano del rito alle azioni.
Proprio per questa loro natura ambivalente (cfr. D. 43. 1. 1. 3: gli interdicta
sono per struttura reali, per vis personali) gli interdicta non
sono trattati in I. 4. 6, in quanto sul piano dogmatico impossibili da
ricondurre alla dicotomia actio in rem/actio in personam,
e quindi non assimilabili in tutto e per tutto alle azioni. Un ultimo, breve
cenno a D. 44. 7. 37pr.-1: il testo chiarisce che, per simmetria con l'editio
actionis, anche chi vuole chiedere una cautio o un interdictum
ha l'onere di indicare alla controparte i dati essenziali che consentano
l'adeguata instaurazione del contraddittorio. Dallo specifico e peculiare punto
di vista dell'edere non risultano dunque differenze fra azioni,
stipulazioni pretorie ed interdetti, ovvero fra le varie forme di tutela
offerte dal magistrato giusdicente. In conclusione, è già in
età classica che trovano origine i presupposti per un'equiparazione
pratica fra actio ed interdictum sul piano meramente procedurale;
in epoca giustinianea all'identità del rito consegue l'identificazione
della tutela; questa non limpida consapevolezza concettuale porta i giuristi ad
usare l'espressione actio utilis ex causa interdicti.
La relazione del Professore Andrea
Trisciuoglio, dell'Università
di Torino, ha per titolo “'...perché gli attori imparino a non
giocare con la vita altrui'. A proposito di Nov. Iust 53.1-4” e verte sul
tema degli abusi perpetrati in ambito provinciale dagli attori in occasione di
pretestuose, quanto legittime, citazioni in aliam provinciam, che spesso
erano per i convenuti causa di gravi dissesti finanziari. Sono gli stessi
sudditi, come risulta dal proemio della Novella, a rivolgersi all'imperatore e
questi non si limita ad una risposta sul piano normativo ristretta al tipo di
rimostranze sottopostegli, ma estende il suo intervento ad altri aspetti della
fase introduttiva della lite, prestando particolare attenzione agli interessi
del convenuto. L'occasio legis è chiaramente illustrata nella praefatio:
non era raro che gli attori, facendo valere un privilegium fori, si
rivolgessero direttamente alla cancelleria imperiale o ad alti funzionari
perché disponessero la comparizione del convenuto presso un tribunale
provinciale lontano dalla sua dimora. E mentre i convenuti erano vincolati da
un ordine autoritativo a presentarsi in giudizio, anche sobbarcandosi ingenti
spese, gli attori, astretti solo da fideiussioni regolate dal mos iudiciorum,
spesso disertavano la prima udienza impedendo in tal modo il compimento della litis
contestatio. La parte dispositiva della costituzione è articolata in
capitoli; nel primo è delineata con precisione la fattispecie dell'absentia
dell'attore e sono enunciati gli adempimenti che gravano sul convenuto e sul
giudice. Quest'ultimo, a fronte del rispetto del convenuto dell'ordine di
comparizione e dell'assenza dell'attore, è tenuto a dimettere il
convenuto ed a pronunciare a carico dell'attore temerario una sentenza di
condanna al rimborso delle spese, il cui ammontare viene raccordato al
giuramento reso dal convenuto ed all'entità della pena contemplata nella
fideiussio de lite proseguenda prestata more iudiciorum dall'attore.
