N. 8 – 2009
– Cronache
Convegno annuale
Società Italiana di Storia del
Diritto
«La funzione della pena in prospettiva storica
e attuale»
Brescia, 16-17 ottobre 2009
Nei giorni 16 e 17 ottobre
2009, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli
studi di Brescia, si è svolto l’annuale convegno della
Società Italiana di Storia del Diritto, sul tema de «La funzione della pena in prospettiva
storica e attuale». Secondo una consuetudine inaugurata negli ultimi
anni, accanto agli storici del diritto erano presenti esponenti del diritto
positivo.
Intorno al tema centrale
della funzione della pena, i diversi relatori sono stati invitati ad offrire un
percorso cronologico e a ciascuno è stata affidata una particolare epoca
storica.
I ‘lavori’,
presieduti dal prof. Antonio Padoa
Schioppa, hanno avuto inizio nel presto pomeriggio del 16.
La prof.ssa Eva Cantarella (Università degli
studi di Milano) si è occupata del diritto greco. Fulcro della
riflessione della studiosa è l’idea che sia stata Atene la culla
delle concezioni della pena intorno alle quali ancora oggi si dibatte:
retrospettiva/retributiva e prospettiva/deterrente (e/o riabilitativa).
L’indagine, nell’esperienza greca, è resa ardua
dall’assenza di una scienza giuridica, ma le fonti letterarie consentono
la ricostruzione di un quadro abbastanza esaustivo.
L’ira sembra essere il
motore primo della reazione sanzionatoria, che assume la forma della vendetta.
Ciò è chiaro nei poemi omerici, nei quali tuttavia già si
avvertono i segni di una modalità alternativa di soluzione delle
controversie, attraverso la composizione pecuniaria (corresponsione della poinè). Nel VII secolo a.C., la
legislazione di Draconte, col divieto quasi assoluto dell’autodifesa,
sostituita dal ricorso all’Areopago e ai cinquantuno efeti, muove
ulteriormente in direzione del superamento della concezione ira/vendetta a
favore del binomio cooperazione/diritto. In questa partita, gioca certamente un
ruolo il progressivo consolidamento della pòlis,
che rimane a lungo il luogo di scontro tra le due concezioni: ne è un
esempio l’Orestea di Eschile.
In seguito, sia in Tucidide
(nel celebre dialogo tra Cleone e Diodoto) che in Isocrate (nell’Areopagitico) si assiste a prese di
posizione più nette contro la logica della vendetta, che invece
continuava ad essere posta a fondamento della pena nel pensiero dei logografi.
Ma è con Platone che si assiste ad una vera svolta. Nella riflessione
del grande filosofo prendono forma e si consolidano le nozioni che diverranno
cardine o termine di confronto per tutta la riflessione successiva: la critica
alla funzione retributiva, collegata all’idea che la punizione debba
preoccuparsi di evitare nuove ingiustizie, sostituita da quella riabilitativa (nel Protagora); la metafora medica del delitto quale male morale e
della pena quale strumento di cura (nel Gorgia);
le leggi quale strumento di persuasione dei cittadini a fare il bene.
Il prof. Bernardo Santalucia (Università degli studi di Firenze) si
è invece occupato del diritto romano di età classica, prendendo
spunto dal notissimo dialogo tra il filosofo accademico Favorino di Arles e il
giurista Sesto Cecilio Africano (narrato da Aulo Gellio), sulla legislazione
decemvirale. In particolare, la posizione espressa da Sesto Cecilio – il
quale intende le non poche atrocità previste dalle norme penali delle
XII Tavole in chiave tutta psicologica e legge la severità della
sanzione in funzione non già dell’applicazione, ma della pacifica
convivenza – ha indotto il relatore a chiedersi quanto vi sia di
vero in essa e quanto sia frutto, invece, dell’interpretazione del
giurista.
L’analisi della
normazione decemvirale consente agevolmente di escludere la deterrenza quale
fine unico o comunque principale di essa, enucleando molte ipotesi fortemente
connotate in chiave satisfattoria. Sorge però un dubbio circa le ragioni
della ‘forzatura’ operata da Sesto Cecilio, che molti studiosi
attribuiscono ad una precisa scelta politica d’età antonina, in
cui la componente monitoria e terroristica risponderebbe ad esigenze di
controllo sociale. Il relatore dissente, tuttavia, da tale lettura, alla luce
dei molti indizi che spingono a intendere le parole del giurista come
espressione di un sentire diffuso, risalente addirittura a Cicerone (Pro Roscio Amerino) e quindi presente in
Seneca (De clementia) e Quintiliano
(nelle Declamazioni).
