N. 8 – 2009
– Cronache
Convegno Interdisciplinare di Studi
“Mercati e
mercanti di schiavi
tra archeologia e
diritto”
Sassari,
Aula Magna dell’Università
22-23
ottobre 2009
Nei giorni 22 e 23 Ottobre
2009 si è svolto a Sassari il Convegno interdisciplinare di studi
“Mercati e mercanti di schiavi tra archeologia e diritto”,
che ha visto a confronto, in modo proficuo e costruttivo, esperienze e
conoscenze di archeologi e giuristi su di un tema fondamentale per la
comprensione delle strutture socio-economiche e giuridiche del mondo antico. La
prima giornata si è aperta con i saluti del Magnifico Rettore
dell’Università di Sassari, Prof. Alessandro Maida, il
quale ha sottolineato l’importanza e l’interesse
dell’iniziativa, del vice preside della Facoltà di Giurisprudenza,
Prof. Pietro Pinna, e del preside della Facoltà di Lettere e
Filosofia, Prof. Aldo Morace, ognuno dei quali ha espresso il proprio
apprezzamento per l’iniziativa, sottolineando l’interesse del tema
e l’importanza dell’interdisciplinarietà. E’ seguita
l’introduzione da parte della Prof.ssa Maria Rosa Cimma, che ha
accennato ai temi oggetto di approfondimento nel corso del Convegno, quello
dello schiavo come bene materiale, e quello dello schiavo come essere umano, ed
ha sottolineato l’attualità della materia, in un mondo che vede
ancora sopravvivere alcune antiche forme di schiavitù, e soprattutto
vede nascerne delle nuove.
La prima relazione, dal
titolo “Schiavitù e servitù in Grecia: il caso cretese”,
è stata svolta dal Prof. Giovanni Marginesu. Il tema, assai
discusso e tutto sommato povero di fonti, della coesistenza di diverse forme di
dipendenza in terreno greco, trova nella Creta tardo-arcaica un materiale
documentale interessante, che consente di evidenziare la coesistenza fra una
servitù rurale e patriarcale (i cd. woikeis), ed altri soggetti
dipendenti, ai quali è talora rivolto l’appellativo panellenico di
douloi. Talvolta i termini vengono
scambiati, ma appare certo che i soggetti appartenenti all’uno o
all’alto gruppo non avevano uguale trattamento giuridico.
Il materiale epigrafico, dal
quale emerge in primo piano la Grande Iscrizione di Gortina, consente di
affermare che i woikeis, pur essendo integrati nella famiglia del pastas,
che su di loro esercitava una serie di poteri di tipo familiare, tuttavia
possedevano un’ampia autonomia. I woikeis rappresentavano un caso
di dipendenza impiegata nel lavoro rurale, e pertanto erano insediati in aree
di destinazione agricola, ma nello stesso tempo essi risultavano sottoposti ad
un regime obbediente al diritto familiare. La stabilità della loro
condizione dipendeva dalla stabilità dell’oikos e dalla
loro fedeltà al padrone: solo eventi traumatici nella vita del pastas
o dello stesso woikeus potevano comportare il trasferimento del woikeus dalla sfera giuridica di un pastas a quella di un altro.
La Grande Iscrizione attesta
inoltre l’esistenza sul suolo dell’agora gortinia di un
mercato di schiavi, il più antico fra quelli sinora attestati per via
epigrafica. Le norme esaminate consentono all’A. di affermare che la
legge illustra il fenomeno della vendita di singoli schiavi da un padrone ad un
altro, e non il momento in cui lo schiavo-merce approdava alla città.
Non si trattava dunque di mercanti professionisti che operavano sfruttando un
mercato, quello di somata risultanti
da razzie o da pratiche di pirateria, per il quale i cretesi erano celebrati
nell’antichità. Oggetto di vendita erano i douloi, che
avevano uno status diverso da quello dei woikeis: il fatto che
fossero fatti oggetto di vendita, indica che essi non avevano alcun diritto
né erano legati da alcun vincolo di parentela, né tanto meno
erano protetti quali dipendenti dell’oikos
di provenienza. Insomma, nel passo del Codice sembra essere descritta per la
prima volta una schiavitù-merce, alternativa alle servitù
preesistenti a Creta.
Gli stessi schiavi-merce
erano usati per svariate attività, ma anche per i lavori agricoli, e
finivano quindi per concorrere con i lavoratori liberi e con i woikeis.