Nel caput secondo Giustiniano dispone che affinché abbia
efficacia il decreto di citazione, richiesto per portare in giudizio il proprio
debitore dalla provincia a Costantinopoli, l'attore deve dare all'exsecutor
litis fideiussori obbligati a pagare una pena al reus qualora
l'attore non si presenti in giudizio o risulti soccombente, stabilendo
così una nuova condizione imprescindibile per la legittimità
della chiamata in giudizio del convenuto. La costituzione si dilunga poi sui
contenuti della fideiussio e sulle conseguenze della mancata
comparizione dell'attore. Il caput terzo è fondamentale per il
profilarsi in età giustinianea di uno stabile quadro normativo relativo
alla fase del processo compresa fra la notificazione dell'atto di citazione
(composto da ordine di comparire e libellus conventionis) ed il
compimento della litis contestatio. Un lungo preambolo segna una netta
cesura fra questo caput ed i precedenti: l'attenzione dell'imperatore
è qui rivolta agli abusi perpetrati dagli exsecutores litium in
occasione della citazione in giudizio, in particolare in pregiudizio al diritto
del convenuto ad un congruo spatium deliberandi (di almeno dieci giorni)
successivo alla notifica del libellus conventionis. Accadeva
infatti che gli exsecutores, in accordo con l'attore, notificassero
illegittimamente il solo atto di citazione e non esigessero dal convenuto la
cautio iudicio sisti, così da poterlo dedurre immediatamente davanti
al giudice; lo scopo era quello di costringere il reus a litem contestare
ignorando i termini della pretesa attorea e impedendogli altresì di
ricusare il giudice. Ne conseguiva una gravissima ed evidente violazione dei
principi del (consapevole) contraddittorio e della imparzialità del
giudice, alla quale Giustiniano pone rimedio disponendo anzitutto che il
decreto di citazione dev'essere necessariamente notificato insieme al libellus
conventionis, così che il convenuto possa scegliere la strategia
processuale più adeguata. Lo spatium deliberandi viene
raddoppiato; entro tale termine il convenuto può ricusare il giudice,
richiedere l'affiancamento di un secondo giudice a quello già assegnato,
riconoscere il proprio debito, tentare una transazione. Vengono inoltre
prescritti a carico del reus numerosi adempimenti al fine di evitare che
gli exsecutores attestino in modo ingannevole davanti al giudice la data
della notifica. All'inizio del caput quarto l'imperatore torna
brevemente sul tema della ricusazione del giudice; quindi prende in considerazione
la fattispecie nella quale il reus citato presso un tribunale
costantinopolitano, trovandosi in condizioni particolari, presti una cautio
iuratoria al posto della prescritta fideiussione e si allontani dalla
città prima della litis contestatio: a carico del
convenuto che diserta il giudizio sono previste severe conseguenze, con
procedure diverse al mutare dell'organo investito della lite.
Resta
da rilevare che in questa Novella entrano in gioco alcuni importanti principi
(tutelati tanto sul piano preventivo quanto su quello sanzionatorio): il
principio fondamentale della serietà dell'iniziativa processuale, quello
del contraddittorio, quello dell'imparzialità del giudice e quello della
celerità del processo.
La
prima giornata dei lavori si è chiusa con la relazione della Dottoressa Cristiana M.A. Rinolfi
dell'Università di Sassari, dal titolo “Episcopalis audientia
e arbitrato”. Ben poco si conosce delle norme che regolamentavano
l'arbitrato nella sua applicazione a comunità religiose; conosciamo
invece la complessa ed articolata disciplina classica: ci si domanda quali
modificazioni abbia essa subito in età postclassica e giustinianea e se
trovasse applicazione all'arbitrato del vescovo. In età classica, nella
versione “tipo” dell’istituto, le parti si accordavano con un
compromissum per deferire la lite ad un terzo, promettendosi
reciprocamente mediante stipulatio il pagamento di una somma, esigibile
nei confronti della parte che avesse ostacolato o reso impossibile la piena
attuazione del patto. A sua volta, l'arbitro designato si impegnava ad emettere
la sentenza attraverso il receptum arbitri; né l'accordo fra le
parti né l'impegno dell'arbitro sono mai stati considerati produttivi di
obbligazione, ma l'intero negozio (nella forma tipica descritta o con modeste
varianti) godeva della tutela della coercitio pretoria nei confronti
dell'arbitro che non assolvesse agli impegni assunti; la sanzione per la parte
che contravvenisse ai termini del compromesso era invece rappresentata dalla
somma promessa con stipulatio, esigibile con un'actio ex stupulatu,
ad esempio, laddove una parte si fosse rivolta al giudice ordinario; da notare
che la controparte in quest'ipotesi non poteva servirsi dell'exceptio pacti,
dovendo in ogni caso ricorrere all'azione contrattuale; tale regime rappresenta
un'eccezione rispetto alla disciplina ordinaria del patto garantito da
stipulazione penale (cfr. D. 2. 14. 10. 1). In età postclassica le fonti
relative all'arbitrato sono poco numerose e circoscritte, da un lato, alla prassi
diffusa nella comunità ebraica di rivolgersi al proprio patriarca per la
soluzione delle controversie civili; dall'altro, all'analoga attività
dei vescovi. L'istituto ha continuato ad essere applicato in forme non lontane
da quelle classiche, tanto che una costituzione di Arcadio ed Onorio riportata
in C.Th. 2. 1. 10 impone alle comunità ebraiche di adottare per le liti
civili le forme dell'arbitrato romano. Sembra invece mutata la situazione della
stipulatio poenae reciproca, che non è più attestata dalle
fonti (una su tutte, C. 2. 55(56). 1-2), le quali fanno riferimento solo alla poena.