Quanto al profilo della
vendetta, è senz’altro presente nella cultura romana, ma
già tra repubblica e principato notevolmente ridimensionato,
principalmente in seguito allo spostamento della pena (convertita in
equivalente pecuniario) nella sfera privata, con l’affermarsi delle obligationes ex delicto. Sul versante
pubblico (crimina), si delineano due
visioni della pena: mezzo per preservare la respublica,
più che per retribuire il reato, nelle quaestiones (pena/intimidazione); equivalente della vendetta dello
Stato, che così afferma la propria autorità (pena/pubblica
vendetta). La duplice finalità è raggiunta, in seguito, nella cognitio extra ordinem, dove la
discrezionalità nella graduazione della sanzione consente il
contemperamento tra retribuzione ed exemplum.
Nota conclusiva sulla
giurisprudenza romana, soltanto per rilevarne il contributo scarso o nullo, in
ragione della mancanza di una riflessione teorica in materia.
Il prof. Giorgio Barone Adesi (Università degli studi Magna
Græcia di Catanzaro) ha trattato dell’età postclassica e
giustinianea. La funzione preventiva della pena occupa un posto centrale nella
legislazione e nella politica imperiale. Ciò spiega per quale motivo ad
un panorama sanzionatorio severo e cruento faccia da contraltare un
atteggiamento mite in fase applicativa.
Importante, poi,
l’influenza del pensiero cristiano, che, sul piano concettuale, contrasta
duramente la pena di morte (e, in genere, ogni forma di punizione corporale) e
propugna la rieducazione del reo; sul piano pratico, ostacola attivamente
l’amministrazione della giustizia, anche col rifiuto di giudici non
cristiani. Alla logica rieducativa risponde peraltro l’utilizzo della
carcerazione come strumento di pena e non più solo di custodia
preventiva: la reclusione a vita nei monasteri, infatti, assurge a valida
alternativa ad altre forme sanzionatorie, consentendo, al contempo, il recupero
spirituale del reo e la sua conversione.
Il relatore non trascura,
infine, il fatto che proprio in questo periodo ed anche con l’avallo
della religione cristiana si assiste ad una modificazione del panorama delle
pene corporali, alcune delle quali oggettivamente cruente. Interessante la
spiegazione, contestualizzata nel momento storico particolare: tale
varietà va letta quale alternativa comunque più mite rispetto
all’esecuzione capitale. Le nuove pene corporali, in altre parole, sono
l’espressione della humanitas
cristiana dell’imperatore.
Il prof. Marco Cavina (Università di Bologna) ha approfondito il tema
con riguardo al diritto medievale. Consolidate ormai le funzioni retributiva e
preventiva, vera peculiarità del Medioevo è l’attribuzione
alla pena di un fine parenetico e moraleggiante, nella convinzione che essa
possa assolvere ad una funzione pubblica, esortando al bene. E, poiché
il pensiero cristiano è ora parte integrante della società, alla
parenesi si affianca la concezione della pena quale momento di espiazione del
peccato.
Nonostante l’articolata
frammentazione localistica, foriera di molte diversità territoriali,
è inoltre possibile rilevare l’utilizzo della pena,
pressoché ovunque, come oculato strumento di governo, tanto che –
osserva il relatore – per ben comprenderne la funzione è
necessario considerare le componenti del dosaggio politico e della concreta
modulazione nella prassi. In tale direzione muove altresì
l’introduzione di pene infamanti, che colpiscono la dignità del
reo contumace o fuggitivo; nel qual caso il fine principale consiste
nell’affermazione dell’autorità pubblica, affiancato
però da quello della catarsi della collettività. Vige infatti una
concezione organica della società, nella quale la colpa del singolo, se
non purificata, produce la reazione divina nei confronti di tutti (Sodoma e
Gomorra rappresentano l’archetipo di tale concezione). Catarsi sul
versante sacrale ed esemplarità sul versante pubblico sono le due facce
della pena medievale, mentre la logica vendicativa, pure presente, è
relegata al rapporto con Dio, l’unico legittimato alla vendetta.
La prima giornata si è
chiusa con l’intervento commemorativo del prof. Luigi Capogrossi Colognesi («La Sapienza» –
Università di Roma), che ha offerto un ricordo acuto e nostalgico della
figura umana e scientifica di Mario Talamanca, improvvisamente mancato la
scorsa primavera.
La sessione del sabato,
presieduta dal prof. Antonello Calore,
si è aperta con la relazione della prof.ssa Giorgia Alessi (Università degli studi di Napoli
«Federico II»), la quale ha discusso della funzione della pena nel
diritto moderno. In quest’epoca, se da un lato i giuristi criminalisti
non si discostano dall’impostazione medievale e restano ancorati ai
paradigmi dell’ira, del medico e del giudizio universale,
dall’altro la pena diviene elemento importante delle strategie di
giustizia. All’interno di una logica improntata al machiavellismo, Bodin
assegna, ad esempio, al principe il compito di elargire premi (sopra tutti, la
grazia), affidando la comminazione delle pene ai giudici. Le sanzioni devono
inoltre essere modulate in ragione della distinzione degli status sociali. Questo aspetto, unito a quello della cittadinanza,
occupa una posizione preminente nel discorso sulla pena: essa è criterio
di esclusione dalla città o di definizione di uno status. Il profilo della certezza è marginale.