La loro presenza è indice di una trasformazione socio-economica della
società gortinia, trasformazione che induce una differenziazione sempre
più marcata e sempre più lesiva degli equilibri interni della
cellula patrimoniale e produttiva rappresentata dall’oikos, perché l’acquisto degli schiavi
presupponeva disponibilità di argento e garantiva forme di arricchimento
inedite, ma allo stesso tempo minava la stabilità del sistema: ed
è dunque l’oikos
tradizionale la prima vittima del nuovo stato di cose, e con esso la
stabilità della posizione dei woikeis. Costoro avevano senso solo
in rapporto ad una economia tradizionale, poiché erano ancorati e difesi
dall’oikos tradizionale e
stabile, mentre le potenzialità introdotte dallo schiavismo finivano per
differenziare la condizione dei singoli cittadini, mettendo a repentaglio
l’autonomia di alcuni d’essi e la consistenza dei loro patrimoni.
La fine dell’oikos segnava, con
la perdita del pastas, un destino
incerto anche per il woikeus e per la
sua famiglia.
E’ seguito
l’intervento del Prof. Attilio
Mastino, che ha presentato un’ampia relazione dal titolo “L’agorà
degli italici a Delos”. Con questa denominazione si indica una
struttura architettonica di notevole estensione e complessità,
consistente nella sua parte centrale in una piazza trapezoidale circondata da
un porticato a due piani, porticato che all’interno presenta una serie di
nicchie, originariamente protette da grate. La denominazione “degli
italici” deriva da numerosi ritrovamenti epigrafici che fanno riferimento
appunto all’attività degli italici ivi svolta. La struttura viene
posta in relazione con un noto passo di Strabone, nel quale il geografo afferma
che quotidianamente attraverso il
mercato di Delo passavano decine di migliaia di schiavi: notizia credibile dato
il ruolo assunto da Delo dopo l’istituzione del porto franco da parte del
senato romano, nel 167 a.C. , e dopo la creazione della provincia d’Asia,
nel 133. L’agorà degli italici presenta alcune caratteristiche che
rendono verosimile il suo utilizzo come mercato degli schiavi. Essa è
infatti una struttura di notevoli dimensioni, che sorge in un’area libera
vicina al porto, cosa che
consentiva un agevole passaggio degli schiavi; inoltre è una struttura
chiusa, con aperture facilmente sorvegliabili, e non vi erano scale fisse per
il secondo piano: il tutto utile a scoraggiare le fughe; infine la corte non
è pavimentata, il che non consente di ritenere che fosse usata a scopi
pubblici.
Questa interpretazione,
avanzata per la prima volta negli anni ’70 del secolo scorso da M. Cocco,
è stata contestata da alcuni studiosi, in particolare francesi, che non
hanno saputo però offrire interpretazioni alternative convincenti,
mentre è stata ripresa di recente da F. Coarelli, secondo il quale
l’agorà degli italici va inserita nel contesto di una
“stagione di restauro” dell’intera area del porto,
all’interno della quale sia la stessa agora degli Italici, sia quella di
Teofrasto furono destinate al commercio degli schiavi.
Secondo il relatore
l’ipotesi avanzata dalla Cocco è senza dubbio quella che meglio
tiene conto delle caratteristiche architettoniche della struttura, la quale
tuttavia dovette avere – a suo avviso – natura polifunzionale, come
provato dalle numerose iscrizioni, che non avrebbero avuto senso se rivolte
solo ad un pubblico di schiavi. Si torna quindi alla notizia di Strabone, i cui
numeri non vanno però interpretati in modo meccanico, poiché il
Geografo non si riferiva certo al solo mercato gestito a Delo dagli italici. Il
fatto è che la notizia di Strabone va interpretata nel contesto
dell’interesse dell’autore greco per i problemi di carattere
urbanistico, che comportava attenzione particolare non solo per il dato
demografico, ma anche, in concreto, per i problemi di carattere sociale ed
economico, e anche commerciale. E proprio l’importanza di
un’attività tanto intensa e ricca, ma anche per sua natura
pericolosa e difficile da gestire, non poteva non attirare l’attenzione
di Strabone ed indurlo a calcolare il flusso giornaliero di schiavi, come dato
di base per una progettazione urbanistica razionale, della quale
l’agorà degli italici può essere considerata una
realizzazione.