Nel 529 Giustiniano emana la costituzione che si legge oggi in C. 2. 55(56). 4,
con la quale riconosce la prassi del compromesso giurato, regolamentandone
forme e conseguenze; C. 2. 55(56). 6 prevede la possibilità che le parti
accettino per iscritto la sentenza dell'arbitro. Risulta da C. 2. 55(56). 5 che
l'accordo per deferire la controversia ad un arbitro e l'accettazione di
quest'ultimo possono ancora avvenire senza giuramento od accettazione scritta
della sentenza, probabilmente nelle forme del compromesso penale o anche senza
previsione di una poena (ipotesi questa in cui viene concessa l'exceptio
pacti). In caso però le parti non accettino per iscritto la sentenza
arbitrale, Giustiniano dispone non solo che il convenuto assolto può
opporre l'exceptio pacti, ma anche che il vincitore può agire in
factum per ottenerne l'esecuzione, sovvertendo così il regime
classico. Le disposizioni giustinianee fin qui illustrate risultano ispirate al
criterio di fondo dell'economia dei mezzi processuali, in virtù del
quale si tende per quanto possibile a dare validità alla sentenza
arbitrale ed a favorirne l'esecuzione, senza però spingersi fino a
sancirne l'esecutorietà. Giustiniano torna ad occuparsi di arbitrato nel
539 (Nov. 82. 11), lamentando le molte difficoltà alle quali dava
origine l'uso del compromesso giurato, soprattutto nel caso le parti
designassero un arbitro non adatto a svolgere il compito affidatogli; l'imperatore
impone la conclusione del compromesso arbitrale con la promessa reciproca di
una pena stabilita dalle parti, da pagarsi a titolo di multa da chi dovesse
tentare di sottrarsi alla sentenza arbitrale rivolgendosi ad altro giudice.
Tale provvedimento genera però una tensione, irrisolta anche nelle fonti
bizantine, fra la nuova concezione penitenziale della poena compromissi e
la sua concezione, classica, quale sanzione per chi viene meno agli obblighi
assunti. Nei Basilici si assiste ad un progressivo avvicinamento sistematico
fra arbitri e giudici ordinari (le due figure risultano peraltro già
affiancate in alcune disposizioni precedenti; emblematiche C. 3. 1. 14. 1 e
Nov. 113. 1. 1), che però non vengono mai assimilati; l'opera riporta
tanto la disciplina classica quanto le innovazioni giustinianee. Resta dubbio
se fosse possibile concludere validamente un compromesso sine poena;
l'unica attestazione che solleva alcuni dubbi riguarda il caso particolare
dell'arbitrato del vescovo, nel kata
podas di C. 2. 3. 29. Costantino (C. Sirm. 1) aveva disposto che si potesse
ricorrere al tribunale vescovile anche su iniziativa di una sola parte e contro
il volere dell'altra; le sentenze, inappellabili, erano da eseguite a cura del
giudice ordinario; l'attività del vescovo parrebbe dunque da
configurarsi come giurisdizionale e non semplicemente arbitrale. La pratica di
ricorrere alla giurisdizione del vescovo appare assai diffusa, ma le fonti in
proposito sono discontinue; in C.Th. 1. 27. 2 la sentenza da lui emessa inter
consentientes risulta equiparata al giudizio del prefetto del pretorio.
La
seconda seduta dei lavori (ospitata nella Sala delle Feste dello splendido
Palazzo Sanvitale, sede di Banca Monte Parma), presieduta dal Professor Mario Amelotti dell'Università di Genova, è stata
inaugurata dalla relazione della Professoressa Gloria Viarengo dell'Università di Genova dedicata alle
“Regole antiche e nuove sulla capacità testimoniale”.