D’altro canto,
l’epoca è segnata dal contrasto tra il foro civile e il foro della
coscienza. L’apparato inquisitorio della Chiesa suscita l’invidia
delle monarchie, tentate dall’adozione del parametro dell’obbligatorietà
delle pene in coscienza. Il principio della distinzione tra i due piani,
tuttavia, viene mantenuto e in ciò ha avuto un peso rilevante
l’apporto della Seconda Scolastica.
Un deciso mutamento
interviene nel periodo delle guerre di religione, quando si avvia un percorso tendente
ad arginare l’invasività dell’elemento ecclesiastico
(fondamentali i contributi di Hobbes e Pufendorf). Si apre una discussione
sulla definizione della pena c.d. ‘inutile’ – nella
definizione hobbesiana, è inutile la pena che non aiuta la prevenzione,
viene inflitta in misura maggiore alla legge e non poggia su una legge
precedente – e il terreno è maturo per la riformulazione del
principio di legalità (nulla poena
sine lege), da cui poi quello di stretta legalità. Gli esiti di tale
riflessione saranno ripresi e sviluppati dall’Illuminismo, che
attribuirà al diritto penale una funzione rilevante in tale ordinamento,
auspicando pene miti, ma inesorabili. Prima di tale approdo, però, non
va dimenticata l’importante opera di
risistemazione compiuta, nel Settecento, da Thomasius.
L’analisi della
funzione della pena nel diritto dell’Ottocento e del Novecento è
stata affidata alla prof.ssa Floriana
Colao (Università degli studi di Siena), che ha scelto di osservare
il pensiero giuridico e politico dell’epoca attraverso la lente della
letteratura.
I grandi romanzi
dell’Ottocento rappresentano una straordinaria risorsa per la
comprensione delle idee sulla pena e sul diritto penale circolanti nella
società. È possibile cogliere la denuncia dell’ipocrisia
del sistema penale del tempo nelle pagine di Hugo, oppure, in quelle di
Melville, la logica retributiva; concezione, quest’ultima, presente anche
in Kafka, che ne rappresenta la versione kantiana, in cui la pena assume le
fattezze di un bastone per controllare l’uomo ‘come un cane’
(Il processo). Non mancano, tuttavia,
visioni che privilegiano le funzioni di emenda o prevenzione e sono, infatti,
caratteri dell’epoca l’oscillazione tra teorie opposte e
l’incapacità di ragionare sulle proprie contraddizioni.
Altro tema di discussione
è il carcere, sentito ora come luogo dell’emenda, ora come
strumento per incidere sull’anima dei reclusi (Tocqueville), ora come
luogo di trasformazione spirituale (Dostoevskij, Delitto e castigo).
È ancora presente la
logica della divisione sociale in status,
cui è correlata la graduazione della pena in ragione della
personalità e non degli atti. La normazione penale continua ad essere,
in primo luogo, strumento di protezione della collettività. Il nascente
pensiero positivista, peraltro, apre le porte all’introduzione delle
misure di sicurezza. Se, tuttavia, si affermano con successo in questi anni le
teorie di Lombroso, è pure il tempo in cui Tolstoj pubblica Risurrezione, opera nella quale si
scaglia contro ogni forma di punizione, equiparando i sanzionatori ai
criminali.
Chiuse le sessioni
storico-giuridiche, l’ultima[1] comunicazione
è stata quella dell’avvocato Giuseppe
Frigo, giudice della Corte Costituzionale, intervenuto su «La funzione della pena nella giurisprudenza
della Corte Costituzionale». Il relatore ha evidenziato la presenza,
nel panorama giuridico italiano, di una concezione polifunzionale della pena e
il notevole contributo della Suprema Corte a spostare il baricentro della
nozione di pena sulla rieducazione (di cui si deve occupare il Legislatore
stesso), marginalizzando, prima, ed escludendo, poi, la finalità
esemplare. Del pari, si deve alla giurisprudenza costituzionale il saldo
ancoraggio della pena alla colpevolezza. Da ultimo, nel 2008, la Corte ha altresì
precisato che la prevenzione generale spetta alla legislazione, non alla
giurisdizione.
Il convegno si è
concluso con il commosso ricordo, da parte del prof. Antonio Padoa Schioppa (Università degli studi di Milano),
di Domenico Maffei, scomparso
nell’anno in corso.
Università di Brescia