La terza relazione, tenuta
dal Dott. Pier Giorgio Floris, ha affrontato il tema de “L'onomastica
servile di Karales”, nella quale l’A. ha sottoposto ad accurata
analisi i dati provenienti da quarantuno epigrafi, selezionate in base a
parametri atti a dare certezza che esse si riferissero a persone in condizione
servile o ex servile. Le persone identificate nel materiale selezionato come
schiavi o liberti sono cinquantasei: l’analisi onomastica ha consentito
all’A. di illustrare le diverse tipologie di nomi e i diversi modi
attraverso i quali veniva indicata la condizione servile, di distinguere gli
schiavi di privati (fra i quali vengono inclusi tre individui indicati con il
nome unico e qualificati come alumni) dagli schiavi imperiali, di
determinarne il sesso e la probabile origine etnica. Inoltre il confronto fra i
dati provenienti da Karales ed i dati forniti dagli studi sull’onomastica
servile latina e greca nel mondo romano ha consentito di illustrare le
coincidenze e le diversità tipiche dell’ambiente caralitano.
Di seguito la Dott.ssa Stefania Fusco ha svolto una
relazione sulla “Iniuria servi”. Punto di partenza la
rubrica edittale De iniuriis quae servis fiunt, che prevedeva l’iniuria
fatta ad uno schiavo: il problema è di vedere se fosse tutelato il servo
inteso come essere umano, o non piuttosto il dominus ed il suo
patrimonio, del quale lo schiavo faceva parte. L’esame dei frammenti del
Digesto relativi al tema in questione ha consentito all’A. di enucleare
le ipotesi per le quali era concessa al dominus l’actio
iniuriarum per l’offesa inflitta al servo, e di evidenziare la
distinzione tutta giurisprudenziale fra illecito diretto contro il servo, ed
illecito operato sul servo, ma diretto contro il padrone. Pur nella prima
ipotesi, dice Ulpiano, il pretore non lascerà impunita l’iniuria,
soprattutto se consistente in percosse gravi o tortura, “poiché
è evidente che anche il servo sente”. Ne nasce la distinzione fra
azione domini nomine ed azione servi nomine, che, come ha
illustrato il relatore, non comportava differenze dal punto di vista
strettamente processuale, ma era funzionale all’identificazione di un
elemento essenziale alla configurazione del delitto di iniuria, e
cioè il dolo specifico, l’animus iniuriandi, in situazioni
in cui l’atto delittuoso era materialmente diretto contro persona diversa
da quella che si voleva ingiuriare. Tutelato era pur sempre e solo il dominus,
il suo onore ed il suo patrimonio, e il riferimento alla persona servi
serviva solo a quantificare l’entità del danno da lui subito.
L’ultima
relazione della mattinata, dal titolo “L’approvvigionamento del
mercato: attività di pirati e venaliciarii”,
è stata tenuta dalla Dott.ssa Rosanna Ortu. Dopo aver
tratteggiato lo sviluppo delle attività piratesche nel Mediterraneo fra
il II ed il I sec. a.C., l’A. è passata ad esaminare il termine pirata,
che dal punto di vista giuridico si connette a quelli di praedo e latro,
in contrapposizione a hostis. Solo nei confronti dell’hostis era
possibile dichiarare un bellum iustum secondo le regole del ius
fetiale, mentre nei confronti dei pirati, fossero essi di mare o di terra,
ciò non era possibile in quanto le bande di predoni non avevano
un’organizzazione politica riconosciuta come tale da Roma, nei confronti
della quale svolgere i riti della indictio belli. Ne consegue il
principio, poiché secondo quanto affermano in modo unanime le fonti
giuridiche si diviene schiavi in base al ius gentium solo a seguito di
un bellum iustum, che a piratis
aut latronibus capti liberi permanent (D. 49.15.19.2 Paul. 16 ad Sab.). Sono infatti numerosi i frammenti
conservati nel Digesto in cui i giuristi adottano questo principio per dare
soluzione a svariati quesiti sorgenti da un’eventuale incertezza intorno
allo status di un soggetto.