Argomento principale del contributo, l'esame della Novella 90 del 539 che
riorganizza la disciplina della capacità testimoniale. Il dettato della
Novella introduce importanti innovazioni, ma sarebbe forse peccare di
entusiasmo ritenere di trovarsi di fronte ad una riforma organica della
materia; in effetti la circostanza che alcuni temi di centrale importanza
(quali incapacità e falsa testimonianza) non siano presi in
considerazione induce a ritenere che la disposizione presupponga altre norme,
segnatamente quelle del Digesto e del Codice dei quali risulta, dunque,
integrazione ed aggiornamento. Nel proemium della Novella 90 il
legislatore esprime tutta la sua preoccupazione per l'uso che viene comunemente
fatto nei processi della prova testimoniale (che talvolta più che a
rivelare determinate situazioni serve ad occultarle) e per il conseguente
rischio di privare di valore questo mezzo di prova, in alcuni casi indispensabile.
I limiti fissati dagli antichi legislatori (non è chiaro a chi faccia
riferimento l'espressione, dal momento che il termine greco utilizzato dalla
cancelleria può rinviare tanto agli scritti giurisprudenziali quanto
alle costituzioni imperiali) in ordine ai soggetti ammessi e le molte eccezioni
minano la validità delle testimonianze, alle quali urge restituire
purezza ed integrità, attraverso interventi che completino la subtilitas
rei. Altro problema posto in evidenza (senza però essere ripreso nei
successivi capita della costituzione) è quello delle false
testimonianze. Segue l'esposizione della occasio legis, un caso limite,
verificatosi in Bitinia, di falsificazione di un testamento sul quale i
testimoni, dopo la morte della testatrice, avrebbero vergato una croce
adoperando la sua mano. Infine, viene confermata (rata omnia ponimus) la
disciplina dell'incapacità testimoniale risalente ai veteres
legislatores (che vengono qui citati per la seconda volta). Che peso hanno
questo richiamo e la contestuale ratifica?
Come
già autorevolmente illustrato da Archi, nella compilazione giustinianea
le prove sono oggetto di ampia disamina, ma una collocazione adeguata della
materia è stata ostacolata dall'assenza del modello edittale. Tanto nel
Digesto (22. 5) quanto nel Codice (4. 20) esiste un titolo de testibus (entrambi
dedicano alle prove tre titoli con uguali rubriche: oltre al suddetto, de
probationibus e de fide instrumentorum); la prova testimoniale
è poi argomento di poche altre disposizioni sparse. L'esposizione del
Digesto è abbastanza organica, ma di certo non completa; i frammenti che
si occupano di incapacità sono 14, tratti per lo più dal de
cognitionibus di Callistrato e dal liber singularis de testibus di
Arcadio Carisio. Le costituzioni del Codice sono soprattutto post-teodosiane o
giustinianee; quelle relative all'incapacità sono solo cinque, mentre
trovano diversa collocazione quelle che disciplinano i nuovi casi (eretici,
ebrei, apostati). Scorrendo i due titoli si ricava l'impressione che nel
Digesto i compilatori abbiano ricercato un equilibrio fra passato e presente,
mentre abbiano introdotto attraverso il codice degli aspetti decisamente
innovativi. Evidente è il tentativo di organicità, che non
raggiunge però l'esaustività del sistema. Le regole per
individuare le persone incapaci di testimoniare sono contenute per lo
più nel Digesto: l'allusione ai veteres legislatores della
Novella 90 potrebbe forse rinviare proprio a queste disposizioni. Nel Codice i
richiami a norme preesistenti sono tre: la costituzione di C. 4.20.10 che
rinvia agli iura; quella di C. 4.20.16 che rinvia alle leges,
così come quella di C. 4. 20. 17, ma è possibile che il
legislatore, quando richiamava genericamente le leges, si riferisse in
realtà agli iura. Dunque, l'incapacità a testimoniare
sarebbe disciplinata dalle opere dei giuristi secondo una prassi antica e
consolidata, valorizzata e ratificata dalla Novella 90, che rappresenterebbe un
tentativo di recuperare questo indispensabile mezzo di prova.
I
lavori sono proseguiti con la relazione della Professoressa Stefania Roncati dell'Università
di Genova, dal titolo “L’interrogatorio degli schiavi ereditari in
una legge di Giustiniano (CI. 9. 41. 18)”. La quaestio per tormenta
nasce come strumento inquisitorio riservato agli schiavi, applicato così
in ambito giudiziario come in ambito domestico. Questo particolare mezzo
istruttorio, oggetto inizialmente di indagine esclusiva da parte della
retorica, tra il II e III secolo d.C. comincia a richiamare l’attenzione
di giuristi ed imperatori, che ne ammettono un uso limitato. Nella pratica
giudiziaria si viene così formando una nozione giuridica di prova che
poco ha a che fare con quella di stampo retorico (che la considera
nient’altro che strumento di convincimento del giudice). Fra i retori,
Cicerone si occupa della tortura giudiziaria a più riprese nelle sue
opere, in quanto parte integrante e necessaria del sistema; non risulta chiaro
quale credito le accordasse: nei Topica, ad esempio, scrive che le
dichiarazioni che derivano dalla tortura ‘parrebbero (videtur)
verità autentica’; nelle Partitiones Oratoriae sostiene che
i maiores avrebbero abbandonato tale pratica se fosse risultata
inaffidabile (stesso argomento portato, fra altri, a favore della tortura
dall’autore della Rhetorica ad Herennium). L’arpinate si
dimostra d’altro canto convinto del dovere di applicare la quaestio
per tormenta con imparzialità e di confrontarne le risultanze
con prove oggettive e/o presunzioni. Seneca, fermamente contrario alla
crudeltà, ammette tuttavia la tortura nei limiti legali, ovvero
purché riservata agli schiavi e direttamente volta ad ottenere una
confessione. L’applicazione della quaestio per tormenta
trova quindi giustificazione, soprattutto se applicata a capitalia et
atrociora maleficia, come disposto
in costituzioni di Augusto e di Adriano.
La
disciplina giustinianea della quaestio servi in ambito civile si trova
nei titoli de quaestionibus del Digesto (48. 18) e del Codice (9. 41).
D. 48. 18. 1 si apre con la preoccupazione di Ulpiano di stabilire i precisi
confini di applicazione della tortura; a tal fine il giurista richiama numerose
disposizioni imperiali, tutte emanate allo scopo di frenarne l’uso
indiscriminato e di precisare il livello di attendibilità da attribuire
alle dichiarazioni da essa scaturenti. D. 48. 18. 9pr. cita un rescritto di
Antonino Pio che stabilisce che gli schiavi possano essere sottoposti a tortura
solo qualora non ci sia altro mezzo per giungere alla verità. Manca una
disciplina legislativa organica delle fattispecie nelle quali lo schiavo fosse
ammesso a testimoniare in ambito civile; attestate sono le ipotesi di
interrogatorio de facto suo (C. 9. 41. 15), de se (C. 9. 41. 12)
e nell’actio tutelae (C. 9. 41. 2). Ampia applicazione è
attestata poi in materia successoria; un bell’esempio è quello di
C. 9. 41. 13: in un rescritto indirizzato ad una tale Filippa, che chiedeva
l’interrogatorio di uno schiavo comune contro il comproprietario,
Diocleziano precisa che l’interrogatorio del servus hereditarius era ammesso solo in caso di incertezza sulla
proprietà dello stesso; nel caso di specie, poi, interrogare lo schiavo
comune contro il suo comproprietario avrebbe concretato l’ipotesi di
interrogatorio contra dominum, inammissibile se non quando il condomino
fosse accusato dell’assassinio del socio. Giustiniano rivede e riforma la
materia in due costituzioni del
L'ultima
relazione è stata tenuta dal Professor Marco Melluso dell'Università di Genova che ha trattato il
tema dell'“Uso processuale del documento: un caso 'armeno'”.
Le
Conclusioni sono state affidate al Professor Amelotti, che da par suo ha tirato le fila dei lavori.