E’
noto che i pirati sovente chiedevano un riscatto per rilasciare i loro
prigionieri, ma dalle fonti, ed in particolare dal lungo passo di Strabone cui
faceva riferimento anche Attilio Mastino nella sua relazione, risulta
chiaramente che l’attività più lucrosa per i pirati era
rappresentata dal commercio degli schiavi, commercio che costituiva
l’incentivo più importante per compiere le loro attività
criminali di brigantaggio. Secondo il Geografo gli stessi pirati fecero fiorire
questa attività facendo prede e mettendole in vendita come schiavi
– si avvalevano di mercati come quello di Delo - mascherandosi sotto il
pretesto di esercitare un’attività assolutamente legittima, quale
appunto il semplice commercio. Le prede dei pirati venivano quindi acquistate e
poi rivendute come schiavi dai venaliciarii, pur essendo, dal punto di
vista del diritto romano, persone libere: questa constatazione dà
origine ad una serie di quesiti assai interessanti sotto il profilo giuridico,
così come la prassi degli stessi venaliciarii, attestata dalle
fonti, di acquistare in terre lontane, ai margini dell’impero, persone
libere, soprattutto bambini, vendute come schiavi dai loro genitori.
La sessione
pomeridiana si è aperta con i saluti e le espressioni di stima e di
compiacimento del Prof. Moravetti, in qualità di rappresentante
del Dipartimento di Storia, e del Prof. Antonio Serra, direttore del
Dipartimento di Scienze Giuridiche, ed è continuata sotto la presidenza
del Prof. Attilio Mastino.
La
prima relazione è stata tenuta dalla Prof.ssa Francesca Reduzzi Merola, che ha parlato delle “Emptiones servorum e auctiones nei mercati campani”.
L’A. ha inizialmente messo in evidenza l’ipotesi (già da
tempo formulata in dottrina) di un legame tra origine dell’editto
edilizio con i connessi obblighi di dichiarazione dei vizi della cosa in
vendita, ed auctiones private;
quindi, pur senza prendere posizione sulla dibattuta questione, per la
scarsità di testimonianze univoche, ha ritenuto di poter discutere in
maniera unitaria i temi prescelti. È quindi passata ad illustrare alcuni
documenti della prassi campana relativi a compravendite di schiavi (Tavolette
dall’Archivio puteolano della famiglia dei Sulpicii, TPSulp.
42,43,44; Tavolette Ercolanesi, TH.
59, 60, 61, 62), datati dal 26 d.C. in poi, esaminando, ove possibile, le
caratteristiche degli schiavi venduti e soffermandosi poi sui prezzi dei mancipia (dato, questo, esterno alle
previsioni edilizie) desumibili dai documenti in oggetto e compiendo anche un
parallelo con il valore degli schiavi nell’editto de pretiis dioclezianeo.
Le
vendite all’asta private venivano effettuate nei mercati, sia a Roma, sia
in Italia (come si evince dalle tavolette di Pompei ed Ercolano) sia, ancora,
nelle province (come attesta la lex
metalli Vipascensis): erano molto diffuse per la pubblicità del
procedimento e la maggior facilità dell’incontro tra domanda ed
offerta. In genere si compivano o su iniziativa del proprietario, o del
creditore pignoratizio o fiduciario (es. TPSulp. 77); si avvertiva
l’esigenza, in particolare in questi ultimi casi, che il bene fosse
venduto al prezzo più alto possibile, in quanto una volta soddisfatto il
creditore il denaro avanzato veniva dato al debitore.
La
relazione si è poi focalizzata sulle caratteristiche delle auctiones, sulle modalità del
loro svolgimento, sulla natura dei contratti tra venditore, banchiere (argentarius o coactor argentarius) e
compratore. Si è dato particolare rilievo ai dati ricavati dalle
tavolette della prassi campana (es.: TPSulp. 85,86,87, del 51 d.C.; TPSulp.
90-93 del 61 d.C.), e si è ribadito il valore di tali documenti nella
ricostruzione della realtà giuridica romana.
Di seguito il Prof. Giampiero
Pianu ha svolto una relazione dal titolo “Manomissioni sacre al santuario di Demetra in
Eraclea di Lucania”, per la quale ha preso in
considerazione alcuni anelli di ferro rinvenuti nell’area del tempio, la
cui datazione rimane incerta. La loro foggia dimostra che si trattava di
strumenti destinati a legare in modo rigido le mani di schiavi; il fatto che i
chiodi che tenevano uniti gli anelli risultino spezzati intenzionalmente,
unitamente al loro ritrovamento in un bothos, fossa in cui venivano deposti gli
ex voto dopo la loro esposizione, secondo il relatore dimostra in modo
inequivocabile che ci troviamo di fronte ad una manomissione sacra, nonostante
la difficoltà di collegare il culto di Demetra con un rito di
“scioglimento”. Non va dimenticata, però, l’attribuzione
alla stessa dea dell’epiteto di epilisamene, attestato a Taranto, che nella sua
radice rimanda proprio alla possibilità di “scioglimenti”,
forse manomissioni.