Non
è operazione semplice sintetizzare i risultati dei contributi
presentati, sia perché non si può fare affidamento su testi
fondamentali capaci di imporre un ordine espositivo alla molteplicità
delle fonti, che spesso risultano ora ripetitive ora incoerenti, sia
perché le relazioni hanno spaziato dal processo civile a quello
criminale, da problemi di ampio respiro a problemi estremamente minuti, il che
rende impossibile in questa sede dare conto di tutte. Ci si limiterà
dunque a dire degli aspetti
strutturali dei due procedimenti, civile e criminale, tra i quali spicca
evidente una differenza fondamentale di oggetto: il primo è diretto a
risolvere le controversie che sorgono fra privati, ristabilendo i diritti che
si affermano lesi; il secondo è diretto a colpire i reati, punendo i
rei. Ciò non toglie che ci possano essere (come effettivamente ci sono)
dei problemi comuni che oggi tendiamo a ricondurre al campo sfuggente della
teoria generale del processo.
Gli
aspetti comuni riguardano anzitutto i soggetti processuali; i problemi relativi
alla competenza, all'indipendenza e all'imparzialità dell'organo
giudicante ricorrono tanto nel processo civile quanto nel processo criminale.
Le parti dovrebbero trovarsi in condizione di parità, ma è facile
constatare che nel processo civile le posizioni di attore e convenuto possono
presentare delle discrepanze: all'attore è fatto carico dell'onere della
prova ma spetta a lui fissare i limiti della controversia; il convenuto gode
del diritto alla difesa (che include il diritto di restare inerte) ma resta
esposto agli abusi della controparte e dei funzionari. Nel processo criminale
la parità fra giudice ed imputato è un'utopia ancora oggi; basti
pensare al potere del giudice di infliggere la tortura.
Lo
scopo ultimo di ogni processo dovrebbe essere il raggiungimento della
verità; il fine della veritas rei è in realtà
più cogente nel processo criminale (almeno come esigenza), mentre lo
scopo primario del processo civile sembra più pragmaticamente quello di
risolvere la controversia tra le parti. Bisogna aggiungere che la ricerca della
verità non sempre è possibile, spesso è lunga, e non si
possono non considerare esigenze diverse, quale la ragionevole durata dei
processi: la brevità è un interesse che accomuna le parti.
Vi
sono poi numerosi elementi che differenziano i due procedimenti; ad esempio, il
processo criminale procede per iniziativa del giudice, anche se non mancano
aspetti accusatori, mentre nel processo civile, per quanto l'organo giudicante
disponga di poteri di iniziativa e di supplemento (soprattutto in ambito
istruttorio) resta preponderante l'iniziativa di parte. Il problema della
pubblicità del processo, effettivo nel processo criminale, scarsamente
sentito in quello civile, andrebbe approfondito. I principi di oralità e
immediatezza governano il processo criminale; il processo civile è
precipuamente scritto; bisogna però badare a non estremizzare questa
differenza. Nei confronti della scrittura c'è stata nel tempo
un'evoluzione che non si può non menzionare: nel mondo arcaico prevale
l'oralità; questo aspetto va stemperandosi man mano che, nel corso del
principato, si afferma il principio che ogni negoziazione importante dev'essere
documentata per iscritto; con il progressivo superamento di certi negozi
formali (quali la mancipatio ed il testamento librale) il documento
diventa da fatto posteriore al negozio, che lo riferisce così come
è avvenuto, il negozio vero e proprio (soprattutto nelle province
d'Oriente). L'atto scritto diventa gradualmente preponderante; sorge il
problema del falso documentale, che crea a sua volta altri problemi (come
quello della comparatio litterarum), tanto che con Giustiniano si
assiste alla rinascita della prova testimoniale. Da tale rinascita derivano
però nuove incertezze legate all'uso pratico e al valore della
testimonianza, soprattutto rispetto alla prova documentale (Novella 73):
compare il testimone chiamato all'impositio fidei, ovvero ad assicurare
la fedeltà del documento. Addirittura l'instrumentum publicum
(per tacere di quello tabellionico) finisce per richiedere la conferma
testimoniale: coloro che assistono all'insinuatio (la lettura pubblica
del documento perché venga verbalizzato) potranno essere chiamati a
testimoniare sul suo contenuto.
Università di Modena e
Reggio Emilia