La
convinzione che le manette spezzate siano da collegare a riti di manomissione
sacra viene rafforzata dalla considerazione di alcune tavolette bronzee,
provenienti dallo stesso santuario e databili fra il 330 ed il 270
a.C., che contengono la dedica di se stesse alla dea di alcune fanciulle, che
dall’onomastica sembrerebbero schiave, le quali con questo atto si
liberavano da ogni vincolo. Anche attraverso il rito documentato dalle
tavolette, quindi, si realizzava una forma di manomissione sacra, confermando
la connessione del santuario di Demetra con questo genere di atti.
La Prof.ssa Paola Ruggeri,
con la relazione dal titolo “I collari di schiavo”, ha preso
in considerazione un materiale interessante non solo dal punto di vista
archeologico ed epigrafico, ma anche dal punto di vista giuridico,
poiché coinvolge tutta la problematica del servus fugitivus, nei
suoi diversi aspetti. Si tratta di 36 collari, di diversa provenienza e
tipologia, e recanti iscritta la formula che attesta lo stato servile (servus
sum), il nome del dominus al genitivo, sovente con l’invito a
trattenere lo stesso schiavo e a restituirlo. L’iscrizione, sul collare
saldato al collo dello schiavo, o su di una placchetta pendente dal collare
anepigrafe, aveva lo scopo di rendere esteriormente manifesta la condizione di servus,
specialmente se fuggitivo, per il valore economico del bene coinvolto, e per il
pericolo rappresentato dalla possibilità del formarsi di bande di
schiavi in fuga. Dal punto di vista cronologico i materiali risalgono ad un
periodo che va da Costantino a Onorio, o forse poco più oltre.
Il fenomeno delle fughe
potenzialmente pericolose va posto in relazione con la rottura, nella seconda
metà del I sec. a.C., di un equilibrio abbastanza saldo che aveva
connotato i rapporti di dipendenza all’interno della società
schiavile romana. Il sistema delle proscrizioni poneva in crisi la patria
potestas ed il rapporto di fides, generando fenomeni come la
denuncia dei padroni da parte degli schiavi, che speravano di sostituirsi ad
essi nell’economia produttiva della Repubblica, e da parte dei padroni
l’assunzione dell’identità di schiavi rimasti fedeli, per
salvarsi la vita. Non meno rilevante fu l’età triumvirale, in
particolare quando, in occasione dello scontro con Ottaviano, Sesto Pompeo
favorì l’arruolamento nella sua flotta di schiavi fuggitivi,
attirati dalla promessa della manomissione.
Anche nel Principato,
però, pur in un quadro politico di ritrovata pace sociale, il lavoro
servile continuò a rappresentare il sostrato della struttura economica e
sociale dell’Impero, e le fughe di schiavi continuarono a rappresentare
un problema reale. Ciò vale anche per l’età tardo antica,
poiché l’economia rurale italica continuava ad essere fondata sul
lavoro dei servi, ed i servi continuavano a tentare la fuga, sia pure per
motivazioni e con modalità diverse. Il persistere nel tempo del
problema, del resto, è ampiamente documentato dalla riflessione
giurisprudenziale sul tema del servus fugitivus.
I collari di schiavo, osserva
l’A., sembrano costituire il punto d’arrivo dei sistemi di
coercizione adottati nel corso del tempo per fronteggiare le fughe degli
schiavi: dalla reclusione negli ergastula,
alla marchiatura charactere domini
(secondo la testimonianza di Ambrogio nel de
obitu Valentiniani (58), sino ad arrivare a queste lamine metalliche che
patentemente indicavano lo status del
servo, erano di difficile rimozione - essendo infatti i due estremi del collare
saldati tra loro, occorreva l’intervento di un fabbro - e potevano dunque
più facilmente permettere la restituzione al padrone.
La sessione pomeridiana
è continuata con l’intervento del Prof. Raimondo Zucca
sul tema “Servi e liberti a Gades”.
L’A., richiamando quanto dice Strabone, ha evidenziato come Gades fosse
una città popolosa e ricca, la cui popolazione per la maggior parte era
dedita al commercio marittimo. La città, di fondazione fenicia, dal 206
legata a Roma da un foedus, e da Roma
stessa sempre favorita, in età preromana si era sviluppata grazie al
ruolo economico dei templi di Melqart / Herakles / Hercules, che
rappresentavano lo strumento centrale della politica di colonizzazione fenicia
sia dal punto di vista religioso e culturale, sia dal punto di vista economico.
La
presenza a Gades di personale servile legato ai templi è attestata da
numerose iscrizioni durante tutta l’età romana, così come
le fonti provano l’esistenza di un numero importante di servi e liberti
publici, a disposizione del municipium Gaditanum per lo svolgimento
di svariate attività collegate con l’amministrazione della
città. Non si hanno testimonianze dirette della presenza di schiavi o liberti
imperiali, ma probabilmente ad essi o a loro discendenti si riferiscono tre
delle epigrafi citate nella relazione.
Sotto
il profilo economico molto importanti sono le fonti che documentano
l’attività di schiavi e liberti nell’ ambito del controllo pubblico
del trasporto dell’ olio betico. La statio
Ad portum, probabilmente alla foce
del Baetis e del Guadalete, uniti a formare un unico estuario,
rappresentava l’ultima stazione doganale di un percorso che si snodava
lungo i fiumi, ed in essa operavano controllori di rango forse servile,
più probabilmente liberti. La presenza di personale servile o di origine
servile era poi fondamentale nella viticoltura e nella produzione di
salsamenta, attività economiche fra le più importanti all’interno
della società gaditana, accanto al commercio marittimo. Ne risulta un
quadro in cui schiavi e liberti svolgevano un ruolo essenziale nel vivace
sviluppo economico della città, del quale potevano anche approfittare
per cogliere occasioni di elevazione sociale, soprattutto passando attraverso
il servirato augustale.
Il
Dott. Antonio Ibba ha poi
presentato una relazione dal titolo “Servi nelle campagne
dell’Africa proconsolare. Testimonianze letterarie ed epigrafiche”.
Punto di partenza l’osservazione che a causa dello scarso numero di epigrafi contenenti menzione di schiavi si
è ritenuto che nell’Africa proconsolare fra il I ed il II sec.
d.C. la piccola e media azienda agricola, che impiegava coloni e braccianti
stagionali, avesse sostituito la grande azienda a base schiavistica introdotta
alla fine della Repubblica, come conseguenza, in particolare,
dell’applicazione della lex Manciana e della lex
Hadriana de rudibus agris per
l’affitto in piccoli lotti delle aree incolte della provincia. Per contro
alcuni studiosi hanno evidenziato il ruolo dei lavoratori liberi nella
campagne dell’Africa, avanzando motivazioni di ordine economico o
culturale, e sottolineando la maggiore mobilità sociale consentita da
questo modello di organizzazione del lavoro. Nel contesto descritto gli
schiavi, in numero assai minore che altrove, sarebbero stati utilizzati
prevalentemente in ruoli di gestione e direzione dei praedia, in
sostituzione del dominus.
A ben
vedere, tuttavia, i dati che emergono da una più puntuale e completa
lettura delle fonti appaiono profondamente diversi. Da un lato sono più
numerosi i testi relativi ai servi delle campagne che non quelli
relativi a lavoratori liberi, e poi nello stesso regolamento che disciplina
l’applicazione della lex Mancinana i servi sono elencati accanto
alle diverse categorie di lavoratori liberi (coloni, coloni inquilini
e stipendiarii), a significare la loro presenza e la loro rilevanza;
d’altro lato la presenza di servi nelle campagne dell’Africa
è ben attestata nelle fonti letterarie, con una serie di testimonianze
che vanno dal primo secolo dell’Impero sino all’età di
Agostino. Non ci si può basare quindi sul solo dato quantitativo
relativo alle iscrizioni, considerando anche che le capacità di spesa
degli schiavi erano limitate, e che essi avevano provenienze diverse e molti
potevano essere illetterati.
La seconda giornata del Convegno ha visto in apertura il saluto
del Prof. Piero Bartoloni, Direttore
della Scuola di Dottorato “Storia, Letterature e Culture del
Mediterraneo”, con sede presso il Dipartimento di Storia
dell’Università di Sassari, e dal saluto della Prof.ssa Rosanna Ortu, docente di Storia del
Diritto Romano presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Sassari, che ha portato a tutti i partecipanti
i saluti del Prof. Michele Comenale
Pinto, Direttore della Scuola di Dottorato “Diritto ed economia dei
sistemi produttivi”, con sede presso il Dipartimento di Scienze
Giuridiche dell’Ateneo turritano.
La
sessione dei lavori è iniziata con la relazione “Servus e religio” della Dott.ssa Cristiana M.A. Rinolfi, che ha
evidenziato l’ambivalenza nel mondo romano della figura dello schiavo, al
contempo bene ed essere umano. L’umanità del servo emerge
soprattutto in materia religiosa, dato che nel compimento di determinati riti
la sua azione è rilevante tanto quanto quella di un libero.
Sicuramente
nell’età più antica gli schiavi partecipavano alle
cerimonie domestiche, ed è attestato il loro coinvolgimento nel culto
dei Lari familiari (si intende, della famiglia del dominus). Per quanto riguarda i riti pubblici, le fonti
mostrano la partecipazione di schiavi in particolare
ai culti legati alla dea Diana, tanto che il sacerdote del tempio di Diana
Nemorense sovente era uno schiavo fuggitivo. A questi si aggiungono diversi
altri riti, dai quali tutti emerge il pieno inserimento dei servi nella religio,
fatto dimostrato anche dalle iscrizioni votive offerte da schiavi.
La materia dei sepolcri è tuttavia
l’ambito nel quale emerge con più forza, anche a livello
giurisprudenziale, l’appartenenza del servo al genere umano. Per norma
antichissima il luogo in cui veniva inumato un servo, al pari del libero,
diveniva religiosus, e a tal fine era sufficiente la
volontà del proprietario del luogo, se costui aveva l’onere dei
riti funerari, e che l’inumazione venisse fatta con l’intenzione di
offrire una sede eterna ai resti umani. Il soggetto tenuto ai riti funerari era
il dominus. Diverso il caso della sepoltura di un nemico, il cui luogo
non diveniva religioso, così come non diveniva religioso il luogo in cui
venivano inumate, anche simbolicamente (si trattava di un atto dovuto), le
spoglie di uno sconosciuto, che poteva anche essere un hostis, quasi a
sottolineare la non appartenenza di costoro alla sfera religiosa della civitas,
a differenza dello schiavo.
La
Dott.ssa Renata Puggioni e il Dott. Edgardo Badaracco hanno presentato il
secondo intervento, dal titolo “Servus fugitivus negli eserciti tardo-repubblicani”. Essi hanno sottolineato
il mutamento di tendenza nello scontento delle masse servili nella tarda
repubblica, dapprima indirizzato alla rivolta, poi, a partire dallo scontro fra
Mario e Cinna da un lato, Silla dall’altro, volto alla ricerca della
libertà attraverso l’arruolamento in eserciti in lotta. Il
fenomeno assunse particolare estensione e rilevanza durante la guerra condotta
da Antonio e Ottaviano contro Sesto Pompeo: costui, avendo occupato la Sicilia
e da qui bloccato i rifornimenti di grano per Roma, fece dell’isola il
punto di raccolta di proscritti, oppositori dei triumviri, schiavi in fuga
attirati dalla promessa della libertà per chi si fosse arruolato nella
sua flotta. D’altra parte già gli stessi triumviri
nell’editto di proscrizione erano ricorsi alla promessa della
libertà per gli schiavi che avessero denunciato i propri padroni, e dopo
la sconfitta di Sesto Pompeo nella flotta posta dal futuro imperatore al
comando di Agrippa militavano, secondo le fonti, non meno di ventimila schiavi
liberati, a riprova che a guidare questo tipo di scelta non era altro che un
rapporto di mutua convenienza.
Nel
terzo ed ultimo intervento, “Amor erga patronos, amor erga parentes: aspetti giuridici e umani del rapporto
patrono-liberto. Ancora sulla “Grotta delle Vipere” e sui liberti
di Atilia Pomptilla, mamma optima (CIL
X 7564, Karales)”, la Dott.ssa Maria
Bastiana Cocco ha esaminato la tabella dedicatoria del famoso
monumento funerario di L(ucius) Cassius
Philippus e della moglie Atilia
Pomptilla, situato lungo l’attuale viale Sant’Avendrace a
Cagliari, nella quale i dedicanti, due liberti di Atilia, ricordano la mama
optima e il tata Philippus, parentes
sancti. L’uso di termini così confidenziali ed affettuosi, del
tutto al di fuori di qualsiasi stereotipo, fanno pensare ad un rapporto di tipo
quasi familiare, che va ben oltre
il modello del rapporto liberto-patrono, basato sull’obsequium e
sul dovere di pietas verso il patrono defunto. La relatrice è portata a ritenere
che Felix ed Euthychus fossero schiavi nati in casa, che
crescendo avevano mostrato di possedere intelligenza e buona indole, tanto da
essere amati ed allevati come figli dalla coppia di esuli, che di figli erano
privi. Cassio Filippo, infatti, era esule in Sardegna, ma non conosciamo con
precisione né la causa dell’esilio, né il tipo di
provvedimento che lo aveva colpito. Va ritenuto comunque che gli schiavi
facessero parte dei beni parafernali di Atilia, la quale - nonostante avesse
seguito il marito in esilio - ne aveva mantenuto la disponibilità, e
quindi la possibilità di operare manomissioni inter vivos o mortis
causa.
Dopo
la discussione, che ha concluso ciascuna delle sessioni del convegno, la
Prof.ssa Paola Ruggeri e la Dott. Rosanna Ortu hanno presentato il Centro
Interdisciplinare di Studi “Forme
di dipendenza antiche e moderne nel mondo mediterraneo”, in via di costituzione,
indicandone sinteticamente contenuti e finalità. La stessa denominazione
è indicativa della volontà dei promotori (accanto alle due
relatrici la Prof.ssa Maria Rosa Cimma, il Prof. Attilio Mastino e il Prof.
Francesco Sini) di non limitarsi allo studio delle realtà antiche, ma di
spingere lo sguardo attraverso i secoli sino ai giorni nostri, per individuare
cause, effetti e modalità di un fenomeno che percorre tutta la storia
del Mediterraneo, e che oggi conosce nuove modalità su rotte antiche.
Il
Centro si prefigge di coordinare la propria attività con quella di altri
centri europei impegnati nello studio della schiavitù nel mondo antico,
come il GIREA di Besançon e
l’Akademie der Wissenschaften und der Literatur di Mainz, allo scopo di
organizzare Convegni Interdisciplinari di Studi a cadenza biennale sul tema
della schiavitù e delle forme di dipendenza nel mondo antico e moderno,
e di promuovere la pubblicazione di studi scientifici in materia. I promotori
intendono altresì intraprendere ogni iniziativa (incontri, dibattiti,
conferenze, presentazioni di libri, ecc.) utile a portare le tematiche del
Centro anche fuori dell’Università, per suscitare attenzione e
dibattito anche a livello cittadino. Le iniziative saranno raccolte e divulgate
per mezzo di un sito Internet, denominato Servare servos: un nome che
simboleggia la volontà di guardare al fenomeno della schiavitù,
così come è avvenuto durante il Convegno, non solo da un punto di
vista tecnico (giuridico e/o economico), ma anche da un punto di vista
più prettamente storico, come storia dei più umili, storia di
persone trattate come cose, ma pur sempre persone.
L’intervento
conclusivo del Convegno è stato tenuto dal Prof. Attilio Mastino, il quale, richiamando i tratti essenziali delle
relazioni che si sono succedute nelle diverse sessioni di lavoro, ha espresso
la propria soddisfazione per l’originalità e la varietà dei
temi e per la qualità dei risultati, che lasciano supporre futuri
sviluppi di sicuro interesse. Grande valore ha rivestito anche la reale
interdisciplinarietà, che ha consentito di mettere a confronto in modo
proficuo e costruttivo punti di vista e metodi diversi, fra loro complementari.
In
conclusione il Prof. Mastino ha sottolineato l’importanza di affrontare i
temi relativi alla schiavitù senza schemi preconcetti, poiché
progressi nelle nostre conoscenze in questo campo si possono ottenere solo
guardando agli schiavi non solo come beni funzionali ai processi produttivi ed
oggetto di diritti, ma come esseri umani, presenti e attori nella
società al pari degli uomini liberi.
Università di Sassari